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Così le monarchie sorelle giocano al tavolo del calcio Marta Bellingreri Aiuti e sostegno alle comunità, l’altra faccia dei rave Monica Pelliccia e Alice Pistolesi 110 Il design che discrimina non è più di moda Valeria Verbaro 114 82

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Noi e voi

Noi e voi

Un enorme pallone da calcio in rame spicca in mezzo a lampade di Aladino, teiere di tutte le dimensioni, brick di caffè, souvenir di cammelli, e altri oggetti in ottone. Nonostante qualche cianfrusaglia di plastica, che non cela la provenienza Made in China, tutto è molto ordinato, pulito, al proprio posto. Ogni pezzo è stato messo bene per abbellire l’angolo espositivo e vendere al meglio. Come qualsiasi cosa nei ricchissimi Paesi del Golfo.

«La palla da calcio è per i Mondiali», dice subito fiero il commerciante, di origini iraniane, in piedi di fronte al suo bazar, al mercato Suq al-Mutrah della capitale omanita, Mascate. «Tutto il Golfo partecipa all’evento del Qatar», aggiunge, mentre il suo sorriso si è già perso in mezzo agli incensi, nei corridoi del suq.

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Pochi chilometri oltre, in una delle spiagge pubbliche il cui ingresso non è stato riservato ai clienti di grandi hotel e resort a cinque stelle, diversi gruppi di persone, giovanissimi e meno, hanno delimitato sulla sabbia i confini di un ipotetico campo di calcio. La luce del tramonto del Golfo Persico e del Mare Arabico li accarezza mentre giocano, le maglie sportive imbevute di sudore fino all’ultima lettera della scritta Qatar 2022. È quella che la maggior parte di loro indossa.

Domenica scorsa sono iniziati i

Un gigantesco poster pubblicitario di Son Heung-min della Corea del Sud su un grattacielo di Doha Mondiali di calcio maschile, l’evento sportivo più seguito sulla terra, con il paradosso che per la prima volta si svolgono in uno dei Paesi più piccoli esistenti, il Qatar. Una monarchia costituzionale in mano alla famiglia al-Thani, che domina il Paese, nato nel 1971 come Stato indipendente, da 150 anni. Vicini di casa – e di Golfo - di altrettante monarchie: il Kuwait e il Bahrein, anch’esse costituzionali, la monarchia federale degli Emirati Arabi Uniti, e l’Arabia Saudita e l’Oman, monarchie assolute. Insieme formano il Consiglio di cooperazione del Golfo. Dalla penisola arabica è escluso solo lo Yemen, al contrario tra i più poveri al mondo. La metà della popolazione che vive nei Paesi del Golfo è di origine straniera, con delle punte in Qatar e negli Emirati in cui meno del 15 per cento della popolazione è formata da cittadini arabi locali.

È la prima volta che la manifestazione sportiva avviene in un paese del Medio Oriente, un paese arabo. Questo è motivo di orgoglio e felicità per milioni di persone che vogliono che la loro area geografica abbia un peso diverso e restituisca un’immagine migliore da quella stereotipata sul mondo musulmano. Alla vigilia del campionato mondiale, una sfilata di bandiere palestinesi sono state sventolate nella Corniche della capitale Doha da tifosi tunisini, marocchini, qatarioti in festa, che dicono di non dimenticare la causa di quel popolo. Sanno però che questo avviene nel Golfo per un solo motivo: a lanciare la loro immagine sono i soldi del gas e del petrolio, non il pallone. E il potere di negoziazione che ne deriva per restare in campo: palla sempre al centro, da molto prima che fischiasse il calcio d’inizio.

Quel fischio risuona in tutto il Golfo e non riguarda solo lo sport più amato da sempre. Dal 18 al 20 novembre in concomitanza con l’inizio dei Mondiali sfrecciavano nella vicina Abu Dhabi le macchine del gran premio di Formula 1. Nella capitale degli Emirati Arabi Uniti, un parco di divertimento della Ferrari ricopre un’area di

Donne scattano foto a Flags Square, a Doha alla vigilia della Coppa del mondo

100.000 chilometri quadrati e il logo sul tetto del noto marchio automobilistico è il più grande al mondo (65 metri per 49). L’Arabia Saudita si è aggiudicata la partita per le Olimpiadi invernali del 2029, celebre com’è per le sue dune di ghiaccio. Non sarà un primato saudita poter sciare sulla neve artificiale: è appena successo in Cina, nelle Olimpiadi scorse, a febbraio. Ma quello di sfidare il clima, anziché la crisi climatica, è una delle tante prerogative del Golfo. L’importante è fare credere tutto il contrario: il prossimo anno, tra record di torri più alte dei cieli, sarà Dubai ad accogliere la Cop28, la conferenza delle Nazioni Unite per i cambiamenti climatici. È appena terminata quella in Egitto, stretto alleato degli Emirati, e oppressore delle libertà, con 65.000 prigionieri di coscienza nelle sue carceri. Il Paese delle piramidi sa a chi passare la palla nel Golfo.

Sarebbe troppo facile rispondere alle critiche e al boicottaggio in corso dei Mondiali di calcio in Qatar dicendo che del resto nel 1934 si sono svolti in Italia e nel 1978 in Argentina. Ma nessuno nei Paesi del Golfo ha interesse a farlo: sarebbe come ammettere che le monarchie del Golfo sono dei regimi quasi assoluti così come erano delle dittature allora i due Paesi citati. Ma neanche quell’etichetta in fondo importa. Più vicino temporalmente l’esempio della Russia: solo nel 2014 ospitava le Olimpiadi invernali, quasi in concomitanza con l’inizio dell’occupazione della Crimea, e nel 2018 ha accolto gli stessi Mondiali di calcio. Quello che è successo dopo lo abbiamo ancora drammaticamente sotto gli occhi. Quantomeno si potrebbe dire che non porta bene.

Dopo il caso della Russia, criticata nel 2018 per il razzismo negli ambienti sportivi, il trattamento discriminatorio verso le persone Lgbtq, e record

Un’immagine del portiere francese Hugo Lloris, a Doha. Sotto, lavoratori migranti

negativo su diritti umani, libertà di espressione e sfruttamento dei lavoratori, il Qatar si sarebbe già fatto l’autogol: ha attratto l’attenzione di tutto il mondo per farsi dire che lo skyline sul deserto non ne fa una nazione all’avanguardia. Non sarà la mancanza di una birra guardando la partita il problema, ma lo sono i container da dentro cui i migranti asiatici che hanno costruito gli stadi megagalattici resteranno a guardare. I riflettori occidentali sono accesi verso questa fetta di popolazione, la maggioranza.

Ma dietro sport e clima, e dunque sportwashing e greenwashing, con una presunta visione green del futuro energetico che farà fatica a smarcarsi da petrolio, resort e i loro business, c’è anche la partita geopolitica dei Paesi del Golfo. Basti pensare al Qatar ancora una volta: alleato forte della Nato, con la base militare americana di al-Udeid, strategica per tutto il Medio Oriente, ha offerto per primo una sede politica ai Talebani afghani per una mediazione con Stati Uniti. Negoziati durati anni, ma la fine è stata più veloce dell’inizio.

Nella macchina di soldi che produce un Mondiale, il Qatar ha speso 220 miliardi di dollari, soprattutto per le infrastrutture (alberghi, rete stradale e costruzione del sistema ferroviario), un costo superiore ai ricavi generati nel mese del torneo. E la vendita delle merci con i marchi partner della Fifa non contribuisce al gettito fiscale del Paese ospitante. I salari dei lavoratori nonostante i leggeri miglioramenti non saliranno e chi faceva soldi prima ne farà di più, ma non con ricadute su un benessere più ampio. Il turista non interessato ai Mondiali ci starà per almeno due mesi alla larga. Almeno a breve termine, non ha senso dal punto di vista finanziario ospitare una Coppa del mondo di calcio. Ma alcune cose sono più importanti del denaro. Ospitare una Coppa del mondo è un esercizio di proiezione di soft power. Offre al mondo una finestra su tutto il Golfo, un buon posto in cui investire o fare affari. I Paesi vicini come Emirati e Oman sono diventati Paesi satelliti del torneo: l’Oman, che spera di ospitare almeno un 1 per cento di tifosi previsti, sta offrendo voli shuttle in corrispondenza delle partite. È il vicino politicamente neutrale nel Golfo che pure cerca di farsi notare. Il Qatar accoglie oltre un milione di visitatori, le previsioni dei fratelli del Golfo sono rimaste incerte.

Ed è proprio tra vicini che per poco non scoppiava una lite: dal giugno 2017 al gennaio 2021 il Qatar è stato isolato con un embargo da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein ed Egitto che lo accusavano di sostenere il terrorismo e aver troppi legami con Iran e Turchia. Quest’ultimi due non l’ hanno mollato nella crisi diplomatica, da cui è uscito più forte che mai. Il 20 novembre il giovane principe Mohammed Bin Salman, il più autoritario e controverso dei principi del Golfo, è volato a Doha per la cerimonia di apertura dei Mondiali. Trista quella casa dove non entran mai vicini. Del resto le partite di calcio si guardano sempre insieme. Una cosa è certa: anche dopo un autogol, i paesi del Golfo non resteranno di certo in panchina. Sono pronti per la prossima partita.

Il party del 2019 organizzato da Shine Cambodia, che offre istruzione gratuita ai bambini

SBALLO E NON SOLO C o op erazione, aiuti s ostegno alle c omunit à L’altra fac cia dei rave

In Colombia, in Cambogia o in Tanzania: i raduni techno a impatto solidale. Espressione di una controcultura da conoscere di Monica Pelliccia e Alice Pistolesi

Foto: Luc Leijtens Un camion carico di cibo, vestiti, giocattoli e medicine viaggiava dall’Inghilterra verso Sarajevo tra le strade ghiacciate, dopo la firma del cessate il fuoco della guerra nei Balcani. Era l’inverno del 1995, alla guida si alternavano tre artisti del gruppo Desert Storm che in carovana con altri amici intrapresero un’avventura di solidarietà, che ispirerà tanti altri gruppi della scena dei free party (comunemente chiamati rave) in diverse parti del mondo. Feste di musica elettronica organizzate a scopo benefico per regalare materiali scolastici, fornire accesso a risorse idriche e portare altri aiuti alle popolazioni in zone di conflitto o in aree remote.

In Italia, i rave sono tornati sotto i riflettori dopo il primo decreto legge approvato dal governo Meloni lo scorso 31 ottobre che, tra le altre cose, introduce un nuovo reato contro chi li organizza e vi partecipa. Le persone che trasgrediscono rischiano di essere punite con pene da tre a sei anni di reclusione, anche se la parola rave non compare mai nel testo. «La norma potrebbe essere teoricamente applicabile a qualunque raduno che l’autorità pubblica reputi a suo giudizio pericoloso», spiega la giurista Vitalba Azzollini. «Giudizio del tutto discrezionale, perché il testo non fornisce criteri. Potrà dunque essere sgomberata qualunque occupazione non autorizzata se reputino possa risultare pericolosa», aggiunge.

Quel decreto legge ha riportato l’attenzione sul mondo dei free party, emblema di una controcultura nella quale trova spazio anche la beneficenza. «In Europa sono poche le persone che associano i rave alla solidarietà. Non si conoscono i progetti sociali che finanziamo con le feste organizzate dalla nostra associazione Syndrom Aktif e le persone si sorprendono quando li raccontiamo», spiega uno dei volontari che vive in Colombia da oltre un decennio, dove gestisce un campeggio a Mendihuaca, vicino alla Sierra Nevada di Santa Marta. Lui, come gli altri intervistati, ha chiesto l’anonimato per motivi di riservatezza e per dare valore al lavoro di gruppo. «Con l’autorizzazione delle comunità locali organizziamo un paio di volte all’anno feste di musica elettronica da circa 600 persone, grazie alle quali finanziamo progetti in due comunità dove viviamo e in altre quattro nel deserto della Guajira, quasi al confine con il Venezuela», aggiunge.

L’aspetto solidale che può esserci in alcune tipologie di feste elettroniche, quindi, spesso non viene rilevato. «I rave sono l’espressione di un movimento culturale sia inclusivo e sia esclusivo, perché per accedervi bisogna aderire a specifici valori. La festa techno rappresenta una “manifestazione”, che non avviene scendendo in piazza, ma attraverso la riappropriazione tempora-

nea di spazi, delineando tendenze di partecipazione e di innovazione sociale, e di opposizione ad un possibile riconoscimento mainstream. Non si analizza mai questo aspetto, perché si tende a riconoscere solo la condotta deviante», spiega a L’Espresso Raffaella Monia Calia, sociologa e assegnista di ricerca all’Università di Foggia. Si tratta, secondo la sociologa che segue questo movimento fin dagli esordi, di un’espressione culturale che non può essere gestita con la repressione. «I rave palesano uno scenario complesso di rischi e di opportunità e presuppongono livelli di azione e di scelta, da esercitare consapevolmente. Solo così possono rappresentare dei validi strumenti di socializzazione, di esercitazione identitaria e di sperimentazione, ovvero una valvola di sfogo che il sistema sociale dovrebbe concedere».

Un’espressione di controcultura che porta con sé anche un lato solidale, come l’esperienza di aiuto alle comunità della Colombia. «Con l’ultimo festival, chiamato Tropical Wave 2020, abbiamo guadagnato circa 5.000 euro. Tutto l’anno finanziamo i rifornimenti di acqua per le comunità locali: 10mila litri ogni due mesi per le comunità nel deserto, che hanno a disposizione solo pozzi abbandonati e i pochi funzionanti tirano su solo acqua contaminata», continua uno degli organizzatori. «Con i soldi restanti sistemiamo le scuole, consegniamo kit scolastici e facciamo attività con bambini e bambine: quello che ci motiva è il legame con loro e con i professori. Ogni volta che torniamo ci aspettano per condividere momenti e raccontarci i loro problemi, così da capire come possiamo aiutarli».

Dall’America Latina all’Asia, le feste elettroniche diventano così anche un’occasione di scambio con la popolazione locale. «Per il festival del 2019 in Cambogia abbiamo realizzato strutture in bambù e yuta. In altre occasioni ci siamo occupati anche della creazione dei bagni secchi e di compostiere per la comunità locale. Cerchiamo sempre di deve essere innanzitutto nostra».

«Quello in Cambogia non è stato un vero e proprio rave, perché l’ingresso, per i non autoctoni, era a pagamento. Questo perché l’obiettivo era raccogliere fondi. Inoltre, realizzare una festa sull’isola di Koh Rong non ha lo stesso senso di organizzarla in Europa, dove andiamo ad occupare spazi abbandonati a cui si cerca di dare una nuova vita, anche se per pochi giorni. In quell’occasione non volevamo essere gli occidentali che vanno ad occupare un’isola, ma desideravamo che fosse un momento di festa per tutti. Il party è infatti quello che più ci rappresenta, è il modo in cui riusciamo meglio ad attivare il contatto e la condivisione dei nostri valori», spiega una delle ideatrici del progetto umanitario.

Quello cambogiano era incentrato sulla scuola. «Dopo diversi studi abbiamo individuato un’associazione au-

Colombia, spettacolo di fuoco al party Tropical Waves 2020

creare un rapporto di scambio reciproco: noi apprendiamo da loro modalità nuove per realizzare biocostruzioni, di cui poi la popolazione stessa beneficerà», racconta una biocostruttrice del Biomimesis Project.

L’esperienza nel sud-est asiatico è stata un altro esempio di festival a scopo umanitario. Il progetto Travel to Cambogia 2019 ha unito quattro crew italiane provenienti dalla cultura rave e dei free party.

Da non sottovalutare poi l’aspetto collegato alla raccolta dei rifiuti. «In Cambogia – prosegue – così come in tutti i rave e le feste che organizziamo l’attenzione è massima, soprattutto nei Paesi in cui non esistono impianti di smaltimento. Abbiamo utilizzato materiali non inquinanti e biodegradabili. Nei festival canonici la gente è abituata che c’è qualcuno che pulisce dopo, mentre noi sappiamo che l’attenzione

straliana, Shine Cambodia, che offre istruzione gratuita a Sihanoukville per bambini e bambine che si trovano in difficoltà estrema. Abbiamo trascorso giorni insieme, organizzando attività e realizzando le decorazioni poi esposte nei giorni del festival. Alla fine della festa siamo riusciti a consegnare materiale scolastico per far studiare oltre 200 alunni per un intero anno e le zanzariere per le aule».

Finanziamenti per le scuole ma anche un’attenzione alle risorse che scarseggiano in aree rurali. Nel giugno 2022, altre crew della scena italiana ed europea hanno organizzato Expedition Tanzania. I giorni di festival a Bagamoyo (a 70 km dalla capitale) e la raccolta fondi partita mesi prima, hanno permesso di costruire due pozzi, donare due serbatoi per l ’acqua e di consegnare 500 chili di materiale (vestiti, quaderni, matite), oltre a 4.000 preser vativi in centri di sensibilizzazione e prevenzione, anche all ’uso di sostanze stupefacenti.

L’attenzione legata al consumo di droghe è forte nel mondo dei raver, sia in Italia che all’estero. “Nelle nostre feste non esiste giudizio e pregiudizio e le sostanze vengono assunte in libertà, non nel bagno di una discoteca o nella solitudine della propria casa. Questo consente a chi fa uso di droghe di farlo in un contesto protetto. Molto spesso, infatti, i sanitari non sanno come trattare chi ha assunto sostanze, mentre in quasi tutti i rave sono presenti professionisti della “riduzione del danno”, che sono in grado di capire cosa la persona ha consumato e aiutarla se in difficoltà», spiega una delle organizzatrici. Dalla beneficenza alla riduzione del danno del consumo delle droghe, attorno ai sound system si crea un nuovo modello sociale che sfugge a modelli precostituiti. «Nella festa si costruisce, anche se temporaneamente, un tipo di società in cui ci si riconosce, lasciandosi alle spalle un sistema che viene interpretato come repressivo. Il rave resta quindi un’opzione dissidente di resistenza simbolica alla pressione normativa percepita, continua la sociologa Calia. Che riguardo alla componente solidale di alcune feste elettroniche spiega: «Ad oggi si fa fatica a riconoscere, istituzionalmente, la tendenza partecipativa insita anche in condotte giovanili dissidenti: solo adeguati strumenti di decodifica culturale saranno in grado di farci comprendere il valore sociale di alcune attività espressive, a forte caratterizzazione estetica e rituale, come i rave».

Preparativi per il party in Cambogia. Sotto, bambini sul gonfiabile per l’evento in Colombia

SERVIZI PER TU TTI Dalla smar t tv ai gio chi Il design che discrimina non è più di mo da

Oggetti e tecnologie fruibili anche da chi soffre di disturbi psicofisici. Specialmente dai bambini. È il nuovo orizzonte della progettazione di Valeria Verbaro

Colori troppo brillanti o suoni forti e improvvisi in un film, in un gioco, fra le app della nostra smart tv sono piccoli elementi di una strisciante discriminazione. Oggetti e servizi che escludono più persone di quante riusciamo a immaginare da azioni semplici e quotidiane, perché modellati sulle esigenze di un solo gruppo di persone fin dalle origini del processo creativo. Frammenti di una tecnologia a cui non deve più bastare il farsi accessibile, ma che ha bisogno di diventare inclusiva, ampliandosi prima di tutto agli utenti con disturbi psicofisici e del neurosviluppo. È questo l’obiettivo che si pongono i designer di oggi, mentre pensano a come progettare l’interfaccia di Netflix sui televisori delle nostre case affinché l’uso sia semplificato per chiunque, a come disegnare i protagonisti dei cartoni animati Rai o a quali materiali usare per nuovi giocattoli adatti alle esigenze di bambini con disturbi dello spettro autistico.

«Il concetto di design inclusivo è molto ampio, dentro ci possono essere applicazioni diverse che vanno dal digitale e dall’interazione con la tecnologia fino all’esperienza nello spazio fisico e nella relazione con gli altri. È così che progettiamo per fare in modo che non ci siano discriminazioni», afferma Roberta Tassi, designer e fondatrice dello studio Oblo: «Applicare il concetto di inclusione significa adattare l’edirettrice del dipartimento di Design, Vered Zaykovsky, e pertanto mai messo in produzione o distribuito. Willi è un giocattolo sociale «che parte dallo studio di una diversità, ma che si risolve nel concetto di eguaglianza e integrazione», afferma Fornaroli. Si tratta

sperienza e il servizio a vari livelli di diversità già dalla progettazione. Quando un servizio nasce con un’attenzione verso una determinata categoria di utenti, sicuramente può diventare utilizzabile per loro ma anche migliorare la fruizione per tutti gli altri».

Sempre più progetti “inclusive by design”, concepiti con l’idea di non creare discriminazione e d’interrogarsi su quali sono i possibili utilizzi e le conseguenze nei confronti di una varietà di utenti, sono anche indice di un’attenzione crescente verso il tema da parte delle aziende e delle istituzioni.

Così le necessità di un sempre più ampio gruppo di persone — che non coincide più con il gruppo “prescrittivo” (bianco, cis, etero e normodotato) — stanno erodendo il grande potere dell’esclusione, scambiata per normalità. Pur con qualche resistenza. Secondo Tassi, tutto sta nel «cambiare un servizio in modo che non ci sia bisogno di stigmatizzare o di isolare determinate comunità di persone». È ciò che accade, per esempio, nella progettazione di prodotti per persone con neurodivergenze come l’autismo: non solo interfacce digitali per il Web e le smart tv, di cui si è occupata Tassi, ma anche oggetti quotidiani, giocattoli e prodotti audiovisivi.

Laura Fornaroli, designer formatasi presso l’Accademia Naba di Milano, nel 2015 realizza Willi, un prototipo sviluppato nel laboratorio di tesi della

Bambini durante la terapia della stimolazione sensoriale, secondo il metodo Snoezelen, con lampade a bolle colorate

La serie animata “Il mondo di Leo”, in onda su Rai Yoyo e RaiPlay da fine novembre

Le forme colorate di Willi, il prototipo di giocattolo sociale ideato da Laura Fornaroli vava un paio di ragazzi intenti a giocare con i ciottoli di un fiume. «Volevo mettermi alla prova, disegnare un prodotto che fosse in grado di fare davvero la differenza per qualcuno», continua, aggiungendo di aver trascorso l’intero periodo della progettazione con bambini autistici e con le loro famiglie, studiandone difficoltà e bisogni. Tutto, dai colori tenui alle forme dei pezzi, è pensato per non creare disagio nei bambini con disturbi autistici, ma al tempo stesso Willi rimane adatto per qualsiasi altro bambino. È un ampliapersona da bambini autistici».

Cartoni animati che parlano dell’autismo in maniera tecnica e didattica, infatti, esistono già, ma si rivolgono all’esterno, a chi non è coinvolto. Una lacuna sottolineata anche dal regista e art director Dario Piana: «L’idea era quella di un cartone di puro intrattenimento in cui, sì, il protagonista è autistico, ma lo si dichiara in modo sottile, nei gesti e nei movimenti. Non è un bambino isolato, perché è inserito in dinamiche inclusive. Senza trasformare la serie in un trattato medico, abbiamo carpito i punti importanti da affrontare, temi comuni anche a bambini non autistici, arrivando a una descrizione delicata dei problemi della vita di ogni giorno».

Come si costruisce, però, nel concreto un prodotto del genere? Con la consulenza clinica, prima di tutto. In questo caso, quella del professor Paolo Moderato e della dottoressa Francesca Pergolizzi. «Abbiamo lavorato con il professore che ci ha spiegato cosa piace ai bambini autistici, ci ha spiegato come farlo. Abbiamo evitato la complessità dell’inquadratura e siamo rimasti su un cartone bidimensionale, anche se molto colorato», continua Piana. «Il rapporto con l’esperto ci ha aiutato a identificare la linea artistica che potesse essere meglio accolta da bambini e ragazzi per i quali è necessario uno studio grafico comprensibile, che non crei fastidi, a partire dalla rotondità della fisionomia dei personaggi e dai colori degli ambienti. Tutto è stato studiato, condiviso e scelto dai bambini seguiti dal professore», aggiunge la produttrice Cavazzini.

La serie animata, disponibile su Rai Yoyo e RaiPlay dalla fine di novembre, dimostra ulteriormente quanto un prodotto consapevole sia fattibile. E incarna quel principio del «risolvi per uno, estendi a tanti» su cui il design inclusivo, per definizione, si deve basare e a cui si deve ispirare per continuare a svilupparsi in ogni ambito della quotidianità.

mento di possibilità, non una sostituzione a quelle preesistenti: eccola, la definizione di inclusione. Allo stesso modo è pensato anche il nuovo prodotto Rai dal titolo “Il mondo di Leo”, una serie animata nata da un’idea di Eleonora Vittoni e della produttrice Emanuela Cavazzini. È proprio lei, contattata da L’Espresso, a spiegare che “Il mondo di Leo” «nasce dall’esigenza effettiva di una madre, Eleonora, che vive le difficoltà quotidiane e dalla mancanza di cartoni animati concepiti per essere fruiti in prima

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