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Artisti della vita eterna colloquio con Christian Greco di Angiola Codacci-Pisanelli

rantire la vita eterna del faraone e con essa l’equilibrio dell’intera società. Al centro di questa mostra c’è un villaggio: uno tra i mille della storia dell’Antico Egitto, ma con un’importanza particolare… «Deir el-Medina occupa un posto unico nello sviluppo della storia egiziana. Nasce all’inizio della diciottesima dinastia, quindi intorno al 1550 a.C., e continua ad essere abitato fino al 1070. Viene fondato per volontà del faraone Ahmose I e della regina Ahmose Nefertari, ed è il posto in cui vivono gli artisti, gli artigiani e tutti quello che lavoravano alla costruzione delle tombe nella Valle dei Re e nella Valle delle Regine. Ecco perché noi li abbiamo chiamati “creatori dell'Egitto eterno”: perché sono le persone che, per usare una metafora contemporanea, creavano il metaverso che permetteva al faraone di sopravvivere. I contemporanei li chiamavano “servitori del luogo della verità”, avevano il compito di creare per il sovrano una tomba nella quale valgono regole spazio temporali completamente diverse da quelle esterne. Dobbiamo immaginare che al momento della sepoltura le decorazioni delle pareti diventano molto più di un semplice abbellimento. Esse costituiscono un nuovo spazio che per gli egizi aveva consistenza reale: il faraone è trasfigurato e pronto per nuova, eterna vita. Aspira

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Oggetti in mostra a Vicenza per “I creatori dell'Egitto eterno”. Da destra: le dea serpente Meretseger; Pyramidion dello scriba Ramose; decorazione di un mobile; cassetta dipinta; sarcofago. In basso: la dea Tauret, protettrice delle gravidanze

ad essere accolto nella barca solare che gli permetterà di viaggiare assieme agli altri dei, e di compiere continuamente, e per sempre, il periplo attorno alla Terra. Il “metaverso” disegnato sulle pareti della tomba è il luogo in cui ogni notte si volge la lotta cosmogonica fra bene e il male che è fondamentale non solo per il faraone ma per la continuità stessa dell’Egitto. Finché il bene sconfigge il male e sopravvive, non solo il faraone ma l’intero Paese e tutti i suoi abitanti sono al sicuro». Cosa sappiamo di questi artigiani? «Al Museo Egizio abbiamo una fortuna incredibile, perché gli scavi al villaggio furono diretti da Ernesto Schiaparelli nel 1903, quindi abbiamo negli archivi le foto che documentano il momento dello scavo. Nel catalogo abbiamo arricchito la storia con il racconto degli scavi diretti dai francesi di Bernard Bruyère che subentrarono a Schiaparelli. Inoltre uno dei curatori della mostra, Cédric Gobeil, è stato recentemente direttore degli scavi di Deir el-Medina. Quindi abbiamo con noi le fonti migliori per poter comprendere come funzionava il villaggio: come le persone vivevano, come era la loro vita quotidiana, cosa studiavano a scuola, come imparavano la lingua. Questo è particolarmente importante perché gli scribi che lavoravano per le tombe dovevano imparare non solo i segni ma anche la morfologia e la sintassi di una lingua che già non veniva più parlata, il medio egiziano, la lingua rituale che dovevano utilizzare per decorare le pareti». Ma com’era la loro vita quotidiana? «Abbiamo testimonianze precise su alcuni aspetti: per esempio le dispute testamentarie. Queste ci permettono di capire quali fossero i rapporti tra le famiglie, e anche come veniva organizzato il lavoro. Per esempio sappiamo che nell'anno 29 del regno di Ramses III gli scribi si rifiutarono di andare a lavorare perché da due mesi non ricevevano lo stipendio, che era fatto di olio, unguenti, indumenti e cibo. Quindi dissero al faraone che sarebbero tornati a lavorare solo dopo essere stati pagati. Con questa mostra noi vogliamo indagare la dualità della vita di chi abitava in questo villaggio: da una parte ci sono i problemi quotidiani, dall’altra la costruzione dell'Egitto eterno». Erano quindi comuni mortali a far sì che il faraone vivesse eternamente tra gli dei… «E il fatto che si trattasse di persone

Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino. Ha curato la mostra alla Basilica Palladiana insieme a Corinna Rossi, Cédric Gobeil e Paolo Marini

come noi è un punto fondamentale di questa mostra. Metteremo in mostra una mummia ma lo faremo sottolineando le questioni etiche poste dalla nostra scelta. Come ha scritto Kathlyn Cooney in un bellissimo libro, “The cost of death”, gli egizi impiegavano tempo ed energia per fare in modo che la loro vita continuasse dopo la morte, che la morte non costituisse una cesura. Era anzi la morte considerata la “mesut”, la nuova nascita. Per mostrare rispetto per queste persone noi prima di tutto cerchiamo di dare loro un nome. E ricordiamo che il capitolo 151 del “Libro dei morti” spiega perché il corpo doveva essere conservato: solo se il corpo rimane intatto il defunto potrà avere la vita dopo la morte. Va in questo senso anche una esposizione molto significativa che è in corso in questo momento al Museo Egizio». Di cosa si tratta? «È una installazione dell'artista egiziana Sara Sallam ispirata al centenario della scoperta tomba di Tutankhamon. Tutte le celebrazioni lo celebrano ricordando l’oro, i gioielli, la maschera. Ma dimenticano che la sua mummia era ancora nella tomba, e che rimase incollata al sarcofago interno a causa degli unguenti che vi erano stati versati sopra. Per riuscire ad estrarla, la mummia fu fatta a pezzi. Sara Sallam si identifica in Tutankhamon che sente avvicinarsi geroglifici. L’esposizione è scandita da pannelli che iniziano con un testo antico, proveniente dai testi cosmografici del Nuovo Regno e dal “Racconto del naufrago”. In effetti la decifrazione di 200 anni orsono è stata un evento fondamentale: ha squarciato un velo, e ci ha fatto rientrare in contatto con gli antichi egizi. Per 1500 anni si era tentato di trovare la chiave: grazie a Champollion i geroglifici non sono più una decorazione silente ma parlano. E svelano qual è il mondo che hanno alle spalle». Finora abbiamo parlato delle decorazioni delle tombe scavate nella roccia. Ma finché i faraoni sono stati sepolti nelle piramidi come si realizzava il metaverso? «Gli scavi di Deir el-Medina mostrano la dualità della vita di chi abitava nel villaggio: da una parte i problemi quotidiani, dall’altra l’immortalità»

Howard Carter: sente i colpi dello scalpello, poi i coltelli scaldati dalla fiamma ossidrica che tentano di entrare all'interno del sarcofago per staccare il corpo. A quel punto Tutankhamon comincia a pregare per cercare di fermare lo scempio della sua mummia: e prega citando le frasi rituali che sono scritte all'interno della sua maschera. Questa interpretazione artistica rovescia il punto di vista più comune rispetto alla scoperta, e ci fa riflettere su come a volte con leggerezza consideriamo le mummie come un qualsiasi oggetto. E ci dimentichiamo che il loro valore nasce dal fatto che sono resti umani, che sono persone come noi». Il centenario di Tutankhamon ha fatto passare in secondo piano un anniversario altrettanto importante: sono duecento anni dalla decifrazione dei geroglifici da parte di Jean François Champollion. Una scoperta che ci riporta agli scribi di Deir el-Medina. «Nella mostra noi li facciamo parlare, i «In effetti, fino alla quarta dinastia le piramidi non erano decorate, poi a partire dalla piramide di Unas nella camera sepolcrale si trovano i cosiddetti “testi delle piramidi”. La letteratura funeraria egizia a grandi linee si divide tra i testi delle piramidi dell’antico Regno, i testi dei sarcofagi nel medio Regno, e nel Nuovo Regno i testi cosmografici dell’oltretomba, quelli della nostra mostra. I testi delle piramidi sono formule magiche che riguardano l'arrivo del sovrano nell’aldilà, il suo ascendere al cielo e il suo partecipare all’ordine cosmico. Le camere sepolcrali sono completamente iscritte con i testi che vengono incisi nella roccia delle pareti. Il soffitto invece è dipinto con un cielo stellato; quasi a voler ribadire che nonostante l'imponenza di quelle montagne artificiali che sono le piramidi, il faraone non sente la pesantezza della pietra perché sopra di sé vede soltanto il cielo, con le stelle dipinte su quel meraviglioso colore che è il blu egizio».

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