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Veleni e misteri sui verbali spariti

GLI INVESTIGATORI

Il comandante del Ros Pasquale Angelosanto con i magistrati Maurizio de Lucia, procuratore capo di Palermo, al centro, e Paolo Guido di Provenzano e del suo entourage. E non finì lì, l’indagine svelò l’esistenza di un circuito di talpe che correva a informare l’imprenditore sui movimenti dei Ros a Bagheria per la cattura di Provenzano e le ricerche di Messina Denaro. Si saldò a un’altra indagine che riguardava invece Giuseppe Guttadauro, fratello di Filippo e Carlo. Medico, aveva preso il comando del mandamento di Brancaccio dopo l’arresto dei terribili fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, amici e compari di Matteo. Da Aiello e Guttadauro si arrivò a un altro medico, al presidente della Regione Salvatore Cuffaro che per questi rapporti è stato condannato. Torna-

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Marco Bova

La scomparsa dei file su Matteo Messina Denaro dà una nuova scossa ai veleni dell’antimafia siciliana. Si tratta dei testi sacri sulla caccia all’ultimo latitante, custoditi in un minipc da 10 pollici e due pendrive, ed evaporati nel 2015 dall’ufficio della Procura di Palermo, utilizzato dal magistrato Teresa Principato che in quegli anni coordinava la caccia e dal finanziere Carlo Pulici, suo stretto collaboratore. Tra questi, due documenti excel, con una sfilza di numeri telefonici incasellati con nomi, date e tipologia di intercettazioni: quelle cessate e quelle all’epoca ancora in corso. Ma anche un dossier con tutti i pizzini sequestrati. Come quelli che vedete in queste pagine trovati il 26 ottobre 1996 a due picciotti di Campobello di

Mazara. Lettere simili a rapporti di intelligence su una soffiata, un passaporto falso per il Venezuela, nuove falle nella cosca apprese dalla moglie di un poliziotto «da noi c’è un altro pentito». La scomparsa dei dispositivi ha interrogato anche la commissione Antimafia, che allo scadere dell’ultima legislatura, ha ascoltato Pulici in seduta segreta. Ma l’episodio è tuttora insoluto, nonostante due inchieste della magistratura. Una prima indagine a modello 45 «priva di notizia di reato», è stata archiviata dalla Procura di Palermo. Adesso anche il secondo fascicolo, avviato a Caltanissetta, su esposto dell’avvocato Antonio Ingroia (ex pm della Dda di Palermo) è stato archiviato. Anzi, secondo il gip nisseno, da una lettura complessiva «emerge l’infondatezza della notizia criminis». Inoltre, «non si è in grado di stabilire se il materiale informatico non più trovato, fosse all’interno degli uffici della Procura di Palermo o altrove». Considerazioni che finiscono per rovesciare il mistero, sollevando ombre proprio sull’uomo to in politica, è tra i plaudenti per il successo dell’Arma dopo la cattura di Messina Denaro. Tutto torna nella Sicilia accomodante. Come i medici nella biografia di qualunque capomafia. E anche in questo Matteo non fa eccezione. Per assistere il padre ne mise uno a stipendio costringendolo a una vita da latitante con un unico paziente. Da dializzato puntò un centro di cura per impadronirsene. Da ammalato di tumore ha scelto il meglio delle cure che la sanità, privata, può offrire. E di camici ciechi, muti e sordi deve averne incontrati parecchi. Soprattutto dalle sue parti. Del resto la sanità è un comparto che da solo muove più della metà del bilancio isolano, che alimenta appetiti ed è uno snodo di interessi in cui politica, affari e mafia si incontrano. Spesso sotto l’egida della massoneria che a Trapani è onnipresente e costituisce un cemento formidabile. Come la politica. I contatti con i Messina Denaro hanno inseguito il senatore forzista Antonio D’Alì, già sottosegretario all’Interno con delega ai collaboratori, fami- glia di possidenti molto in vista, con partecipazioni in attività disparate e una banca di famiglia, la Sicula, poi ceduta alla Commerciale. Condannato per concorso esterno si è consegnato a Opera proprio il 14 dicembre scorso. Nelle sue proprietà aveva lavorato Francesco Messina Denaro e il figlio era subentrato. Nella sua ex banca ha lavorato da preposto anche il fratello di Matteo, Salvatore, che vive non troppo distante dall’ultimo rifugio di Matteo, alias Andrea Bonafede, factotum e gestore di un parco acquatico finito nelle maglie giudiziarie. E ora visitato anche dai Ros alla ricerca di uno dei nascondigli dell’ex imprendibile. Un finale degno di Bad Guy. Per il resto, come scriveva l’Alessio delle lettere a Svetonio, nome in codice di un ex sindaco che lo aveva agganciato per conto dei Servizi: «Ci sono ancora pagine della mia storia che si devono scrivere».

Per approfondire o commentare questo articolo o inviare segnalazioni scrivete a dilloallespresso@lespresso.it I nostri giornalisti vi risponderanno e pubblicheremo sul sito gli interventi più interessanti che ha denunciato la scomparsa dei dispositivi. E che si è già trovato, suo malgrado, al centro del ciclone giudiziario e mediatico nato dalle intercettazioni all’hotel Champagne attraverso il trojan installato nel telefonino di Luca Palamara che hanno colpito un ignaro Marcello Viola, bloccato nella corsa a capo della Procura di Roma e di rimbalzo la pm Teresa Principato, con il risultato di azzerare il lavoro investigativo svolto sul superlatitante.

Pulici ha potuto lavorare nell’ufficio di Principato fino all’estate 2015, quando fu allontanato con un provvedimento del procuratore Francesco Lo Voi, per il «venir meno del rapporto fiduciario». Era stato denunciato dalla moglie di un collega e indagato per «molestie telefoniche»: l’indagine venne archiviata, ma soltanto nel 2018. Ciò nonostante, l’appuntato continuò a lavorare con la pm, fuori dalla Procura. A tre mesi dall’allontanamento dall’ufficio, il 10 dicembre 2015, chiese ai vertici locali della Finanza di poter recuperare i suoi oggetti dall’ufficio del pm Antimafia. Ottenendo risposta positiva in pochi giorni. Ma del minipc, utilizzato anche per la verbalizzazione dei colloqui con testimoni e collaboratori di giustizia, nessuna traccia: soltanto una scatola vuota nella libreria. Durante l’accesso con due funzionari della Procura, inoltre, emerse che «dal portapenne era stato asportato un mazzo di chiavi legate con un anello metallico al quale erano ancorate anche le pendrive nelle quali erano riversati i file dal computer della dottoressa». Una parte dei medesimi backup, conservata in altri hardisk, è stata ritrovata dai militari della Finanza, nel corso delle perquisizioni al collega del maggio 2016. Nei verbali c’è un massiccio elenco di dispositivi, ma tra questi, nessun minipc da 10 pollici. «La mia fiducia nei suoi confronti era totale. Non vi erano documenti che consideravo troppo riservati per condividerli con Pulici», ha chiarito Teresa Principato, tagliando corto sulla integrità del finanziere. Sulla sparizione dei file resta però il mistero.

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