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Mosto o vino purché cotto
from L'Espresso 3
by BFCMedia
Hanno una consistenza diversa. Il primo è più denso e si lascia invecchiare. Il secondo era un elisir per i romani. Mille gli usi in cucina
Secondo quanto decretato da Columella, che ne scrisse già nel I secolo d.C., le vie del vincotto sono almeno due: «defrutum», particolarmente apprezzato già nella cucina di Apicio, se ridotto di un terzo, oppure «sapa» se ridotto della metà. Dagli scritti di Columella, appunto, apprendiamo che già presso i romani era usanza ravvivare le carni col mosto cotto. E così veniva usato anche in preparazioni dolci, come nelle torte, dove compariva come edulcorante ante litteram, mentre si faceva energizzante se allungato con acqua e la sua versione fermentata e cruda veniva apprezzata come tonico appetitoso e inebriante. Oggi sono altri i parametri per stabilire se si può parlare di mosto cotto o di vino cotto, in base alla sua consistenza. Infatti, il mosto cotto è più denso e si lascia invecchiare. Il vino cotto, invece, è stato dichiarato dalla Pat (Prodotti agroalimentari tradizionali italiani) Patrimonio Enologico della Regione Abruzzo, in primis nella zona teramana. In tempi lontanissimi il vino cotto era una sorta di biglietto da visita beneaugurante che il contadino offriva agli ospiti in segno di benevolenza nei momenti di convivialità durante le feste e le sagre. Già ai tempi di Plinio il Vecchio era usanza preparare questa bevanda così particolare, quasi un elisir. Il mosto cotto nasce ai tempi in cui i braccianti andavano a prestare i loro servigi ai contadini du-
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Un barattolo di mosto cotto o Sapa, come viene chiamato soprattutto in alcune zone d’Italia rante la vendemmia riportando a casa qualche cesta d’uva per ricavarne una tipologia di vino che sfidasse il tempo. Così fecero di necessità virtù e quel mosto che raccoglievano dopo la spremitura delle uve, e destinato a inacidire, lo inserirono, prima che il mosto fermentasse e si tramutasse in alcol, in un calderone cuocendolo fino a diventare una sorta di sciroppo denso. Infatti, ogni anno rabboccavano i contenitori del mosto cotto con quello nuovo conservandone sempre una buona quantità. Così di padre in figlio le botti rabboccate sono dopo secoli ancora in uso in alcune famiglie abruzzesi. Oggi come allora per migliorare il gusto del mosto è necessario — come da Disciplinare — aggiungere, per dare un particolare aroma, una mela cotogna per ogni quintale di mosto, migliorandone la morbidezza e la fragranza.
Paese che vai, mosto che trovi e tra i più celebri c’è di certo la Sapa già descritta dall’Artusi, che la racconta come quella sostanza che può servire in cucina a diversi usi poiché ha un gusto speciale. Ebbene la Sapa, come la chiamano nel Cesenate e nel Riminese, è un mosto d’uva (spesso di Trebbiano) sobbollito per ore in un paiolo di rame unitamente a una mezza dozzina di noci col guscio che, rivoltandosi, aiutano il mosto a non attaccarsi al fondo del calderone. Il suo utilizzo in cucina è vario, tanto che può essere usato come accompagnamento per formaggi o freschi o molto stagionati oppure come rinvigorente di yogurt e gelati (fiordilatte o crema). In cucina poi diventa eccelso con le castagne, o come farcia di paste sfoglie o paste frolle. La Sapa è diffusa in tutta l’Italia centrale, ma anche nelle isole, dove la sua incursione nelle ricette ha determinato una filiazione di preparazioni da manuale.
Destinazione Prosecco
Delittuoso sottovalutare il paradigma di successo del Prosecco, fenomeno capace di trascinare, in deflativo generalizzato (che riguarda, ovviamente, anche il mercato del vino), il comparto degli spumanti italiani, capaci di raggiungere, oltre al traguardo spaventoso di quasi un miliardo di bottiglie prodotte (970 milioni nel 2022), valori di export (dati Uiv-Ismea) superiori ai due miliardi. Il Prosecco, nella fattispecie, nome che unisce tre denominazioni, Prosecco DOC, Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene DOCG e Asolo Prosecco DOCG, due regioni (Veneto e Friuli-Venezia Giulia) e nove province che lo delimitano, è la riprova di quanto un coordinamento territoriale sapiente, unito ad un lavoro impeccabile sul marchio, possano realizzare.


In questa logica, il lavoro di Colesel, ovverosia famiglia Bortolin, ormai da cinque generazioni capace di unire dedizione artigianale a ricerca instancabile della qualità, è determinante nella prosecuzione della tendenza. Siamo in località Santo Stefano, da sempre una delle zone capaci di regalare alcune fra le etichette più emozionanti della tipologia.
Con una incursione nell’altrettanto celebrata zona di Cartizze si raggiungono un totale di 16 vigneti, tutti identificati, nella logica del cru, attraverso le loro caratteristiche peculiari, punto di arrivo di un lavoro decennale sulla zonazione prima e poi sulla selezione clonale. Un’eccellente visione, insomma, unita a un saper fare che costituisce il vero patrimonio aziendale. Vini nitidi, puliti, capaci di imprimersi nella memoria e stemperare alcuni luoghi comuni sulla tipologia. Si parte dal Valdobbiadene DOCG Superiore di Cartizze Dry, raffinato, bollicina setosa e non troppo invadente, ma dalla persistenza marcata. Si passa poi al Valdobbiadene DOCG Prosecco Superiore Extra Dry Fontana Vecia, altrettanto elegante, iodato, agrumato e con tocchi officinali.
Una denominazione vincente e una famiglia che da cinque generazioni punta sulla qualità. In un territorio che traina l’export delle bollicine
Vlady Bortolin, proprietario della Colesel. Sopra, vigneti Colesel nella zona di Valdobbiadene
VALDOBBIADENE DOCG PROSECCO SUPERIORE
EXTRA BRUT TRIDIK QUOTA 430
PUNTEGGIO: 96+/100
È l’alfiere aziendale, etichetta di grande peculiarità, si apre al naso con note di mela verde e pera Abate, tocchi agrumati di lime e di timo fresco. Al palato ha bollicina tesa, salmastro-sapida, convincente croccantezza di beva e ritorno fruttato-officinale. Consigliato (in stagione) in abbinamento con un risotto con i bruscandoli o con gli asparagi.
COLESEL SPUMANTI SRL
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