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ENRICO BELLAVIA
from L'Espresso 3
by BFCMedia
La mafia com’è. Tra la gente. Insinuante, subdola, sfrontata nella sicumera che consolida il mito di un’impunità leggendaria. Forte di un’organizzazione, logoratasi negli anni del delirio stragista dei Novanta, fiaccata ma non al crepuscolo. Indebolita, e molto, ma non vinta. In una società che ancora le si struscia, la cerca, la blandisce, la invoca e che si lascia abbacinare dallo sfavillio del denaro e del potere, troverà sempre un imprenditore disponibile, un professionista accomodante, un politico servile in una ditta di mutua convenienza. Una talpa a gettone e un paesano in debito.
Piegato nel fisico ma fiero nella vanità di un blasone nero di lutto e rosso di sangue innocente, Matteo Messina Denaro incarna perfettamente il modello di una Cosa nostra che si fa largo nella modernità con qualche concessione alla spocchia del lusso senza sudore. Concede al tempo nuovo solo ciò che nutre l’indole. E per il resto obbedisce ai codici, duttile e pragmatica, intenta solo a perpetuare sé stessa, oltre i destini dei singoli. Deposto un capo, sa trovarne un altro. Attinge anche ai vecchi tornati liberi dopo i rigori del 41 bis, punta sui rampolli o si rimette alle ombre, figure sparite dai radar come Giovanni Motisi, da Pagliarelli, quartiere sede dell’omonimo carcere, alle porte di Palermo. Sessantaquattro anni appena compiuti, figlio d’arte, ora in cima alla lista dei ricercati, latitante dal 1998, condannato all’ergastolo, imparentato con una genia di mafio-costruttori che hanno cementificato mezza città.
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Governativa sempre e comunque. Cosa nostra muta ma non cambia mai veramente.
Dicono si sia definitivamente chiusa l’era stragista. Era un ciclo già concluso. Quella stagione era già finita proprio quando la latitanza di Matteo Messina Denaro cominciava. La Cosa nostra della dittatura corleonese, dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio a Palermo, dopo Firenze, Roma e Milano, aveva corretto la rotta sulla soglia del 1994, ripiegando sull’orlo della carneficina sfiorata allo stadio Olimpico della capitale. Coltivava, certo, propositi di vendetta e nuovi negoziati al tritolo che accompagnassero il Paese al cambiamento già in corso.
L’eccidio di via dei Georgofili a Firenze, l’attacco di Cosa nostra nella stagione delle bombe del 1993
Accantonava esplosivo e seminava ancora morte, ma con Totò Riina in carcere, battuto nell’azzardo di un despota allucinato di poter vincere la guerra allo Stato, si era consegnata alla linea della quieta coesistenza interpretata da Bernardo Provenzano. Lesto, Matteo, da devoto sicario in piena operatività si era prontamente adeguato. Aveva accantonato le fantasie separatiste che pure lo avevano tentato quando Cosa nostra sognava una Lega propria, desistendo quando all’orizzonte era apparsa Forza Italia. I galloni di capo se li era conquistati e per discendenza dinastica, con il padre Francesco, morto in latitanza nel 1998, gli era stato riconosciuto anche il grado formale di vertice della provincia di Trapani. Nelle lettere a Provenzano, esprimeva disagio per l’inadeguatezza della nuova classe dirigente, «mancano i rincalzi dei rincalzi», si lamentava per le retate, «arrestano anche le sedie», poi discettava di affari e con devozione si fir-
In alto, Matteo Messina Denaro. A destra, il padre Francesco. Sotto, Bernardo Provenzano. A sinistra, alcuni dei pizzini tra i boss

Foto pagine 34-35: Ansa. Foto pagine 36-37: Fotogramma, Ansa (2), La Presse mava «nipote Alessio». Controllava in casa ogni attività spingendo sulla grande distribuzione, l’alimentare su tutto con Giuseppe Grigoli, i centri commerciali, le strutture turistiche come la Valtur di Carmelo Patti e poi le rinnovabili di Vito Nicastri. «I pali», li chiamava con un certo disgusto Riina, deluso dalla metamorfosi del suo ex pupillo, invidioso delle sue capacità nell’economia, per così dire, legale. Matteo era avanti. I legami con gli States li aveva coltivati facendo leva sulla tradizione dei castellammaresi, le alleanze con i narcos le aveva sviluppate legandosi, come già il padre, ai cartelli della ’ndrangheta. La propensione ai viaggi, una certa intraprendenza nella diversificazione degli interessi, reperti archeologici compresi, lo avevano portato in giro per il mondo. Ma poi, tornava sempre a Castelvetrano, lì dove lo Stato del Dopoguerra, intorno al cadavere del bandito Giuliano, aveva ripreso a danzare il valzer del compromesso. A casa, o non troppo lontano, a Campobello di Mazara, comune satellite, dove girava indisturbato con la propria faccia. Che gli anni e i malanni avevano reso identica a quella del padre o al suo identikit. Nessuno però sembrava volersene accorgere. Nessuno, neanche tra i medici del suo territorio che si prodigavano per assicurargli assistenza, aveva voluto insospettirsi. Non lo aveva fatto neppure l’aspirante sindaco di Campobello, Alfonso Tumbarello, che aveva curato anche il vero Andrea Bonafede, l’alias di Matteo, amico di infanzia e malato come lui. Re nel proprio territorio, con le mani sulla cassa del welfare parallelo che garantisce consenso, Messina Denaro si era allungato sull’Agrigentino, più prossimo ai limiti della sua satrapia. Gli era preclusa un’egemonia sui palermitani, restii a concedere scettri fuori dai confini della provincia. Gli veniva però in soccorso la famiglia: il matrimonio della sorella Rosalia con Filippo


