Dalla Gassa Alberto

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Alberto Dalla Gassa

Poesie A cura del Dott. Mario Tibaldo Edizioni SDB - 2015


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Alberto Dalla Gassa

Poesie

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Alberto Dalla Gassa Poesie

Dal 2009, il nostro opuscolo si é arricchito di una nuova voce e di una nuova attrazione: le poesie di Alberto Dalla Gassa. Umile personaggio di Altissimo che, nascostamente, per anni ha dipinto la sua terra e i suoi compaesani con stupendi quadretti poetici. Nei suoi versi pulsa il cuore della vita contadina e della tradizione paesana di uomini semplici, radicati nella terra e nella salubre dipendenza di un Dio creatore e sostenitore di ogni vita.

Ringraziamenti Alla famiglia di Alberto per la generosa disponibilità a rendere pubbliche queste composizioni. Al dott. Mario Tibaldo, infaticabile cantore e mentore delle migliori tradizioni delle nostre contrà. A Miro Monchelato, cultore appassionato e prezioso della storia delle nostre valli. A Fabio Monchelato, mirabile esploratore di paesaggi della memoria, amati e narrati da Alberto. Agli amici di Durlo 86 che in questi anni hanno fatto conoscere a tante persone la poesia di Alberto.

Finito di stampare ottobre 2015 I edizione - 100 copie - Pro manuscripto Questa iniziativa culturale ha lo scopo di raccogliere fondi per la Scuola Materna Maria Immacolata di Altissimo. Tutto il ricavato della vendita del volume sarà devoluto a favore di questa istituzione tanto amata da Alberto quanto insostituibile per la vita della nostra Comunità (ndr).

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SOMMARIO

Prefazione ALTISSIMO CIMBRA AMORE LONTANO ANNIVERSARIO AVE MARIA BARUFFA MONTANA BUSO DELE ANGUANE CANTAR MARSO CONCORSO CORGNUI DARE I NUMERI !!!!!!!!!! DILEMMA DIMMI DOMANDE EL MASCIO EL VEDELETO EREDE FAR PAN FIORE D'APRILE FORMICA OPERAIA FUORI IL CUCULO IL GHIRO IL LEPROTTO LEONE E SCIMMIA IL FURBO GABBATO IL RIFIUTO INVERNALE IRENE (PACE) LA CIOCCA LA FOGARA LA LUCCIOLA LA PECORA RIBELLE LA SGNOLA LA LUCE L’ALBA LA SERA L'ALTRA FACCIA L'UOMO DI GESSO MACHINAR FORMENTO MAGGIO 64 'NA VOLTA NON E’ PIU’ TEMPO NOSTALGIA OH TU CHE VIENI PORTIERE PORTINAIO RESTAURAZIONE ROGASSION RUGIADA SCARTOSSARE SILENZIO STORIA SULLA SOGLIA TI MANDO TUTTI DA SOLI UN TEMPO VENDEMA VIVA LA MOTO VITA (RICERCA) E’ TEMPO DI ANDARE GRAZIE Postfazione

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Prefazione

Le poesie che trascriviamo sono sicuramente un arricchimento della storia delle nostre contrade perché ci regalano uno spaccato del modo di pensare, di dire e di vivere della gente che popolava, solo pochi decenni or sono, questa parte di montagna. Esse però sono, soprattutto, un riconoscimento all'umile ed eroico vivere di Alberto che ha saputo, con semplicità ed ingegnosità, immortalare e far vivere nei versi le tradizioni ed i valori, la laboriosità e l'onestà dei padri; vero ed unico patrimonio valido anche ai nostri giorni. Ad Alberto il riconoscente grazie per il patrimonio di poesia e di valori che vivranno a lungo nelle sue piacevoli composizioni. Ogni anno che passa l’opuscolo dell’associazione “Durlo 86” è un appuntamento ed un incontro non solo con le antiche storie delle contrà ma, anche, con i tuoi versi vibranti di vita e di tradizioni. Narri di un passato che, seppur prossimo, appare remoto tanto è lontano e sconosciuto ai più, risucchiati da un tempo vorticoso che sembra travolgere tutto e tutti in una collettiva follia di correre, di fare, di divertirsi e di stordirsi senza ritagliarsi il tempo di riflettere, di riposare, di conoscersi e di amare. Siamo pieni di ogni tipo di tecnologia ma poveri di principi e di umanità, di quell’umanità così viva e pulsante nei tuoi versi o Alberto. Alberto, ricordo il primo timido approccio telefonico foriero di un segreto che volevi manifestare e contemporaneamente gelosamente conservare: le tue poesie e più ancora la tua vita in esse rispecchiata. Rileggendo a distanza di pochi mesi dalla tua morte i componimenti che hai scritto intravedo la ricchezza dei valori che hai vissuto e trasmesso, le tradizioni e la genuinità propria della gente dei nostri monti. E’ questo un patrimonio che meriterebbe di essere raccolto, valorizzato e pubblicizzato proprio in un tempo, come l’attuale, in cui si sente la necessità di ritornare alle origini, di far rivivere luoghi e mondi di un tempo ormai tramontato. La poesia “Storia di un contadino” rappresenta la tua storia e la storia di molti che, dopo la faticosa giornata terrena, ritornano serenamente al Padre. Leggendo i tuoi versi, Alberto, si è portati nel magico mondo del tuo tempo dove non mancavano difficoltà e povertà ma si viveva la semplicità di valori atavici: la fedeltà coniugale, la fede tradizionale, l’operosità e la caparbietà dei padri che si affidavano alla Provvidenza sperando in un futuro migliore. Questo nostro tempo attanagliato da una crisi globale, mai conosciuta dai più giovani, è anche offuscato dall’assenza di valori e dalla mistificazione e mercificazione dell’uomo che, in modo stanco e demotivato, non interagisce con la storia ma ne subisce passivamente il corso. Le tue poesie, Alberto, sempre più lette e ricercate, suscitano in chi ti legge sentimenti ed emozioni talora insospettati ed insospettabili. Molti si riscoprono nel tuo dire e nel tuo pensare, altri increduli rivivono un passato ricco di valori. I più giovani faticano a credere che il tuo mondo sia realmente esistito, specie in tempi così recenti, a dimostrazione dei rapidi cambiamenti individuali e sociali determinati dall'accelerazione temporale dovuta ad un'evoluzione tecnologica che sembra sempre più aprirsi verso un mondo infinito di ricerca e di conoscenza. Ci stiamo illudendo di riuscire a varcare le soglie del sapere come, nell'Eden, si illudevano di raggiungere la conoscenza del bene e del male. Dio, comunque, é e sarà sempre inaccessibile all'uomo inorgogliosito dalla tecnologia e dall'autosufficienza. Il 25 ottobre 2013 l’ASL di Arzignano, dove lavoravi, ti ha dedicato, Alberto, dopo una sentita e partecipata cerimonia, una targa posta su una delle sale del Pronto Soccorso, riconoscendo il prezioso servizio fatto nascostamente in tanti anni di dedizione verso i visitatori, gli ammalati, i Medici e tutto il Personale Sanitario. Oltre alle tue doti umane è stata sottolineata la ricca composizione poetica che minuziosamente ci racconta di un tempo passato ricco di difficoltà, di povertà, di storia contadina e paesana ma pieno di vicinanza, di condivisione, di fede e di umanità. Valori questi che sembrano assenti nella frenetica società di oggi, ricca di benessere materiale ma altrettanto povera moralmente ed individualmente per la supremazia e la divinizzazione della scienza e della tecnologia, a scapito del credere nell’esistenza di un Dio vicino a tutti, che accoglie tutti, che ama tutti.

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Mario Tibaldo


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ph Fabio Monchelato

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ALTISSIMO CIMBRA Il vento del nord mi porta le voci di antichi migranti dal bavaro suolo: varcarono le Alpi senz’armi, con croci e presero dimora ad “Alto Pascolo”. Armati di ascia tagliarono i boschi, curarono i pascoli, costruirono masi, dall’ascia all’aratro seminarono i solchi, tracciarono strade e scavarono invasi. Il vento del nord racconta le storie dell’Evo medio e di antiche memorie di Bartolomeo della Scala che rilasciò concessione ad “Olderico de Altissimo” e alla sua popolazione. Servi della gleba trovarono riscatto, portarono a sé gli eroi e i santi; di feudi teutonici serbarono il motto, la solida tempra, i costumi ed i canti. Il vento del nord carezza le rose e narra di umili vite operose. Altissimo Cimbra con Altipiano e Lessinia visse a lungo in serena autonomia. Col tempo i masi diventaron contrade sulle verdi colline si coltivarono biade; poi piante da frutto e si produsse bestiame e saporiti formaggi e gustoso salame. Il vento del nord s’è, ohimè, affievolito: l’atavico motto è ormai scordato e “Alto Pascolo” da rovi è rimboschito e il cimbro braccio s’è globalizzato!

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ph Fabio Monchelato

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AMORE LONTANO Guardo la pioggia, amore lontano: tristezza m’ispira e stanca è la mano. La testa mi scoppia, m’opprime il frastuono, né ala di vento rincorre il sereno. Sdraiato sul letto io guardo il soffitto, ripenso un po’ a te, ma senza riuscirci. Un senso di vuoto m’inventa capricci: è triste esser solo e annoiato sul letto. Amore lontano, riportami un fiore, ridammi speranza ancor nell’amore. Non riesco più a viver e la pioggia mi sfianca e c’è inoltre il tuo affetto che ora mi manca. Non sogno, né dormo in questo torpore, non ho neppur voglia di pensare all’amore: ora tu solo puoi darmi una mano, ma tu sei ancora molto lontano. Il tempo non passa; è quasi un inferno, per me questo giorno è più di un inverno. Non c’è la neve, ma tutto è grigio: amore, mi manca il tuo caldo sorriso. Amore lontano, mio arcobaleno il tuo dolce sorriso riporti il sereno nei cieli turbati di questo mio cuore, perché cresca e maturi il nostro amore.

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ph Fabio Monchelato

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ANNIVERSARIO Tante stagioni non passate invano; tante le emozioni mano nella mano: cambiano le forme, ma restano gli amori, cambiano i tempi, ma restano i valori. Tante le storie, tante le esperienze e per il domani ancora tante speranze. Fra alti e bassi s’è temprato l’amore: tante le gioie e anche qualche dolore. Ma torna spesso il ricordo del dì in cui, esitante, ti dissi il mio sì e all’altare in un giorno di primavera sgorgò spontanea la mia preghiera: RIT. Dio grande, Dio dell’amore freme forte questo mio cuore; davanti a te io faccio giuramento: fa che mai ne abbia pentimento, fa che mai ne faccia tradimento. L’anniversario si fa riflessione e per qualche ricordo diventa occasione. Con te tornerei a rivivere i trascorsi, con te rifarei gli stessi percorsi. L’anniversario diventa una festa e lenisce il bruciore per qualche tempesta. I frutti d’amore ci aprono al domani ed al mio fianco per sempre rimani: qualche rimpianto, ma un solo progetto e il tuo sorriso mi è molto diletto. E all’altare in un giorno di primavera ti ripropongo questa mia preghiera. RIT. Dio grande, Dio dell’amore freme forte questo mio cuore; davanti a te io faccio giuramento: fa che mai ne abbia pentimento, fa che mai ne faccia tradimento. 13


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ph Fabio Monchelato

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AVE MARIA Ave Maria, piena di grazia, erede di Abramo e della promessa, all’Angelo hai detto un sì senza se, poi madre a Betlemme in una capanna. Prega per noi, prega per noi, e accogli i tuoi figli nei cieli con te. Ave Maria, Ave Maria, madre di Dio e madre nostra. Ave Maria, piena di grazia, ancella e regina, vergine e sposa, a Nazareth poi la sacra famiglia da Cana al Calvario presenza discreta. Prega per noi, prega per noi, e prepara ai tuoi figli un posto nei cieli. RIT. Santa Maria, madre di Dio, modello e speranza, fonte che sazia, umile e attenta al progetto di Dio, assunta nei cieli, ma a noi vicina. Prega per noi, prega per noi, e accogli i tuoi figli nei cieli del Padre.

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BARUFFA MONTANA Un maschio di stambecco con corna maestose saltava spensierato fra le creste rocciose; un giorno giù in basso vide un pingue bovino, scese, tosto, al piano per vederlo da vicino. “Che strane corna hai” disse lo stambecco “sono corte e tozze come un palo secco; com’è che fai nelle dispute amorose? Sei certo di piacere alle femmine prosperose?” “Lo sai che le tue corna” gli rispose il bovino “non sono più di moda in ambito cittadino; poi in mezzo al traffico sono assai ingombranti: nella vita occorre andare sempre avanti!” “Ma come puoi tu dare lezioni di moda, che sei taglia super dalla testa alla coda?” riprese lo stambecco ancora più infuriato verso il bovino, che l’aveva denigrato. E così la discussione durò per lunghe ore, mentre in disparte li osservava un roditore: “Sono proprio ciechi, sono anime perse, che non s’accorgono d’essere due specie diverse!”

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BUSO DELE ANGUANE 'Na volta i tusiti scoltava imagà on vecioto che a filò nela me contrà ogni sera contava storie de anguane on po' done on po' bestie: cose assai strane. A dire el vero, mi no capea gnente: uno me disea de 'na isarda gigante, n'altro che xera gran bele tose ma coi piè da cavra in caverne silenziose. I tusi pì grande par farne paura i me mostrava on buso sora 'na mura ndove de note vegnea fora le anguane: strie brute assà pì dele befane. Mi ve lo digo: mi xero confuso quando passava davanti a sto buso, ma on di el vecioto gà svelà el mistero: 'na anguana la gavaria catà ma dal vero. Da grande go sercà in tanti me libri sta storia che xe stà contà dai cimbri. Ma el buso dele anguane l'è querto da russe: tutto xe spario, come se gnente fusse.

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CANTAR MARSO In fondo a la mente go on ricordo fumoso: ai primi de marso, a jera oncor toso, co on sciapo de tusi dopo carnevale se andava a cantar in giro a stale. Coi i primi bojori dela primavera, se cantava pai morusi quasi ogni sera; con i bandoti se fasea confusion e se cantava proprio sta canson: "Siam venuti a cantar marso in questa sera, par maridar na puta bela, chi ela e chi non ela, la... che l'è pì bela; e chi ghe dinti par moroso... Che l'è un bel toso." Spesso el vegnea el scherso acettà dagli innamorati che vegnea nominà, ma ben più spesso sensa compassion i ne corea drio con in man on baston. Cosi de presia tutti se scappava, ma nela stala visin se se calava, e se rifaseva la stessa canson, e se ripetea la stessa conclusion. "Siam venuti..." Così go cercà in fondo alla mente de altri ricordi, non go trovà niente. E sta filastrocca ormai desmentegà tutti insieme riproveremo a cantar. "Siam venuti..."

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CONCORSO Cari concorrenti venite quà, oggi vi porto una gran novità, che siano uguali, questo si sa, ma già da ora qualcuno più uguale sarà. Adesso vi dò una particolare notizia: sia dato credito alla perizia, non si trascuri però l'amicizia senza far torto alla giustizia. E cosi al merito sia dato onore, ma non si scordi pure l'onere, perché nella vita ci vuole rigore specie quando si prestano le opere. E per ogni evenienza, cari concorrenti, certo non manchi raccomandazione, che poi siamo tutti un po’ dipendenti di una certa complessa situazione. E se il discorso vi sembra confuso, leggete bene le istruzioni d'uso, perché nella vita serve preparazione, e ciascuno tenga per sé la propria opinione. Cari concorrenti, venite quà, ma non posso dire che sia una novità, che qui qualcuno "tiri a campà" senza far caso a ciò che verrà.

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CORGNUI I veci me dise che riva la piova; a far la corgnolara xè or ca me mova: ne l’orto a scavo, ghe fò ‘na rebotà, ghe meto ‘na sesta col bordo impajà. Intorno a la sesta a impacco la tera, on peso sul quercio che ben el sera. Me ciapo el sestelo quelo coi carui e presto a la matina a vò par corgnui. A passo masiere, vardo passaie, a vò par le vali e rivete pì moje. Co xè pien el sestelo i corgnui conto, nela corgnolara verdure a xonto. Ai primi fredi i corgnui se sconde e soto tera i fa buse fonde; e con le brume i fa le casele e el tempo de farli xè verso Nadale. E quando la neve la vien xo lenta coi corgnui se magna polenta e, po’, se beve on goto de vin e par el fredo se sta tuti vissin.

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DARE I NUMERI !!!!!!!!!! Passano settimane ininterrotte: giornata, pomeriggio, mattina, notte. Turno dopo turno qualcuno scorda consegna: chi ordina tutto, chi disegna. C’è chi entra con la destra mano come fosse abbozzo di saluto romano. C’è chi si lamenta sempre del solito calvario c’è chi di notte prega col santo rosario. C’è chi poi di camper ha grande passione: c’è chi per l’aerosol non perde occasione. Il capo si sa ha sempre ragione: così diceva una vecchia canzone. Una dolce cuoca dal taurino segno: spesso all’esperia lascia deciso pegno. Dolce donzella dalla riccia chioma ispira amanti e molti cuori doma. Terra di monte la generò bionda prospero il petto, il sorriso abbonda. C’è chi in ogni istante parla dei figli, chi sempre cerca a quale linea somigli. Nonna in attesa, seno prosperoso: sempre di corsa e mai a riposo. C’è chi di eros vanta grandi imprese: chi a inizio turno teme ancora sorprese. C’è chi in portineria fa gran conferenza: chi invece di cellulari non può fare senza. C’è chi di menù parla di continuo: chi di uccelli, pesca e del buon vino. Turno dopo turno la fortuna piglia finchè fra voi c’è una grande famiglia. Io che di quel gruppo faccio parte porgo auguri per sempre miglior sorte.

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DILEMMA Molte le voci, molte le grida, pochi sussurri dentro la folla; molti gli slogan a mo' di sfida, come l'aratro fende la zolla. La rana gracida nella palude, vola l'uccello di ramo in ramo: ma la frenesia il sogno esclude e la noia invade perfino il talamo! Cerco nel cuore un pò di silenzio per respirare un pò d'aria pura: perfino il pensiero mi sembra ozio e tempo perso ascoltar la natura! La terra tradita non cede ai ricatti, e non fa sconti a chi la vessa, a chi non mantiene antichi patti travolti o smarriti nella ressa. Un tempo regnava il ciclo delle stagioni, un tempo l'ignoto divenne religione e attorno al fuoco sbocciarono canzoni sol per diletto, mai per pigione! E' incerto il cuore tra il vecchio e il nuovo ed il domani mi dà un pò angoscia, ma nel tuo braccio sostegno trovo, come un pulcino che il nido lascia.

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DIMMI RIT. Dimmi quante volte la vita ha detto no! Dimmi quante volte la vita ha detto no! Dimmi quante porte ti sono rimaste chiuse; dimmi quante strade ti hanno riportato indietro; dimmi che ti ha lasciato la vita tra le mani. Il tempo non è sempre gentile e galantuomo, ma dopo il temporale si spera nel sereno; mischia le carte il vento: a te ora spetta il gioco; lancia l’S.O.S., ma poi getta l’ancora. RIT. Dimmi quanto ancora la vita ti dirà di no! Dimmi a quante porte ancora tu busserai; dimmi quante strade diventan labirinto. Dimmi se ancora insegui una stella del tuo cielo. Coi mulini a vento sembra tu stia lottando, ma il ferro va battuto finchè è ancora caldo. Tutto fa esperienza, tutto lascia una traccia, ma non cercare lontano ciò che hai nel cuore. RIT. Dimmi quanti sogni son svaniti fra le mani, dimmi se e con chi in lotta ancora tu rimani; se tu hai bisogno, io ti sarò vicino: dopo una lunga notte torna, spero, il mattino. Dimmi se un giorno avrò la gioia di un tuo sorriso; dimmi quando il cielo avrà un volto amico; dimmi se ancora cerchi la tua giusta strada, che ti guidi a quella porta, che ti apre alla vita.

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DOMANDE Destati, uomo: qual’è la meta? Destati, uomo: chi è il tuo profeta? Maghi e indovini fanno oscuri presagi, e menti sapienti già annunciano disagi! Questo progresso è molto invadente e pure la scienza è scalpitante: così il meteo diventa devastante! La gea-madre è assai insofferente! Destati, uomo: qual’è il futuro? E da abbattere qual’è il nuovo muro? Quale proponi ancora speranza? Per cosa si lotta oggi ad oltranza? Oggi di tutto vi è omologazione e del profitto il tutto è in funzione! Vale di più chi ha più successo: chi resta è povero e pure depresso! Destati, uomo: tieni dritta la schiena! Destati, uomo: ti aspetta l’arena! Quale diventa ora nuova frontiera? Quale rimedio, prima che sia sera? Quali ideali e quali valori riescono ancora a scaldare i cuori? Pensa e rifletti almeno un momento, prima che il tutto diventi tormento! Destati, uomo: qual’è il tuo domani? Lo fai o distruggi con le tue mani! Rispetto ed amore ancor restano valori per cui versare sofferti sudori.

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EL MASCIO Ai me tempi ogni casa gavea el so orto, gavea la so stala, el punaro e el staloto, e cussì ogni cosa la se riciclava e el mondo intorno no se inquinava. E ogni fameja el masceto ingrassava e verso Natale, po’, el se copava e el palco se fasea con on bel tolon: se rincurava el sangue par fare el torton. El toso pì picolo la coa ghe tegnea, el se tegnea fermo fin che el se movea. Con l'acqua de bojo dopo el se pelava; se tacava ai trave e a metà se tajava. E dopo on di rivava el masciaro, squartava el mascio e spartiva el laoro: chi spolpava, chi masenava, chi insacava, e da 'na parte le done da magnare pareciava. Vissin al fogo, ma nei ciodi sui travi se tacava sopresse, codesini e saladi e con pasiensa lenti i se sugava e solo dopo in caneva i se portava. E sula gradela se rostea le mortaele e i ossi al fresco se metea sule arele. El grasso e el colà, po’, i se colava, e de grustoli el dolse se pareciava. E cussì quando xera tutto finio con on bel brindisi se se dava l'addio. E tutti contenti e con la pansa piena se xera pronti a netar tuto de lena.

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EL VEDELETO A xera in quinta dele elementari e me popà segando i selgari ala man destra el se ga tajà: non podea monxare con la man infassà. Me ricordo ben, el tempo xera quelo che la me Cerva gà fato vedelo e me xè tocà proprio a mi monxare la vacca tre volte al dì. A xera picoleto e la secia pesava, e monxare a man a me snervava: co la secia piena le gambe tremava, co la coa la Cerva la me scuatava. E cussì ‘na volta con ‘na peà el secio pien la me ga rabaltà; me ga brontolà anca me fradelo: no ghea pì late par el vedelo. Cò al vedeleto ghe dasea el late contro el muro ciapava bote: xera on sforso tegnerghe el muso che ala fine mi a xero fuso. El vedeleto col tempo, me ricordo, ingrassa e on mercante che on dì lì passa lo vol comprare, che l’è de rassa e sinque mila de mancia a mi me lassa.

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EREDE C'era nel cielo un messaggio di vita vestito d'azzurro e di arcobaleno e rinasceva nei fiori il sorriso, un pò stuzzicato dalle farfalle. L'allegro acquerello dipinto dal tempo, baciato dal sole donava vigore, ma dentro il fantasma dell'uomo antico marciava la spada del conquistatore. Cambiavano i cenci dello spaventapasseri, cambiavano le voci nel bosco riarso e a poco a poco il silenzio fu pace, una pace che ora nasconde la morte. Così un'alba serena mi trova estraneo, l'usignolo che canta diviene disturbo, diviene prigione per i sogni d'amore la notte stellata, che mi lega alla terra. E la speranza del contadino non ha più spazio nei miei autunni; non c'é più tempo per contemplare l'ingenuo pudore di un candido fiore. La comunione con l'arido solco, radice scordata e mio futuro, io spezzo nel nome del mio strapotere e sono erede d'un mondo distrutto.

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FAR PAN Co torno da scola per far la lession, in casa me trovo tanta agitasion: “ti toso và a tore in pristio el levà, bisogna pareciare par fare el pan”. Farina e levà con l’acqua se missia, se lassa sponsar soto on telo da lissia. E presto el dì dopo rento la mèsa se xonta farina e de sale ‘na presa. E con la gramola se doma la pasta: avanti e indrio fin che se vede che basta. Se taja la pasta e se fa le ciope; se ciapa le fasine e se taja le strope. Co on poca de paja se impija el forno: el se fa belo caldo, ben fin in fondo. E dopo de tute le bronse se svoja, se tapa i busi con la xendre moja. Se infila le ciope e se sera la portina, e se speta che el pan pian pian se cusina. El profumo se spande par la contrà: ormai xè pronta del pan ‘na fornà. Se ciapa dal forno le ciope bollenti, se impiena le seste bele capienti. On pesso de pan se mete soto i denti: così picoli e grandi son felici e contenti.

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FIORE D'APRILE Dama di cuori, luce per me mi freme il cuore: io so cos'è. Passano gli anni, ma cresce in me tutto l'amore che provo per te; passano gli anni e accanto a te scopro ogni giomo l'amore per te. Accadde di sera il colpo di sole, mentre di altri curavi la prole; e del tuo sogno stretta marcatura hai fatto ogni ora fra la natura; e del tuo sogno hai fatto speranza se china sudavi dentro una stanza. Fiore d'aprile, donna serena, vivere la vita con te vale la pena. Fiore d'aprile, moglie operosa tenace il cuore, madre amorosa. Madre di ottobre e poi di marzo, il ventre inciso: non fu uno scherzo. Asciutto il seno, ma stracolmo di amore, le notti insonni e il dì con torpore; e nella vita tra routine e sventure in te trovo fiducia e speranze future. Se poi la vita tesse l'ordito tu con perizia ne fai vestito e con un piatto ben assortito stuzzichi sempre il buon appetito. Con la tenacia e la passione coltivi l'amore in ogni stagione.

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FORMICA OPERAIA L’alba era serena e su un mucchio di ghiaia cercava laboriosa una formica operaia. Da un ramo fiorito la vide una cicala: “Sei sempre al lavoro, sempre in fondo alla scala”! “L’impegno tuo zelante e la grande esperienza ora per te meritano una degna riconoscenza”! E tutta gongolante per cotanta adulazione alla sua regina inviò precisa petizione. Dopo un po’ l’operaia ebbe così udienza e la sua regina le chiese la sua preferenza per il ruolo che lei voleva poi ricoprire e quale curriculum poteva per ciò esibire. “L’operaia assai bene da sempre io so fare, ma sono assai stanca di solo sgobbare a posto di prestigio è giusto aspirare e poi col tempo serena invecchiare”. “Ti propongo uno scambio” disse la regina “tu comanderai e io sarò formichina: io andrò al lavoro tra l’erba e i fiori, tu per sempre scorderai il mondo di fuori!” Così l’operaia si fece assai pensosa; troppo alto sembrò il prezzo della cosa: i raggi del sole ed il profumo di un fiore di tante fatiche ripagavano il sudore.

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ph Fabio Monchelato

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FUORI

Fuori, nei campi é il silenzio e fra le stelle é paura, che oltre il confine del tempo, guardano assenti la storia. Cosi fra le braci fumose cova la tua malinconia e quello che vive d’intorno non ti ispira speranza. Il passo sui punti vitali sfila il tuo velo del tempo e geme l'angoscia d'amare nel cuore che pulsa per niente. Fuori, oltre la pelle, la solitudine é morte; così fra le ceneri calde cova il fumo che sale. Sale il fumo, aleggia: nessuno vede e soccorre. Fuori di te é il silenzio, un silenzio che non sa di niente. Sale il tuo grido: é preghiera, che investe la folla ed il cielo, ma geme l'angoscia d'amare vestita di delusione.

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Alberto Dalla Gassa Poesie Le quattro poesie che seguono ricalcano l’antico mondo, greco e latino, delle fiabe a sfondo etico: gli animali impersonano il dire ed il fare degli uomini esaltandone pregi e difetti. M. T.

IL CUCULO Un cuculo un giorno disse alla consorte: “Vorrei fare il padre prima della morte” “Non si può mutare il nostro destino” fu la risposta in un grigio mattino. “Mi sembra strano questo tuo sentimento, ma non te ne devi fare tormento: allevare la prole non è nostra sorte, né può aspettare l’inverno alle porte”. “Io proprio non saprei come covare, poi i nostri pulcini come imbeccare, come insegnare loro a volare; se proprio ci tieni: li puoi adottare!” “I frutti vorrei del nostro amore stringere forte a questo mio cuore” replicò il cuculo un po’ spazientito perché il suo desiderio non veniva capito. “I figli nostri fra nidi ho sparsi, con padre adottivo possono consolarsi. E rintracciarli proprio non saprei e il cielo sa, per te, quanto lo farei.” Il cuculo stanco volò verso il fiume, sciacquò a lungo le sbiadite piume. Riprese il volo poi verso l’Infinito per chiedere che il desiderio suo fosse esaudito. C’è chi ha pane e non ha denti, ma un modo si trova che si alimenti. Chi non ha pane ed ha tutti i denti trova impossibile fare altrimenti.

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IL GHIRO L’inverno moriva ed un ghiro assonnato si guardò attorno tutto affamato: ormai era vuoto tutto il granaio; da tempo era vuoto anche il salvadanaio. D’istinto decise di trovarsi un lavoro per sua sussistenza e per sano decoro. Serena passò l’intera estate: dei tanti risparmi, tante scorte stipate. Agli inizi d’autunno un fatto fu reiterato: il ghiro sul lavoro fu trovato addormentato! Il rischio era grande, il fatto assai grave: facendo l’acrobata, poteva cadere dalla trave. Per l’incolumità sua gli fu cambiata la mansione, ma per nuove dormite non perdeva occasione; e così alla fine si trovò licenziato, perché per più giorni restò addormentato. A medici e stregoni si fece ricorso per curare il sonno di assai lungo corso; si fece ricorso ad esperti del sindacato perché del suo lavoro non fosse privato. Strenua fu la lotta, ma purtroppo vana: contro la natura tutto era una frana! Così il ghiro, stanco, si rassegnò al letargo, mentre, a folate, il freddo si faceva largo.

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IL LEPROTTO Un tenero leprotto aveva una passione: correre nei prati e far le capriole; con i suoi amici era in competizione per lo stesso premio: un mazzetto di viole. Un giorno che lo vide uno sportivo esperto per delle vere gare gli offrì un contratto: non più fame e freddo avrebbe egli sofferto; un grande successo l’avrebbe soddisfatto! Arrivarono medaglie e grandi trionfi, poi feste spassose, e onori e glorie. Ma all’improvviso dei piccoli tonfi fecero diventar sospette alcune vittorie. Il tenero leprotto si disse innocente e pensò a tramacce del suo allenatore; ma il giurì sportivo lo giudicò reticente e lo squalificò con gran disonore. Tornò ai suoi prati e alla sua passione: correre nei prati e far capriole; dai vecchi amici ebbe solo derisione ed erano ormai spariti dai boschi le viole. Chi tanto dal fato ha, tanto deve dare e quel che si ha non si può sprecare: prima o poi la vita ci chiede pedaggio e in ciò è avvantaggiato chi è più saggio!

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LEONE E SCIMMIA Nella savana un leone con passo da re visitava il suo regno assai sicuro di sé, quando d’una scimmia udì l’urlo disperato e la scorse su un alto ramo col pelo arruffato. “Ma sono così brutto – le disse il leone – e cos’è di me che ti fa tanta impressione?” “Tu vuoi farmi cibo – gli rispose il primate – le tue cacce spietate non le ho mai scordate!”. “I tempi sono cambiati – riprese il leone – dal tuo simile umano devi prender lezione: dall’albero è sceso, lui, e ha fatto molta strada ed ora egli fa quello che più gli aggrada!” “Se io scendo dall’albero, di me tu fai boccone; meglio restar qui in alto, altro che andar a lezione! A volte l’umano, poi, non è certo un esempio, perché di uguali e simili perfino egli fa scempio!” “Certo che sei curiosa – rincalzò il leone – non si può parlare con chi non sente ragione, con chi non vuol accettare vero consiglio amico, contro l’interesse dato proprio dal suo nemico!” “Nemico mio non sei – concluse il primate – i consigli io li accetto solo da amiche fidate, che non si nascondono dietro a falso altruismo, col malcelato pretesto dell’evoluzionismo!”

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IL FURBO GABBATO In una grande voliera abbandonata un clan di topi prese dimora. Vi erano giochi, cibo e una vetrata con vista sulla via in ogni ora. Si diffuse la voce in quel quartiere; si sentì un po’ ferito un grosso gatto: era in gioco il prestigio del suo mestiere e pose assedio a quel manufatto. Di sorpresa i topi furono colti ed al gatto proposero armistizio: “Prigionieri or qui siamo in molti, a madri e prole si risparmi il supplizio!” Il gatto si mosse a compassione e concesse ai topi quel favore: “Voi ostaggi evitate l’evasione, ho da voi la parola d’onore!” “La nostra parola è sacrosanta, e preghiera eleviamo al Creatore; al patibolo il nostro cuore canta”. E s’accordarono contro l’oppressore. Ad un cenno concordato i furboni gridarono tutti: “Al cane! Al cane!” dando fondo ai loro polmoni, buttando al gatto dei pezzi di pane. Nel gatto fu grande la sorpresa: del dubbio fu più forte la paura e se la diede a gambe e fu resa fine lieta a quella sventura.

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ph Fabio Monchelato

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IL RIFIUTO Uno splendido pavone girava per la campagna; mostrava le sue penne, fiero e in pompa magna; da tutto il suo seguito riceveva adulazione; beccava e paupulava sempre al centro dell’attenzione. Un giorno nel cortile, vicino ad una serra vide una talpa timida in un mucchietto di terra: “Cosa fai nascosta, al buio, nelle gallerie? Vieni alla mia festa: faremo grandi pazzie!” “La luce, sai, m’acceca e manca l’abito per l’occasione; quello che chiami festa, nella folla è confusione” disse la talpa timida al suo interlocutore. “Non averne a male, non averne rancore”. “Al sole e fra i fiori è bello il mio successo: con soldi e tanti amori, qui tutto è permesso” rispose irritato il pavone per quel rifiuto e perché il suo invito non era piaciuto. “A me il tuo successo proprio non interessa, evito sempre il chiasso e tutto ciò che stressa: amo il silenzio e la vita frugale. Lo so, per te signore, io sono assai banale”. La talpa così concluse e si nascose sotto; l’incantesimo per il pavone ormai era rotto. Tornò mogio mogio al suo amato pollaio: perfino il suo successo non gli sembrò più gaio.

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INVERNALE Lenti, lenti i fiocchi silenti danzano leggeri, cullati dai venti; tenace m’avvolge la malinconia e mi sento foglia degli eventi in balìa. Traccio scarabocchi sui vetri appannati; la mente mi sfugge in meandri isolati; non sento il freddo: m’avvolge il torpore come cappa opprimente e manca il vigore. Un rintocco lontano distrae la mente; e pure la tua foto mi scopre assente; la lontananza non stuzzica il cuore; sembra che ogni cosa perda il colore. Lenti, lenti i fiocchi silenti coprono di bianco tetti spioventi; pure gli orizzonti si fanno confusi, pure i rumori si fanno soffusi. Improvviso uno squillo spezza l’incanto: la tua voce al telefono è come un canto, è tramontana che spazza il torpore, è luce e speranza che dà vita alle ore. Mi guardo intorno, riordino i pensieri, e la malinconia mi sembra di ieri ma ancora lenti i fiocchi silenti non più ora gelano i miei sentimenti.

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IRENE (PACE) Irene vive sola, ma dove non si sa, seppur in molti la cercano per strade e per città. Irene non ha casa e a chi le offre un tetto esige dedizione, un fiore e il rispetto. Irene ama i colori, si veste d’arcobaleno; rifugge le bufere: ama solo il sereno. Non ama le armi e neppure chi le usa, seppur spesso in suo nome si lotta con qualsiasi scusa. RIT. Irene, Irene, che cosa c’è di strano, se anch’io mi scopro a chiedere la tua mano? Irene, Irene, fin dai tempi remoti son molti, ancor pochi, gli amanti a te devoti. Potenti e mercanti le offrono grandi doni, ma dentro quei pacchi spesso ci son carboni. Giustizia e libertà di lei sono gemelle e nel suo sorriso scintillano le stelle. Irene ama il silenzio e odia i frastuoni; Irene porta in dote un baule di doni per chi la chiede in sposa e ne difende il nome, per chi per conquistarla ha pagato un costo enorme. RIT. Irene, Irene che cosa c’è di strano se sono in molti a chieder la tua mano. Irene, Irene, incanta il tuo bel viso: in chi ti ama risplende il tuo sorriso. Irene pianta olivi e ne dispensa i frutti, lei ama chi la ama: è fedele a tutti. Irene non ha età: dalle ceneri rinasce; lei spesso suona l’arpa: la musica le piace.

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LA CIOCCA Co' la luna giusta e coi primi calori a on po' de galine ghe vegnea i bojori e cussì col tempo le diventava ciocche e sora el cucio stasea giorno e notte. Dopo se sciegliea la cioca pi’ giusta e con bona paja se impienava 'na cesta, e con on punaro con on galo bon se scambiava i uvi par l'incubasion. In te on posto tranquilo se metea a coare, se dava da bevare e tanto da magnare. Dopo tre setimane nassea i pulsini; coi uvi slossi xogava i bambini. Par i pulsini 'na speciale pasta se pareciava coi radici trità e quando i pulsini xera on po’ grandeti i Ii molava in corte e Ii tendea i tusiti. Qualche dona, po’, la crigola usava e cussì i pulsini vissin i restava: bisognava star tenti ala volpe e ala poja e se tegnea serà su con l'erba moja. Nel punaro ogni sera i pulsini se contava e on po’ al di la cioca galina tornava. On po’ ala volta cressea le greste e qualche galeto se fasea par le feste.

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LA FOGARA El riscaldamento co jera picoleto se fasea con la stua o col caminetto, ma nele camare se batea broche, e anca le querte le jera poche. E par riscaldarse a ora de sena, se metea la monega nel leto de pena e pai poariti nel letto de scartossi, dove i gnochi i macava i ossi. E legna bona se mettea nela stua parchè de fora l’aria jera crua. E quando le bronse le jera pronte ne la fogara s’in metea tante. E se querseva le bronse de sendre neta, se corea in camera proprio de freta, se alsava le querte, la fogara se infilava rento la monega la se riparava. E alle sinise se stava assai tenti, se ripiegava le querte con sesti lenti; se fasea filò o se cantava el tarseto finchè jera ora de nare in leto. E se cavava la monega e la fogara se tegnea in camara che jera na giassara. Nel cucio caldo se se infilava veloci, se girava el fianco e se sarava i oci.

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LA LUCCIOLA Una giovane mosca nelle notti estive attorno ad un lampione ronzava fastidiosa: “Perché della luce noi siamo prive?” ad un’amica lucciola chiese invidiosa. “La mia luce è solo d’amore messaggio” rispose la lucciola alla mosca insistente. “E ci è data alla fine del terrestre viaggio per dare alla specie un futuro decente. Le luci moderne a cui tu ronzi attorno ingannano molti della mia famiglia; il tempo è breve: sol qualche giorno, per cui qualcuno abbagli piglia!” La mosca risprese: “Ma dammi il segreto, te lo pago bene e ne farò buon uso”. “Far luce di notte non è atto discreto” rispose la lucciola con fare confuso. E per dar retta alla mosca invidiosa la lucciola abbassò la sua vigilanza, e fu facile preda nella notte tenebrosa, mentre di fiori arrivava fragranza.

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LA PECORA RIBELLE Una pecora bianca e un po’ ribelle assai stanca del noto conformismo cambiò il colore alla sua pelle, volle dare un taglio al nomadismo. Nel bosco andò a vivere da sola, lontano da ovili e da pastori; con prati e sorgenti faceva la spola tra armoniosi silenzi e soavi odori. Un giorno poi un terribile ululato le svelò che non era tutto paradiso; si nascose in un casale diroccato: ma d’aiuto a chi mandar l’avviso? Pensò ai suoi cani, agli amici pastori, ma l’orgoglio impedì ogni chiamata. Col tempo aumentarono i timori e l’autunno si presentò con una brinata. Poi l’inverno complicò ogni esistenza, una grotta le fece un po’ riparo. Ormai di fieno faceva molta astinenza: il futuro le sembrò assai meno chiaro! La sua lana tinta scoloriva nel bianco, la candida neve le arrivava al fianco: d’un colpo nella grotta di lupi un branco fece strazio del suo corpo stanco.

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LA SGNOLA El tempo l'è griso e el fredo oncor lieve: i vecioti i dise che riva la neve. Se core in granaro a tore la sgnola: semo du fradei, ma ghinemo una sola. Se lustra i tondini che i vaga a rasso, se neta i mauni e i se onxe de grasso. E dopo la scola a nemo a sgnolare, ma prima el posto bisogna catare. Se va nela strada che va al cimitero, gh'é la pista pì longa, ma gh'é on pensiero: che ghe sia l'omo che non lassa passare, perché col giasso lo femo sbrissiare. Se gnola a pesse e a chi riva prima; se fa timon co la scarpa e no gh'é sciolina. Spesso se sbanda e se va fora pista o se investe on palo sconto ala vista. On puchi ala volta se se cata in tanti: se se giassa le man perché manca i guanti. Ogni tanto par pausa se fa anca i stampi in te la neve fresca in meso ai campi. E verso sera se xe tuti bagnà e cussì a casa ne toca tornar: se ciapa parole anca dai genitori, e anca le bote fa sentire i dolori.

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LA LUCE La luce s’è spenta fra le ombre, s’è riaccesa più intensa nei cieli; in una tiepida sera di dicembre la stella brilla ora senza veli. E fu lungo il sofferto calvario, che nell’Alto trovò il sostegno ed è madido il bianco sudario di sorriso, che d’amor è segno. E la carne, tempio e prigione, offerta di quotidiano sacrificio diventò pegno di espiazione, che a tutti offrì beneficio. E la fede che smuove le montagne in te trovò saldo baluardo, si temprò fra umane magagne; ebbe forza dal divino sguardo. Molti i petali sparsi nel cammino verso l’altare dell’ultimo passaggio; del tempo facesti dono, mai bottino, la preghiera tua compagna di viaggio.

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L’ALBA Quando nell’alba vedrai la tua strada, quando al tuo fianco vedrai la tua ombra, ogni sospiro riprenderà forma, che alla tua terra ridona i colori. Quando nel cielo vedrai il tuo futuro; quando nel solco riporrai le speranze, tutto sarà come una bolla, che il tuo mondo avvolge di luce. Il muschio dal sasso spreme la vita, l’iridea rugiada feconda i fiori e nel ritornello dei tuoi ricordi palpita un seme di primavera. E’ un’altalena il canto del cuore nei mari aperti di una stagione e mentre il gallo lancia la sfida le tue forti braccia s’inarcano al cielo. Irrompe radioso il sole da est e annulla la grigia foschia della valle; negli occhi la luce riporta la gioia, che le tue membra ristora e rinforza. Il muschio fiorisce sul sasso rugoso, cullato dal canto di uccelli nascosti e la paura dell’ombra che fugge, cede il suo posto alle mani callose.

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LA SERA La sera arrossisce in silenzio, cullata da fruscianti lamenti e febbrile la malinconia strizza il suo occhio di spia. Così nudo, delle vesti spogliato, non più regge al confronto del tempo, non più regge l’animo incerto al sussurro che muove le cose. Così dimensione riprende la distanza fra l’uomo e l’azzurro ed il vino, i sogni od il gioco sono paludi per chi è solo. C’è chi scopre nel letto la culla, che per altri diventa una tomba, mentre avanzano invadenti le ombre, infestate di languenti presagi. La sera arrossisce in silenzio tra sussulti d’una mesta agonia ed intanto riprende vigore la speranza per un’alba più viva. La fronte chinata e pensosa nell’intimo ricerca la luce e le membra del sudore sfibrate nel sonno ritrovano forza.

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L'ALTRA FACCIA Cosa t'importa se cambia il tempo, tanto, tu resti chiuso qui dentro; cosa t'importa se cambia il vento, se nulla cambia in quello che hai dentro. Dietro la maschera di un fantoccio si nasconde un dito di muffa e nei suoi stracci pulsa rancore tutta l'angoscia di chi li ha indossati, tutta l'angoscia di un cuore infelice. Dalla finestra io resto a guardare, chiudo la porta, non voglio sentire. Là sulla strada io vedo sfilare la solitudine che fa impazzire. Cosa t'importa chi tende le mani: non ti riguarda, hai già da pensare, hai una famiglia, un lavoro, un domani e chi di dovere dovrà procurare. Dietro il sorriso brandisce il pugnale chi nella vita vuole strafare e non importa se lascia feriti lungo i deserti sotto il sole infernale, nel lavoro di sempre o sul ciglio stradale. Dalla finestra io resto a guardare: salvare la faccia é il primo dovere per non turbare il tuo piccolo mondo che ogni tanto riemerge dal fondo.

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L'UOMO DI GESSO Usciamo insieme dalla porta vecchia per prendere la strada verso il mare. Lasciamo spegnere il fuoco del presente: sarà domani forse meno duro? Gli amici sono sfollati come neve al sole delle prime avversità, ma l'uomo di gesso sul portone ci insegue con curiosità, ci scruta con ferma austerità. Sull'altare della vita pongo fiori, avvizziti ormai dalla mediocrità e cerco la chiave del mio tempo alla luce di una nuova libertà. Usciamo insieme dalla porta vecchia, tagliamo le catene dei ricordi per riscoprire la voce delle cose, per ripulire il volto dalle muffe. E siamo soli come rinnegati, se non restiamo più al vecchio gioco, ma l'uomo di gesso sul portone rientrare, poi, lui ci farà? Nel tempo egli giudice sarà! E l'uomo di gesso é tutto solo, non indossa vestiti né ornamenti; nessuno mai la sua voce udì, ma i suoi occhi fissano insistenti.

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MACHINAR FORMENTO Con el falceto el formento se taja, se imucia e se liga la faja; dopo la se mete a far le croxete: e fajare in contrà se fa ben strete. Co riva la machina par machinar formento in corte se smove on gran movimento: par tuti ghe xé qualcossa da fare, quando sciopetando parte el tratore. Chi controla i sengioni, chi infila la faja; chi rincura el pajolo, chi imbala la paja. Chi i sachi pieni porta sul granaro, chi con le bale fa un bel pajaro. Se nibia la corte de un gran polverone, le porta da bere a tuti le done. Se conta i sacchi e anca le spese: se paga el tratore, se parecia el quartese. El profumo de paja impiena la corte, in tanti i ringrasia par la buona sorte. De qua e de là le galine le raspa, e gh'é chi brinda con on gotto de graspa.

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MAGGIO 64 Presto de matina tuti fora dal leto: in ciesa de corsa par far el mocoleto. Se torna a casa par far colasion, e prima de scola se varda la lesion. A scola sereni se passa le ore, se porta le stele par farse calore. Se xuga a bandiera in ricreasion, e dopo all'asilo se fa refesion. E dopo la scola se cura i coniji, se va par moraro o dal zio par i caviji. Par l'erba par le vacche se ciapa la groja: se sta ben tenti che non la sia moja. Pì tardi se va for con le vache e fra tusi se va tuti da na parte; con la fionda se caccia o se xerca bacche, se fa mulinei o cusina petate. E verso sera tuti torna dai sui, se fa sulto i compiti e se core al fioriti. Tornando se va a cercare brigui e se fa i schersi al pì picoleti. Poco tempo ghe xe par parare el sercio par ciupa scondere xugare a primiera: prima ghe xe da netare el mascio, o da portare el late in casara. E dopo cena se va tuti in corte, se xuga a querceti, po' se canta el tarseto, e con vien scuro se va tuti in leto, con qualche xugheto messo da parte.

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'NA VOLTA 'Na volta i noni contava le storie de lupi, de anguane, de fate e memorie in stala o in camara prima de dormire e i nevodeti tanto fasea divertire. 'Na volta le storie de la tradision dal pare al fiolo in ogni occasion se tramandava par ogni mestiero e i segreti così restava par intiero. 'Na volta le robe nasea pian e se pensava con calma al doman e se fasea tuto par tradision, ma par i campi se cantava canzon. 'Na volta ogni roba par la so stajon se fasea calmi, sensa complicasion e nell'ingenuità se vivea sereni ma i core de pace i jera pieni. 'Na volta nei campi se vardava la luna e cosi de note se tendea la cuna e se spetava anca la Providensa quando de na roba non se podea far sensa. 'Na volta le robe le nasea pian e se pensava sereni al doman, ma chi il futuro volea cambiare dala so tera dovea migrare. 'Na volta le tosé co jera da mario pareciava la dote col nisolo fiorio; le smorosava in stala o in cusina ma soto i oci de sorela o cugina. On po' de nostalgia a volte me vien parché de presia go el cor sempre pien. Par un po' de calma par tirar il fià ora bisognaria qualcosa cambiar. 64


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NON E’ PIU’ TEMPO Ho chiesto ad un fiore di prestarmi il suo profumo: volevo farne dono a chi profuma la mia vita. Ho chiesto ad una farfalla di prestarmi i suoi colori: volevo farne dono a chi colora i miei giorni. Ho chiesto ad una stella di prestarmi la sua luce: volevo farne dono a chi dà luce alle mie notti. Ma ...... non è più tempo di satiri e sirene, ma non mi bastano robot e microcips; non è più tempo di fiabe e di romanzi: ora è tempo d’estate, ora è tempo d’amore. Ho visto una rosa sbocciare al primo sole: volevo farne dono al sole del mio cuore. Ho visto un piccione corteggiare una colomba: volevo imitarlo per farti mia regina. Ho visto un ragazzino parlare al suo computer: il vuoto dentro gli occhi e tirato il suo sorriso. Ma ...... non è più tempo di fate e di chimere, ma non mi bastano robot e microcips; è sterile il passato se è gelido il presente, ma ora è tempo d’estate, ora è tempo d’amore. Ho colto il sorriso in cuori innamorati: ne ho fatto dono a chi scorda il suo cuore. Ho colto un’emozione per un primo vagito: e un cuore di silicio s’è sciolto come neve. Ho colto una speranza in chi segue nel tempo: un cuore dolce e tenero abbia sempre gradimento!

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NOSTALGIA Guardo lontano il tramonto infuocato, le perle filanti s'accendono nel cielo: nel cuore una stella s'é spenta già ieri nel groviglio stregato di molti pensieri. Ricordi la sera a giocare in cortile, il parlare d'amore e di fiori d'aprile, di api operose alla ricerca di vita nella nostra infanzia nel tempo svanita. E’ stato un bel sogno dalle tinta sfumate, dissolto nel fuoco di un'arida estate, respiro di vita strozzato a metà in nome di quale, non so, libertà. Non tengo rimorsi e nemmeno rancore per te che sol ieri parlavi d' amore: la luce s'é spenta or dentro il mio cuore, s'é chiusa la porta sul mio dolore.

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OH TU CHE VIENI Oh tu che vieni da Betlemme, cos’è successo da quelle parti? Hai visto i pastori andare alla grotta? E’ vero che c’era una stella cometa? “Certo, che ho visto quello che chiedi: è nato un figlio a Giuseppe e Maria, e c’era un bue e un asinello, e gli angeli in cielo cantavan così: “Vi annuncio, pastori, gioia assai grande, oggi ci è nato il Salvatore. Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace agli uomini che Egli ama.” Oh tu che vieni da Betlemme, cosa si dice di quel bambino? Cosa ne pensa il re Erode? E’ vero che arrivano i saggi da Oriente? “Si dice che Erode è molto irritato, perché i Re Magi han detto che il bimbo un dì sarà Re di tutta la terra e gli angeli in coro gli cantan così: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra a chi Egli ama. Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra a chi Egli ama.” Oh tu che vieni da Betlemme, dimmi la strada che porta alla grotta, non porto doni; ho aperto la porta vorrei anch’io cantare con gli angeli: “Gloria a Dio…”

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PORTIERE La notte vedo gente che va sempre di fretta; c’è poi chi sempre aspetta con la sua faccia assente. Il tempo scorre piano per chi è nell’attesa, per gente mai arresa con la corona in mano. Il vagito di un bambino illumina la notte, chi piange lì vicino per le vite interrotte. Portiere della notte, portiere di ospedale: ci passa tanta gente, chi sta bene, chi sta male. Poi uno squillo chiama, qualcuno chiede lumi, uno smaltisce i fiumi di ciò che più ama. Si sente una sirena, che arriva in tutta fretta, poi uno corre di lena con in mano una poveretta. La gente va e viene in mezzo a tante pene: chi piange, chi sorride, chi lancia le sue sfide. Portiere…

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PORTINAIO

Sembra un laoro da tegner caro proprio queo de fare il portinaro. Portiere de giorno, portiere de note te ghin vedi de crue e tante de cote.

Molto spesso al posto operatore el telefono sona a tute le ore. Vietato l’ingresso ai non adetti ma non ghi né uno che lo rispetti.

Tutti i pensa, se sa, che l’è gran faticoso fare el portinaro sensa essere curioso. Tutti i domanda a n’altri information che pì spesso n’altri ghemo occasion.

L’alarme sona proprio nei momenti in cui ghe xe gran incasinamenti. Così allo sportello ghe chi commenta: “‘sta burocrazia l’è sempre pì lenta”.

Ghe chi vole i esami fora orario e se non te ghe li dè, te impreca un rosario. Qualcuno se rabia se non te rispondi subito se no te porta un cuscino antidecubito.

All’arrivo ‘na volta che xera la videocassetta, deso invese se cata sempre uno che speta de ‘nare de corsa soto le querte o in qualche caffetteria da poco verte.

El pomeriggio l’è longo, el tempo non passa, così ghe pensa i duturi con l’automatica cassa.

Par roba semplice oppure tragica tutti i pensa ca ghemo la bacchetta magica. Tute le lamentele che riva in portineria se fuse carne se forniria una macelleria. Le ciave l’è un problema mia da poco par chi le usa xe solo un gioco. Tanto se per caso perse le sia la colpa xe sempre de la portineria.

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RESTAURAZIONE Nel grande pollaio nel piano un tempo crescevan malcontenti chi ha il potere calcava la mano: una congiura si attendeva a momenti. Il gallo capo di quel pollaio decise di spartire il potere: per sé tenne il salvadanaio ed il ruolo di gran paciere. Ai suoi subalterni più stretti offrì il ruolo di riproduttori per realizzare i progetti a loro dati da umani gestori. Alcune galline più attive gridarono che era una truffa, proposero delle alternative ma fra loro sorse una baruffa. Una giovane chioccia agguerrita all’umano chiese udienza: voleva cambiata la vita, l’incubatrice fu la preferenza. Le galline più fortunate per non perdere il poco ottenuto si fingevano comari sbadate per ingraziarsi il grande pennuto. E per i pulcini un recinto tolse il ruolo alle chiocce: bello, pulito e distinto, ma freddo, seppur con le docce.

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ROGASSION Presto de matina co jero picoleto i me svejava par far el mocoleto e a majo se nava a far le rogassion e par tuto el paese se caminava in procession. Fra le contrà e nele strade fra i campi se disea litanie e se fasea tanti canti, e se pregava par la bona stajon, e se benedea le coltivassion. E qualche fameja ne dasea ristoro, o col tempo bruto ne dasea riparo. E anca el prete scongiurava sorprese par cussì avere pì ricco quartese.

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RUGIADA La rugiada irrita gIi occhi col riflesso dei raggi nascenti: chino il capo e guardo il mio passo tra gli aspri sapori terrestri. Sulle spalle ancor pesa il ricordo della notte passata a pensare quale senso la vita può avere, se si é soli anche a sognare? Una rondine intercetta un insetto e l'inghiotte senza che se ne accorga: una vita per un' altra ora muore, già, i deboli ci rimettono sempre! La rugiada scintilla tra i fiori, tra le foglie incanta gli uccelli e poi evapora come un'illusione, quasi voce verso il cielo lontano. L'armonia che s'espande d'intorno trova sterili le mie emozioni; dentro pugni stringo la rabbia e sento il cuore pulsare da solo. E la vita continua il suo corso, mentre il sole s'innalza nel cielo: una voce mi chiama, é un bambino, che mi parla dei suoi sogni segreti.

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SCARTOSSARE Le note se slonga nela nibiosa stajon: se se cata a filò, come tradision de stala in stala, veci e boce tuti de lena se scartossa panoce. E se rincura i pì bei scartossi cussì Nane el se fa anca materassi: sì, mi lo so, se se maca i ossi, ma sempre mejo de dormir sui sassi. I altri scartossi a le vache i se dà, nele seste le panoce le vien buttà e co l’è piene le se porta in granaro: on posto ben suto e dai sorxe al riparo. Tra ‘na ciacola e l’altra riva el brulè, e nose e nosele, par i boce el tè. E se fa i cunti sula stajon e par l’inverno se fa prevision. E qualche vecioto ghe fa el leto a le vache, che butà sull’andio le rumega strache. Le done fa pressia sul sorgo da sgranare par on panaro de polenta presto pareciare.

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SILENZIO Amo il silenzio, in cui l'intimo é voce, ove il fremito zampilla come sorgente pura. Amo il silenzio, che giustizia la folla, che incenerisce l'anonimo, il pagliaccio di turno. Amo la solitudine del vero silenzio, moglie e amica, sorella e, alle volte, nemica ove posso amare senza chiedere permesso; ove posso sbagliare senza patirne il perdono; ove posso donare tutto senza averne ricambio. Amo il silenzio, quasi sogno vigliacco, ove l'uomo stanco ritrova la sua sorte. Amo il silenzio, ove l'intimo è vero, è croce e rifugio nel romito cammino. Amo…

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Robert Doisneau -​ Jacques Prevert at a coffee table​ , 1955

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STORIA DI UN CONTADINO Ormai è quasi sera, e sale una preghiera di un uomo stanco, chinato sul suo banco. Un dì nacque un contadino, ma non fu mai bambino ed il viso suo rugoso non ebbe mai riposo. Domò la terra e i tini, fu il cielo i suoi confini, ma il tempo lo lasciò solo, come allodola abbattuta al volo. Fiorì i solchi di messe con autunni di scommesse, e l’occhio suo profondo guardò al re del mondo. Ma ormai è quasi sera, della sua vita di preghiera e son stanche le sue spalle, come il coro della valle. Ormai spenti gli occhi suoi più non guidano i buoi, ma profumano di sorriso a due passi dal Paradiso​ .

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ph Fabio Monchelato

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SULLA SOGLIA Sulla soglia della vita esiti un po’ e poi scruti il mondo che ti attende. E insegui gli arcobaleni della vita e prepari i tuoi bagagli per il viaggio. Ora il tuo mondo scintilla di colori, ora le strade ti sembrano labirinto. Ciò che lasci non ti dia rimpianti: il futuro è nelle tue mani. Dimmi quante stelle ha il tuo cielo; dimmi quanti fiori ha il tuo giardino; dimmi quante porte ha la tua casa; dimmi quante stagioni ha la tua vita. E io vorrei dirti tante cose, ma temo di essere invadente: ciascuno deve fare le sue esperienze; nessuno fa niente per niente. Sull’altare della vita tu porti fiori, ma non mollare nei momenti dell’affanno: la prova tempra il tuo braccio; ogni cosa della vita ha il suo prezzo. Molte le vie che ti aprono alla vita, e non cedere al canto delle sirene; molti cancelli da aprire nel cammino: le scorciatoie non sempre son proficue. E tu dimmi quale stella segui nel cielo; quale fiore coltivi nel tuo giardino; da quale porta si accede alla tua casa; quale stagione vive la tua vita. E io vorrei…

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ph Fabio Monchelato

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TI MANDO Ti mando una colomba con l’ulivo dentro il becco; ti cerco fra la gente che ha paura del silenzio, che non crede ad un sorriso, che non sappia di successo. Ti mando una farfalla dai sogni variopinti, che plani volteggiando nelle bufere della noia, che cerchi ancor l’azzurro a dimensione d’uomo. RIT. Ti mando tanti fiori colti nel mio giardino; ti mando arcobaleni apparsi nel mio mattino; ti mando una cometa, che ti porti il mio messaggio; ti mando un tralcio d’edera foriera del mio abbraccio. Ti mando i miei autunni domati dall’angoscia, nel tempo degli addii gelati dalla brina, nel tempo del ritorno al tepore del focolare. Ti mando la speranza, marcita assieme al grano e porto una pagliuzza al nido, fra le fronde lontano dai frastuoni e da lucciole incantate.

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ph Fabio Monchelato

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TUTTI DA SOLI Sul sentiero segnato dai padri freme l’ansia per una certezza, ma rinasce la mania di grandezza, che tradisce i sofferti sudori. Insicuro ti ammiri allo specchio: rimpiangere è come rubare il bicchiere di vino ad un vecchio, che aspetta il momento di andare. Tutti amici quando c’è da brindare, tutti eredi quando c’è da spartire, tutti compari quando c’è da pranzare: resti solo quando c’è da soffrire, resti solo quando c’è da lottare! Sulla piazza tu spari sentenze, poi nel letto ti scopri imputato e cerchi nel sogno conforto per guarire ferite speranze. Di un’idea poi ti fai paladino per ridare un senso alla vita, ma riemerge alle volte il bambino od il vecchio dalle speranze sopite. Tutti …

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ph Fabio Monchelato

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UN TEMPO Un tempo cantavano i figli del sole: erano voci, sussurri, perfino parole, ma proprio nel tempo in cui è tutto l’amore essi muoiono martiri di un mondo migliore .. Amici, fratelli, compagni di viaggio, non ancora comprendo il vostro messaggio, ma cerco nel vento la vostra canzone, che guida i passi della buona stagione. Un tempo sognavo con voi la mia vita ed ora ci unisce una speranza ferita. Non sento più il canto nel viottolo ombroso, né brezza o profumo addolcisce il riposo. Un tempo baciava le labbra il sorriso cogliendo le viole od il fiordaliso. Il vento ispirava ai vecchi le fiabe, seduti al sole nelle sparse contrade.

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VENDEMA El tempo l’è calmo e xe tanta la voja: par prima se mete la tina in moja. Sula groja se liga sestoni e scale, seste coi rampini, i derli sule spale. La ua pì bela se tegne par le arele: magnar qualche recio fa ben ala pele. Se cata su i graspi e se impiena la sesta, e se controla ben che gnente ghe resta. E cussì quando i sestoni xe pieni nela tina i se svoja, se rincura anca i grani. A la sera coi piè la ua se mosta, se serca che le graspe nel mosto le resta. On peso sul quercio se mete sule graspe; se maca ogni sera in tute le parte. Co’l vin l’è pronto dala canola dela tina el se saja a travasa rento la sotospina. Coi sici el vin nei vedui se svoja, nela tina le graspe le se lassa in moja o par far graspa o par far graspìa, e con tuti contenti la vendema l’è finia.

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VIVA LA MOTO Mi vui la moto; mi vui el motorin; mi vui la vespa; mi vui la moto vecia… La me moto la va pì forte anca sa gò le rue on po’ storte: la fa i otanta solo in prima, sa meto quarta la me rovina. Viva la moto, viva la moto Se fila sicuri e se va dapartuto. Mi e la me moto semo du corpi e on motore: semo sempre tacà al distributore…non so mia parchè! Mi go solo el motorin ma gò cambià carburatore: el borlìo del motore i lo ciapa sol par casin. Viva la moto, viva la moto; no posso mia tanto, ma gò on 48. Mi go na motorela: la beve pexo de on seciaro e la strada che porta a l’ostaria la la conose mejo che no casa mia. Mi gò comprà na moto vecia, mi la gò messa tuta a novo, e desso la va anca par el fogo e la corre come na frecia. Viva la moto, viva la moto, se fila sicuri e la va anca in te el fosso.

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ph Fabio Monchelato

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VITA (RICERCA) Vita, vita mia, ti vengo a cercare fermati un momento: vorrei conoscerti di più. Ho cercato in molti libri di filosofi e di sapienti il senso della vita, il senso della mia vita: molte risposte ho trovato, molti imput ho avuti, ma non l’idea giusta, quella più adatta a me, quella più adatta a me. RIT. Giorno dopo giorno la vita fa il suo corso e cerco con perizia di leggerne il percorso. Ho chiesto molte volte a mercanti e a potenti il prezzo della vita, i costi della mia vita: ne cercavo l’essenza ed in grande abbondanza. Di offerte ne ho avute molte, ma non quella giusta, quella più adatta a me. Vita, vita mia, ti vengo a scoprire: fermati un momento per gustarti di più. Ho chiesto in molti modi a dei saggi e a dei saccenti le chiavi della vita, le chiavi della mia vita: molte le porte aperte, molte le porte chiuse, ma ho smarrito la chiave, proprio la chiave giusta, quella più adatta a me. RIT. Giorno dopo giorno la vita lascia il segno e cerco con pazienza di esserne io degno. A maghi e a indovini ho chiesto di interpretare il futuro della vita, il futuro della mia vita: molti gli oracoli uditi, molte previsioni disparate, quasi sempre mendaci, e poco adatte a me, per niente adatte a me.

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ph Fabio Monchelato

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E’ TEMPO DI ANDARE E’ tempo di andare, dove non so; è tempo di andare: sognare si può, sognare un futuro senza le armi, dove la guerra non porti più affanni, dove la guerra non fomenti gli inganni. E’ tempo di andare, con chi non so; è tempo di andare: cercare si può, cercare una terra anche non promessa, dove il profitto non crei più la ressa, dove il profitto non sia solo scommessa. Questa è speranza, forse è utopia, ma questa idea sarà anche mia; forse non contano più gli ideali: si pensa di più alle cose banali. E’ tempo di andare, quando non so, è tempo di andare, sperare si può: sperare in un verde un po’ più pulito, dove chi inquina non resti impunito, dove chi inquina non ne faccia profitto. E’ tempo di andare: il rischio c’è; è tempo di andare: lo so com’è, so come un’idea poi vada in fumo, quando ogni cosa diventa consumo, quando ogni cosa poi perda il profumo. Questa è speranza, senza frenesia; questa proposta non è solo mia: forse non contano più gli ideali; si mira di più alle cose venali.

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ph Fabio Monchelato

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GRAZIE RIT: Grazie per i tuoi doni grazie per il tuo amore grazie per il Vangelo, grazie, Signore. Grazie per la terra e il cielo, grazie per i frutti e i fiori, grazie per gli esseri viventi, grazie per tutto il creato, Signore. Grazie per la vita e il tempo, grazie per il lavoro e la famiglia, grazie per chi é testimone, grazie per la tua Chiesa, Signore. Grazie per chi dona il suo tempo, grazie per chi porta il tuo amore, grazie per chi opera la pace, grazie per tutti i tuoi Santi, Signore. Grazie per il tuo Natale, grazie per la tua Missione, grazie per la tua Passione, grazie per la tua Resurrezione.

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Postfazione

"Durlo 86" è partita nel lontano 1978 da una semplice domanda di pochi giovani radunatisi in piazza: "Cosa possiamo fare per il nostro paese che si sta spopolando?". Il fondovalle, con i grossi centri di Arzignano, Montebello, Montecchio Maggiore, allora era nel pieno sviluppo industriale e nell'entusiasmante ripresa postbellica, ove tutto sembrava possibile, tanto da sembrare vivere la febbre dell'oro racchiusa nelle fabbriche e nei laboratori che spuntavano, per incanto, quà e là come i funghi offrendo lavoro, attirando giovani volenterosi che producevano ricchezza e benessere, al contrario della terra che richiedeva sacrificio e sudore senza ripagare le grandi fatiche. La terra non era più l'unica fonte di sopravvivenza, surclassata dall'industria che pagava di più, pagava meglio, pagava sempre e con qualsiasi stagione. Che senso aveva continuare a vivere di stenti, rimanere fedeli al proprio paese, privare i figli di un futuro e di un futuro migliore? Solo gli anziani profondamente radicati al loro suolo, come i secolari castagni, non abbandonarono quel cielo e quella terra che Ii avevano visti crescere e lavorare, da mane a sera, solo per sopravvivere. Il loro mondo, racchiuso tra le cime delle montagne e suddiviso dalle valli, appariva ai più un mondo angusto, isolato, povero, non più sostenibile e proponibile ai giovani ma amato dagli anziani perché era il mondo dei loro avi, il mondo della loro giovinezza, il mondo ricco di sacrifici e di valori che salvaguardava l'integrità della famiglia, la condivisione e la comunicazione. Altro importantissimo aspetto da sottolineare è la costante collaborazione dei giovani che hanno saputo superare divergenze e divisioni per mettere a disposizione della comunità idee e capacità che hanno arricchito il paese del campo di calcio, delle aree di sosta, della Festa delle Castagne, della marcia di luglio, della sede dell'Associazione, delle numerose manifestazioni estive che sono piacevoli attrazioni per il piccolo centro come lo sono le numerose mostre di pittura. Ogni cammino necessita di pause e di riflessioni che ci permettono di verificare il percorso fatto, di puntualizzare gli obiettivi, di rilevare gli errori, di finalizzare gli interessi e di constatare l'adesione di chi ci segue. Da più di trent'anni ascoltiamo e raccontiamo la storia delle nostre contrà: storia di paese, se vogliamo, piccola storia ma storia di vita vissuta, di sacrifici fatti, di dolori sofferti e di lacrime versate. Storia quotidiana di piccoli uomini e di piccoli fatti che per secoli si sono succeduti nel nostro paese evidenziando una comunità attiva, dedita al lavoro cosi profondamente da coniare l'espressione: "el laora sponsar", ricca di fede, come dimostrano i tanti religiosi che qui sono nati e qui sono stati cresciuti, aperta allo studio e al sapere come pochissimi altri centri. Volonterosa e solidale, sapeva fare delle pene di una famiglia la sofferenza di un paese, come testimoniava la massiccia partecipazione della gente a qualsiasi morte. La casa del defunto era riempita all'inverosimile nella recita del rosario; tanti si offrivano a vegliare il morto disteso sul proprio letto come a sottolineare la continuazione di un semplice vivere e di un fisiologico morire; tutti poi partecipavano alla messa funebre come fosse un personale saluto che sottintendeva un più o meno lontano arrivederci. Di tutto il paese erano anche le gioie, come dimostravano le trionfali accoglienze dei sacerdoti appena ordinati che venivano a celebrare la loro prima Santa Messa nella Chiesa che Ii aveva battezzati e tra la gente che Ii avevano sostenuti con la preghiera, l'incoraggiamento e la venerazione. La contrà e la strada erano addobbate di bandierine, di evviva, di archi trionfali fatti con le frasche di pino e la piazza gremita di gente si apriva in doppia fila, alla comparsa del novello sacerdote, quasi a costituire un caloroso e affettuoso abbraccio al rappresentante di Cristo. Vi era una grande solidarietà, sostenuta dalla diffusa povertà, che si manifestava nelle necessità. Quando moriva una vacca perché "imbudata" o "sgiorata" il padrone passava di casa in casa offrendo parte della sua carne, tutti, secondo le possibilità, ne acquistavano un pezzo per condividere, con la sfortunata famiglia, la malasorte di aver perso un prezioso capo di bestiame, allora indispensabile alla sopravvivenza. Ricordando come agli inizi si pensasse ad un opuscolo quanto mai scarno, ideato solo per la pubblicità dei pochi sponsor che allora ci sostenevano, apprezzo sempre di più la fortunata intuizione di arricchire un anonimo libretto in una avvincente storia a puntate che, di anno in anno, ci ha svelato il ricco modo di pensare, di credere e di agire dei nostri avi che ci avevano lasciato in eredità pochi beni materiali e di scarso valore: una rivetta, un pezzo di bosco, una punta di montagna, ma una grande ricchezza morale ed umana: la radicata fede nella Provvidenza, la laboriosità, l'onestà, la sacralità della parola data, la compassione e la condivisione. Ricordo lo stupore di quelle prime interviste che mettevano in soggezione anziani che mi conoscevano da sempre, che conoscevano i miei genitori, i miei nonni e, qualcuno, anche i miei bisnonni. Come conoscevano i miei avi conoscevano anche i progenitori degli altri abitanti di Durlo come fosse naturale elencare le genealogie non tanto di persone morte e dimenticate quanto di persone vissute, e in parte viventi, in un pezzo di strada, in un muro, in un tipo di lavoro, in un'idea, in un modo di dire e di fare. Ho cosi scoperto lavori antichi ormai tramontati: le carbonare, i calsinari, l'allevamento dei cavalieri, il trattamento della lana e le lanare, la ferratura dei cavalli, il maio. Un vero scrigno di lavori, di vita, di mondi diversi e difficili offuscati dal progresso, superati da un benessere materiale non supportato da un'appagante vivere umano: non c'è più vicinanza,

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Alberto Dalla Gassa Poesie ascolto, ospitalità, tempo da dedicare agli altri e alle funzioni religiose; come non solo non si recita più il Santo Rosario ma non si conoscono più i Comandamenti e i Sacramenti. Non avrei pensato che quel mondo mi avrebbe in seguito non solo incuriosito ma anche preso cosi profondamente da entusiasmarmi ad un vivere pieno di umanità. Tutto procedeva con il lento passo della storia: ogni generazione trasmetteva alla successiva le proprie conoscenze e i propri valori lentamente assorbiti dai giovani che imparavano prestissimo, dalle mamme e dalle nonne, le preghiere ed il Catechismo e, dai padri, il lavoro dei campi e l'allevamento del bestiame. Tutto era in sintonia con il tempo e la natura: si rispettavano le stagioni meteorologiche e quelle dell'esistenza. Vi era il tempo del crescere e dell'apprendere, vi era il tempo di agire e di ardire, vi era il tempo di riflettere e di pensare, vi era il tempo di ritirarsi e di prepararsi a quel tramonto che chiedeva a tutti conto della propria vita e del proprio operato. La vita era scandita con gli stessi orari e con gli stessi colori della giornata: la bellezza dell'alba che apriva al futuro, le meraviglie del mattino che improntava l'uomo, il sole del meriggio che impersonava la forza e l'energia della giovinezza, il sollievo del pomeriggio che faceva pregustare il termine del lavoro e dell'impegno, la quiete dell'imbrunire che allungava le sue ombre sull'assolata giornata, l'attesa della sera che preannunciava la serenità degli affetti, la meraviglia del cielo stellato, il riconciliarsi con sè stessi prima del meritato riposo che ci addentra nel sonno e nel sogno di una nuova giornata e di una nuova vita. Ben diversa è la giornata imposta dal ritmo del progresso che brucia il tempo ancor prima che venga scandito in una accelerazione tanto più veloce quanto mai assurda che toglie il sapore del vivere. Non c'è più tempo per un'infanzia gioiosa, non c'è più tempo per una giovinezza spensierata, non c'è più tempo per una maturità responsabile, non c'è più tempo per una serena vecchiaia. Non si può perdere tempo per gli altri, non si può che pensare a se stessi, vale solo ciò che guadagna ed appaga, si apprezza solo ciò che appare. L'effimero di oggi si contrappone all'essenziale di ieri: l'avere ha preso il sopravvento sull'essere. Da qui le profonde piaghe del vivere di oggi: la solitudine, l'incomunicabilità, l'emarginazione, la sopraffazione, l'isolamento, l'angoscia, la depressione di essere un anonimo ingranaggio nella produzione globalizzata. La profonda differenza tra il vivere di ieri ed il vivere di oggi è che allora c'era una povertà materiale ed un benessere morale. Oggi, al contrario, c'è un benessere materiale caratterizzato da una povertà morale. I racconti dei nostri avi sottolineano proprio questo fondamentale aspetto racchiuso nella diffusa espressione che mi sentivo ripetere: "Si pativa la fame, ma eravamo felici". Forse oggi abbiamo perso il profondo significato di felicità identificato nel possedere, nell'apparire, nelle scoperte scientifiche, nel progresso tecnologico, invece che nell'amore, nella vicinanza, nella comprensione e nella condivisione. Sarebbe proprio il caso che, in senso personale, sociale ed internazionale, riflettessimo su ciò che è indispensabile ad un uomo e cosa serve per renderlo felice. Da quando abbiamo iniziato la nostra avventura questa è la seconda volta che viene interrotto il regolare succedersi del nostro racconto. La prima volta è stato l'anno 2000, al cambiamento del secolo e del millennio, quando per un senso di novità e di superficiale cambiamento si è preferito, in modo unilaterale, dare risalto a due scritti di estranei, finalizzati a se stessi, misconoscendo quanto in anni precedenti si era ricercato e valorizzato e quest'anno per fare un bilancio ed un resoconto. L'apprezzamento per quanto scriviamo è andato via via crescendo tanto che più di qualcuno si prenota "Durlo 86" dell'anno successivo, mentre altri sono orgogliosi di avere l'intera collezione che pensano di proseguire. Qualcuno mi contatta per chiedermi i numeri precedenti, altri per congratularsi, nessuno finora per rispondere agli appelli che in più riprese ho lanciato. Da tempo stiamo raccogliendo i proverbi deI nostri padri: perle di saggezze e sintesi di una cultura millenaria; filastrocche, giochi e modi di dire che sono specchio e testimonianza di un mondo che sta scomparendo. Mondo che merita di essere fissato per continuare ad essere ricordato, apprezzato ed amato per quanto sa testimoniare ed insegnare al nostro mondo, per i profondi insegnamenti di vita che può dare ai giovani e ai meno giovani della nostra e delle prossime generazioni. Un grande rimpianto mi accompagna: non aver dato più tempo alle storie che mi raccontavano, non aver parlato più a lungo con i nostri anziani, non avere ascoltato con più attenzione i loro racconti, non avere di volta in volta scritto ciò che mi dicevano. Rimpiango di aver pensato di far sempre in tempo, di essermi ripromesso di tornare il giorno dopo, senza poterlo fare, di credere che loro sarebbero sempre stati presenti e disponibili, perdendo cosi occasioni ed opportunità che ora non mi vengono più date. Troppo tardi mi sono accorto che ogni anziano è una biblioteca non scritta ma di ricordi, di esperienza di vita, di saggezza e di tradizioni. Biblioteca non stampata ma solo incisa nella memoria e come tale precaria come la salute, mutevole come il ricordo, fragile come la vita. Biblioteca destinata a chiudersi e a scomparire portando con sè, in modo definitivo, l'immenso patrimonio della vita di un uomo. Per questo, e per non dover rimpiangere ulteriormente ciò che verrà dimenticato, rinnovo a tutti l'invito a raccogliere, a trascrivere e a comunicare proverbi, modi di dire e di fare, filastrocche, giochi e lavori di un tempo. Chiunque può contattarmi 338 8252270 - ​ tibaldo.mario@gmail.com​ - Dott. Mario Tibaldo via S. Zeno, 31 - 36071 Arzignano (VI)

Mario Tibaldo

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Alberto Dalla Gassa

ph Fabio Monchelato

Questo testo ha il sapore di un cammino iniziato, la magia di un’avventura intrapresa, la bellezza di un percorso che racconta la tua vita, Alberto, e di un tempo passato ma non superato, di valori dimenticati ma non svalutati, di un lavoro e di un’onestà che hanno fatto belle e ricche le nostre contrà. Contrà in parte disabitate ed in parte abbandonate che parlano di sacrifici, di povertà e di necessità ma anche di semplicità, di donazione e di amore che rendevano saldi i legami e sacri i valori, all’insegna di una fede che apriva l’orizzonte terreno all’immensità del Cielo. Qualcuno mi chiede: “​ Chi è mai il Poeta?​ ” Rispondo: “​ Un uomo semplice che ha saputo lavorare, amare e vivere il suo tempo e che ora si trova nell’immensità del firmamento​ ”. Mario Tibaldo

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