Balarm Magazine | Idee, personaggi e tendenze che muovono la Sicilia | numero 5

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ph. Carlo Gambino e Cinzia La Mantia

LIBRI

FULVIO ABBATE “Quando è la rivoluzione”, è il titolo dell’ultimo libro dello scrittore palermitano, che racconta il ’68 con un inedito punto di vista di ANTONIO CASTIGLIA balarm magazine 28

La serena mancanza di timore riverenziale e la caustica ed irriverente ironia dell’autore, da queste senza dubbio deriva l’originalità dell’ultimo libro di Fulvio Abbate, “Quando è la rivoluzione”, Baldini e Castoldi Dalai editore, 311 pagine, in vendita a 17 euro. L’autore si cimenta con uno stile a lui nuovo e il risultato è un romanzo estremamente godibile, nel quale la descrizione dei tipi sociali, e dei personaggi - molti dei quali reali e viventi - è efficace quanto impietosa. Protagonista del libro, manco a dirlo, il periodo storico dell’ultima vera rivoluzione socio-culturale nel nostro paese, il ’68. Sulla questione se abbia fondamento o meno un certo luogo comune secondo cui in realtà ben poco sia cambiato dopo quegli anni, Abbate ha una opinione ben precisa: «Personalmente credo che col ’68 siano cambiate molte cose, innanzitutto i giovani sono diventati un importante soggetto sociale agente, si pensi soltanto al ruolo assunto nel mercato dove oggi sono i consumatori più forti. L’invenzione dei giovani si deve in senso assoluto al ’68, fino ad allora i ragazzi non avevano voce, in famiglia, nella società. E inoltre dopo il ’68 nulla è stato più nella nostra società, una serie di diritti e condizioni civili, tralasciamo se di tipo più o meno consumistico sono stati di fatto acquisiti. Basti l’esempio del sesso dopo il ’68 ha smesso di essere qualcosa di proibito». Che altro è mancato - abbiamo chiesto allora - perché il ’68 fosse la rivoluzione perfetta? «Il ’68 è stato fondamentalmente una rivolta libertaria nella quale si chiedevano più diritti individuali. Tuttavia secondo una prospettiva politico-ideologica comunista, il ’68 sarebbe dovuto sfociare in una società socialista anche qui in occidente ma questa è fantapolitica. Certo avrebbe potuto essere molto diverso ma comunque il ’68 ha significato moltissimo. Pensiamo alla moda che è un indice sensibile del costume quotidiano, prima di allora il mondo era bianco, nero e antracite, dopo il ’68 sono esplosi i colori, c’è un momento dei primi anni ’70 in cui il mondo diventa oggettivamente a colori e non solo riguardo agli abiti. Se osserviamo i filmati dell’epoca la moda di

quegli anni nella sua forma più popolare, frutto anche della cultura beat, scopriamo realmente che il mondo era un’altra cosa. Non a caso poi Bob Dylan cantava “il mondo sta cambiando, non è vero Mr Jones?”». Visto il suo status di intellettuale palermitano «fuori dall’isola», era d’obbligo chiedere a Fulvio Abbate come si vede Palermo da fuori. «Io manco dal ‘83 e pur avendo un legame familiare con la città l’ho vista cambiare a distanza. Fino al 2001 quando scrissi “Il rosa e il nero” avevo ancora la sensazione di poterla leggere, oggi per molti versi faccio fatica, è come se ci fosse stato un cambio epocale, ma questo è un fatto personale. Palermo in effetti viene vista in due modi. Come luogo meraviglioso e magico da chi non è palermitano e sa dell’esistenza di Palermo come possibilità narrativa, esistenziale, turistica. Un luogo dunque per il quale bisogna ringraziare il cielo e la storia. Tuttavia questa percezione quasi magica non tiene conto delle condizioni attuali della città, di quello che è il suo stato oggettivo dal punto di vista politico, culturale, dal punto di vista della vivibilità. La mia percezione, che è quella di chi per anni ha avuto la sensazione che la città fosse un laboratorio straordinario dal punto di vista civile, è quella che ci sia stata come una interruzione della energia vitale. Questa comunque è una condizione che riguarda tutti i luoghi di produzione culturale umanistica, comprese altre metropoli come Milano o Roma. Questa considerazione mi fa pensare a come viene narrata oggi la mafia. Oggi la televisione più che il cinema è lo strumento più a portata di mano che abbiamo a disposizione, oggi la mia sensazione è che gli unici strumenti che siamo in grado di mettere in campo siano quelli di una certa fiction, rispondenti più ad una esigenza di spettacolarizzazione, come se stessimo trattando piuttosto che la mafia una spy story, un giallo, un poliziesco. Una situazione ben diversa da quella che rivelava per esempio “Il sasso in bocca” di Ferrara, un film che suscitava riflessioni e serviva ad un progetto di mutamento civile del tessuto sociale. Questo tuttavia è un problema che riguarda tutta la vecchia Europa purtroppo». balarm magazine 29


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