Azione 52 del 27 dicembre 2022

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SOCIETÀ

Ragazzi e uso dei media digitali: sono stati presentati i risultati dello studio JAMES 2022

Silke Pan, una stella circense che splende tra trapezisti e funamboli seppur da paraplegica

MONDO MIGROS

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ATTUALITÀ Pagina 19

Termina un annus horribilis caratterizzato da pandemia, guerra e carestia. Gli auspici per il futuro

CULTURA Pagina 29

Stefano Prandi, direttore dell’Istituto di studi italiani, ricorda la figura e l’opera di Asor Rosa

Incanto e leggerezza: il nostro augurio per il 2023

Il tempo di un nuovo inizio

Proporre una sintesi degli avvenimenti è il mestiere del giornalista. Ma come si fa a riassumere 16 anni e mezzo di conduzione di un giornale, 33 di carriera, nell’articolo di commiato? Ci rinuncio, poiché le immagini del passato guizzano come pesci colorati, ognuna con una sua traiettoria, senza lasciarsi orientare verso un disegno razionale coerente. Forse perché è stata una carriera professionale dettata molto dal caso. Anche l’arrivo ad «Azione» come collaboratore esterno nella primavera del 1993.

Se l’inizio al «Corriere del Ticino», il passaggio alla radio, poi alla televisione, infine l’arrivo come redattore capo nel 2006 sono anche frutto del caso, la scelta di lasciare «Azione» è pienamente mia. Coincide più ampiamente con la decisione di smettere i panni di giornalista (perlomeno nelle forme che ho conosciuto). Non con amarezza o disillusione, in questi 33 anni attraverso tre media diversi ho visto anche molta vivacità, passione e serietà, e continuo a credere nella necessità di un giornalismo serio. Ma perché penso di aver fatto il mio tem-

po. Ora è tempo di energie nuove. Per me, di nuovi inizi.

Ho provato gratitudine per ogni esperienza professionale che ho vissuto, ancor di più per quest’ultima. È stato un onore servire un giornale che si può considerare unico nel panorama mediatico: dove si trova un editore, proprietario di un’impresa commerciale, che pubblica un settimanale di approfondimento di informazione e cultura? Un ringraziamento sentito, anche da giornalista, va quindi a Migros Ticino per aver creduto e credere nel giornale che tenete in mano.

Ma se «Azione» oggi è come la trovate, il merito è anche dei predecessori, da Vinicio Salati a Luciana Caglio, a Ovidio Biffi, che hanno costruito questa tradizione, di voler osservare la realtà con uno sguardo più distaccato dalla frenesia dell’attualità, ognuno di loro con una forte impronta personale. Per quanto riguarda questi anni, grande merito va ai colleghi con cui ho condiviso tutti o in parte questi anni in redazione, Monica, Simona, Barbara, Alessandro, Manuela e ora Romina, Natascha e Carlo (che assume

la conduzione del giornale da gennaio), cui aggiungo lo stuolo di collaboratori esterni costruito e arricchito nel tempo. Quando lasciai la televisione, approdato a Falò dopo essere passato dal Telegiornale al Quotidiano, sapevo che oltre a diventare redattore capo avrei fatto parte del comitato di direzione di Migros Ticino. In realtà non ero consapevole di che cosa significasse entrare, e come giornalista, in questo mondo complesso che risponde al nome di Migros. Una piccola Svizzera, con le sue dieci cooperative regionali e una undicesima nazionale, la Federazione delle cooperative Migros, che rispecchiano nell’essenza (non esattamente nella geografia) il federalismo che si vive nel paese. Mi sono trovato per la prima volta confrontato con un editore il cui primo interesse non era il giornale bensì le attività commerciali dell’impresa (che permettono al giornale di esistere). Lo sguardo dall’interno su che cosa significhi fare impresa è stato arricchente, tanto più nella realtà Migros, con la sua unicità, i suoi valori e la sua missione. Ho incontrato moltissime persone mo-

tivate, disponibili, competenti, intente a far evolvere l’azienda, in Ticino come alla Federazione delle cooperative Migros.

Ma naturalmente per proporre un giornale come «Azione» serve un equilibrio fra le esigenze dell’azienda e quelle giornalistiche: lo si mantiene, verso i lettori, distinguendo sempre chiaramente la comunicazione aziendale dall’informazione giornalistica. È necessaria però anche la grande volontà comune, dell’editore e della redazione, di portare avanti un simile modello di settimanale, nonostante il mondo della carta stampata viva una crisi ormai decennale: questa volontà c’è stata e c’è tuttora.

Con tutto ciò, che cosa sarebbe un giornale senza i suoi lettori? In questi anni siete cresciuti di numero. Significa che c’è sintonia fra quel che «Azione» propone e quel che vi aspettate. Lo percepiamo nelle lettere e i riconoscimenti che ci arrivano (pur consapevoli che non si può piacere a tutti e non sempre). Per cui l’ultimo sentito ringraziamento, e saluto, va a voi che leggete questo giornale. Buona continuAzione.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXV 27 dicembre 2022 Cooperativa Migros Ticino
52 ◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
edizione
TEMPO LIBERO Pagina 12
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◆ Nel’immagine, cortesemente fornita dal Museo di Leventina: Flora Pervangher, Pina Tenconi e Delia Frangi con sci e slitta, Airolo-Pesciüm, fine anni ’20. È possibile visitare anche virtualmente la mostra LET IT SNOW! dal link: https://museodileventina.ch/ let-it-snow-lassa-fiuche/

Il caffè delle mamme

Il libro Missione Parità invita ad affrontare in famiglia i temi legati agli stereotipi di genere e ai modelli comportamentali

Alimentazione e sostenibilità

Il Centro di Competenze Agroalimentari del Cantone promuove il consumo di prodotti locali con un progetto rivolto a refezioni scolastiche e ristorazioni collettive

Sempre sui social, ma sanno difendersi?

◆ Lo studio JAMES 2022 analizza l’uso dei media digitali da parte dei ragazzi tra i 12 e i 19 anni: molestie e cybermobbing continuano ad aumentare

Se lo chiedono per primi i genitori, i professori, ma un po’ anche l’universo intero. Come usano i giovani i media digitali? La domanda coincide con il tema indagato dallo studio nazionale JAMES 2022, i cui risultati sono appena stati pubblicati. L’indagine, condotta dall’Università di scienze applicate di Zurigo (ZHAW) – si svolge dal 2010 ogni due anni – ha coinvolto un campione rappresentativo: 1049 giovani tra i 12 e i 19 anni, appartenenti alle tre grandi regioni linguistiche (Svizzera tedesca, francese e italiana) e interpellati da maggio a giugno scorsi attraverso un sondaggio svolto nelle scuole.

La ricerca pone la lente sul comportamento mediale nel tempo libero dei giovani e accende i riflettori su diversi ambiti, sollevando al contempo interrogativi e fornendo, se non proprio rimedi agli aspetti più problematici, alcuni auspici. Una delle tematiche più sensibili e indagate per la prima volta in modo articolato dall’avvio dello studio JAMES, riguarda le molestie sessuali in Internet. Quasi la metà degli adolescenti – rivela il sondaggio – è stata vittima almeno una volta di molestie sessuali online. Un dato in aumento negli anni (nel 2014 erano il 19%). Tre ragazze

su cinque e un ragazzo su tre hanno dichiarato di essere già stati contatti online con messaggi indesiderati a sfondo sessuale. Circa la metà delle ragazze è già stata invitata da una persona sconosciuta a inviare foto erotiche che le ritraessero. Ma anche nell’ambito del cybermobbing si accendono campanelli d’allarme: il fenomeno di danneggiare una persona in Internet negli ultimi anni è cresciuto di quasi il 10%. In sede di conclusioni, gli autori dello studio evidenziano, invocando azioni preventive e invitando a correre ai ripari: «In questo ambito è necessario intervenire. È inaccettabile che le molestie sessuali e il cybermobbing tra i giovani continuino ad aumentare. Da un lato è necessaria un’offerta ampia e diversificata di misure pedagogiche in ambito di media e di offerte per potenziare l’autodifesa digitale. Dall’altro anche le istituzioni statali e i fornitori di piattaforme devono riflettere sulle possibili soluzioni per una migliore protezione dei giovani nei media. Solo unendo le forze e intraprendendo contromisure coordinate potremo contenere questo problema».

Anche dal profilo della protezione e della sfera privata l’universo giovanile non si attrezza a sufficienza.

Dallo studio emerge che nonostante le preoccupazioni sulla protezione dei dati sollevate negli anni passati con l’app di messaggistica WhatsApp, quasi tutti i giovani sono attivi su questo social network: «Alternative come Signal o Threema – sottolineano i ricercatori – continuano a essere social di nicchia. Circa un quarto dei giovani si preoccupa che informazioni personali che non vogliono condividere diventino pubbliche. Questa percentuale è diminuita leggermente ma costantemente negli ultimi anni». Ma quante ore spendono i giovani sul web? In una giornata settimanale trascorrono mediamente circa 3 ore e 14 minuti in Internet. Nel fine settimana la durata media passa a quasi 5 ore. «I giovani provenienti da famiglie con stato socioeconomico basso e i giovani che frequentano i livelli base della scuola media dichiarano di trascorrere (molto) più tempo su Internet rispetto ai coetanei provenienti da situazioni socioeconomiche migliori o che frequentano una scuola con un livello di istruzione formalmente più elevato».

La ricerca risponde pure al tema dei videogiochi, per cui si osserva un leggero aumento, a partire dai 16 anni. Complice pure l’industria del gaming, che ha individuato tra le ragaz-

ze «un nuovo gruppo target e con il tempo anche le rappresentazioni di personaggi femminili nei videogiochi sta diventando più frequente». Giocano online comunque più i ragazzi delle ragazze. Altro dato posto in rilievo dallo studio JAMES 2022: «Quando i giovani trascorrono il loro tempo libero da soli, amano soprattutto utilizzare media audiovisivi (serie, film, game), praticare attività sportive e ascoltare o fare musica. In compagnia di amiche e amici le attività preferite sono fare sport, fare qualcosa insieme, trascorrere del tempo all’aperto, cucinare, mangiare, bere o chiacchierare». Quanti amici hanno gli adolescenti? In media 5 – indica l’indagine. Ormai è delineato: i giovani sono ben equipaggiati di strumenti mediali. Non vi è praticamente nessuno che non abbia uno smartphone. Inoltre, tre quarti possiede un proprio computer o laptop. I social network più utilizzati dai giovani? TikTok, in particolare crescita, WhatsApp, Snapchat e YouTube.

Ma quanto i risultati di JAMES 2022 conoscono poi una diffusione concreta fra le istanze preposte all’educazione dei giovani? «Oltre a pubblicare i rapporti completi nelle tre lingue nazionali online sul sito dello ZHAW, in modo che tutti pos-

sano leggerli – risponde da noi interpellata la professoressa Eleonora Benecchi, della facoltà di Comunicazione, cultura e società dell’USI, tra le ricercatrici che hanno condotto lo studio per la Svizzera italiana – i dati dell’indagine vengono utilizzati anche dal portale giovaniemedia.ch che offre raccomandazioni e suggerimenti a educatori e genitori per aiutare i giovani a gestire al meglio il loro rapporto con i media. Da parte nostra portiamo la nostra esperienza di ricerca e i dati che raccogliamo direttamente nelle scuole, per le sedi che ce lo richiedono, diventano così temi di incontri per discutere direttamente con i giovani delle potenzialità e dei rischi che i media pongono. Inoltre partecipiamo a momenti di aggiornamento sul tema per i docenti. I social media e in generale l’esperienza online è come l’esperienza di attraversare un bosco, pieno di rischi ma anche di opportunità. Dobbiamo insegnare ai giovani come riconoscere i frutti buoni da quelli cattivi, come distinguere i sentieri sicuri da quelli pericolosi, quali incontri possano farli crescere e quali danneggiarli. Solo se diamo loro strumenti adeguati e una mappa dettagliata e coerente il viaggio nel bosco digitale sarà positivo e arricchente».

SOCIETÀ ● ◆ 2 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXV 27 dicembre 2022 azione – Cooperativa Migros Ticino Pexels.com
Giovani
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La nuova vita della chiesetta sulla montagna

Territorio ◆ I lavori di restauro del complesso sacro della Madonna d’Ongero di Carona interessano tutti i suoi elementi, dalla Via Crucis all’eremo fino agli stucchi che rendono l’edificio uno dei più importanti esempi di arte barocca in Svizzera

Riaprirà secondo le previsioni nel 2024, a quattrocento anni esatti dall’inizio della sua costruzione, il santuario della Madonna d’Ongero, piccolo capolavoro dell’arte barocca situato a Carona in mezzo al bosco. Ci vorranno quindi ancora due anni prima che il santuario dedicato a santa Maria di Loreto possa essere restituito a fedeli, pellegrini e altri visitatori quale luogo di culto e sede di pregiate opere artistiche. La «chiesetta sulla montagna», come l’aveva definita Hermann Hesse in un suo scritto, è oggetto di un intervento di restauro globale iniziato lo scorso mese di ottobre. Un intervento urgente visto il precario stato di conservazione di tutte le componenti del luogo sacro. Il progetto, curato dallo studio d’architettura Tecnoclima di Lugano, è commissionato dalla locale Parrocchia che può contare sul contributo finanziario di un gruppo di benefattori, contributo che sarà affiancato da sussidi federali, cantonali e comunali. La Parrocchia da parte sua sta procedendo a una raccolta fondi per coprire il resto dei costi. Molto amato dalla comunità caronese, punto di riferimento nel Luganese e fonte di richiamo anche per persone provenienti da oltre i confini cantonali, il santuario della Madonna d’Ongero nell’intento dei promotori dei restauri tornerà a vivere con nuove iniziative che interesseranno tutti i suoi elementi, dalla Via Crucis alle campane, al misconosciuto eremo.

L’entusiasmo è palpabile mentre visitiamo il cantiere con la presidente del Consiglio parrocchiale Cornelia Deubner-Marty e la vicepresidente Marielle Chollet Rampa. Le due giovani donne, originarie rispettivamente dei cantoni Svitto e Friburgo, risiedono a Carona da diversi anni e come gli altri abitanti sono molto legate al santuario. Durante i lavori è privo della statua della Madonna, delle tele della Via Crucis e di altri arredi sacri, ma colpisce sempre per la sua ricchezza e bellezza. La chiesa sorge al termine di una Via Crucis in pendenza con sette cappellette per lato le cui tavole sono esposte il Venerdì Santo e la seconda domenica di settembre quando si celebra la festa della Madonna d’Ongero.

«Al momento anche le tavole sono oggetto di restauro», spiegano le nostre interlocutrici. «Speriamo inoltre di poterne realizzare delle copie da lasciare sempre visibili nelle rispettive Stazioni».

Concluso nel 1640, il santuario fu costruito a partire da una piccola cappella risalente al 1515 nella quale era racchiusa un’immagine miracolosa di Santa Maria di Loreto. Miracolosa,

azione

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secondo la tradizione, perché legata alla guarigione di una ragazza sordomuta. «Ci sono tre versioni di questo evento – racconta il parroco di Carona don André-Marie Jerumanis – che meriterebbe indagini storiche più approfondite». Don Jerumanis spiega anche un’altra ricorrenza: «Sempre secondo la tradizione orale, all’origine del pellegrinaggio che ogni anno la prima domenica di luglio parte dalla chiesa di Sant’Abbondio a Gentilino con meta la Madonna d’Ongero vi è un voto espresso per risparmiare la Collina d’Oro dalla peste diffusa nella regione nel XVII secolo».

I lavori di restauro del complesso sacro sono iniziati dalla torre campanaria. Proseguono le rappresentanti del Consiglio parrocchiale: «La muratura necessita un rinforzo, così come quella della sagrestia. A livello di campane bisogna cambiare il castello in ferro; saranno sostituiti anche i solai e le scale lignei». Dal campanile lo sguardo si posa su un annesso sottostante. È l’eremo, presente da tempo immemore, ma poco conosciuto. Spiegano le nostre guide: «Negli anni Novanta del secolo scorso è stato ammodernato ricavandone al pianterreno una zona giorno con camino e cucina, una camera da letto e un bagno. Anche il sottotetto offre spazio per dormire, ma è molto spartano. Qui saranno realizzati un nuovo bagno e due camere illuminati da tre lucernari. Il pianterreno sarà privo di barriere architettoniche, così da favorire gli ospiti con disabilità. La ristrutturazione dell’eremo permetterà di intensificarne l’uso includendo anche incontri allargati come ad esempio i ritiri di preparazione alla Cresima».

Ai diversi interventi sovrintende Luca Giordano coadiuvato dai suoi colleghi Marino Cattaneo e Roberta Testa. Il team ha concluso il relativo studio di fattibilità la scorsa primavera. Luca Giordano e i suoi colleghi collaborano da una decina d’anni con l’Ufficio dei Beni Culturali (UBC diretto da Endrio Ruggiero) per il restauro di edifici sacri tutelati. A Carona si è già occupato del restauro esterno della chiesa parrocchiale dedicata ai santi Giorgio e Andrea e di quello integrale di santa Marta. Riguardo alla Madonna d’Ongero aggiunge: «Nel 2016 è stato effettuato un primo intervento urgente per salvare gli affreschi e riparare la copertura. Purtroppo dopo un anno sono iniziati a cadere internamente pezzi di stucco. Essendo un notevole esempio di arte barocca, la chiesa della Madonna d’Ongero è particolarmente ricca di questo tipo di decorazione. Per questioni di sicurezza è quindi stata chiusa. Questa seconda fase

Redazione

di restauro implica lavori sostanziali per evitare in futuro il rischio di degrado subito in passato soprattutto a causa delle infiltrazioni d’acqua». Sul cantiere interverranno diverse ditte di artigiani e due squadre di restauratori che si occuperanno di commesse diverse. I lavori si svolgono sotto la supervisione dell’UBC rappresentato dalla restauratrice Helena Bernal.

Famosa per gli affreschi settecenteschi di Giuseppe Antonio Petrini presenti nella navata, la chiesa della Madonna d’Ongero deve però ad Alessandro Casella la maggior parte delle sue decorazioni. «Su questa notevole impresa decorativa – precisa la Parrocchia di Carona nell’opuscolo inviato per la raccolta fondi – manca però a tutt’oggi uno studio approfondito».

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Dall’interno all’esterno dove le pavimentazioni del sagrato e della Via Crucis sono, oltre che in un precario stato di cura, inadeguate per accogliere le persone con difficoltà motorie. «L’intervento – spiega Luca Giordano – prevede il riordino conservativo completo per la Via Crucis e una nuova pavimentazione in porfido rosa per il sagrato. Questa pietra veniva estratta proprio a Carona da una vena che giunge fin oltreconfine, a Cuasso al Monte, dove una cava è ancora attiva. Scegliendo una posa a rizzada si assicurerà un adeguato inserimento nel contesto boschivo. La nuova pavimentazione risponde a una duplice esigenza: permettere all’acqua di defluire verso il perimetro esterno del sagrato e facilitare l’accesso a tutti i visitatori».

I costi complessivi sono stimati in un milione e mezzo di franchi di cui circa un terzo a carico della Parrocchia. Quest’ultima ha già potuto contare sul determinante contributo di alcuni benefattori coordinati dall’imprenditore Riccardo Braglia, residente a Carabbia.

L’importanza del santuario è dimostrata anche dalla sua presenza nella mostra Barocco. Epoca di contrasti, in corso fino al 15 gennaio 2023 al Museo nazionale a Zurigo.

«Prima di tutto – precisa don André-Marie Jerumanis – il santuario della Madonna d’Ongero è però un luogo per eccellenza di preghiera mariana per i fedeli e un luogo di grande tradizione e cultura per tutta la popolazione. È un posto incantevole

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che favorisce la contemplazione e la meditazione. Nella frenetica vita dei nostri giorni, questi luoghi sono sempre più apprezzati, proprio come suggeriva già Hermann Hesse». L’opuscolo della Parrocchia riporta questa frase dello scrittore: «Ci sono molte cose che mi legano alla chiesetta sulla montagna: amo in particolare la segretezza, il magico silenzio, quel nascondersi e aspirare all’invisibilità, il timido sottrarsi al rumore e alla folla, un riserbo che credo di comprendere sino in fondo» (da Festa della Madonna in Ticino, 1924, pubblicato in Incanto e disincanto del Ticino, Armando Dadò, Locarno 2013).

«Dopo la presenza di un eremita negli anni Sessanta del Novecento e più tardi della comunità latino-americana Palabra Viva nei fine settimana – spiega il sacerdote – la vita all’eremo e al santuario si è ridotta. Il restauro vuole rilanciarla sulla base di richieste che ho ricevuto anche da artisti».

Da venticinque anni parroco di Carona e professore alla Facoltà di Teologia di Lugano, don André-Marie Jerumanis guarda quindi con fiducia, assieme all’intera Parrocchia, all’importante percorso di restauro appena iniziato al santuario della Madonna d’Ongero. Due anni di lavori permetteranno di preservare un monumento di importanza nazionale ridandogli non solo splendore ma anche nuova vita.

Informazioni www.parrocchiacarona.ch

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXV 27 dicembre 2022 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
Peter Schiesser (redattore responsabile) Carlo Silini Simona Sala Barbara Manzoni Manuela Mazzi Il santuario della Madonna d’Ongero risale al 1640. Sotto, l’interno della chiesa le cui ricche decorazioni si devono allo stuccatore Alessandro Casella. (Luciano Bignotti/ Ufficio dei Beni Culturali)

Un classico di Capodanno

Attualità ◆ Il cotechino è un piatto molto gettonato durante le festività, ma è apprezzato anche nel resto dell’anno, soprattutto se è di produzione ticinese

Come vuole la tradizione, mangiare del cotechino o dello zampone accompagnati da lenticchie la notte di Capodanno è di buon auspicio per l’anno a venire. Per chi sceglie di dare la priorità ai prodotti regionali, Migros offre nel suo assortimento alcuni classici salumi da cuocere di produzione ticinese, specialità che spaziano dallo zampone alle luganighe fino al cotechino, quest’ultimo disponibile ai banchi macelleria anche nella variante dei Nostrani del Ticino, ossia con materie prime al 100% di origini ticinesi. La variante classica del cotechino è invece prodotta dal Salumificio Sciaroni di Monte Carasso, il quale elabora il salume secondo un’antica ricetta di famiglia utilizzando carni suine svizzere e ticinesi selezionate. «Il nostro cotechino è composto da un trito di carne magra di maiale, cotenna e lardo macinati finemente e aromatizzate con sale, pepe e una miscela di spezie genuine creata da noi», ci spiega Franco Sciaroni, titolare insieme alla figlia Isabella dell’azienda fondata nel 1949. «Una volta ottenuto un composto ben omogeneo, esso viene insaccato nel budello naturale e lasciato asciugare una notte a temperatura controllata per eleminare l’acqua in eccesso. A questo punto il cotechino è pronto per essere confezionato e fornito ai negozi Migros». Per gustare pienamente gli aromi genuini di questo prodotto regionale è importante prepararlo nel modo giusto: «Il cotechino richiede una cottura di 1 ora e ½ affinché tutti gli ingredienti possano amalgamarsi bene tra di loro. Immergete il prodotto in una pentola capiente riempita di acqua fredda. Accendete il fornello e cuocete a ebollizione appena accennata per il tempo necessario. Bucate il cotechino solo a fine cottura per non disperderne i succhi. Affettate e servitelo ben caldo accompagnato dalle tradizionali lenticchie, purè di patate o patate bollite. Buon appetito!», conclude Franco Sciaroni.

Sapori raffinati per arricchire la tavola

Attualità ◆ Le ostriche sono una vera prelibatezza da gustare durante le occasioni più importanti

Le ostriche sono una pietanza raffinata dal gusto unico, particolarmente apprezzate durante le festività di fine anno. La stagione principale per gustare questi molluschi va da settembre ad aprile, anche se si ritiene che siano nel pieno della loro bontà nel mese di gennaio. Oggi le ostriche provengono principalmente da acquacoltura e i maggiori allevamenti europei sono situati in Francia, sulla costa atlantica. Ed è proprio da qui che provengono le due varietà di ostriche disponibili attualmente nelle maggiori filiali Migros, le Marennes Oléron e le Pléiade Poget. Le prime si caratterizzano per la loro croccantezza e carnosità, con un sapore leggermente nocciolato. Le Pléiade Poget posseg-

gono una polpa generosa e profumata, dal gusto armoniosamente iodato e salato. Il modo migliore per apprezzare tutta la delicatezza delle ostriche è quello di gustarle crude, ma in alternativa si possono anche consumare cotte, per esempio gratinate, fritte o anche grigliate. Le ostriche devono essere aperte solo al momento di servirle, sollevando e staccando la valva superiore con l’aiuto dell’apposito coltello. Una volta aperte, allineate le ostriche su uno strato di ghiaccio tritato e gustatele con uno spruzzo di limone, pepe macinato di fresco e pane imburrato. I francesi amano gustare i molluschi accompagnati da una tradizionale salsetta a base di aceto di vino e scalogno tritato.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXV 27 dicembre 2022 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
Azione 34% Cotechino, prodotto in Ticino, per 100 g Fr. 1.25 invece di 1.90 dal 28.12 al 29.12.2022 Azione 20% Su diverse ostriche al banco e a libero servizio dal 29.12 al 31.12.2022

Profumo di clementine e mandarini

Attualità ◆ Questi piccoli agrumi sono molto apprezzati nella stagione invernale. Alcuni consigli per scegliere quelli più buoni

La presenza dei gambi e delle foglie sulle clementine e i mandarini è sinonimo di freschezza, indipendentemente dal fatto che esse siano verdi, afflosciate o secche.

L’estremità del gambo da cui gli agrumi sono stati raccolti deve essere bianca. Se è marrone, c’è il rischio che il frutto sia già un po’ essiccato.

Azione 34%

Clementine a foglia extra, Spagna, al kg Fr. 2.95 invece di 4.50 dal 27.12 al 02.01.2023

Non preoccupatevi, il colore della buccia non è indicatore di maturazione del frutto, ma piuttosto rivela la temperatura della regione in cui viene coltivato.

Gli agrumi si colorano di un bell’arancio quando le giornate sono nettamente più calde rispetto alle notti. Se le notti sono miti, la buccia resta verde. La buccia deve essere soda e non deve cedere rapidamente a una leggera pressione. Se gli agrumi hanno l’aspetto di un pallone sgonfio, significa che hanno già perso parte del succo e non sono più tanto freschi. Inoltre, la buccia non deve presentare segni di pressione o crepe.

Più un agrume è pesante, meglio è. Dal momento che viene raccolto, esso perde del succo e comincia a seccare. Pertanto un frutto leggero sarà meno succoso.

Le clementine sono un incrocio naturale tra il mandarino e l’arancio.

Povere di semi, hanno una buccia spessa e contengono più zuccheri rispetto ai mandarini. Inoltre hanno un sapore più delicato.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXV 27 dicembre 2022 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 5
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La parità di genere spiegata ai nostri figli

Il caffè delle mamme ◆ Un libro per bambini scritto da Maria Scoglio e Cristina Sivieri Tagliabue stimola la riflessione in famiglia su stereotipi e modelli comportamentali

Crescere figlie e figli in grado di fare la loro parte nel grande gioco della vita senza mai pensare «l’allenatrice di calcio non posso farla perché è da maschio» oppure «piangere è da femminucce». Vuol dire tirar su una generazione, la Alpha (ossia i nati dopo il 2010), improntata alla vera libertà di ciascuno di loro. Ci stiamo riuscendo? È la Missione Parità, che dà il titolo al libro per bambini dell’autrice tv Maria Scoglio e della giornalista Cristina Sivieri Tagliabue (ed. Garzanti, settembre 2022). La domanda a Il caffè delle mamme è: noi genitori come stiamo conducendo questa sfida? Le avventure di Sofia e Leone, alunni della 5C, che si scontrano con stereotipi di genere, tetti di cristallo e un linguaggio non ancora inclusivo, sono un’occasione per ragionarci. Perché bisogna innanzitutto essere consapevoli che a parole tutte le nostre famiglie sono contro qualsiasi tipo di disuguaglianza tra i sessi, ma nella quotidianità le cose sono sempre più complicate.

Ispirandoci a un test che propone Missione Parità possiamo metterci in gioco anche noi genitori. A Il caffè delle mamme decidiamo di farlo e lo proponiamo come spunto di riflessione per il 2023. Autodenuncia: io e mio marito Riccardo ci siamo scannati tra noi sulle risposte da scegliere tra le alternative proposte. A riprova della non banalità della questione. Concentriamoci su tre domande. Ovviamente chi appartiene a famiglie monogenitoriali o omosessuali deve perdonarci per la semplificazione degli schemi familiari, ma tutti possono trarne ispirazione. La prima domanda: chi cucina? A) La mamma, che ha fatto anche la spesa e apparecchiato; B) Ai fornelli c’è solo una persona, è la più brava! Ma gli altri non stanno certo con le mani in mano; C) Non ci sono ruoli prestabiliti, ognuno contribuisce alla preparazione della cena. La seconda: è il momento di scegliere l’attività sportiva per l’anno, come siamo orientati?

Viale dei ciliegi

Prima che si chiuda l’anno, segnaliamo questo racconto che compie cent’anni: Il coniglietto di velluto, dell’autrice angloamericana Margery Williams (1881-1944). Notissimo in ambito anglosassone, esce in italiano per la prima volta in versione integrale. Coniglietto di velluto vorrebbe diventare vero, ma che cosa vuol dire essere vero? E poi essere vero solo per lui, o essere vero davvero? Tra giochi, smarrimenti, drammati-

A) Danza o ginnastica artistica per le femmine, calcio o basket per i maschi; B) Siamo aperti a tutto, ma è meglio se i figli fanno gli stessi sport praticati dalla maggioranza dei loro amici; C) Li invitiamo a scegliere l’attività che li attira di più, spiegando loro che non ci sono sport da maschi e altri da femmine. La terza: è quasi arrivato carnevale, cosa scegliere come travestimento? A) Cavaliere se è un maschio, principessa se è una femmina; B) I maschi da supereroi, le femmine da supereroine; C) Anche le femmine si possono vestire da supereroi, o i maschi da supereroine.

Chi ha totalizzato una maggioranza di A ha un modello di famiglia CHIOCCIA: noi mamme facciamo come le galline che scorrazzano di qua e di là, portando ai pulcini succulenti vermi e controllando che non si perdano in giro per il cortile. Chi ha totalizzato una maggioranza di B

ha un modello di famiglia LEONE: le leonesse sono il nucleo del branco e decidono dove vivere e quanto cacciare, ma poi rimane il fatto che il leone maschio è considerato il vero e unico re della savana. Chi ha totalizzato una maggioranza di C ha un modello di famiglia PINGUINO: la femmina depone l’uovo e poi si allontana in cerca di cibo. A quel punto è il papà che cova il nascituro e non si muove da quel pezzettino di ghiaccio finché la mamma non è tornata. Per le autrici di Missione Parità Maria Scoglio e Cristina Sivieri Tagliabue è questa la prova che non ci sono azioni da maschio e altre da femmina.

Ognuno di voi se ha fatto il test, a questo punto si sarà fatto la propria idea. Ma in quante delle nostre famiglie c’è davvero una parità come la intendono le due scrittrici? A Il caffè delle mamme cerchiamo di essere sincere fino in fondo. Sulla divisione

delle incombenze domestiche ci riteniamo chi più chi meno a posto (al netto della «Fatica mentale» oggetto de Il caffè delle mamme dello scorso ottobre): uno prepara la colazione e l’altro carica la lavastoviglie, i bambini apparecchiano e buttano la spazzatura, i letti vengono fatti da chi capita e la spesa anche. A parole siamo anche propense ad accettare che i nostri figli seguano le loro inclinazioni. Dopodiché siamo davvero orgogliose se c’è qualcuna che propone al figlio maschio di giocare con una bambola al posto del Lego, pensa di iscrivere la figlia di 5 anni a calcio invece che a danza, a carnevale veste lui da super eroina e lei da cavaliere. Chi lo fa? Pensandoci bene con le femmine è più facile: io stessa, che ormai mi avvio verso i 50, da piccola mi sono vestita da Sandokan e mia figlia Clotilde a 7 anni da Uomo Ragno. Mai, però, mi è venuto in mente di vesti-

re Enea da principessa. Sicuramente se lui me l’avesse chiesto l’avrei assecondato, ma l’avrei considerata una richiesta insolita.

Ecco, allora, qual è secondo Il caffè delle mamme il nocciolo della questione: abbattere davvero gli stereotipi di genere. Maria Scoglio e Cristina Sivieri Tagliabue ci offrono le parole migliori per spiegare ai nostri figli che cosa sono e aiutarli a combatterli: «Per capire meglio il significato, proviamo a scomporre in “stereotipo” e “genere” – scrivono –. Lo stereotipo è un’idea che ci facciamo su un gruppo di persone, ancora prima di conoscerle. Si basa su preconcetti che spesso sono veri solo in parte. Per genere, qui intendiamo la tradizionale divisione in “maschio” e “femmina”. Ora, se uniamo il significato di stereotipo con quello di genere dovremmo avere chiaro cosa vuol dire. Quando diciamo che “ai maschietti piace il blu e alle femmine il rosa” stiamo utilizzando uno stereotipo di genere (a tanti bimbi e uomini adulti piace il colore rosa e nel passato erano proprio i maschi a vestirsi così). “I maschi sono bravi a calcio”: anche questo è uno stereotipo di genere. Ci sono tantissime calciatrici donne che sono fortissime e altrettanti maschi a cui, invece, questo sport non interessa». Dopodiché, ci diciamo al Caffè delle mamme, per riuscire al meglio in questa Missione Parità con i nostri figli dobbiamo per prima cosa noi stesse iniziare per esempio a pensare come normali le pubblicità in cui ci sono papà che sponsorizzano prodotti per bambini e mamme che corrono in giro per la città su un’auto di lusso. Ce la possiamo fare? Gli Gen Z, ossia i nostri figli nati a cavallo degli anni Duemila e formatisi su TikTok tra amore fluido e gonne indossate sul palco di Sanremo, secondo me su questa materia sono più aperti di noi. Io, intanto, cerco di convincere mio marito Riccardo a trasformarsi da LEONE in PINGUINO. Buon 2023!

ci allontanamenti, lacrime, sorrisi e fate, un piccolo classico che riscalda il cuore.

Un romanzo sulle discriminazioni e sugli stereotipi, da qualsiasi parte ci si voglia situare. Justyce è afroamericano, ha diciassette anni, frequenta con profitti eccellenti il liceo ad Atlanta, per i suoi meriti è stato ammesso alla prestigiosa Università di Yale, che frequenterà dall’anno successivo. Eppure, quando una notte la polizia lo vede caricare in auto una ragazza (la sua ex ragazza, che lui ha trovato in giro ubriaca, e che vuole riportare a casa, al sicuro, impedendole di mettersi al volante in quelle condizioni), ecco che scatta lo stereotipo «adolescente nero=delinquente» e Justyce viene arrestato. Poco importa che poi venga rilasciato, in Justyce il brutale trattamento subito scatena una serie di domande: domande di senso, che ogni adolescente potrebbe porsi, ma che un adolescente dalla pelle nera in America potrebbe porsi con maggiore ur-

genza. Nella sua ricerca di senso, Justyce comincia a tenere una sorta di diario, in forma di lettere indirizzate virtualmente a Martin Luther King, suo faro etico. L’interrogativo centrale è «cosa avresti fatto tu, Martin, al posto mio?»: «Tu sei vissuto in un mondo in cui ai neri che lottavano per i loro diritti li pigliavano di mira con gli idranti e li picchiavano e imprigionavano e ammazzavano, eppure sei riuscito a conservare la tua dignità e tutto. Come hai fatto Martin? Come accidenti ci sei riuscito?». I pregiudizi con cui Justyce si scontra arrivano da vari fronti, perché la vita è complessa e per crescere occorre districarsi tra questi nodi di complessità, chiedendosi con sincerità «chi sono, in cosa credo», anche quando si è feriti non solo dai soprusi razzisti subiti dai bianchi, ma anche dai pregiudizi di chi ha la pelle nera come te: quelli che «a scuola nell’intervallo mi chiamavano Angioletto Bianco solo perché preferivo leggere un libro», quelli che ti accusano di essere un «traditore della razza», uno che vuole «tenersi buono l’uomo bianco per quando arriva il momento della scalata», e persino i pregiudizi della mamma, che non vuole

che Justyce si metta con una ragazza bianca. La vita è come una montagna ardua da scalare, per Justyce, che si sente continuamente ricacciato giù da due forze antitetiche ma dagli effetti ugualmente deprimenti. Il ricco bianco insinuerà che Justyce è stato preso a Yale solo per una questione di quote «nere», e questo non farà che minarne l’autostima, a tal punto che continuerà a chiedersi se davvero si merita i suoi successi; ma anche il nero bullo di una banda di strada, a cui Justyce rifiuta di sottomettersi, insinuerà che lui sia solo uno smidollato opportunista. «È come se stessi scalando una montagna, ma con un idiota che cerca costante-

mente di ricacciarmi giù per non essere raggiunto e un altro che mi tira per una gamba per riportarmi a terra, nel punto da dove lui si rifiuta di muoversi».

Anche le parole sono importanti, in questo libro ben tradotto da Anna Rusconi. Interessante il passo in cui Justyce accusa un compagno bianco di dire «nigga come se la parola ti appartenesse». Nigga, «negro», è un epiteto usato all’interno della comunità afroamericana per riferirsi a membri del medesimo gruppo, con finalità riappropriativa, appunto per disattivarne la funzione denigratoria. Un po’ come l’epiteto terrone, usato oggi con fierezza dagli stessi giovani del sud, ma percepito come un insulto se venisse da un parlante del nord. Le parole appartengono a qualcuno? Si chiedono i protagonisti di questo romanzo, che è anche un limpido esempio di efficace argomentazione, visto che nella scuola di Justyce c’è la squadra di dibattito (di cui Justyce è il capitano): i dibattiti tra i ragazzi vengono messi in scena in capitoli fatti esclusivamente di battute, come fossero teatrali. Queste battute sono parole e non pugni, ma lasciano il segno e fanno pensare.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXV 27 dicembre 2022 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ
di Letizia Bolzani Margery Williams Il coniglietto di velluto o come i giocattoli diventano veri Emme Edizioni (Da 5 anni) Nic Stone Dear Martin EDT Giralangolo (Da 14 anni) Sulla copertina di Missione Parità: i protagonisti Sofia e Leone che si battono per l’uguaglianza tra femmine e maschi.
Le bibite più cool per le 23:59 TROVERAI VARIE IDEE PER L’APERITIVO DI CAPODANNO SU migusto.ch/capodanno Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli già ridotti. Offerte valide solo dal 27.12.2022 al 2.1.2023, fino a esaurimento dello stock. 3.90 Ginger Beer Bundaberg senza alcol, 375 ml 7.80 Tonic Water Fever-Tree 4 x 200 ml 23.95 Italian Spritz Lyre's senza alcol, 700 ml
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Sempre più prodotti locali nelle mense delle scuole

A tavola ◆ Il Cantone promuove la Carta per un’alimentazione sostenibile e cerca di coinvolgere refezioni scolastiche e ristorazioni collettive: l’esperienza del comune di Riviera

I menu delle mense scolastiche con i prodotti locali e a km 0? Si può fare. Lo stanno dimostrando diversi Comuni che stanno seguendo un interessante progetto del Centro di Competenze Agroalimentari Ticino (CCAT) sostenuto dal Dipartimento delle finanze e dell’economia (DFE).

A dare un ulteriore stimolo al progetto e dunque a sottolineare come vi sia una volontà condivisa di impiegare maggiormente i prodotti locali nella ristorazione collettiva, il Consiglio di Stato ha di recente adottato la Carta per un’alimentazione sostenibile con alcune indicazioni a Comuni, direzioni scolastiche e rispettive refezioni, ristorazioni collettive private e fornitori di prodotti agroalimentari ticinesi.

La Carta si inserisce nella promozione dello sviluppo sostenibile e dei 17 principi dell’Agenda 2030 dell’ONU e promuove la sensibilizzazione sulle buone pratiche della sostenibilità alimentare; l’incoraggiamento a un maggior utilizzo di prodotti locali; l’incentivo a una dieta sostenibile, variata ed equilibrata; la promozione del Ticino e della sua produzione agricola; l’aumento del consumo di prodotti freschi e la diminuzione di imballaggi; la sensibilizzazione sull’utilizzo di metodi di cottura efficienti dal punto di vista energetico e la limitazione degli sprechi alimentari.

Come ci dice la direttrice del CCAT Sibilla Quadri «la Carta nasce anche dall’esigenza di sensibilizzare i nostri partner sull’argomento. Perché se a parole sono tutti d’accordo nel portare avanti la sostenibilità agroalimentare, nei fatti il prezzo dei prodotti resta sempre il primo criterio di scelta. Occorre, invece, rendersi conto che sostenere il prodotto locale fa bene a tutti: all’economia, all’ambiente, ai Comuni ma anche al consumatore che sa che cosa trova nel piatto».

Da parte sua il progetto mense è nato nel 2018 e in quattro anni ha visto uno sviluppo importante e forse all’inizio imprevedibile. Come ci spiega ancora la responsabile del CCAT: «Abbiamo dapprima iniziato il Progetto mensa con la città di Lugano e con il Comune di Rivie-

ra (mensa SE Lodrino) e visto che è andato bene lo abbiamo allargato ad altri Comuni. Oggi sono 62 le mense che vi aderiscono sparse su tutto il territorio cantonale ma sarebbe bello che tutte le scuole facessero una riflessione in tal senso. Nel Comune di Riviera, per fare un esempio, siamo arrivati ad avere il 52% di prodotti locali nei vari menù delle mense: una percentuale davvero alta».

La stessa responsabile del CCAT rileva che «il tutto è a sostegno dell’economia locale e in particolare delle piccole realtà agricole che vogliamo far conoscere e valorizzare. Così come è importante sia per le realtà urbane, ma probabilmente ancora di più per le regioni periferiche, le valli, che intendono mantenere un’importanza nel tessuto economico ticinese».

A Lugano e a Lodrino i risultati sono stati differenti. Come mai? «Anzitutto tengo a precisare che siamo soddisfatti di quanto raggiunto in entrambi i progetti-pilota. Lugano, nel corso degli ultimi anni, ha centralizzato gli acquisti per tutte le 26 sedi. Una strategia che comprendo, ma che ha portato a un rallentamento del progetto perché i piccoli e medi produttori della regione non riescono a fornire questa grande quantità di merce. Ecco perché con la città abbiamo definito alcuni ambiti come i latticini, le verdure e le farine nei quali si può collaborare e promuovere i prodotti locali. Comunque, alla fine siamo riusciti ad aumentare la presenza di prodotti locali nei piatti delle mense dal 16% al 30-40% un risultato significativo».

Nel comune di Riviera i risultati ottenuti sono stati più importanti. «Ci hanno creduto tutti: dalle cuoche al Municipio passando per i fornitori e le famiglie. Siamo anche riusciti a contenere gli aumenti di costo sotto il 5%; in altre parole i prodotti locali non costano di più di quelli importati e hanno una serie di vantaggi e pregi che sono incalcolabili».

E proprio con l’Istituto scolastico di Riviera abbiamo voluto approfondire ulteriormente il progetto della mensa scolastica sita nella scuola elementare di Lodrino. A parlarcene il

direttore Matteo Notari che ci spiega come è nato e come si è sviluppato in questi anni. «Con il capodicastero Igor Cima, in occasione dell’aggregazione del nuovo Comune, avevamo fatto una riflessione sulle necessità extrascolastiche da offrire alle famiglie della scuola elementare. Sin da subito abbiamo pensato a un doposcuola e alla mensa che non esisteva nei vecchi Comuni se non in una piccola realtà a Iragna. La forte necessità di questi servizi, da parte delle famiglie, era evidente, e così abbiamo individuato una struttura idonea alla scuola elementare di Lodrino che abbiamo ammodernato e sistemato per i bisogni delle famiglie degli allievi di Lodrino, Osogna e Cresciano. Un luogo piacevole, famigliare e dove far star bene i 40-50 bambini che vi pranzano ogni giorno. Inoltre, abbiamo pensato che si doveva proseguire l’educazione alimentare che i bambini vivono durante la refezione nella scuola dell’infanzia con un accento sul mangiare bene e locale. Grazie anche all’intuizione di un altro municipale, Sem Genini (presidente del CCAT), è perciò partito il progetto-pilota per valorizzare il più possibile i produttori locali. Il risultato è stato sorprendente: grazie al grande lavoro delle cuoche, al supporto della Conferenza e alla collaborazione di tutti i partner siamo riusciti ad avere, già dal primo anno, più della metà dei prodotti usati provenienti da aziende locali». Come aggiunge ancora Notari, un altro aspetto importante è stato quello di far conoscere il più possibile l’iniziativa e in questo senso l’organizzazione di un momento informativo con le direzioni delle scuole del circondario ha avuto il suo peso specifico.

Da segnalare che Riviera ha proseguito su questa strada e nel 2020 «il progetto è stato allargato anche alla scuola dell’infanzia. Quindi da un paio di anni le quattro refezioni delle scuole dell’infanzia e le due mense per le elementari seguono questo modello. Il tutto con grande soddisfazione delle cuoche che lavorano prodotti di qualità, dei bambini che apprezzano i piatti, delle famiglie che sostengono il progetto e dei fornitori locali», conclude Notari.

Biodiversità: allarme in Svizzera

Mondoanimale ◆ Una campagna di sensibilizzazione denuncia il deterioramento ambientale e faunistico

«Il 60% degli insetti è in pericolo, il 95% di prati e pascoli secchi sono scomparsi dal 1900 a oggi, il 40% degli uccelli nidificanti è a rischio». Con questi pochi esempi Serena Britos di Pro Natura traccia un quadro molto preoccupante della biodiversità, dichiarandola ufficialmente «in seria crisi». Biodiversità è un concetto di cui si sente parlare spesso ma del quale non si conosce sempre a fondo il significato sebbene rappresenti la vita in tutta la varietà delle sue forme: «In modo scientifico, essa indica la diversità degli ambienti, delle specie, della genetica e la varietà delle relazioni che si creano tra tutto ciò. La Svizzera se la sta passando davvero male: possiamo affermare di stare attraversando una vera crisi della biodiversità».

In quanto esseri umani, è un disfacimento che ci riguarda direttamente: «Se la biodiversità è in cattiva salute, la qualità della nostra vita e il nostro sostentamento sono sempre più e seriamente minacciati perché, solo finché restano intatti, gli svariati ecosistemi ci forniscono cibo, materie prime ed energia». Ciò significa che il nostro benessere e la qualità della nostra vita dipendono direttamente dalla loro salute: «Se l’interazione fra gli ambienti è intatta, la società e l’economia ne beneficiano in diversi modi».

Portando esempi concreti, Serena Britos parla di alimenti, aria, protezione, risorse e tempo libero: «Gli insetti impollinano le piante di frutta e verdura; le foreste e le paludi migliorano la qualità dell’aria e ci forniscono medicine; prati e boschi sani proteggono dall’erosione; le pianure alluvionali proteggono dalle inondazioni; le foreste consentono la produzione di legname e gli spazi vitali diversificati offrono diverse possibilità di svago. Senza dimenticare che, oltre al funzionale, la biodiversità ci circonda di bellezze».

La principale responsabilità di questo declino delle specie è da attribuire all’uso insostenibile che ne fa l’uomo e un lungo elenco di esempi lo dimostra: «Le ragioni della diminuzione della biodiversità sono insite nell’espansione delle aree urbane e delle infrastrutture, nella distruzione e la frammentazione degli habitat, nell’inquinamento del suolo, dell’acqua e dell’aria, nell’aumento delle specie animali e vegetali alloctone invasive e, non da ultimo, si manifestano pure con i cambiamenti climatici.

Gravi conseguenze che si riper-

cuotono su tutti noi rendono urgente un’inversione di tendenza e soprattutto esigono soluzioni veloci, ma non è detto che debba andare necessariamente in questo modo perché non è ancora troppo tardi per fare qualcosa». Con questo intento, Pro Natura promuove una campagna di sensibilizzazione per richiamare l’attenzione sulla gravità di questa crisi in Svizzera e per dare un contributo a risolverla: «Il nostro obiettivo è quello di riuscire a motivare la politica e i cittadini affinché agiscano e si attivino per adottare misure efficaci. Pertanto, chiediamo a tutta la popolazione di entrare a far parte della comunità a sostegno di questa iniziativa che garantisce le diversità nella natura, nel paesaggio e nella cultura edilizia. Noi stessi, come associazione, agiamo in modo molto concreto attraverso le nostre numerose riserve e i progetti che sosteniamo in tutto il Paese».

Molti i modi per aderire: «Agire come volontari dedicando un po’ del proprio tempo libero alla natura; ottimizzare le proprie abitudini di consumo che hanno un grande impatto sull’ambiente, optando nella scelta di prodotti provenienti da agricoltura biologica, ad esempio, per favorire le naturali relazioni fra gli esseri viventi e il buon funzionamento degli ecosistemi».

Serena Britos osserva che il nostro comportamento può essere ottimizzato pure in altri ambiti, ad esempio per quanto riguarda il consumo di energia. Infine, anche la casa può essere resa biodiversa: «Si può promuovere la biodiversità negli ambienti più piccoli con un hotel per insetti, con pareti verdi o preferendo piante autoctone. Mentre se disponete di un giardino o di un balcone, potete farne un paradiso per insetti e altri piccoli animali, creare un’oasi di benessere per rettili, oppure rendere il giardino a misura di riccio, ambasciatore di questa campagna di sensibilizzazione insieme ad altri cinque animali che rappresentano ambienti diversi da preservare, ma soprattutto ci permettono di identificare idee per eventuali possibili soluzioni».

Cinque sono le specie ambasciatrici del messaggio, che quindi diventano un esempio concreto dell’importanza di preservare la biodiversità: «La farfalla apollo, il riccio, la raganella, l’upupa e il temolo ci possono spingere a fare meglio e molto di più per la nostra casa e per il nostro cibo. In fondo, la biodiversità è proprio questo».

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Nicola
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Il riccio è uno degli ambasciatori a sostegno della campagna di allarme sulla biodiversità. (Pro Natura; Mathias Sorg)

L’altropologo

La mia Africa, in corsia

Apro gli occhi e mi guardo attorno. La stanza è strana, sproporzionata: troppo lunga e bassa e stretta. I muri sono verde bottiglia, il soffitto candido con plafoniere troppo distanti per un’illuminazione adeguata. Un senso di fastidio al volto. Ci passo sopra una mano: indosso una maschera ad ossigeno. Guardo la mano: porta un ago di flebo. «Non così. Non adesso. Stai tranquillo» – una mano sposta la mia e dolcemente la riposiziona: «Dormi». Mi riassopisco.

«Finalmente! Era ora! Ringraziamo Dio!». Charity, l’infermiera che diventerà il mio angelo custode per le prossime due settimane, sorride. Si alza, accenna a un passo di danza e va a prendermi un bicchiere d’acqua. È felice: l’obroni (Uomo Bianco) si è svegliato. Ricomincio dalla fine della storia. I ricordi si infilano con ordine uno dietro l’altro come le perle di una collana di conterie. Ero arrivato a casa di Luca,

il mio amico e collega dopo un viaggio senza fine dal villaggio alla capitale. La febbre aveva ricominciato a salire. Juan, il giovane medico cubano – alto, bello, elegantissimo aveva auscultato il torace. Mi ero accorto solo allora che il mio respiro era spesso, pesante. «Questa è polmonite. Meglio andare in ospedale». Poi non ricordo più nulla. Alla clinica cinese ero in pratica l’unico paziente. Era nota in città con il soprannome di Ospedale delle Malattie Felici. Questo perché – dicevano – al contrario degli ospedali pubblici, da qui si avevano ottime probabilità di uscire in piedi, con le proprie gambe. «Vede, prof. – mi avrebbe ammonito Kwame, il medico ghanese che mi visitava cinque volte al giorno non fosse perché non aveva altro da fare – questa è una clinica seria. Noi non siamo come gli ospedali pubblici. Lì, appena sei in grado di stare in piedi, ti dimettono perché hanno bisogno di letti. Così

La stanza del dialogo

vai a casa, muori, tutti vengono al tuo funerale e prima di lasciarsi portare in ospedale quando sono malati ci pensano due volte. Così la pressione sui posti letto si allenta per la seconda volta. Noi no. Noi i nostri pazienti li teniamo qui. Fino a quando non siamo assolutamente certi che moriranno di tutto fuorché di quello che avevano quando sono entrati qua dentro…». Già. Ero io che insistevo perché mi dimettessero non appena avevo cominciato a star meglio. Sapevo che la Malattia Felice mi costava una bomba che non potevo permettermi con la mia modesta pensione di Sua Maestà Britannica. Mi ero rassegnato («passerò dall’ospedale all’ostello dei poveri») anche perché le mie ricerche sul cellulare sempre più scoraggiate per trovare un volo per l’Italia non cavavano un ragno da un buco. Voli intasati, l’aeroporto internazionale nel caos, passeggeri appiedati inferociti… aveva dovuto interve-

Genitori e figli, i desideri nell’era dei social

Gentile dottoressa, non ho figli, stavo per dire «per fortuna», perché sono tali e tante le difficoltà dei genitori da togliere la voglia di metterne al mondo.

Sono un’insegnante e una zia con nipoti di tutte le età e, considerato che so guardare e ascoltare, mi considero una buona osservatrice dei comportamenti di bambini e ragazzi. Se ho deciso di scriverle è perché non ne posso più di brontolare tra me e me, col rischio di diventare una vecchia zitella sfuggita da tutti. Allora stamattina mi sono svegliata e, acceso il computer, ho deciso di entrare nella «Stanza del dialogo» ed esporre le mie critiche, con la speranza di essere smentita.

Per prima cosa a Natale non sapevo cosa regalare ai più piccoli perché, semplicemente, hanno già tutto. Ma che dico? Più di tutto. Da quando sono nati, i genitori accontentano ogni richiesta e spesso le anticipano per il gusto di assecondarli.

Con i nipoti più grandi invece, soprattutto con le femmine, il problema è l’aspetto fisico, il peso. Le mamme vogliono che non abbiano un grammo di troppo e fanno un dramma se mangiano un dolcetto in più o se quel giorno non hanno voglia di andare in palestra o in piscina. Non vi sembra che, pur amando i loro figli, stiano crescendoli in modo sbagliato?

/ La bisbetica domata

Cara Bisbetica, essere genitori è sempre stato il compito più impegnativo che la generazione degli adulti debba affrontare. Ma ora è diventato particolarmente arduo perché, come non è mai avvenuto prima, scuola e famiglia si trovano a competere con rivali particolarmente potenti, insinuanti ed efficaci: i social media, mezzi di comunicazione che, come Facebook, Instagram e TikTok, permettono, non solo di ricevere informazioni ma di interveni-

La nutrizionista

re per modificarle e accrescerle, cioè di essere passivi e attivi.

Il video sforna una valanga d’informazioni, di modelli, suggerimenti e tentazioni che gonfiano a dismisura i desideri dei bambini. Sotto Natale poi le sollecitazioni raggiungono il parossismo: giochi e giocattoli, presentati in modo suadente, convincono i più piccoli che solo possedendoli puoi essere felice. Suggestionati, chiedono subito mille cose, sempre diverse perché, nella loro fantasia, le immagini si accavallano e sostituiscono. Che fare? Invece di rincorrere soddisfazioni impossibili, meglio fissare i loro desideri elencandoli in una letterina. Sono quelli e basta, inutile dilagare.

Quanto agli adolescenti, anche nei loro confronti i social intervengono pesantemente fissando le «identità in formazione» sull’aspetto fisico, con la complicità, come lei giustamente osserva, dei genitori. Troppe volte rivolgiamo

Le noci mettono d’accordo tradizione e scienza

Cara Laura, ho letto il suo interessante articolo sulle castagne, e mi ha fatto tornare in mente che spesso mi è capitato di sentire consigliare il consumo di noci, altro frutto autunnale che da noi abbonda, per combattere il colesterolo. E non solo: mi pare che le noci, soprattutto qui in Ticino, forse per una questione legata alla tradizione locale, siano considerate quasi come un cibo miracoloso, utile per combattere o almeno prevenire qualsiasi malanno. È così? / Luca

Gentile Luca, la ringrazio molto per avermi scritto perché non sapevo di questa venerazione delle noci da parte dei ticinesi e, informandomi meglio per risponderle, ho scoperto che non siamo solo noi ad ammirarle tanto: in un’università californiana, da 50 anni si riuniscono in conferenze esperti del settore per discutere le ultime ricerche sulla salute e il loro consumo. Che le noci possano prevenire qualsiasi ma-

lanno effettivamente sa di miracoloso: purtroppo, come ho spesso scritto in altri articoli, non è il singolo alimento che può «salvarci». Non posso dirle quindi di mangiare noci affinché non si ammali, e non posso farlo con nessun altro alimento. Si può vivere meglio, più forti e sani con una combinazione di buone abitudini alimentari in generale, movimento e altri fattori. Le noci possono comunque essere delle buone alleate della nostra salute: a livello nutritivo sono un’eccellente fonte di vitamine e sali minerali, tra questi posso citare il rame, l’acido folico, il fosforo, la vitamina B6, il manganese e la vitamina E. Sono pure ricche di proteine e grassi omega-3 e sostanze antiossidanti. Tra i benefici studiati nel loro consumo, si annovera veramente anche l’abbassamento del colesterolo, grazie a una maggiore attività antiossidante rispetto a qualsiasi altro frutto a guscio comune. Questa

attività deriva dalla vitamina E, dalla melatonina e da composti vegetali chiamati polifenoli – di cui è particolarmente ricca la buccia cartacea delle noci – che aiutano a combattere il danno ossidativo nel corpo, compresi i danni dovuti al colesterolo LDL «cattivo», il quale a sua volta promuove l’ateriosclerosi. I polifenoli aiutano anche a ridurre l’infiammazione alla base di molte malattie croniche, tra cui quelle cardiache, il diabete di tipo 2, il morbo di Alzheimer e il cancro. È pure dimostrato che le noci aiutano a diminuire il rischio di malattie cardiache essendo significativamente più ricche di grassi omega-3 rispetto a qualsiasi altra frutta a guscio, fornendo 2,5 grammi per porzione da 28 grammi. Il grasso Omega-3 dei vegetali, è chiamato acido alfa-linolenico (ALA) ed è un grasso essenziale, il che significa che lo si deve ottenere dalla propria dieta. Il grasso ALA

nire l’esercito. Poi, un giorno la Divina Provvidenza mise in rete un biglietto per un volo su Venezia. Uno. Tempo di volo eterno, prezzo agghiacciante. Prendere o lasciare. Preso. Anche il pagamento al cellulare aveva per una volta funzionato. Era chiaramente un segno dal Cielo: evvvaiii! Quella notte l’unica altra paziente nel vicino reparto maternità aveva dato in escandescenze. Ore insonni ad ascoltare urla e grida. «Com’è andato il parto?» avevo chiesto la mattina, esausto, mentre Charity mi rassettava le lenzuola. «Parto un corno» mi aveva risposto seccata. «Non era incinta. Aveva le jins (gli Spiriti del folklore islamico che in Africa affliggono specialmente le donne con fitte di possessione) e l’abbiamo spedita all’ospedale pubblico. La nostra clinica non è posto da jins» «Dottor Kwame, che lei lo voglia o no io lunedì esco dalla clinica. Mi parte il volo per l’Italia e non c’è nessu-

no che possa fermarmi. No – nemmeno l’esercito: quello ha abbastanza da fare in aeroporto». Sarà stato il peso del conto da pagare, sarà stato quello della borsa di medicine – costosissime – che mi erano state date come viatico (il mio medico curante mi avrebbe poi ingiunto, inorridito e in nome di Dio di buttare via tutto, perché quei dosaggi lì avrebbero ammazzato un elefante), sarà pur stato che aveva ragione il Dottor Kwame… Quella mattina uscivo sì dalla clinica in piedi, ma appena giunto in aeroporto un’addetta alla Sicurezza aveva intuito, dal mio incedere stentoreo, che non sarei mai arrivato alla fine dei controlli sulle mie gambe. Appena prima che collassassi mi ritrovai legato su una sedia a rotelle con tanto di autista. Il resto è storia. Grande Ghana, grandi i ghanesi che hanno ancora un occhio fine di riguardo per gli anziani – di ogni colore. God bless Ghana.

alle femmine complimenti su come sono belle, carine, eleganti, sottovalutando altri valori come la simpatia, la gentilezza, l’attenzione, la disponibilità. Spesso le madri proiettano sulle figlie le loro esigenze accrescendone, senza accorgersene, l’insicurezza. Quello che dovrebbero fare è piuttosto comunicare un modello di accettazione di sé stesse evitando, ad esempio, di commentare negativamente ad alta voce il proprio aspetto fisico: sono grassa, sono brutta, devo dimagrire. È probabile che i figli imitino questo scontento proiettandolo su di sé con le conseguenze che conosciamo: disfunzioni alimentari, depressione, isolamento… È giusto preoccuparsi che i giovani non cerchino di placare col cibo l’ansia dell’età e che svolgano regolare attività fisica, ma stiamo attenti che l’approvazione dell’immagine non divenga l’unico valore da perseguire.

Sappiamo che l’adolescenza, l’età in-

certa, tende a oscillare tra due estremi: il troppo o il troppo poco. Spetta ai familiari non incentivare quest’alternanza apprezzandoli per quello che sono, non per quello che appaiono. Infine, per quanto i non adulti siano problematici, credo che le feste in famiglia siano più allegre quando ci sono bambini e ragazzi. Renderli felici non è obbligatorio: l’importante è che crescano, che divengano adulti. Ma quando il nostro amore li illumina e riscalda è una gioia per tutti e, in quei momenti, la montagna dei pacchi dono ritrova il proprio posto: ai margini della casa e della vita.

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

omega-3, il magnesio e l’amminoacido arginina nelle noci sono ugualmente coinvolti nel diminuire lo stato infiammatorio.

Mangiare noci non nutre solo noi ma anche i batteri benefici che vivono nel nostro intestino. Ciò che promuove la salute dell’intestino e la nostra in generale. Le noci sono ricche di calorie, ma le ricerche suggeriscono che l’energia assorbita da esse è inferiore del 21 per cento rispetto a quanto ci si aspetterebbe in base ai loro nutrienti.

Inoltre, mangiare noci sembra possa aiutare a controllare l’appetito e il peso; ma è stato eseguito un solo studio poco ampio in merito.

In conclusione, penso si evincano bene e in maniera chiara i benefici derivanti dal consumo di noci. Rimango sempre affascinata dal fatto che alcune convinzioni popolari abbiano un fondo di verità. In questo caso, è come se la semplice noce avesse suggerito

già secoli or sono che avremmo fatto bene a consumarne. Un frutto strano, racchiuso in un piccolo scrigno di legno duro, dai nomi delle parti che lo compongo strani anch’essi: il mallo, la parte esterna verde che ricopre il guscio, e il gheriglio, la parte che mangiamo e che ci dà tutto quanto descritto sopra.

Insomma, direi proprio che il valore culturale e alimentare di questo frutto sia più che giustificato. E poi, voilà, in Ticino tutti conoscono il nocino. Affettuosamente e virtualmente attraverso questa rubrica ve ne offro uno (ma solo uno!) e vi auguro buona fine e felice inizio.

Informazioni Avete domande su alimentazione e nutrizione?

Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXV 27 dicembre 2022 azione – Cooperativa Migros Ticino 11 SOCIETÀ / RUBRICHE ◆ ●
di Laura Botticelli
◆ ●
di Cesare Poppi
◆ ●
di Silvia Vegetti Finzi

Non solo unicità e bellezza

Lorenzo Cantoni ripercorre la storia della Convenzione sul patrimonio mondiale dell’UNESCO nel suo 50° anniversario

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Silke Pan, l’arte del circo

Uno squisito aperitivo

Fette di bresaola farcite con formaggio fresco, olio d’oliva, succo di limone, pepe e rucola

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Ikebana, l’arte della composizione

Se il fiore di pesco omaggia la femminilità, il Bambù simboleggia la prosperità, mentre i fiori in bocciolo, la nascita della vita

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Altri campioni ◆ L’incredibile storia di una grande artista e atleta

Era un mondo parallelo. E lei, da bambina, stava così bene, lì. Era enorme, visto dall’interno, seduta sugli spalti, il tendone del circo. E altrettanto immenso era lo stupore quando le luci puntavano a rullo di tamburo su trapezisti, danzatori, funamboli e ginnasti. Qui, anche il mondo dei grandi le piaceva; ed era diverso da quello in cui era cresciuta, senza tensioni e dissapori.

Al circo, la piccola Silke riusciva a rifugiarsi in un mondo fantastico. Nella quotidianità invece trovava piacere suonando il violino, danzando, pitturando, praticando la ginnastica artistica e i tuffi acrobatici.

Il talento poliedrico dalla giovane Silke Pan non sfugge al suo allenatore, che le consiglia di iniziare a studiare l’arte circense. «Ai tempi non c’era ancora internet» ci racconta Silke. «Per questo motivo non è stato facile trovare una scuola di circo». A soli 17 anni parte per Berlino e si iscrive alla famosa Staatliche Ballettschule Berlin und Schule für Artistik (Scuola statale di balletto e scuola artistica di Berlino). «Lì mi hanno riconosciuto l’esperienza nel mondo della ginnastica artistica, come pure gli stage che durante le vacanze scolastiche seguivo nei vari circhi. Ho così guadagnato due anni sul percorso formativo e sono entrata subito nell’ambito dei professionisti; iniziando a esibirmi in alcuni spettacoli» spiega Silke Pan.

Terminata la scuola, Silke lavora in tutta Europa come contorsionista e trapezista. Per ben undici anni presenta spettacoli da solista e riesce ad avere un impiego fisso presso il Circo Nock. Nel 2002 rivede un caro amico che aveva conosciuto anni prima durante il soggiorno di studio a Berlino quando aveva appena 19 anni. Lui si chiama Didier Dvorak. Decidono di unire le forze, per comporre uno spettacolo aereo in coppia. Da quel momento Silke e Didier lavoreranno

sempre assieme e diventeranno una coppia anche nella vita.

Si esibiscono a Rimini e nel parco divertimento a Roma, così pure sulle navi da crociera. Gli spettacoli si susseguono, il successo anche. Poi, improvvisamente, in un allenamento, la vita di Silke viene stravolta. Durante un’acrobazia al trapezio, cade e si rompe la schiena. È paraplegica. «Sono stata operata a Cesenatico – spiega Silke – e subito dopo mi hanno trasferita al Centro paraplegici a Nottwil, dove sono rimasta sei mesi per la riabilitazione».

Dalla Clinica esce ad aprile del 2008. «Appena rientrata a casa non sapevo più che cosa fare. Avevo inoltre grossi problemi con l’assicurazione, che non voleva pagarmi. Dovevo lavorare e soprattutto dovevo guadagnare, per cui mi sono rimboccata le maniche e ho creato assieme a Didier uno spettacolo per bambini, fatto di magia e palloncini. Io mi trasformavo in un aereo, e con la mia carrozzella alata entravo nel mondo fantastico abitato da animali giganti rigorosamente costruiti con i palloncini».

Nel 2009, e per un anno, la coppia lavora a Fiabilandia, a Rimini, dove propongono questo spettacolo. «Tutti mi applaudivano – continua Silke –, mi trovavano incredibile, gioiosa, una forza. Io invece mi sentivo morire. Ero sul palcoscenico e inscenavo la bellezza della vita, ma in realtà soffrivo molto la mia situazione di persona paraplegica. Non accettavo la carrozzella. Stavo male».

Silke decide quindi di smettere con questo spettacolo, per dedicarsi con suo marito Didier alla realizzazione di una nuova azienda di decorazioni fatte con i palloncini. Per farsi conoscere creano il labirinto di palloncini più grande del mondo. Un record che apre loro le porte commerciali nei cinque continenti. Didier brevetta inoltre una soluzione innovativa per l’assemblaggio dei palloni e

viene invitato a presentare la sua tecnica ovunque.

A Silke, il mondo delle decorazioni piace molto. Ma le manca quello dello sforzo fisico. Non sta bene nel suo corpo. Ha spasmi e dolori continui nelle parti paralizzate. Si ricorda quindi delle uscite in handbike che faceva nel suo soggiorno in Clinica a Nottwil. Decide di salire di nuovo su una handbike e lo fa partecipando a una gara, la Suva Care Cup. Con suo grande stupore, conclude la sua prestazione al secondo posto. Partecipa successivamente ad alcune gare in Svizzera e poi, visto il suo passaporto germanico, prende parte ai Campionati nazionali tedeschi, dove porta a casa un secondo posto. Siamo nel 2012. È l’inizio di un’incredibile carriera in handbike

Silke vince molte maratone, brucia altrettanti record: «Attraverso l’ handbike sono di nuovo riuscita a sentire il mio corpo; i dolori diminuivano e mi sentivo sempre più normodotata» racconta Silke. «Riesco così, finalmente, ad accettare il mio nuovo corpo». Nel 2017 vince il giro d’Italia. Sembra tutto perfetto, ma in realtà non è così. «Il mondo della competizione è incre-

dibilmente controllato» ci dice Silke. «Ci sono tanti obblighi e sei monitorata in molte cose».

Silke si sente in prigione e decide di continuare a praticare l’ handbike, ma in una forma diversa. È l’inizio di un altro capitolo importante, quello delle grandi sfide, la prima delle quali è il giro della Svizzera attraverso 13 passi alpini, poi la scalata del Mont Ventoux dai tre lati. «Mi sentivo di nuovo in armonia con la natura, e libera. Nel 2018 ho scalato 26 dei principali passi dei Pirenei in handbike in dieci giorni e nel 2019 ho percorso 1000 km in Svizzera in handbike, attraversando 30 laghi per un totale di 70 km a nuoto».

Nel frattempo Silke riceve la nazionalità svizzera. Ritorna a gareggiare in handbike, questa volta per la nazionale rossocrociata, ma la situazione pandemica mette in subbuglio il calendario delle gare, che vengono poi cancellate definitivamente. Silke continua ad allenarsi e, su suggerimento del suo allenatore, inizia un programma di rafforzamento muscolare come allenamento supplementare. Un giorno, quasi per gioco, dice a Didier che vorrebbe provare la ver-

ticale sulle braccia. Didier dapprima la prende per i piedi e le sorregge le gambe; la riporta nella posizione seduta e misteriosamente scende in cantina, prende lo snowboard, ritorna da Silke e le fissa il tronco e le gambe alla tavola. Silke è di nuovo in verticale, questa volta da sola. «In pochi minuti ho ritrovato sensazioni che solo da normodotata provavo. Così, nel 2021 ho deciso di smettere definitivamente con l’ handbike per rientrare nel mio mondo, il circo».

Qui riceve prestigiosi riconoscimenti (Premio Speciale della Giuria Tecnica / Salieri Circus Awards; Premio dell’Associazione Nazionale Italiana Sviluppo Arti Circensi; Premio dell’Australian Circus Festival; Premio Lions; Premio Speciale del Conseil Départemental de l’Isère). E tuttora sta di girando il mondo con un numero circense poetico, di prestazione. «Provo gratitudine per quello che mi ha regalato la vita» conclude Silke. «Un percorso in cui ho imparato da un’esperienza molto dura. Ma ora sono ancora qui, felice, come quella piccola Silke, a sognare e a divertirmi sotto il tendone del circo».

TEMPO
● ◆ 12 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXV 27 dicembre 2022 azione – Cooperativa Migros Ticino
LIBERO
Irene Barbiero Davide Bogiani Irene Barbiero

A piedi nudi sui Jingle Truck

Reportage ◆ Cinquecento chilometri lungo il Pakistan a bordo di un camion colorato

Li chiamano Jingle Truck, per via del tintinnio dei ciondoli appesi ai paraurti. Le decorazioni sono ovunque: piastre metalliche, adesivi colorati, specchi o borchie, frange, cerchioni pennellati di un acceso arancio, davanzali multicolore, paraurti ricoperti di campanellini e catenelle intrecciate, in un’alternanza di motivi floreali, calligrafie, uccelli e pesci.

Shahid vive a Karachi, nel sud del Pakistan, ed è appena partito per un lungo viaggio Ho attraversato il Pakistan in autostop per ascoltare storie nuove e scoprire che odore ha l’aria di montagna a queste latitudini. Ho preferito restare al di fuori dei consueti circuiti turistici per conoscere persone e luoghi profondamente normali, quotidiani, seppure di una quotidianità tanto diversa dalla mia. Mi accorgo subito però che sulla strada di normale c’è ben poco. L’esuberante e abbagliante estetica dei camion pakistani cattura lo sguardo. Questi bestioni della strada hanno un’insolita grazia, sono delle vere e proprie opere d’arte senza eguali in nessun altro Paese al mondo.

Sono tutti uguali e al tempo stesso diversi. Ogni camion è una variazione sul tema, le decorazioni scelte raccontano il luogo d’origine del camionista e dunque sono anche un rimedio contro la nostalgia, quando i guidatori restano lontani da casa per lunghi periodi.

Affascinata da questi baracconi colorati, declino cortesemente le offerte delle automobili che fanno a gara nel fermarsi, quando (insieme al mio compagno) comincio questa esperienza alla periferia della capitale, Islamabad. Accetto invece un passaggio da un camionista, Shahid. Tre ripidi e lunghi gradini più su vengo invitata a togliermi le scarpe e a mettermi comoda, sistemando sulla cuccetta gli zaini pesanti. Le pareti della cabina sono sovraccariche di souvenir e fotografie, come in una stanza di casa. Sono subito trattata con la gentilezza che si riserva agli ospiti e questo mi permette di accorciare rapidamente le distanze culturali. Shahid abbozza un timido sorriso e nel suo inglese traballante mi pone le prime domande di circostanza. Quando scopre che sono in viaggio da mesi sulle strade dell’Oriente, proprio come lui, inizia a raccontarsi con entusiasmo. Ha due figli pressappoco della mia età; è molto orgoglioso di essere riuscito a farli studiare e sogna che un giorno possano emigrare all’estero per trovare un buon lavoro e una casa tutta loro.

Shahid vive a Karachi, nel sud del Pakistan, ed è appena partito per un lungo viaggio che lo vedrà attraversare le aree a nord del Paese diretto in Afghanistan e in Turkmenistan. Lo accompagna il fratello e collega Ahmid, alla guida dell’altro camion. Siamo diretti a Gilgit, snodo importante lungo l’antica Via della seta, ai piedi di imponenti catene montuose. In questa casa itinerante percorriamo più di cinquecento chilometri, con tanto di notte a bordo.

Dalla grande vetrata frontale m’immergo completamente nel pa-

esaggio. L’autocarro è lento di suo e non aiutano certo curve a gomito e dislivelli sempre maggiori, lungo la celeberrima Karakorum Highway, che attraverso il Passo Khunjerab (4693 mlm) dal 1982 collega Pakistan e Cina. È una delle tratte stradali più alte al mondo; attraversiamo terreni rocciosi costeggiati da imponenti fiumi, alimentati dallo scioglimento dei ghiacciai circostanti. Nonostante la freddezza del luogo, sono avvolta da un’atmosfera confortevole e da un ca-

lore familiare, con in sottofondo musica tradizionale e la voce di Shahid, sempre attento a controllare le mosse del fratello nello specchietto retrovisore. Numerose videochiamate con i figli e la moglie mi consentono di dare un volto ai protagonisti di tutti i suoi racconti.

Verso sera ci fermiamo in un largo spiazzo sul ciglio della strada per preparare la cena. Da una banale porticella sul lato destro del veicolo spunta fuori a sorpresa una cucina da campo

fornita di tutto. Le montagne più alte del mondo fanno da cornice a questa cena improvvisata con seggiole da campeggio, immancabile tè ( çay) con latte e sale, seguito da riso con dahl, le tipiche lenticchie rosse. Ancora qualche chilometro e arriviamo in un’area industriale ai margini di Gilgit, dove sostiamo in un deposito per camionisti. Se ci fossi capitata per caso, questa zona periferica mi sarebbe sembrata povera e forse pericolosa, ma per chi come Shahid e Ahmid spen-

de molto tempo alla guida in solitaria si trasforma in uno spazio di condivisione e convivialità. Premurosamente Shahid ci cede la sua branda per la notte e si corica insieme al fratello nel secondo camion.

Al risveglio ci salutiamo e mi dirigo verso la valle dello Hunza, rientrando nel mondo dei turisti e dei backpacker. Questa valle infatti è famosa per lo spettacolare paesaggio punteggiato da altissime montagne (Rakaposhi, Ultar Sar e tante altre, tutte ben sopra ai settemila metri); inoltre qui lo scrittore americano James Hilton collocò l’utopica e perfetta Shangri-La, immaginata nel suo romanzo Orizzonte perduto (1933). Nonostante tanta bellezza mi attenda, mi separo con dispiacere dalla vita quotidiana dei camionisti pakistani, loro, sì, grandi viaggiatori. Shahid mi saluta con spirito paterno, raccomandandomi di stare in guardia dai pericoli della strada. Mi fa uno strano effetto perché sino a ora nel mio immaginario proprio i camionisti avevano una reputazione controversa. Ma mettere in discussione i propri pregiudizi è uno dei doni più preziosi del viaggio.

Dentro a questi veicoli imponenti, dietro a un aspetto talvolta ruvido, ho incontrato semplicemente cordiali e instancabili lavoratori in viaggio per settimane, intenti ad alleviare il peso della distanza dai propri affetti mantenendo vividi i ricordi attraverso storie e immagini, felici di poter condividere un pezzo di strada in compagnia di uno sconosciuto a cui raccontarsi.

Informazioni

Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

● Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXV 27 dicembre 2022 azione – Cooperativa Migros Ticino 13

SIA PER LA SUA ALIMENTAZIONE CHE PER LE SUE DIFESE NATURALI, IL SANO EQUILIBRIO INTESTINALE DEL TUO GATTO INFLUISCE IN MODO NOTEVOLE SUL SUO BENESSERE.

Qui di seguito puoi trovare 5 consigli semplici ed efficaci:

1. Un regime equilibrato

Per garantire l’equilibrio intestinale del gatto, è essenziale fornirgli una dieta equilibrata. Il cibo che il tuo gatto consuma può avere un impatto significativo sul suo microbioma intestinale, ovvero la combinazione di batteri buoni e cattivi presenti nell’intestino.

La cicoria, ad esempio, è un eccellente prebiotico naturale che nutre i batteri buoni dell’intestino. Anche i lattobacilli trattati termicamente sono ingredienti che apportano grandi benefici negli alimenti per gatti.

È stato dimostrato che favoriscono la produzione naturale di anticorpi nel loro tratto intestinale.

2. Cura

Alcuni gatti amano essere coccolati!

Se anche il tuo adora le coccole, approfittane per spazzolarlo regolarmente: non solo contribuirai a prevenire problemi alla cute, ma eviterai anche che ingerisca grandi quantità di peli.

3. Movimento

Lo stress è una delle cause più comuni dello squilibrio intestinale e l’esercizio fisico può essere un buon modo per stimolare l’intestino del gatto in caso di stitichezza. Può anche aiutare a tenere sotto controllo il peso e i livelli di stress del gatto, migliorando la sua qualità di vita.

è fondamentale.

4. Affrontare i cambiamenti con molta calma

Se decidi di cambiare l’alimentazione del tuo animale, ti consigliamo di fare un passo alla volta. Una transizione graduale effettuata nell’arco di alcuni giorni consentirà all’intestino del gatto di abituarsi alla nuova dieta e di ridurre al minimo l’impatto sulla sua salute intestinale.

5. Idratazione

I nostri felini, soprattutto quelli che mangiano esclusivamente cibo secco tendono a non bere abbastanza acqua. Per incoraggiare il tuo gatto a bere più regolarmente, posiziona varie ciotole d’acqua in diversi punti della casa, ma ricorda di tenerle lontane dalla lettiera. L’acqua deve essere fresca, quindi ti consigliamo di cambiarla almeno due volte al giorno. Alcuni gatti preferiscono l’acqua corrente e amano bere dal rubinetto: se anche il tuo gatto è così, potresti considerare di mettere una fontanella.

Un’altra buona idea è quella di integrare nella loro dieta del cibo umido (scatolette o bustine), che offre un maggiore apporto di liquidi. Puoi combinare il cibo umido con

il cibo secco preferito del tuo gatto. Tieni d’occhio le feci, il pelo e il comportamento del tuo amico a quattro zampe. I gatti non mostrano il loro disagio e il loro dolore come facciamo noi. Tendono a nascondersi quando non si sentono bene. Tendono a nascondersi quando non si sentono bene. In poche parole, se ti prendi cura del tuo gatto seguendo questi semplici accorgimenti, ne trarrai grande beneficio. Oltre a garantirgli una vita confortevole, puoi aiutare il tuo gatto ad affrontare meglio le situazioni difficili fornendogli gli elementi necessari per mantenere un intestino sano.

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L’equilibrio intestinale

Da sette meraviglie a più di mille patrimoni

Già da tempi immemori, l’umanità ha sentito la necessità di classificare, catalogare e gestire le risorse mondiali. Unicità e bellezza erano soltanto alcune delle categorie usate per descrivere tali attrazioni, come nel caso delle Sette meraviglie del mondo selezionate per la prima volta nel 130 a.C. Da allora, tale smania di classificazione non si è mai placata, tanto che nel 2007 fu selezionata una lista delle Nuove sette meraviglie del mondo a seguito di un lungo referendum mondiale indetto dallo svizzero-canadese Bernard Werber. Nel mese scorso si è celebrato il 50esimo anniversario della Convenzione sul patrimonio mondiale dell’UNESCO. L’idea di creare un movimento internazionale per la tutela del patrimonio mondiale nacque dopo la Seconda guerra mondiale, quando l’entità delle devastazioni era evidente a tutti; UNESCO si presentava come un’organizzazione intergovernativa con l’obiettivo di promuovere la pace attraverso la coltivazione della conoscenza e dell’istruzione.

Abbiamo parlato dell’anniversario con Lorenzo Cantoni, professore e prorettore vicario all’Università della Svizzera Italiana (USI) e direttore della UNESCO Chair in ICT to develop and promote sustainable tourism in World Heritage Sites. Istituita nel 2013, la cattedra si impegna a svolgere un’ampia attività di ricerca e insegnamento su come le tecnologie dell’informazione e della comunicazione possano essere utilizzate per sviluppare e promuovere il turismo sostenibile nei siti ascritti al patrimonio mondiale.

Come è nata la Convenzione UNESCO del 1972 per la protezione del patrimonio mondiale?

Al termine della Seconda guerra mondiale la comunità internazionale si chiese come impedire, in futuro, la distruzione o il furto di beni artistici durante un conflitto armato. Nacque così la Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, stipulata all’Aia nel 1954 e aggiornata nel 1999. Tale sensibilità rispetto al valore del patrimonio artistico-culturale, e all’importanza che la comunità internazionale se ne prenda cura, si è poi sviluppata a coprire anche altri rischi e a includere il patrimonio naturale. Nello stesso periodo della Convenzione dell’Aia, l’Egitto decise di costruire la diga di Assuan, costruzione che avrebbe comportato l’allagamento di una vasta area con edifici e siti archeologici. Un’ampia mobilitazione internazionale aiutò l’Egitto a salvare questo patrimonio trasferendo, con un’opera ai tempi decisamente ardita, i templi di Abu Simbel per evitare che fossero sommersi dall’acqua. Fu quella la base per la Convenzione del 1972, che stabilì l’esistenza di patrimoni di valore universale eccezionale che meritano di essere identificati, preservati e tutelati con un impegno della comunità internazionale.

In che modo si svolgono candidatura e selezione per diventare un sito Patrimonio Mondiale UNESCO?

È un processo complesso che inizia a livello locale e nazionale, inteso a verificare se un sito corrisponda alle caratteristiche identificate dalla Convenzione. Si effettua una valu-

tazione tecnica, a cura delle organizzazioni che assistono l’UNESCO nella procedura, cioè l’ICOMOS –International Council on Monuments and Sites, e lo IUCN – International Union for Conservation of Nature and Natural Resources. Viene quindi predisposto un corposo dossier di candidatura valutato, al termine del processo, dal Comitato del Patrimonio Mondiale, che si riunisce annualmente. L’UNESCO definisce anche una lista di siti a rischio, verso cui si orientano le attività di supporto economico e tecnico dei governi impegnati in questo ambito.

Che cosa è cambiato dal 1972 a oggi?

Anzitutto in questi 50 anni si è sviluppata, anche grazie alla Convenzione, una consapevolezza nuova e più estesa rispetto al valore del patrimonio. Una consapevolezza a mio avviso molto positiva. Sono poi cambiate soprattutto due cose. Da un lato i numeri: attualmente i siti del Patrimonio Mondiale sono 1154 in 167 Stati dei 194 che sottoscrissero la Convenzione: emerge l’esigenza di assicurare che tutti i Paesi possano registrare un sito e che la lista proponga una visione equilibrata e rappresentativa dell’intero patrimonio

mondiale. In secondo luogo, proprio negli ultimi 50 anni abbiamo assistito all’emergere del turismo di massa, che da un lato ha permesso di offrire nuove risorse per la conservazione del patrimonio, ma dall’altro ha anche conosciuto degli eccessi che possono mettere a rischio il patrimonio stesso. È emerso pure, e inevitabilmente, che si tratta di una convenzione diplomatica, soggetta dunque anche a sollecitazioni e forze esterne rispetto ai temi direttamente legati alla conservazione del patrimonio culturale e naturale.

È stato relatore alla conferenza internazionale indetta a Delfi (Grecia) dal Ministero ellenico della Cultura e dello Sport e dalla Delegazione Permanente della Grecia presso l’UNESCO in collaborazione con il Centro del Patrimonio Mondiale UNESCO. Il tema della recente conferenza riguardava i prossimi 50 anni: «Il futuro del Patrimonio Mondiale in tempi difficili per migliorare la resilienza e la sostenibilità». Qual è secondo lei il futuro della convenzione? È stato un grande onore poter presentare le ricerche della Cattedra UNESCO dell’USI davanti a decine di delegazioni diplomatiche e ai

principali decisori dell’UNESCO. Nelle presentazioni è stata più volte toccata la necessità di estendere la rappresentatività del Patrimonio mondiale a Paesi e regioni meno rappresentate – in particolare nel continente africano – predisponendo, idealmente, anche un sostegno economico e tecnico nella fase di candidatura. In secondo luogo, si è sottolineato il compito di preservazione, con particolare attenzione ai fenomeni naturali, la cui aggressività si è aggravata in alcune regioni in relazione ai cambiamenti climatici. In terzo luogo, si è sottolineata la necessità di una migliore armonizzazione con il settore del turismo, così da non vederlo come una minaccia rispetto alla conservazione del patrimonio, ma piuttosto come un importante alleato.

Lei è il direttore della UNESCO Chair in ICT to develop and promote sustainable tourism in World Heritage Sites presso l’Università della Svizzera italiana. Quali sono i progetti che avete in cantiere in questo anno importante? Abbiamo da un lato meglio definito e pubblicato un modello interpretativo del ruolo che i media digitali possono avere rispetto al turismo patrimoniale. Si tratta del framework «ABCDE», secondo cui i media digitali possono dare accesso ( Access) a informazioni di alta qualità sul patrimonio; possono migliorare (Better) l’esperienza di visita, per esempio grazie alla realtà aumentata; possono aiutare a stringere i legami (Connect) fra patrimonio, persone che visitano e persone che vi abitano; possono aiutare a disintermediare (Dis-intermediate) alcune relazioni, assicurando che i soldi spesi dai turisti per il viaggio arrivino a beneficio delle comunità locali; possono, infine, supportare la formazione e l’aggiornamento (Educate) di tutti gli attori coinvolti in questi processi.

Abbiamo inoltre sviluppato – ed è

stato questo il tema principale della mia relazione a Delfi – un concetto innovativo rispetto al turismo sui siti del patrimonio: non si tratta di vedere la visita come un atto di «consumo», ma come qualcosa che dobbiamo «meritare». Grazie ai media digitali posso preparare la visita: tutti abbiamo visto durante la pandemia che si può imparare anche online, comprendendo così meglio il valore del patrimonio in questione. Questa preparazione consentirà delle pratiche di visita più responsabili e sostenibili, ai diversi livelli: ambientale, economico, sociale e culturale. Si potrebbe trattare di una formazione a pagamento: chi la supera, avrà poi l’opportunità, in caso di visita, di usarla come titolo di accesso. Dunque le persone pagano il biglietto, laddove previsto, prima della visita e indipendentemente da essa, contribuendo al sostegno dei siti anche nei casi in cui – per qualunque ragione, come nel caso del Covid-19 – la visita non si possa fare o debba essere rimandata di anni.

Sono molti i progetti in cantiere alla Cattedra in questo periodo: una mostra itinerante sul Monastero di san Giovanni a Müstair (canton Grigioni), uno dei siti del Patrimonio mondiale in Svizzera, delle mostre fotografiche digitali, una scuola invernale, numerose ricerche sul tema della sostenibilità culturale, collaborazioni con colleghi e siti in tutti i continenti…

Un’ultima domanda… qual è il suo sito patrimonio mondiale del cuore?

Quelli ticinesi mi sono molto cari, il Monte San Giorgio – vicino al quale abito – e la Fortezza di Bellinzona. Anche le processioni della Settimana Santa di Mendrisio, che sono iscritte nella lista di un’altra convenzione UNESCO, del 2003, dedicata al Patrimonio culturale immateriale. Una convenzione che compirà tra poco i vent’anni… ma questa è un’altra storia!

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXV 27 dicembre 2022 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 15
Anche i castelli di Bellinzona sono patrimonio mondiale dell'UNESCO. (Manuela Mazzi)
svoltasi il
ALIX)
Simona Dalla Valle Il professor Lorenzo Cantoni in occasione della conferenza internazionale indetta
a
Delfi (Grecia) in collaborazione con il Centro del Patrimonio Mondiale UNESCO,
17-18 novembre scorso. (UNESCO/Christelle

Ricetta della settimana - Involtini di bresaola con formaggio fresco al limone

Ingredienti

Aperitivo

Ingredienti per 4 persone

200 g di formaggio fresco al naturale

1 cc d’olio d’oliva ½ cc di succo di limone un poco di scorza di limone 2 punte di coltello, circa, di pepe di Cayenna sale

100 g circa di bresaola 20 g di rucola

Preparazione

1. Mescolate il formaggio fresco con quasi la metà dell’olio e il succo di limone. Aggiungete un po’ di scorza di limone grattugiata e condite con pepe di Cayenna e pochissimo sale.

2. Distribuite il formaggio fresco aromatizzato sulle fette di bresaola, aggiungete qualche foglia di rucola e arrotolate le fette.

3. Condite le fette arrotolate con l’olio rimasto e cospargete il tutto con un pizzico di pepe di Cayenna.

Preparazione: circa 15 minuti.

Per persona: circa 11 g di proteine, 13 g di grassi, 2 g di carboidrati, 170 kcal/700 kJ.

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La via dei fiori e la ricerca del bello

L’ideogramma giapponese di ikebana non indica solo il fiore, ma anche il seme che germoglia, la foglia, il ramo, la radice. Come sottolineato nel nostro precedente articolo (L’arte Zen dell’impermanenza v. «Azione» del 16.5.2022), l’ikebana è un’arte accessibile a chiunque e nel contempo una pratica tecnica alla portata di tutti, ma ciò non significa che possa essere avvicinata e compresa senza preparazione.

Le tecniche di ikebana prese in sé sembrerebbero abbastanza semplici, ma ad esempio va capito come dosare il giusto assorbimento idrico per steli e foglie delicati, o come trovare il taglio che si addice a una singola pianta particolare, o come agganciare tra loro foglie, rami e fiori, e dar loro una direzione. Senza un sapere, una sensibilità e soprattutto uno stato d’animo particolare sarebbe difficile ottenere dei buoni risultati. Per meglio spiegare il senso di quest’ultima affermazione, si deve sapere che, ad esempio, uno stelo alto rappresenta il cielo, (Shin) uno stelo medio rappresenta l’uomo, (Soe) uno stelo più basso in posizione opposta, la terra (Hikae), inoltre le piante trasmettono anche un segreto messaggio, come il fiore di pesco che è un omaggio alla femminilità, il bambù simboleggia la prosperità, i fiori in bocciolo la nascita della vita. Quest’arte antica si fonda su una visione della vita ben lontana da

quella occidentalizzata (oggi anche in Oriente).

Roberta Santagostino – autrice di Piante e fiori dell’ikebana. Tradizioni, leggende e curiosità e del saggio Chabana. Appunti sui fiori del tè (entrambi per le edizioni Jouvence), un percorso poetico per scoprire le composizioni di fiori spontanei, indispensabili nelle Cerimonie del tè giapponesi –ci ha spiegato alcune particolarità di quest’arte.

Quali sono gli elementi utili per farci capire che stiamo guardando una vera composizione di ikebana? Le composizioni hanno regole precise che riguardano le misure, le inclinazioni e il posizionamento dei vegetali nel contenitore, e la forma del contenitore stesso. Ma la sensibilità dell’ikebanista riesce sempre a esprimersi molto liberamente, con risultati sempre diversi. Grande importanza ha la tensione positiva che si crea tra gli elementi di una composizione e il vuoto, che in Ikebana assume un ruolo comprimario rispetto ai fiori.

Ci fornirebbe alcuni consigli pratici generici per realizzare una composizione? È difficile rispondere brevemente a questa domanda senza una spiegazione tecnica che introduca a una delle composizioni base. Non è semplice spiegare l’ikebana in poche pa-

Giochi e passatempi

role, e non è possibile dare generiche indicazioni per realizzare una composizione. Non sarebbe Ikebana.

Come è nato il suo interesse per questa pratica artistica? Ho cominciato a occuparmi di ikebana perché attratta dalla particolare essenzialità delle sue composizioni. Quest’arte coniugava perfettamente la mia passione per i fiori con la mia ricerca del bello, inoltre tutta l’estetica giapponese mi ha sempre affascinata. La parola Ikebana significa «fiori viventi» dunque è l’arte di far rivivere in un vaso i vegetali che si sono raccolti. Questa raffinata espressione artistica viene chiamata anche kadō, o «via dei fiori», perché è un lungo percorso d’apprendimento che porta anche a un prezioso arricchimento personale.

Scrive Yuji Ueno, un grande maestro della ricerca indipendente dell’arte floreale dell’ikebana contemporaneo: «Nel mondo naturale tutti gli esseri viventi, così come i colori che percepiamo grazie alla luce, hanno una loro lunghezza d’onda che diffondono attorno a sé. In una composizione, fiori e steli possono essere disposti artisticamente per produrre ritmo e tempo, la forma di un ramo può creare movimento o un’onda, oppure tutta la struttura della composizione può suscitare la sensazione impalpabile di un universo più grande. Dalle piante sento provenire onde o pulsa-

Vinci

zioni di energia che definisco “vibrazioni” e che potrei chiamare “aura”, guidato dalle vibrazioni che individuo in natura, cerco di cogliere l’aura emanata dai fiori e di farmene permeare per entrare in sintonia con essa. In sostanza la forza vitale di una pianta è la stessa degli esseri umani, mi considero una persona che dialoga con i fiori come fossero perso-

Bibliografia

Roberta Santagostino, Piante e fiori dell’ikebana. Tradizioni, leggende e curiosità, (2017); Chabana. Appunti sui fiori del tè, (2020), Jouvence.

I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto

la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXV 27 dicembre 2022 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 17
una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
Soluzione della settimana precedente A U GO ORT UMO R I SIE D P INOI P AI CS E A G IACET O IOLEINT AUO SODIG A UTTA LONET U TOPI EST ENI A DA M O RCIO I E E O 4897 315 62 1624 587 93 5379 264 18 8 9 1 3 7 4 6 2 5 3762 159 84 2458 693 71 7 5 3 1 9 2 8 4 6 6145 872 39 9286 431 57 Cruciverba «Buon anno a te! Oggi ho letto l’oroscopo, dice che questo sarà l’anno del riscatto!» «Ecco…» Se inserirai opportunamente nel cruciverba, verticalmente e orizzontalmente le parole che trovi elencate in ordine alfabetico e di lunghezza, leggerai nelle caselle gialle il resto della frase. (Frase: 2, 5, 4, 3, 2, 9) Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate. 34 51 23 9168 6452 9 5294 715 1 42 7 Il messaggio della redazione: AUGURI DI PACE, GIOIA, SALUTE E AMORE. Parole di 2 lettere AV – CI – EN – ET – IA – OC – OI Parole di 3 lettere AER – AIR – ENO –ICS – INA – OCA – SEI – SLA – TSH – VAI Parole di 4 lettere ANTE – ARSE – ASTE – COSÍ – ERRE –IOSA – MANN –NAOS – TARA – SOLI Parole di 5 lettere ALANO – ESTRO –ICONA – OPERA –TENIA – TRAME Parole di 6 lettere NICHEL Parole di 7 lettere ORNELLA –SCEMARE
pervenire
Ikebana ◆ Importante è la tensione positiva che si crea tra gli elementi di una composizione e il vuoto
ne, perché la bellezza è un concetto universale che non richiede alcuna spiegazione». Una delle belle composizioni di fiori creata secondo i dettami dell’ikebana da Roberta Santagostino.

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Un futuro da potenza imperiale

La Turchia sta approfittando della guerra in Ucraina per aumentare ancora il suo peso geopolitico globale, vediamo come

Pagina 21

Se la strega è una proprietaria terriera

In India si ripropone un’orribile «caccia alle streghe» che miete vittime soprattutto fra vedove, anziane, donne di casta bassa e bambine

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Sognavano l’avvento del Quarto Reich

Le autorità federali tedesche reagiscono dopo l’arresto di 25 persone di estrema destra che pianificavano un incredibile golpe

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Dal rogo del 1666 all’ultimo annus horribilis

Ecco un altro anno che si chiude senza lasciare rimpianti. Un anno che non soltanto non ha saputo chiudere i conti con la pandemia, ma ha precipitato l’umanità in un altro flagello: alla peste ha aggiunto la guerra. Intanto è in agguato un altro cavaliere dell’Apocalisse, quello che porta la carestia. Quest’altra piaga biblica attanaglia il mondo sia nella formulazione tradizionale, che riguarda un quarto della specie umana afflitto dalla carenza di cibo, sia nella veste moderna di disastro finanziario e produttivo. Il 2022 passerà alla storia come l’anno del sanguinoso conflitto ucraino, che ripropone in piena Europa le devastazioni e i lutti delle grandi guerre del Novecento, aggravati da armamenti ben più sofisticati e dalla riluttanza delle parti a sedersi al tavolo negoziale.

È stato anche l’anno in cui una serie di fattori innescati dalla guerra e amorevolmente coltivati dalla grande speculazione internazionale ha imposto il sacrificio di quella difesa dell’ambiente che sembrava finalmente avviarsi, prima che in quel tormentato pezzo d’Europa si cominciasse a sparare, verso una presa di coscienza abbastanza diffusa. È stato l’anno del rilancio del carbone come

fonte di energia, con tanti saluti agli allarmi della scienza, alle scadenze e ai limiti fissati dalle conferenze annuali sul clima. Un anno nerissimo di fumi tossici, che portano nell’atmosfera le contraddizioni di un’umanità divisa fra il desiderio di rispettare la Terra e l’insopprimibile tendenza a spremerne le risorse senza badare alle conseguenze.

Speriamo che una riscossa della ragione sconfigga insieme la tragica stupidità della guerra e tutti i guai che ne derivano

Non facciamoci troppe illusioni, possiamo affidare al 2023 l’auspicio che una riscossa provvidenziale della ragione sconfigga insieme, prima che siano trascorsi i prossimi dodici mesi, la tragica stupidità della guerra e tutti i guai che ne sono la conseguenza più o meno diretta. Ma non si può fare a meno di notare che le ferite sono molto profonde e la terapia richiederà in ogni caso un sacco di tempo. Auguriamoci in primo luogo che il conflitto ucraino non faccia i due passi verso la catastrofe che in prospettiva terrorizzano il mondo: l’allargamen-

to fino alle dimensioni di una terza guerra mondiale, l’impiego delle armi nucleari.

Comunque vadano le cose è un fatto che il 2022 si è meritatamente guadagnato il titolo di annus horribilis. Con questa locuzione si usano designare le date a torto o a ragione considerate le peggiori della storia. A quanto pare fu un documento della chiesa anglicana a usarla per la prima volta definendo in questo modo il 1870, perché fu l’anno in cui il papa Pio IX proclamò il dogma della propria infallibilità. A riproporre il termine fu la regina Elisabetta II, che si riferiva al 1992. Che cosa era accaduto quell’anno? Divorzi a catena nella royal family e come se non bastasse un disastroso incendio che devastò il castello di Windsor, la dimora prediletta da sua maestà.

Le fiamme che avvolsero il castello inglese riportano alla memoria il great fire che nella prima settimana di settembre del 1666 distrusse buona parte di Londra, che allora era quasi completamente una distesa di case di legno. L’incendio colpì la metropoli già stremata da un’epidemia di peste che uccise un quinto della popolazione. Annus horribilis il 1666? Niente affatto, almeno non nella visione del poeta

John Dryden, che al contrario intitolò Annus mirabilis il poema storico che dedicò a quegli eventi.

Questo richiamo offre uno spunto di consolazione a noi che salutiamo questo tremendo 2022 guardando ansiosi a ciò che potrà accadere nel 2023. Infatti, perché mirabilis l’anno della peste e del grande incendio di Londra? Perché il poeta, dando prova del caratteristico pragmatismo britannico, ne seppe cogliere gli aspetti positivi. Cioè il fatto che la vecchia Inghilterra era riuscita a sopravvivere a quelle due grandi sfide e nello stesso anno era uscita vittoriosa dalla guerra anglo-olandese per la supremazia sui mari. Infine, non è forse vero che proprio il great fire, facendo strage dei topi portatori della peste, pose fine all’epidemia?

Non è affatto facile imitare Dryden e cogliere bagliori di ottimismo fra le cronache del 2022, eppure quel precedente sembra rendere l’impresa meno assurda di come appare a prima vista. Ma non certo fino al punto da poter definire mirabilis l’annata appena trascorsa. Perfino la grande festa del calcio celebrata nel Qatar è stata offuscata da alcune circostanze che si vorrebbero dimenticare, se mai fosse possibile. Per cominciare le migliaia

di vittime che funestarono la costruzione delle infrastrutture destinate all’evento sportivo. Il piano era contrassegnato da un faraonico sfarzo ma anche dalla drammatica carenza delle più ovvie misure di protezione. Per questo sono morti tanti lavoratori provenienti dal Bangladesh, dal Pakistan, dalle Filippine, insomma dal mondo tormentato delle povertà.

Un’altra circostanza che ha steso una nube sul campionato mondiale di calcio è stata la rivelazione, giunta proprio nei giorni conclusivi del torneo, della inestricabile rete di corruzione che lega Doha e Bruxelles. Una montagna di dollari provenienti dalle ricchezze petrolifere è stata usata per comperare consensi fra le istituzioni dell’Unione europea e anche altrove, allo scopo non solo di curare l’immagine internazionale dell’emirato o per conseguire vantaggi di carattere politico ed economico, ma anche di influenzare la scelta del Paese cui affidare l’evento calcistico. Non c’è dubbio, questo 2022 è stato proprio un annus horribilis. Resta l’auspicio che il 2023, anche se molto difficilmente sarà mirabilis, possa almeno permetterci di immaginare una prospettiva di pace, lealtà e ragionevolezza.

ATTUALITÀ ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXV 27 dicembre 2022 azione – Cooperativa Migros Ticino 19
Il poeta John Dryden definì mirabilis il 1666, anno della peste e del grande incendio che devastò Londra. (Shutterstock) Prospettive ◆ Stanno volgendo al termine dodici mesi caratterizzati da pandemia, guerra e carestia. Gli auspici per il futuro Alfredo Venturi

La coppa alle Villas miserias

Argentina ◆ Milioni di persone omaggiano la Nazionale di calcio vittoriosa

mano la coppa appena vinta, si affacciò al balcone del palazzo presidenziale, alzò il trofeo e con le mani aperte verso il cielo raccolse l’ovazione della moltitudine accorsa a festeggiare da ogni angolo del Paese.

Per Messi e compagni martedì scorso non è stato possibile. C’erano persone ovunque dall’aeroporto internazionale di Ezeiza, a un’ora di autostrada dal centro, fino a qualsiasi strada, parco, marciapiede, lampione, balcone, metro quadro disponibile. Dalla pista dell’aeroporto fino in città. In strada non c’era soltanto una immensa moltitudine, una folla inaudita, un tappeto umano. C’era –secondo il quotidiano argentino «La Nación» – la maggiore concentrazione di persone della storia di un popolo che ha costruito la sua identità collettiva nei cortei di massa. Ad abbracciare la squadra tornata vittoriosa dal Qatar c’erano cinque milioni di persone, forse di più. Ogni stima è discutibile perché azzardare cifre è come cercare di contare i coriandoli per le strade a Carnevale. Il peronismo, il movimento politico scaturito nelle mobilitazioni di massa di cui l’Argentina è culla per antonomasia, mai è riuscito in quel che sono riusciti Messi e compagni.

Per avere un elemento di paragone: quando nel 1983, alla vigilia delle prime elezioni libere dopo la fine della dittatura militare, il futuro presidente Raùl Alfonsìn chiuse la sua campagna elettorale nella Avenida 9 de julio, ai piedi dell’obelisco che segna il centro simbolico di Buenos Aires, c’era un milione di persone. La politica non ha più registrato da allora

un momento di aggregazione simile. E nemmeno il calcio.

L’autobus con i giocatori è uscito martedì scorso a mezzogiorno dall’edificio da dove sarebbe dovuta partire la carovana dei festeggiamenti, a 6 km dall’aeroporto, e due ore più tardi non era riuscito a coprire più di pochi metri. Tutti volevano salutare i giocatori di persona, baciarli, dire loro grazie! Quando, quattro ore dopo la partenza, l’autobus era ancora a metà strada, bloccato da una barriera di gente che piangeva di gioia e gridava in estasi alla vista di Messi seduto sul tettuccio che si dissetava da una bottiglia di plastica tagliata a metà, il timore di restare prigionieri del mare di tifosi ha convinto i dirigenti della Nazionale ad abbandonare l’idea del saluto alla folla dall’obelisco e a tentare una via alternativa per l’autostrada 25 de mayo, una sopraelevata che si affaccia sul centro città. La voce è corsa in un attimo. Centinaia di migliaia di persone si sono stipate sull’autostrada come su un balcone affollato. Grande paura di rivolte, tumulti, tragedie. Evitate dall’idea di mettere la squadra su due elicotteri per sorvolare e salutare la folla lungo il percorso. Ha funzionato. Gioia, brindisi, grida, pianti. Alla fine si è trattato di un incredibile evento di massa tendenzialmente pacifico – ad eccezione di qualche arresto, alcuni incidenti con delle vittime – svoltosi nel caos più totale. Un alito di magia ha fatto scivolare piano piano a casa cinque milioni di persone. E ha evitato la catastrofe dell’ordine pubblico.

Tutti per strada davano l’impressione di essere consapevoli di vivere un evento storico. L’Argentina che porta a casa la coppa del mondo dopo trentasei anni, nell’ultimo mondiale di Messi, il primo giocato senza il sorriso di Maradona. Una grande festa popolare con la gioia inenarrabile d’aver portato via la coppa non a

un avversario qualsiasi ma ai francesi. Il trofeo non è a Parigi, ma a Buenos Aires. E soprattutto non nell’oro della Ville lumière nel cuore d’Europa ma nelle Villas miserias dell’estremo sud del sud America.

Quest’orgoglio attraversa gli argentini di tutte le classi sociali e li rende finalmente popolo, loro che popolo non sono mai stati. La gioia li unisce. Aver sconfitto in finale la Francia è una goduria che non ha nulla a che vedere con il pallone perché va oltre il calcio e si nutre dell’eterno sguardo ammaliato della cultura argentina, soprattutto della cultura alta d’élite, verso Parigi. Città amata, idolatrata e invidiata in nessun posto del mondo tanto quanto a Buenos Aires. Basta guardare i palazzi del centro della capitale argentina per vederlo. I più belli sono stati costruiti a fine Ottocento, primo Novecento secondo i disegni che i migliori architetti francesi dell’epoca avevano preparato per gli edifici parigini. Ogni fregio, ogni dettaglio, ogni orpello di quei ricchissimi progetti originali – quasi sempre eseguiti non alla lettera negli edifici francesi, non fosse altro che per razionalizzare i costi – è stato riprodotto pari pari dagli esecutori emigrati oltre Oceano.

Quei disegni minuziosi sono stati trattati dagli ingegneri e dagli architetti di Buenos Aires come fossero le tavole della legge. Nemmeno un fiore, una fogliolina di marmo sono stati cassati. E stanno ancora lì, intagliati nell’incredibile skyline della metropoli argentina a disegnare nel cielo australe la solennità della capitale di un impero che non esiste, che non c’è mai stato. Ma che ora si sente sul tetto del mondo, grazie al prodigio del calcio. È la «revancha del tango», la grande e dolcissima rivalsa di un popolo che per una giornata intera ha urlato dalla strada ai suoi campioni appena rientrati dal Qatar: «Messi y la copa estàn en casa».

Marcia alla turca

L’analisi ◆ Cresce il peso geopolitico di Ankara

La Turchia sta profittando della guerra in Ucraina per aumentare ancora il proprio peso geopolitico globale. Giocando in tutti i campi, proponendosi come mediatore ideale fra Russia e Nato/Ucraina, Erdogan ha avviato la trasformazione della Repubblica turca in potenza imperiale. La sua sfera d’influenza si dilata ormai dai Balcani all’Asia centrale, dal Medio Oriente all’Africa. Ankara è membro della NATO e non intende affatto rinunciarvi. Ma a differenza di altri Paesi usa l’Alleanza come leva per acquistare rilievo, non solo come recinto protettivo. Una logica offensiva, che negli ultimi mesi l’ha portata a individuare e presidiare una posizione intermedia fra le maggiori potenze in competizione. In particolare s’è avvicinata al suo storico nemico russo. Certo non per improvviso amore, ma per concreto interesse. Come la NATO, anche l’intesa limitata con la Russia è interpretata ad Ankara quale moltiplicatore d’influenza e di affari. Oggi il grano ucraino passa per gli Stretti dei Dardanelli e del Bosforo grazie alla mediazione turca fra ucraini e russi. Allo stesso tempo, Erdogan presidia due delle principali rotte migratorie sud-nord: quella greco-turca e quella libico-italiana. Nel primo caso, avendo incassato circa 6 miliardi dall’Ue, usa la minaccia del via libera ai 3 milioni di siriani ospitati precariamente in Anatolia per tenere sotto scacco gli europei, specie i tedeschi. Nel secondo, dopo essersi installata a Tripoli, governa di fatto i flussi provenienti verso la Tripolitania dal Sahel e dall’Africa profonda. La recente crisi fra Italia e Francia sui migranti è frutto di questo semimonopolio turco. Ma il vero colpo gobbo è il progetto di trasformare la Turchia in vettore del gas russo e centrasiatico verso l’Europa. La proposta, venuta da Putin, è stata subito accolta da Erdogan. L’idea è quella di rafforzare il tubo di Turk Stream, che dal 2019 veicola già 31,5 miliardi di gas verso l’Europa, e di completare allacciamenti verso Bulgaria-Serbia-Ungheria-Austria-Italia. La piattaforma logistica e i serbatoi della Tracia turca dovrebbero diventare i perni di questo sistema, destinato a rivoluzionarie le vie delle esportazioni di gas russo e non solo verso il Vecchio Continente.

Tutto nasce dalla guerra, dalle sanzioni europee e dall’attentato al gasdotto baltico Nord Stream 1 e 2,

che ha interrotto i collegamenti diretti fra produttore russo e consumatore tedesco. La fine dell’interdipendenza gasiera russo-tedesca era del resto l’obiettivo strategico dell’America, condiviso con britannici, polacchi e altri europei dell’est. Oltre che dagli ucraini, che da quel doppio tubo sarebbero stati aggirati e tagliati fuori dalle rotte fra Asia ed Europa. In sostanza, quel che non potrà più venire da nord potrebbe essere distribuito da sud grazie al progetto turco-russo. Inoltre la Turchia sta già commerciando in rubli per quanto riguarda il petrolio russo, con grande soddisfazione di Putin. È probabile che questo progetto incontrerà robuste resistenze da parte americana e britannica. Si tratta comunque di un’impresa che, se portata avanti fino in fondo, richiederà lavori per diversi anni e potrà entrare a pieno regime solo verso la fine di questo decennio. Il suo progresso dipenderà molto dall’esito del conflitto in Ucraina.

Gli europei stentano ancora a considerare la Turchia come quella grande potenza che già è. Se ne sottolineano le fragilità interne – questione curda, spaccatura fra islamisti dell’interno e coste più occidentalizzate, crisi economica e valutaria – mentre se ne trascurano i punti di forza. Tra questi soprattutto il ruolo delle Forze armate. Quello turco è il più forte esercito della NATO, dopo l’americano. Presto potrebbe dotarsi anche dell’arma atomica. Inoltre, a differenza della maggior parte delle Forze armate europee, quelle turche sono molto disinibite nell’uso delle armi. La grande strategia turca mira anzitutto al Mediterraneo, inteso come sbocco verso gli oceani. Da diversi secoli la flotta turca, già ottomana, ha perso rilievo. Negli ultimi anni la Marina turca ha lanciato il progetto Patria blu. Ovvero l’espansione nelle acque mediterranee, che passa per il recupero delle isole greche attorno all’Anatolia, ma anche di Cipro e Creta. In termini concreti, per una guerra con la Grecia. Questa però è una linea rossa che gli americani non intendono smentire. La diplomazia USA è al lavoro per prevenire un conflitto intestino alla NATO, che si risolverebbe fra l’altro in una manna per Putin. E per i cinesi, che certo non rinunciano alle vie della seta. Consiglio per l’anno nuovo: teniamo d’occhio la Turchia e i suoi vicini. Non ci annoieremo.

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Diego Armando Maradona, reduce dal trionfo ai Mondiali di calcio nel 1986, all’apice della sua popolarità, arrivò senza problemi con tutta la Nazionale alla Casa Rosada, in fondo alla Avenida de Mayo, al centro di Buenos Aires. Con in Delirio a Buenos Aires. (Shutterstock)
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La caccia alle «streghe» continua

Il fenomeno ◆ In diversi Stati indiani vengono perseguitate e uccise soprattutto vedove, anziane, donne di bassa casta e bambine

Un villaggio nel distretto di Ranchi, Stato indiano del Jharkhand, poco dopo mezzanotte. L’albero di tamarindo che sta in mezzo al villaggio sussurra piano alla notte, solo dentro al buio senza stelle. Se l’albero di tamarindo potesse parlare, invece di sussurrare piano, ecco cosa racconterebbe: in una quieta notte d’agosto cinque donne sono state torturate a morte. Bollate come streghe, sono state trascinate fuori dalle loro case nel cuore della notte, spogliate e picchiate, radunate davanti all’albero e colpite con un’ascia usata per tagliare la legna. La stessa scena, con poche varianti, si è ripetuta pochi giorni dopo in un villaggio poco distante.

Ogni volta che una donna, solitamente vedova e senza figli, si ritrova a ereditare un pezzo di terra viene accusata di essere una strega

Nel solo Stato del Jharkhand, questo anno, una cinquantina di donne sono state uccise perché sospettate di essere delle streghe. Negli ultimi vent’anni o poco più, mentre il boom economico cambiava per sempre la faccia del Paese e l’India entrava di diritto nel club delle Nazioni a più rapida crescita economica, a morire perché accusate di stregoneria sono state più di duemila donne. Duecento donne l’anno vengono linciate per lo stesso motivo, molte muoiono per le torture o vengono uccise a sassate. Un numero ancora maggiore si suicida. E le cifre, sempre secondo la polizia, sono sottostimate. I casi di «caccia alle streghe» segnalati alla polizia, negli ultimi sette anni, sono stati più di cinquemila. Le donne, quando non muoiono, vengono picchiate, costrette a mangiare escrementi, a sfilare nude per il villaggio; vengono messe al bando e le loro famiglie ostracizzate dalla comunità. Nonostante la legge. Secondo la leg-

ge sulla prevenzione della stregoneria del Jharkhand, infatti, la pena per chi identifica una donna come strega è la reclusione fino a tre mesi e/o una multa di 1000 rupie. Allo stesso modo, causare danni a qualcuno in nome della stregoneria può portare alla reclusione fino a sei mesi e/o a una multa di 2000 rupie. Ma della legge, come detto, non interessa a nessuno. Le «streghe» continuano a morire e il numero di quelle che muoiono aumenta ogni anno invece di diminuire, come certe teorie vorrebbero, con l’aumento della scolarizzazione e del benessere economico. Il fenomeno riguarda in prevalenza le zone tribali o Stati culturalmente «arretrati» come il Madhya Pradesh, il Jharkhand o il Bihar, ma non solo. Organizzazioni

che lavorano sul campo e notevoli sociologi sottolineano come il fenomeno sia strettamente legato ad indicatori socio-culturali: «È importante comprendere l’aspetto del controllo di genere, in cui solo le donne di una certa categoria sono perseguitate come streghe e sono ulteriormente controllate attraverso varie forme di violenza come lo stupro, la violenza domestica ecc. Anche in questo caso le donne accusate di stregoneria sono per lo più vedove, anziane, di casta bassa o bambine. Questo simboleggia come solo la classe più debole sia sottoposta a queste pratiche, mentre i cacciatori di streghe sono sempre uomini, popolarmente conosciuti come ojha. Il rapporto tra uomini e donne mostra come il patriarcato sia

una questione sociale profondamente radicata che non fa altro che inculcare nella mente delle donne l’idea che gli uomini appartengano alla classe superiore».

Sembra di ascoltare Ernesto De Martino, le cui ricerche sulla magia popolare dell’Italia del sud sono state preziose per generazioni di studiosi. Secondo il grande antropologo, la magia era espressione di una «cultura subalterna» e sarebbe sparita nel momento in cui, grazie alla scolarizzazione e al progresso, sarebbe scomparsa quella cultura. Non è andata così in Italia (né nel resto d’Europa), non è proprio così nemmeno in India. Servirsi della superstizione e dell’ignoranza, difatti, per colpire le donne che cercano di cambiare lo stato

Tra torture, omicidi ed esclusione sociale

delle cose ribellandosi all’ordine sociale diventa paradossalmente sempre più comune soprattutto ai margini di quello sviluppo che fa gola a molti e che è relativamente ancora privilegio di pochi. La strega, difatti, è quasi sempre una proprietaria terriera. Secondo il Working Group for Women and Land Ownership, ogni volta che una donna si ritrova a ereditare un pezzo di terra viene accusata di essere una strega. Umiliata, torturata, picchiata e costretta ad abbandonare il suo villaggio nel migliore dei casi. Altrimenti uccisa con modalità più o meno raccapriccianti. La storia segue quasi sempre un copione prestabilito, recitato con minime varianti. La donna è quasi sempre di una certa età, vedova e senza figli. Ha ereditato dal marito della terra e si rifiuta di cederne la proprietà o la gestione al suocero o ai cognati. In molti casi, «oltraggiosamente», arrivando perfino a difendere per vie legali il proprio diritto all’eredità a scapito del codice di comportamento non scritto che vuole che la terra rimanga indivisa nelle mani degli uomini della famiglia. L’accusa di stregoneria la neutralizza, eliminandola fisicamente, e la terra passa di mano automaticamente.

Nel 2016 era stato presentato al Parlamento di Delhi un progetto di legge per la prevenzione della «caccia alle streghe». Il documento conteneva sezioni che coprivano una serie di questioni, dalle ragioni per cui una donna può essere considerata una strega dalla gente, ai programmi di riabilitazione e di sensibilizzazione che il Governo dovrebbe attuare. Tuttavia non ha superato le fasi successive di esame in Parlamento. È meglio liquidare la stregoneria come fenomeno folcloristico e spazzare la «caccia alle streghe» sotto il tappeto delle cose di cui vergognarsi in un Paese civile, rifiutandosi di prendere atto del fenomeno e soprattutto delle sue ragioni. Mentre le donne continuano, ogni anno di più, a morire.

L’Onu ◆ Casi di violenze inaudite giustificate dalla volontà di contrastare il «maligno» si registrano anche in Africa e non solo

La «caccia alle streghe», nei tempi attuali, non è un fenomeno che riguarda solo l’India. Casi di violenze inaudite giustificate dalla volontà di contrastare il «maligno» si registrano anche in Tanzania, Congo, Angola, Nigeria, Ghana, Kenya, Nepal, Papua Nuova Guinea, Arabia Saudita ecc. Lo dice l’Onu, che nel luglio del 2021 ha approvato una risoluzione sull’eliminazione delle pratiche dannose legate alle accuse di stregoneria e agli attacchi rituali che comportano violazioni dei diritti umani (Elimination of harmful practices related to accusations of witchcraft and ritual attacks). Si tratta di «trattamenti e punizioni crudeli, inumani e degradanti» – sottolineano le Nazioni unite – che comprendono stigmatizzazione, esclusione sociale, mutilazioni, bruciature di parti del corpo, tratta di persone, torture di vario genere fino all’omicidio. Queste forme di violenza, che spesso rimangono impunite, «colpiscono in particolare le persone vulnerabili». Soprattutto donne, disabili, malati psichiatrici, anziani e

persone affette da albinismo, un’anomalia ereditaria che provoca la parziale o mancata pigmentazione della pelle, dei capelli e degli occhi. Ma anche i bambini.

Lo illustra bene un recente articolo del quotidiano britannico «The

Guardian»: Witch-hunts and ritual child abuse are a stain on Africa. We must confront them. L’autrice è Joan Nyanyuki, direttrice esecutiva dell’African Child Policy Forum, la quale sottolinea: «Non intendo criticare le credenze alla base delle pratiche tradizionali legate alla religione e all’ambito della guarigione. La stregoneria è profondamente radicata in molte comunità dell’Africa subsahariana e ha una forte influenza sulla vita di milioni di persone». In alcuni Paesi la stregoneria e le credenze tradizionali ad essa associate non pongono particolari problemi. «Ma quando si traducono in indicibili violenze fisiche e psicologiche contro i bambini dobbiamo far sentire la nostra voce». Ogni anno migliaia di minori sono accusati di stregoneria – sottolinea l’esperta – e subiscono umiliazioni pubbliche di ogni genere, torture, percosse, assunzione di medicine tradizionali «purificanti», espulsioni da casa e dalla comunità, quando non vengono ammazzati. Alle ragazze affette

da albinismo e alle madri di bambini albini vengono anche mozzate braccia e gambe. Senza contare l’impatto sulla salute mentale delle angherie subite dalle vittime. Intanto «molti Governi guardano altrove, nonostante siano firmatari della Carta africana sui diritti e il benessere del minore e della Convenzione delle Nazioni unite sui diritti del fanciullo». Nyanyuki cita poi il caso di una ragazza del Benin di 13 anni – evidenziato in un rapporto dell’African Child Policy Forum – che ha dovuto trascorrere anni in un rifugio dopo essere stata accusata di stregoneria. Quando è tornata a casa, è stata esclusa dalla sua famiglia e dalla comunità, e nel giro di una settimana ha dovuto chiedere nuovamente protezione. «I loro sguardi, le loro azioni e le loro parole erano insopportabili», sosteneva. «Tutti dicevano che ero una strega. Dicevano che avevo mangiato qualcuno, ma non dicevano chi avevo mangiato».

Le accuse possono arrivare da amici, familiari, vicini di casa, com-

pagni di scuola o colleghi di lavoro e sono dettate da paura, sete di vendetta, gelosia, risentimento o avidità. Possono diventare un modo di controllare una determinata categoria sociale e una forma di capro espiatorio per i problemi di una comunità. Nyanyuki evidenzia che negli ultimi anni qualche passo avanti è stato fatto, comunque: oltre alla risoluzione ONU citata in precedenza, «in Malawi nuove leggi hanno fatto sì che gli attacchi denunciati contro le persone albine siano diminuiti da 60 nel 2016 a 4 nel 2021. L’Uganda ha approvato lo scorso anno una legge che vieta i sacrifici umani e il possesso di parti del corpo. La Tanzania ha istituito case sicure per proteggere i bambini albini». Mentre molte comunità stanno escogitando rituali per proteggersi dalla stregoneria che non comportano abusi nei confronti dei più piccoli. I Governi devono sostenerli – afferma Nyanyuki – e investire ulteriormente nella protezione dell’infanzia perché le violenze connesse alla stregoneria rimangono diffuse.

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Tramavano per dar vita al Quarto Reich

Germania ◆ Le autorità federali reagiscono dopo l’arresto di 25 persone di estrema destra che pianificavano

La Germania ha vissuto momenti di stupore, di indignazione e anche di angoscia quando, lo scorso 7 dicembre, è scattato l’arresto di 25 persone che stavano preparando un colpo di Stato. La polizia è intervenuta con 3000 agenti in ben 11 dei 16 Länder, ha proceduto a 130 perquisizioni e, operando insieme alla polizia austriaca e italiana, oltre ai fermi sul territorio nazionale ha reso possibile anche un arresto in Austria e un altro in Italia.

Si autodefiniscono Reichsbürger, cittadini del Reich. Sono latori di un’ideologia revisionista e antidemocratica

Chi sono gli arrestati? Sono tutti membri di una galassia di estrema destra nella quale si ritrovano individui e piccoli gruppi. Si autodefiniscono Reichsbürger, cittadini del Reich. Sono latori di un’ideologia antisemita, revisionista e antidemocratica. Rifiutano la legittimità dell’attuale Stato tedesco. Lo considerano uno Stato di occupazione imposto dalle tre potenze occidentali, vincitrici della seconda guerra mondiale. Sostengono che il Deutsches Reich, nome ufficiale dello Stato tedesco usato tra il 1871 e il 1945, continui a esistere nei suoi confini territoriali, comprendenti tutto il territorio tedesco e i territori orientali che sono stati ceduti dopo la guerra. Per questo rifiutano di riconoscere le istituzioni e le leggi della Repubblica federale tedesca, nonché di accettare tutte le imposizioni fiscali previste ai vari livelli istituzionali. Secondo le stime dei servizi segreti tedeschi, gli aderenti al movimento dei Reichsbürger sarebbero un po’ più di ventimila.

Quali sono le persone più note? Secondo gli inquirenti, la mente organizzativa del movimento sarebbe Heinrich XIII Reuss, 71 anni, discendente di una nobile famiglia e principe, originario della Turingia, una regione dell’ex Germania dell’est, dove

l’estrema destra è ben presente e ben organizzata. Accanto a lui, Rüdiger von Pescatore, un ex comandante del reggimento paracadutisti, 69 anni, responsabile dell’organizzazione militare del movimento. Poi, Birgit Malsack Winkemann, 58 anni, ex deputata al Bundestag per il partito di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD) tra il 2017 e il 2021, e oggi magistrato di un tribunale regionale di Berlino. Era destinata a diventare ministra della Giustizia in un ipotetico futuro Governo del Reich. C’è anche un cuoco di Monaco molto conosciuto, Frank Heppner, arrestato in un albergo di Kitzbühel in Austria, che avrebbe dovuto garantire il rifornimento dei principali dirigenti del movimento nel caso di un colpo di Stato. Infine, una donna russa, amica del principe Reuss. Lei era incaricata di stabilire contatti con Mosca per valutare la possibilità di un sostegno esterno. Il Cremlino ha però smentito una sua partecipazione a quanto si stava preparando in Germania.

I potenziali golpisti avevano un piano d’azione, di cui l’inchiesta ha rivelato solo in parte la portata e i particolari. Il fulcro del disegno insurrezionale era la conquista del Reichstag, la sede del Bundestag, il Parlamento tedesco. Un piccolo gruppo armato avrebbe dovuto entrare nell’edificio, aiutato dall’ex parlamentare Birgit Malsack Winkemann, che aveva conservato i documenti necessari per l’accesso. Dopo la conquista del Parlamento, sarebbe stato costituito un nuovo Governo, guidato dal principe Heinrich XIII Reuss. Il piano prevedeva anche altre azioni, come l’arresto di personalità politiche nazionali. Sulla lista dei politici presi di mira c’erano il cancelliere Olaf Scholz, la ministra degli esteri Annalena Baerbock, il presidente e il segretario del Partito socialdemocratico, il presidente del principale partito d’opposizione, la CDU, e l’ex candidato alla Cancelleria Armin Laschet. L’inchiesta ha rivelato che c’erano anche liste di personalità regionali che si voleva-

no colpire. È così stata trovata una lista di nomi nel Baden-Württemberg. Il piano d’azione, dunque, andava ben oltre la presa del Bundestag.

La ministra dell’interno Nancy Faeser ha annunciato un giro di vite della legge che regola il possesso di armi da fuoco

La minaccia che i golpisti rappresentavano per le istituzioni democratiche ha generato un ampio dibattito e indotto le autorità federali a prendere subito alcune misure, nonché ad approfondire ulteriormente l’inchiesta. La ministra dell’interno Nancy Faeser ha annunciato un giro di vite della legge che regola il possesso di armi da fuoco. Secondo i servizi segreti, almeno 1500 estremisti di de-

stra avrebbero il permesso di porto d’arma. Molti parlamentari hanno chiesto un maggiore controllo dell’estrema destra, in particolare in seno alle forze di sicurezza e all’interno di alcune unità della Bundeswehr. Infine da più parti è stato chiesto di meglio proteggere gli edifici pubblici, in primo luogo il Bundestag, che alcune centinaia di estremisti di destra, senza riuscirci, avevano già voluto prendere d’assalto nell’agosto del 2020. La tensione rimane alta e probabilmente nei prossimi mesi l’inchiesta svelerà nuovi elementi. Particolari che verranno ad arricchire quella che la stampa tedesca ha descritto come la più vasta operazione antiterroristica avvenuta in Germania dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Di fronte allo sconcertante tentativo dell’estrema destra tedesca e ai due arresti in Austria e in Italia sor-

ge spontanea una domanda: l’estrema destra svizzera è coinvolta? La risposta non è facile. I gruppi dell’estrema destra elvetica comprendono profili diversi e talvolta agiscono nella clandestinità. La polizia e i servizi segreti svizzeri seguono l’attività di questi gruppi, ma non in modo continuo e approfondito come avviene in Germania. I servizi segreti non sono in grado, per esempio, di dire quante persone fanno parte di questi gruppi estremi. Fino ad ora non sono emersi in Svizzera piani simili a quelli dei Reichsbürger tedeschi. Grazie alla pandemia, però, i negazionisti dello Stato sono riusciti ad allargare il loro raggio d’azione. È possibile, seppur non confermato, che la ben nota vicinanza culturale ed ideologica abbia portato gli estremisti tedeschi a stabilire collegamenti con gli estremisti elvetici.

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Sempre mondo

La raccolta poetica di Massimo Gezzi uscita per Marcos y Marcos ci racconta di un’educazione sentimentale e di fredde correnti liriche

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Marlene Dumas a Venezia

Fino all’8 gennaio a Palazzo Grassi c’è Open-end, la mostra perturbante dell’artista sudafricana che spazia dalla pittura alle installazioni

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Fessure

L’affascinante spettacolo di Cristina Castrillo che nei giorni scorsi ha debuttato al Foce, ricorda un’antica tecnica di restauro giapponese

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Asor Rosa e quell’idea di intellettuale militante

In memoriam ◆ Con la sua scomparsa il panorama letterario e culturale italiano perde una delle sue voci più importanti

Quella tra Alberto Asor Rosa e Massimo Cacciari è stata un’amicizia lunga più di un secolo, «un’amicizia della quale mi è impossibile dire» ha scritto il filosofo commosso sulle pagine di «Repubblica» ricordando l’intellettuale, storico, critico letterario, saggista e politico italiano scomparso mercoledì scorso all’età di 89 anni. Qui, nella foto che abbiamo scelto, li vediamo ritratti insieme a Bologna nel settembre del 1980 alla Festa dell’Unità. Nato a Roma il 23 settembre del 1933 da una famiglia di umili origini, laureato all’Università La Sapienza dove dal 1976 al 2003 è stato professore ordinario di Letteratura italiana, militante di sinistra, iscritto nelle fila del Pci, Asor Rosa è stato per tutta la vita, nel panorama culturale italiano, un intellettuale impegnato, critico e controcorrente. «Alberto era un pensatore che sapeva e voleva sporcarsi le mani» così lo ha ricordato il filosofo Mario Tronti, amico di una vita insieme a Eugenio Scalfari, sul «Riformista». Penna prolifica e versatile, Asor Rosa spaziava con disinvoltura tra i generi: dalla critica, alla saggistica, alla narrativa. Tante le sue opere, la prima, fondamentale, Scrittori e popolo (Samonà e Savelli, 1965), l’ultima L'eroe virile. Saggio su Joseph Conrad (Einaudi, 2021). Ripercorriamo i capisaldi del suo pensiero e della sua opera con Stefano Prandi, Direttore dell'Istituto di studi italiani dell’USI.

Professor Prandi, cosa perde il panorama letterario italiano con la scomparsa di Asor Rosa? Innanzitutto, come ha scritto Corrado Bologna nell’Introduzione al volume dei Meridiani Scritture critiche e d’invenzione (2020), Asor Rosa ha saputo esplorare a fondo il concetto di classico letterario, mettendone in luce non tanto, come ci si aspetterebbe, i suoi aspetti di continuità rispetto alla tradizione, ma il suo rivoluzionario tendere alla «radice delle cose», proprio «come un aratro che rovescia le zolle e ne mostra il lato a lungo nascosto» (Il canone delle opere, 1992). Ecco quindi un primo aspetto distintivo della figura di Asor Rosa, e il grande vuoto che lascia nel panorama critico: la capacità di saper discendere alle origini profonde delle questioni letterarie attraverso un’«archeologia del sapere» che non si accontenta di rimandare alla storia, ma ne coglie e valorizza dati altrimenti neutri.

Potremmo dire che con lui se ne va una certa idea di fare critica letteraria? Qual era la sua forza, il suo tratto distintivo?

Dietro questa visione critica, di cui dicevo, sta una concezione forte del-

la letteratura come espressione della capacità dell’uomo di tenere insieme le molte diversità culturali e disciplinari che si manifestano nella storia, di saper creare interconnessioni che offrono un significato a un insieme altrimenti frammentario e disorientante. In tempi che vedono, all’apparenza, la cultura umanistica retrocedere di fronte a quella delle scienze esatte, l’opera di Asor Rosa ribadisce con forza la centralità della letteratura come universale strumento di conoscenza. La letteratura getta un ponte tra l’uomo e le sue differenti esperienze nel tempo mettendole in prospettiva, ed è qui che il critico oltrepassa i propri limiti di «tecnico della parola» e si mostra libero dalle gabbie dell’ideologia per abbracciare una più ampia dimensione etico-politica: come scriveva Calvino, la letteratura consente di guardare più a fondo la realtà. Il lascito più prezioso che ci ha consegnato Asor Rosa mi pare, in conclusione, sia questa portata universale dell’interpretazione letteraria.

La giornalista Simonetta Fiori ha curato l’intervista Il grande silenzio. Intervista agli intellettuali uscita nel 2009, che tocca un punto fondamentale del pensiero critico di Asor Rosa, cioè il rapporto tra cultura, società e potere e le responsabilità degli intellettuali. È ancora possibile al gior-

no d’oggi per questi ultimi essere «militanti»?

A questo proposito occorre fare una piccola premessa: di norma si associa la posizione di Asor Rosa al marxismo, ma sarebbe più esatto parlare di una combinazione, apparentemente paradossale, di quest’ultimo con il pensiero di Nietzsche. Come il critico scrive in Elogio della negazione (1965), l’intellettuale, che vive in un sistema capitalista in cui tutto è preordinato alla produzione e al consumo, deve saper ricorrere appunto alla negazione, introducendo elementi di contraddizione che restituiscano l’individuo alla sua autonomia e libertà. Anche il volume Scrittori e popolo (sempre del 1965) non è inquadrabile in un’ottica di semplificazione ideologica: esso esordisce infatti con l’affermazione «il populismo è morto, e noi spieghiamo perché». Il saggio, che dimostra «la limitatezza provinciale e conservativa dell’esperienza populistica in Italia», tracciando una parabola che da Vincenzo Gioberti arriva fino a Pasolini, susciterà non per nulla la violenta reazione di critici ortodossi come Carlo Salinari, espressione della linea del PCI. A mezzo secolo di distanza, Asor Rosa, tornando sulle questioni del volume del ’65, intitolava significativamente il suo nuovo saggio Scrittori e massa (2015), e vi registrava la scomparsa non solo del populismo, ma del popolo stesso. Le ragioni ad-

ditate dal critico sono varie. In primo luogo borghesia e classe operaia sembrano aver progressivamente perduto le proprie caratteristiche distintive e il senso stesso della propria identità; secondariamente le tradizionali élite intellettuali tendono a perdere la loro funzione di coscienza della collettività e a divenire via via sempre più impotenti, accompagnandosi a un generale indebolimento del sistema democratico in Occidente. La massa è dunque il luogo in cui i già ricordati concetti di negazione e differenza tendono a essere cancellati nell’indistinzione omologante, in cui l’individualità del soggetto si dissolve all’interno di comunità di consenso più o meno ampie. Ciò che soprattutto è venuto meno, scrive Asor Rosa, «è l’idea che il colloquio fra critico e autore serva davvero»; la capacità di intermediazione della critica cosiddetta «militante», insomma, sembra essersi esaurita.

Torniamo al grande silenzio... Non si tratta, come afferma il critico in questo testo, dell’esaurirsi dell’attività intellettuale tout court, ma della fine delle sue tradizionali funzioni così come si sono manifestate nel corso di una parabola secolare, dall’Illuminismo fino agli anni Settanta del Novecento. Sembra, infine, sempre più difficoltoso assegnare un senso alla storia. Aveva scritto Montale nel Quaderno del ’72,

proprio riferendosi al critico: «Asor, nome gentile (il suo retrogrado / è il più bel fiore) / non ama il privatismo in poesia. / Ne ha ben donde o ne avrebbe se la storia / producesse un quid simile o un’affine / sostanza, il che purtroppo non accade»; l’ironia si sarebbe trasformata in consenso, se solo il poeta avesse potuto leggere quanto Asor Rosa scriverà anni dopo.

Un altro dei temi centrali dell’opera di Asor Rosa è stato il rapporto tra letteratura e identità nazionale, discusso soprattutto nell’opera Genus italicum uscita nel 1997. Cosa può dirci al riguardo?

La riflessione di Genus italicum parte dall’individuazione di un «gène nazionale» italiano che si fonda sulla condivisione di un sistema di valori («un patrimonio di concetti, di atteggiamenti, di comportamenti e di caratteri che danno un tono inconfondibile all’insieme») e di una lingua che, da Dante a Galileo, diviene potente fattore unificante. Successivamente, secondo Asor Rosa, sorge una seconda fase della storia letteraria, in un quadro pesantemente condizionato dalla Chiesa cattolica e dalla progressiva marginalizzazione della cultura italiana in Europa.

In Dante, Petrarca e Boccaccio la successione degli eventi storici italiani si mostra come caduta, come allontanamento dagli ideali: proprio per questo diviene così importante, in tutti e tre gli autori (e lo sarà per buona parte della tradizione letteraria italiana), la figura dell’esule e dell’apolide, che incarna una mancata assimilazione rispetto ad un’identità «nazionale». Sarà poi nel volume Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una disfatta (2019) che Asor Rosa tratteggerà, attraverso la figura tragica del Segretario Fiorentino, la condizione di disunione come tratto caratterizzante e permanente della situazione italiana: alle vicende cinquecentesche che porteranno alla spartizione dell’influenza francese e spagnola nella Penisola seguirà il tentativo di riunificazione dell’età risorgimentale, di cui poi si approprierà, tradendolo, il Fascismo. Ma è proprio all’interno di questo scenario così contrastato e conflittuale che la civiltà letteraria italiana ha espresso scrittori come Leopardi e Calvino –le cui Lezioni americane sono definite da Asor Rosa «Le Operette morali del XX secolo» – che hanno saputo gettare uno sguardo straordinariamente lucido sulle caratteristiche uniche della cultura e della letteratura italiana. E non è certo un caso che questi due autori costituiscano un punto di riferimento costante dell’opera di Alberto Asor Rosa.

CULTURA ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXV 27 dicembre 2022 azione – Cooperativa Migros Ticino 29
Keystone

Se nella parola poetica, talvolta, tanto più ci si addentra nei fatti d’esperienza, quanto più si è vicini al sommo del suo accento, ebbene Massimo Gezzi con Sempre mondo si approssima davvero a questo momento. Subito nelle pagine registra quelle che potremmo definire le fibrillazioni sociali e culturali della sua attuale comunità, quella svizzera, che sembrano poi però propagarsi negli spazi più ampi della cosiddetta società liquida e in quei territori ulteriori del mondo globalizzato, sempre più fosco, abietto, dove guerre, pandemie, migrazioni forzate, hanno mutato radicalmente lo slancio di ogni individuo: «Blessing Matthew, un nome come un augurio / che chissà quante volte si è avverato, / prima che sprofondassi nelle acque / della Durance, a ventun anni, / in fuga dai gendarmi di frontiera. / …».

Ma ecco emergere, proprio da questa pagina di realismo crudo, il momento della speranza, tutto condensato in una bambina dal nome Caterina, che potrebbe poi rappresentare, col suo carico di vitalità e ingenuità, ma anche di slancio emotivo verso il futuro, qualsiasi esso sia, tutte le bambine del mondo. Caterina esiste naturalmente, non è una fluttuante astrazione letteraria ed esiste così potentemente, che con le sue domande dirette e strazianti, nella loro semplice profondità, diviene quasi con la sua flebile vocina, l’alter ego del

poeta, la memoria di quella coscienza limpida e iniziale poi sepolta dalle pseudo relazioni a cui ci ha educato il mondo odierno. E il poeta cerca di risponderle in maniera chiara e subitanea, per riempire il vuoto del dubbio, ma in verità si avverte dietro un

suo interno balbettio, una fragilità di tono: «… / … “Ma perché / ci sono i poveri?” Brava, penso / … / “Perché qualcuno vuole avere / più denaro di quanto gliene serva / per vivere, star bene”. / “Noi no, non è vero?” “Noi no”, la rassicuro. / Ma ho mentito, ho

barato e forse un giorno / non mi perdonerà /».

Ecco, Sempre mondo posiziona sulla quinta della vita il senso di una relazione e quel suo sacro e ostinato cucire e ricucire la ferita di un uomo oramai atomizzato, poiché tutto ciò che lo circonda mira in qualche modo a sfilacciarne i rapporti per farne una matassa di fili inservibile dentro i contatti della nuova digitalizzazione di massa. E difatti si affacciano nei versi anche certe domande forti, maturate da alcuni studenti nel tempo del lockdown, sempre sospese sul declivio scosceso dell’inquietudine; certo così diverse l’una dall’altra ma sempre risolutive, spiazzanti, per le quali alcuna risposta giustamente viene, poiché risulterebbe giustapposta, posticcia. Ecco, sembra in talune pagine, Gezzi, il fedele raccoglitore di quei mirifici messaggi custoditi in certe bottiglie provenienti dal mare della somma giovinezza: «A un certo punto ho staccato la spina, / in tutti i sensi: quella del computer / e anche quella del cervello. / Non mi alzavo più dal letto, / sprofondavo in me stessa. / Mi sono accorta improvvisamente / di essere al mondo, di essere io /». Tutto allo sguardo del poeta, oramai aduso alle tante traversate transnazionali, diviene rappresentazione simbolica di qualcos’altro e l’esser vissuto in mondi così diversi e lontani, l’italiano e lo svizzero appun-

to, acuisce i dati del suo discernimento sui fatti dell’accadere, ma amplifica anche lo spazio dei fantasmi, delle ombre lontane mai più raggiungibili; e difatti ecco nel libro soffiare anche quel senso di precarietà ontologica a ogni uomo.

Ma in questa corrente poetica che Massimo Gezzi alimenta, piena di mulinelli, correnti profonde, per lo più fredde che ghiacciano la vita, invecchiandola, rendendola alla fine quasi un meccanismo fuori giri, c’è una fiammella flebile che resiste e non si spegne e che potremmo chiamare, come fa l’autore, «educazione sentimentale». Ecco, quell’educazione, che sembra venire solo dai più piccoli e rieducare gli adulti mutati in peggio dal tempo, dalle distanze, acciaccati da indolenza, talvolta prostrazione; eccola, la loro educazione, sembra in ogni verso venirci incontro, prenderci per mano, ricondurci nel tempo della vera relazione, fatta di poche ma sagaci e pungenti parole, che vogliono da noi una presa di posizione definitiva: «/…“Babbo, / …ma i giorni finiscono?” / Nessuno può saperlo, le ho risposto / sorridendo. “Alziamoci, allora. / Se oggi è proprio il giorno che finisce / prima dobbiamo fare tante cose, / tantissime /”».

Bibliografia

Massimo Gezzi, Sempre mondo Marcos y Marcos, Milano, 2022.

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vita Poesia ◆ Sempre mondo di Massimo Gezzi è un’educazione sentimentale dove i più piccoli insegnano ai grandi ormai disillusi
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Una corrente poetica che ghiaccia la
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I soggetti «perturbanti» di Marlene Dumas

Mostra ◆ Per chi tra le feste andrà a Venezia, Open-end è un’esposizione da mettere in agenda

Dopo essere stata assente, per qualche tempo, dalle grandi rassegne internazionali, la pittura torna protagonista in grande stile a Palazzo Grassi a Venezia con la mostra di Marlene Dumas. Si tratta di una vera e propria celebrazione di questo mezzo artistico, che Dumas impiega quale strumento di appropriazione di altri linguaggi, come nel caso di scene tratte da film, di immagini fotografiche ritagliate dai giornali o di polaroid scattate da lei stessa. Questi fotogrammi vengono poi replicati e reimmaginati nella nuova declinazione di tratto, colore e consistenza determinati dall’uso della pittura a olio o dell’inchiostro. «Sono un’artista che utilizza immagini di seconda mano ed esperienze di primo ordine». Dumas parla così del suo metodo di lavoro, con una certa ironia, elemento quest’ultimo che sempre serpeggia nel rapporto fra l’artista e la parola scritta, anche quando si tratti dei titoli che attribuisce alle sue opere.

Il titolo emblematico della rassegna, che copre un periodo dal 1984 ad oggi, è Open-End, «finale aperto», ma anche «fine non definitiva». È un titolo dato dalla stessa artista che, alla soglia dei settant’anni, riflette sulla sua carriera e sul tema della vecchiaia, paura ineludibile che spesso ritorna nelle sue riflessioni. Open-end è però anche un concetto libero ad interpretazioni, una risposta aperta e non predeterminata, dove non esistono soluzioni a priori.

L’allestimento, leggero ed estemporaneo, non presenta alcuna sovrastruttura e, anzi, replica quasi il modo di sistemare i lavori in atelier, quando ancora sono in divenire. Le tele sono prive di cornici e le carte degli acquerelli e delle grafiche sono fissate al muro con spilli. Non ci sono didascalie: un libretto con le riproduzioni di ogni opera e una spiegazione molto

agile accompagna lo spettatore nella visita. Si tratta di un percorso che si può compiere passeggiando tanto le opere sono omogenee fra loro, elementi di un ambiente coeso. Ma alcune delle figure mostrate trattengono lo sguardo di chi osserva: spesso sono immagini che non ci permettono di essere a nostro agio (ne è un esempio il dipinto a olio qui a lato del 1999 dal titolo Turkish Girl). Forse è la categoria che Freud indicava come quella del «perturbante» che meglio inquadra questi soggetti: ciò che è in grado di suscitare paure incomprensibili tipiche dell’infanzia, una forma di spaesamento che ci mette in diretta relazione con il nostro inconscio. Ci si sofferma allora su volti e figure e, quasi a comprendere il nostro imbarazzo, il testo ci spiega quali siano state le fonti di ispirazione dell’opera, le immagini che sono alle radici di essa.

Marlene Dumas nasce in Sudafrica nel 1953; la sua lingua è l’afrikaans, parlata dai coloni olandesi fin dal loro sbarco al Capo di Buona Speranza. Proveniente da una famiglia agiata, cresce però in un contesto sociale segnato dall’apartheid, che determinerà in lei una sensibilità profonda e una cura sincera per i temi della discriminazione razziale, di genere e, più in generale, identitaria. Presto si trasferisce ad Amsterdam per continuare gli studi d’arte, iniziati a Cape Town, e qui vive ancora oggi. Racconta che i suoi quadri nascono nella notte, quando tutte le altre attività sono state portate a termine, quando non ci sono più persone attorno e sono finite le distrazioni. Con la superficie e il colore ha un rapporto quasi performativo, che si riscontra anche nei lavori conclusi: «La pittura è la traccia del tocco umano, è la pelle di una superficie. Un dipinto non è una cartolina». Spiega di

non essere mai rilassata quando dipinge, trovandosi sempre in uno stato di tensione, di ansia, essendo questa l’unica condizione che le permetta di confrontarsi con la necessaria concentrazione ai soggetti dei quali si sta occupando. Essi sono in generale della più ampia varietà, dai ricordi d’infanzia alle scene di scottante attualità.

Un aspetto molto discusso della pittura di Marlene Dumas è anche la crudezza del suo sguardo inclemente, non tanto nella resa pittorica, ma piuttosto nella scelta dei soggetti: l’immagine dell’autopsia di Marilyn Monroe, privata di ogni fascino, esemplifica bene questo atteggiamento, così come quelle di erotismo del tutto spogliate di ogni attrattiva. Ma in mostra hanno grande spazio i ritratti, siano essi di personaggi noti – come quello doppio di Pasolini e di sua madre o quello della donna che uccise Marat. D’interesse sono anche i ritratti di quei personaggi dei quali non si conoscono le fattezze, ma di cui la pittrice ha delineato una personalità ben precisa con linee e colori ispirati più alla loro vicenda che alla ricerca di una somiglianza somatica. È il caso, per esempio, di Jeanne Duval, la misteriosa amante di Baudelaire, dalle origini creole e il destino infelice dettato dalla malattia mentale.

In questi volti e nelle scene a sfondo politico della Dumas si ritrova tutto il valore del suo sguardo impietoso, proprio come l’artista sa essere: rivelatore di quei sentimenti e di quelle emozioni che forse non sappiamo e non possiamo affrontare da soli.

Dove e quando Open-end, Palazzo Grassi, Venezia, fino all’8 gennaio. Aperto tutti i giorni dalle 10.00 alle 19.00. www.palazzograssi.it

L’anima profonda nei ritratti di Maria Mulas

Fotografia ◆ Gli scatti della «ragazza dalla coda rossa» rendono omaggio alla Milano del secondo Novecento

Se chiudo gli occhi i ritratti che mi tornano alla mente sono quelli femminili. Forse perché molte donne sorridono. Penso allora, in particolare, a Fernanda Pivano e Toni Morrison che si tengono per mano e sembrano spassarsela come due amiche di lunga data che sentono l’una per l’altra la stessa affinità. Entrambe sono state traduttrici e scrittrici, Toni Morrison è stata la prima afroamericana a vincere il Premio Nobel per la letteratura nel 1993. Quando le guardi vorresti sapere che cosa si stanno dicendo, vorresti condividere quel momento intenso, di vita vera con loro. Oppure a Inge Feltrinelli con le sue lentiggini, le rughe che si aprono come un sole sul viso, i grandi occhiali tondi anni 70 sulla testa che abbraccia il suo autore e amico Günter Grass con l’immancabile pipa e il sorriso di chi si trova in quel momento con la persona giusta nel posto giusto. E poi ancora la più cupa e riflessiva Meret Oppenheim sul suo balcone parigino, la tenebrosa e intensa Gae Aulenti stesa sul divano o l’audace ed elegantissima Miuccia Prada.

Di certo ogni scatto sembra mostrarci volti e persone nella loro autenticità, la famigliarità che ci trasmettono questi ritratti è quella che

solitamente sentiamo per chi conosciamo bene, per chi fa parte della nostra sfera più intima. La spontaneità dei soggetti di Maria Mulas fa pensare che non sapessero, in quel momento, di essere al centro dell’obiettivo. In verità, il curatore della mostra Andrea Tomasetig ci rivela che il segreto del fascino dei ritratti di Maria Mulas sta proprio nella sua arte fotografica che inizia ben prima di tenere in mano la fotocamera. «Maria sapeva mettere a proprio agio le persone. Conosceva bene il mondo nel quale si muoveva, quello dell’arte, della moda, dell’editoria, dell’architettura e del design milanese, faceva parte di quel mondo dove raccoglieva stima, simpatia, affetto e a sua volta si rapportava con empatia a ciò che fotografava. A questo si aggiunge la capacità naturale di vedere le cose e ciò che sta dietro, unita a una coltivata bravura professionale e alla qualità delle relazioni intessute, che la portava a essere sempre nel posto giusto al momento giusto».

Nata e cresciuta a Manerba del Garda in una famiglia di fotografi, arrivata a Milano poco più che ventenne nel 1956, Maria Mulas fece la gavetta nello studio fotografico del fratello Ugo che sarebbe poi diventato un punto di riferimento im-

portante della fotografia italiana del secondo Novecento. Incerta se diventare pittrice o fotografa si decise per la seconda ma, sottolinea il curatore, «è sempre stata una fotografa sui generis e una battitrice libera che si muoveva al di fuori delle dinamiche di mer-

cato. Una professionista riconosciuta, stimata, amica di Inge Feltrinelli che la chiamava alle sue feste, le faceva conoscere il mondo editoriale; amica degli artisti, dei galleristi e al contempo però una fotografa che ha dovuto conquistarsi il suo spazio». Nei cento ritratti selezionati per la mostra allestita nell’Appartamento dei Principi di Palazzo Reale, scatti provenienti dall’Archivio Maria Mulas che ne conta oltre cinquecento, non c’è solo l’anima dei grandi personaggi della Milano del secolo scorso come Bruno Munari, Roberto Calasso, Franco Zeffirelli, Dario Fo, Carla Fracci, Ettore Sottsass, Giorgio Strehler, e Harald Szeemann, per citarne alcuni, ma c’è ritratta l’anima profonda della città dinamica, creativa, al lavoro, la Milano capitale del design, della moda, dell’editoria.

Non solo la città meneghina però, una sezione è dedicata a Maria nel mondo e ci racconta «il contesto internazionale dei tanti artisti che incontrava nei loro studi, da Christo a New York a Joseph Beuys a Düsseldorf.

Maria andava sempre alla Biennale di Venezia, a Documenta a Kassel. Spesso accompagnò Lea Vergine dalle signore dell’arte del primo Novecento, coloro che furono protagoniste

de L’altra metà dell’avanguardia, mostra che nel 1980 fece storia ed espose gli scatti di Maria Mulas, alcuni dei quali sono anche qui».

«Esistono centinaia di fotografie di Andy Warhol, Umberto Eco, Marina Abramović, Franco Zeffirelli, Federico Fellini – spiega il giornalista di “Corsera” Paolo Fallai nel catalogo – ma c’è un solo sguardo intenso, naturale, straordinariamente rivelatore che “la ragazza con la coda rossa” ci ha regalato. Consentendo a loro di uscire dalla cornice della notorietà stereotipata e a noi di sentirceli ancora un pochino più vicini».

Mentre la figlia Patrizia Zappa Mulas ricorda come da bambina vedeva tornare a casa Maria «fresca di strada con la borsa piena di rullini fotografici. FP4, HP4, ci stava scritto sopra. Avevo già imparato a riconoscere quelli vergini per la pellicola che penzolava fuori come una lingua. I rullini erano la misura dell’umore di mia madre. Quando scattava foto stava guardando dentro sé stessa». / Red.

Dove e quando Maria Mulas. Milano, ritratti di fine ’900, Palazzo Reale fino all’8 gennaio. Ma-do dalle 10.00 alle 19.30. www.palazzoreale.ch

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Collezione privata, Madrid e ai suoi protagonisti Inge Feltrinelli e Gunter Grass a Villadeati negli anni ’80. (© Maria Mulas)
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L’uomo comune del cinema

Nell’estate del 1979, in soli 19 giorni, Jean-Louis Schefer, critico d’arte, filosofo, studioso teorico del cinema (ritratto nella foto), compose il suo enigmatico capolavoro L’homme ordinaire du cinema pubblicato un anno dopo dalla casa editrice Gallimard per la piccola biblioteca dei Cahiers du cinéma (Paris). Quando nel 2006 uscì in Italia per Quodlibet, in Francia era già diventato un classico.

Più che un saggio sembra un romanzo intimo, dove il tempo cinematografico si tramuta in tempo di scrittura. Scrittura e ritmo che si avvicinano alla divagazione, tra un film e l’altro, dove si può perdere il filo delle immagini descritte, ma non il filo del pensiero. Se Marcel Proust avesse scritto di cinema, avrebbe creato un’opera non troppo distante da questa. Le pagine scorrono, frammenti e scene di film riescono ad amalgamarsi formando, oltre che un semplice libro, un oggetto da conservare con cura, per i cinefili e non. Un saggio poetico che mette in relazione le immagini con la paura e la mostruosità. L’autore ci farà capire che questi mondi grotteschi non sono così lontani dalla concretezza del reale e che in essi si cela una delicatezza.

Il suo titolo richiama il capolavoro di Robert Musil, L’uomo senza qualità (1930). Schefer riflette sulla propria condizione di «uomo senza qualità», che ricorda il protagonista Ulrich. Non solo c’è un parallelismo nel titolo ma anche nelle domande esistenziali che si pongono i personaggi principali dei due volumi, Ulrich da un lato, Schefer dall’altro. Per quest’ultimo, l’esperienza del cinema è un’alienazione dal mondo reale, come l’esistere per Ulrich. «L’uomo senza qualità» finisce per essere «l’uomo comune», lo spettatore usuale, cioè ciascuno di noi. Nel cinema si creano delle nuove esperienze legate alla memoria e si formano delle persone separate dal mondo, come Ulrich, che non accetta l’idea comune di verità. «Insomma, a parlare qui sarebbe una persona senza qualità. Voglio dire: non ho le qualità per parlare di cinema, se non perché ci vado spesso». Recita così Schefer, nella sua prefazione ed è questa umiltà a rendere la sua scrittura ancora più affascinante e comunicativa. Nato nel 1938, è ri-

uscito ad analizzare in modo unico opere di artisti come Paolo Uccello o Correggio; El Greco o Goya, fino ad arrivare ad artisti come Bacon o Michaux. Chi ha letto i suoi saggi, non riuscirà più a vedere un disegno, un quadro o un film alla stessa maniera.

Tutti i pittori studiati hanno qualcosa in comune con l’immagine cinematografica, prendiamo per esempio Paolo Uccello, con i suoi affreschi le Storie di Noè (1436-1440), dove viene raffigurata una scena che sconvolge e confonde le prospettive. Il visitatore viene catapultato all’interno di una scena violenta e delicata al tempo stesso, come lo spettatore desidera sentirsi, immobile nella sala buia del cinema.

Torniamo all’Uomo comune del cinema: chi sarà costui? Lo si può raffigurare nella personalità dell’autore oppure negli attori dei film analizzati. Film che partono da quel cinema ancora muto, comico e burlesque, dove il corpo si fa narrazione, per poi continuare con un cinema più spaventoso con film come l’espressionista Il Vampiro (1932) di Carl Theodor Dreyer; l’iconico Freaks (1932) di Tod Browning; e infine vagabondare in film più drammatici come La cagna (1931) di Jean Renoir, Estasi di un delitto (1955) di Luis Buñuel o Tarda Primavera (1949) di Yasujirô Ozu. Schefer renderà queste immagini in movimento immobili sulla carta. Da giovane, egli si rifugiava nei cinema per dimenticarsi del presente e riottenere quell’irresponsabilità che lo riportava bambino. Così, in questo saggio, decide di parlare di cinema attraverso la sua memoria, delle immagini che sono rimaste in essa; una memoria piena di traumi dell’infanzia, della guerra per esempio, ma anche di immagini che semplicemente lo portavano a pensare ai suoi amati dipinti. Viene esplorato così un cinema ai limiti dell’irreale, abitato spesso da mostri e spiriti. Un cinema visto come una macchina, che ferma o capovolge il tempo. Esso ci fa perdere il senso di gravità, e il nostro movimento si inizia a basare sull’immaginazione.

«Il mondo dunque, continua a sussistere fuori (lo spettacolo non lo afferra, non lo rinchiude, e neppure lo riflette). Quando usciamo alla luce

del giorno, ci stupisce sempre che gli autobus circolino, che i movimenti si susseguano».

All’uscita dal cinema ci rendiamo conto che il nostro mondo forse non esiste, diventa inutile, ma le immagini che abbiamo visto e che hanno smosso qualcosa dentro di noi, ci fanno meravigliare della realtà, anche quella di un autobus che scorre davanti al nostro corpo. Più delle volte lo spettatore, «l’uomo comune», si rende conto che le immagini non fanno solo riflettere, ma sconvolgono, e noi diventiamo parte di quel mondo magico che si sta scoprendo o riconoscendo. È proprio questo che ci spinge di nuovo a entrare in un cinema o ad aprire lo schermo del nostro portatile, comodi sul nostro letto.

Il testo si rivela come una sorta di montaggio immaginario, che raccoglie i gesti che più hanno colpito i sensi dell’autore, usando una forma essenziale, come le scene di cui ci parla. Il libro, alla fine, diventa un ritratto di noi persone comuni, malinconici amanti del cinema, che soffriamo il tempo che scorre.

L’autore ha anche dei forti legami con il Ticino. In particolare con la casa editrice Pagine d’arte di Matteo Bianchi e Carolina Leite. Parlando con loro, capisco quanto è stata importante e profonda la loro collaborazione lavorativa che sfociava in genuina amicizia. Insieme hanno esplorato i diari intimi di Paul Valéry, un connubio di testi e acquarelli che ha dato luce a Journal de Bord (2012); ma soprattutto, negli anni, hanno pubblicato molti suoi saggi e testi come Art et nature, la distance abolie (2009) o Prologhi & florilegio (2001), curato in collaborazione con il regista e produttore ticinese Adriano Kestenholz. Pubblicazioni che hanno permesso una continuità e una scoperta senza fine. Libri che diventano qualcosa di più di un semplice oggetto. Kestenholz, oltre che amico dell’autore, è stato suo allievo in Francia, e da lui ha imparato a guardare le immagini e a immaginarle in un altro modo, e attraverso queste a far incontrare mondi diversi. Jean-Louis Schefer è stato un uomo umile e geniale, che ha lasciato, in chi ha avuto la fortuna di incontrarlo, non solo un vuoto intellettuale ma anche umano.

Fessure come ferite aperte

Teatro ◆ Lo spettacolo andato in scena al Foce, scritto e diretto da Cristina Castrillo, ha toccato corde profonde nel pubblico seduto in sala

Un’idea. Ne basta una sola e dev’essere quella giusta. Come quella da cui è partita Cristina Castrillo per imbastire Fessure, il suo recente spettacolo che ha debuttato nella storica sede del Teatro delle Radici. E infatti lo spunto ideale si specchia nell’arte giapponese del Kintsugi, una centenaria tecnica di restauro con cui vengono riparate le tazze in ceramica unendone i frammenti con l’oro. Ne risulta una trama dove il filo dorato impreziosisce la memoria della forma ricostruita, restituendo al recipiente una nuova vita.

Nella metafora del Kintsugi c’è il respiro di una delicata, fragile e affascinante dimensione filosofica, è quella che ha dato a Cristina Castrillo la vena drammaturgica con cui nutrire la sua creazione, esemplare e complessa al contempo. Come una tazza in ceramica la cui superficie ricomposta è attraversata da sottili filamenti dorati. Da un mondo di frammenti ecco che la ricostruzione si manifesta coi percorsi che escono da piccole aperture, fessure da cui lasciar filtrare il passato, la memoria, briciole di ricordi con cui ricostituire istantanee di vita, fra speranze e angosce, fra gioie e dolori. Il privilegio degli spettatori consiste nell’assistere allo spettacolo inserito in una struttura diversa, accolti in numero limitato su sedie disposte ai quattro lati della scena.

Nei messaggi, spesso avvolti da un’atmosfera triste, cupa, disagevole, la grande Storia tenta di riprendere il suo posto sul cuore della terra

Uno spazio appena sufficiente, come quello offerto dalla sala del Teatro delle Radici, ma non per questo sminuente. Gli attori sono già seduti fra gli spettatori, le azioni nascono e si sviluppano con rigorosa attenzione, dapprima singolarmente poi con una cadenza corale. Gesti spezzati, movimenti ripetitivi, situazioni emblematiche accompagnate dalla parola, racconti sospesi espressi come in un rito

collettivo dove le singole individualità emergono con tratti precisi, ricorrenti, dove ogni racconto è parte di un gioco simbolico guidato con mano sicura dalla regista argentina. Come per l’apparizione del modellino telecomandato di un carro armato che sbuca da sotto una sedia e dà l’avvio allo spettacolo muovendosi fra listelli di legno che compongono sei quadrilateri a cui è stata lasciata aperta una fessura. Una via di fuga, un ingresso o un’uscita, uno spazio entro cui proteggersi o da cui allontanarsi. Sono i luoghi per reminiscenze del passato o per l’ansia di un presente lugubre e inquietante, come la minaccia di una guerra. Nel buio appaiono anche dei lumini, segno di un auspicio, fiammelle accese in ricordo di ciò che è stato, nel desiderio di ritrovare la luce fra i cocci di un’umanità spezzata. Nei messaggi, spesso avvolti da un’atmosfera triste, cupa, disagevole, la grande Storia tenta di riprendere il suo posto sul cuore della terra, come a volersi difendere dagli orrori di una tragica realtà da cui è impossibile scappare, come una dolorosa ferita che non riesce a rimarginarsi e che porta alla morte. «Perdonatemi guerre lontane se porto fiori a casa. Perdonatemi ferite aperte se mi pungo un dito» recitano i versi di Wislawa Szymborska (Sotto una piccola stella), unica citazione fra le parole degli interpreti di Fessure nel viavai incrociato di pensieri senza dialoghi: una dimensione testuale distaccata, scarna, immediata, asciutta. Come il rumore da scorribanda delle coccinelle meccaniche lasciate imprigionate all’interno dei quadrilateri disposti in scena. Un piano d’ascolto teatrale che è allusione a un incubo, a un labirinto testimone di una triste, impersonale e folle assenza di libertà. La fessura ormai si è chiusa mentre il piccolo carro armato continua a sorvegliare con il fascio dei suoi fari le buie macerie di un’umanità persa nella vana ricerca di una speranza. È il segnale con cui si congeda la rappresentazione. Applausi meritati per Giovanna Banfi Sabbadini, Bruna Gusberti, Ornella Maspoli, Massimo Palo, Nunzia Tirelli e Irene Zucchinelli.

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© Teatro delle Radici
In memoriam ◆ La scomparsa quest’anno del critico d’arte francese Jean-Louis Schefer è l’occasione per ricordare il suo capolavoro
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In fin della fiera

La fratellanza dei soldi sotto il mattone

Vintage è la parola magica che giustifica il nostro attaccamento al passato. Sono vintage i dischi di vinile, le fotografie su pellicola, le padelle di ferro, i palloni di cuoio. Per me è vintage consultare i repertori, i dizionari, i manuali nella loro forma cartacea, usare le piantine delle città e non il navigatore. Mi sono concesso un grande lusso: posseggo, oltre all’immancabile tablet, un telefono da tavola, con la cornetta e la rotellina per comporre il numero. Sul telefono cellulare compare il nome di chi sta chiamando, scompare l’effetto sorpresa. Parte lo squillo del telefono da scrivania. Che faccio, non rispondo? E se fosse una di quelle proposte che ti cambiano la vita? Meglio rispondere. Arriva una vellutata voce femminile: «Complimenti, lei ha vinto un trattamento completo di pulizia del viso». Mi tocco in faccia, come hanno fatto a scoprirlo? C’è forse una talpa in famiglia? Captando lo sconcerto

Voti d’aria

la mia interlocutrice incalza: «Lei non ha idea dello sporco che si cela nei pori della pelle». «Dice sul serio?». «La pulizia a fondo del viso ringiovanisce le persone e migliora la loro autostima». Non le rivelo che io mi auto stimo già fin troppo così, con la faccia sporca, ma le domando: «Perché lo fate gratis?». Come se non avesse sentito la ragazza va avanti come un treno: «Lei dovrà recarsi all’hotel La Fontana della Giovinezza e, prima del trattamento, assisterà alla dimostrazione della nostra linea di prodotti di bellezza naturali, biologici e non testati sugli animali». Ovvio, al giorno d’oggi tutto è biologico, anche la plastica. Se non sei biologico non ti fila nessuno. «Mi tolga una curiosità, se non li testate sugli animali, su cosa li sperimentate i vostri prodotti? Su dei volontari votati al sacrificio? Sugli anziani nelle case di riposto a loro insaputa?» Si intuisce che è la prima volta che le fanno questa

L’intelligenza delle formiche

«Le formiche erano qui prima di noi e probabilmente ci sopravvivranno a lungo. Sono loro a gestire il posto. Noi siamo qui solo in visita». Così si concludeva qualche giorno fa l’articolo (5+) di Farhad Manjoo, editorialista del «New York Times», sulla massiccia presenza delle formiche nel nostro mondo, equivalente, più o meno, secondo una ricerca dell’Università di Hong Kong, a 20 quadrilioni di esemplari (20 quadrilioni significa che dopo il 2 bisogna mettere 16 zeri). Più o meno? Di sicuro più: nel senso che il risultato del sondaggio è necessariamente per difetto, visto che esiste un gigantesco formicolare sotterraneo che, essendo sotterraneo, sfugge a ogni pur attenta contabilità a cielo aperto. Insomma, al momento, salvo aggiustamenti futuri, si può sostenere che per ogni essere umano ci sarebbero al mondo circa 2,5 milioni di formiche. Manjoo, che in genere si occupa

di tecnologia, dopo essersi detto sconvolto da questi numeri, ci propone una serie di analogie e differenze tra le formiche e gli esseri umani. Analogie: le formiche vivono in società come noi, hanno tutte un lavoro (ma si potrebbe obiettare che le società umane contemplano la disoccupazione), sopportano faticosi spostamenti quotidiani per andare al lavoro (con una notevole differenza che vedremo tra poco). A proposito di differenze, il giornalista fa notare, nel popolo delle formiche, l’altruismo e la totale sottomissione dell’individuo alla comunità, l’assenza di leadership, un’intelligenza collettiva che dipende dall’istinto e dall’algoritmo. Si aggiunge il fatto che si muovono comunicando a vicenda grazie a segnali chimici che evitano loro, per esempio, la noia e la rabbia dei nostri ingorghi stradali. 20 quadrilioni di individui in movimento senza creare ingorghi! Voto

A video spento

Rivoluzione slow

In un romanzo di Milan Kundera, La lentezza (Adelphi), il protagonista dopo essersi accorto dallo specchietto retrovisore di un conducente che vorrebbe superarlo, apre una riflessione che lo porta a chiarirsi: «La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo». E poco dopo si chiede: «Perché è scomparso il piacere della lentezza?». Grazie a Kundera, «lentezza» ci appare come una parola di cui scopriremo un senso nuovo, come se non l’avessimo mai conosciuta prima. Così, di colpo, ci apparirà evidente che parlare della lentezza significa parlare della memoria – e parlare della memoria significa parlare di tutto.

La scena mi è tornata in mente leggendo In contrattempo. Un elogio della lentezza di Gianluigi Beccaria (Einaudi). Beccaria è uno dei più importanti linguisti italiani e ha scritto questo libriccino, come ci ricorda

la quarta di copertina, perché l’elogio della lentezza va inteso come elogio della lettura e della scrittura attenta: «Se scrivere è indugio intorno al “fare”, e leggere un restare in totale compagnia di sé stessi, percorrendo un percorso individuale, il testo in quanto oggetto privilegiato deve di conseguenza assorbire ogni attenzione. E l’attenzione e l’indugio sono virtù da coltivare per i loro effetti positivi soprattutto in un’età come la nostra, l’età della velocità. E la velocità porta con sé, insieme ai notevoli agi, un’erosione culturale di cui ancora non siamo in grado di valutare le conseguenze».

Anche Umberto Saba elogiava la lentezza: «Di cosa soffre profondamente l’uomo? Di non poter né sfogare né sublimizzare i propri istinti. La sublimazione è opera lenta, difficile: lavoro di millenni. Si ha l’impressione che le cose “sono andate troppo presto”, che

domanda, esita qualche secondo prima di abbozzare una non risposta: «Glielo ripeto, sono prodotti biologici e naturali, perciò fanno subito il loro effetto benefico», per tornare poi ai binari consueti: «Al termine della dimostrazione le sarà offerto un paniere dei nostri prodotti a un prezzo scontatissimo, così potrà portarli a casa e proseguire il trattamento». Giunti a questo punto si pone un delicato problema etico. Dato che continuerò a tenermi il viso sporco e che non andrò alla Fontana della Giovinezza, è meglio dirglielo subito alla ragazza o lasciare che reciti tutto il copione prima di declinare l’invito? Sono giovani che hanno rimediato un lavoro al call center in attesa di trovare qualcosa di meglio, non è giusto mortificarli. Tirandola per le lunghe faccio perdere un guadagno alla ragazza, però è altrettanto brutto sbattere giù la cornetta con un «Non m’interessa». È un dilemma.

Altre telefonate arrivano quando si va in pensione e dopo qualche mese si incassa la liquidazione, diventando l’oggetto del desiderio dei promotori finanziari. Chissà chi gliel’ha detto che è arrivato sul mio conto corrente un piccolo malloppo? Misteri della privacy delle banche. È sempre una voce femminile che chiama per combinare un appuntamento con il promotore. È improbabile che l’interpellato risponda: «Me lo mandi appena possibile, sono anni che sogno di incontrare un esperto di investimenti immobiliari». Di solito i neo pensionati avanzano dubbi, esitazioni, perplessità, perciò le telefoniste hanno sullo schermo del computer un copione di contro obiezioni, con una struttura ad albero, per non far cadere la conversazione. Ad ogni obiezione la sua risposta. Me l’ha mostrato Franco, mio fratello, che per anni ha lavorato come istruttore delle telefoniste. Ho scoper-

to un buco, la mancanza di una replica. Alla domanda: «Perché non vuole investire i suoi risparmi?», se si risponde: «Perché la mia religione me lo vieta», di là cade il silenzio. Mentre la nostra interlocutrice si affanna a cercare una risposta sul suo prontuario, abbiamo tutto il tempo per congedarci educatamente.

Una volta però una ragazza mi ha domandato, sinceramente interessata: «E qual è la sua religione?» Me ne sono inventata una sul momento: «La Fratellanza dei soldi sotto il mattone, è nata da un gruppo di risparmiatori che erano stati convinti a investire i loro capitali in cripto valute». «M’interessa. Come posso fare per aderire a questa fratellanza?». Per non perdere la faccia ho dovuto fondarla. Tante volte gli studiosi si domandano come nascono i nuovi culti. La risposta è lì, a portata di mano. Ma se gliela riveli non ti credono.

meritatissimo a quelle sostanze miracolose che sono i feromoni: 6 con lode. Già questo denota la specie superiore, tant’è vero che Manjoo arriva ad asserire che le formiche non basta ammirarle ma dovremmo addirittura prenderle a esempio. Pur essendo tanto numerose, vanno avanti tranquillamente senza intaccare o guastare il mondo circostante, anzi portando benefici di cui l’essere umano sarebbe totalmente incapace. Infatti: avete mai sentito una formica parlare di «operazione militare»? Utilizzare bombe? Sorvolare Kiev con un missile? O anche molto meno: avete mai visto una formica entrare in uno spogliatoio di calciatori ed esclamare: «Se vincete vi mando un pullman di… formichette»? Mai. Le formiche si limitano (si fa per dire) a procurare ossigeno al terreno, a disperdere i semi, a pulire l’ambiente favorendo la decomposizione. Se vi sembra poco, chiedete a un agricoltore.

Per di più, pare che le formiche abbiano una capacità di adattamento all’ambiente tale che riusciranno a sopravvivere persino alle catastrofi climatiche. Procurate dall’uomo anche con gli smartphone (6 – all’invenzione, 2 all’abuso). Il ministro dell’Istruzione italiano (4+) ha vietato (o finto di vietare) la presenza di cellulari in classe, anzi ha ribadito un divieto già emanato nel 2007 e rimasto da sempre inascoltato. Perché oggi quasi tutti gli studenti entrano a scuola con il telefonino acceso e rimangono connessi durante le lezioni. Intanto, un documento allegato al sedicente divieto si conclude con frasi allarmanti che dovrebbero suggerire il ritiro immediato di ogni dispositivo elettronico non solo durante l’orario scolastico: «A preoccupare di più è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza».

Se l’intelligenza delle formiche potrebbe in tutta tranquillità sopravvivere anche all’abuso di ipotetici micro-device per insetti, quella umana no. Dunque, che fare? Emanare un altro inutile divieto tra quindici anni, ma in sostanza dare per persa la battaglia lasciando ai ragazzi totale libertà di smanettamento anche su TikTok o su Instagram? Seguire alla lettera il divieto del ministro e pretendere che quegli aggeggi vengano depositati in un armadio appena varcata la soglia della classe? Né l’una né l’altra cosa, ma formare insegnanti perché sappiano trarre beneficio dalla tecnologia a scopo didattico? Troppo macchinoso? Troppo caro (si sa, la formazione costa)? In ogni caso, attendere con pazienza che le formiche affrettino la decomposizione delle circolari e un giorno, chissà, ripuliscano anche i ministeri. Voto alle formiche? 6 a testa. Totale: 120 quadrilioni (e altrettante lodi).

la civiltà “ha bruciato le tappe”. Si trema di sentirla estremamente fragile, in balia di un ebbro di distruzione. Il troppo rapido è più pericoloso del troppo lento».

Da Slow Food al sesso tantrico, dal pilates alla medicina omeopatica, negli ultimi anni la rivoluzione slow si è diffusa negli ambiti più disparati della nostra iperattiva ed efficientissima quotidianità. Contro la tirannia dell’orologio e i ritmi frenetici che riempiono a dismisura ogni minuto dedicato al lavoro, alla salute, alla famiglia, dobbiamo scoprire, e mettere in pratica, un salutare ritorno alla lentezza: ritagliarsi ogni giorno uno spazio in cui spegnere computer, cellulari, radio e tv, concedersi un pasto cucinato con le proprie mani, scegliere un passo meno frenetico e trovare il tempo di guardarsi attorno. Di solito, ci troviamo di fronte a manuali di consigli per «vivere meglio», per evi-

tare le nevrosi, per non essere schiavi della frenesia. Beccaria insiste invece per farci ritrovare un rapporto più «lento» con la lettura, il solo modo per godere di un processo creativo: «La magia dello scrittore sta nel saper trovare l’infinito nelle cose semplici, concentrare, isolare il valore ontologico di tutto ciò che esiste, ma senza assolutizzarlo, bensì rispettandolo nel suo essere, rispettando il “minimo”, perché ha una sua importanza ed essenzialità. I grandi scrittori posseggono una singolare carica visiva, capace di trasformare potentemente il particolare nell’universale». Non c’è dubbio, esiste un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. In Elogio della lentezza (Il Mulino), Lamberto Maffei, presidente dell’Accademia dei Lincei ed ex direttore dell’Istituto di Neuroscienza del Cnr, provava a richiamarci all’ordine. Ci guidava nell’e-

splorazione dei meccanismi cerebrali che inducono all’eccessiva velocità e ci rappresentava, con una certa dose di nostalgico pessimismo, i vantaggi del pensiero lento, di un pensiero che assecondi i tempi naturali della macchina, il cervello appunto. Come ribadisce Beccaria: «La bellezza di una narrazione non risiede nello scorrere di una trama, nel dipanarsi di una “storia”. Sta nel come le cose sono dette, i suoi spezzoni sono registrati e montati, nel come è fatta e come si è fatta l’opera. Un testo non si riduce alla vicenda narrata. Conta la “costruzione” della storia, il come è fatto quello che l’autore dice. Sia in prosa sia in poesia la “confezione” e il ritmo di lettura che ne consegue sono il segreto dello scrivere composizioni legate, come delle “partiture” che soltanto una lettura attenta, interna e continuata può cogliere nella loro consistenza compositiva».

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXV 27 dicembre 2022 azione – Cooperativa Migros Ticino 35 CULTURA / RUBRICHE ◆ ●
di Bruno Gambarotta
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di Paolo Di Stefano
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Leggerezza e tante vitamine: ecco i buoni propositi
IDEALE CON 1.95 invece di 2.70 Pancetta da arrostire affettata, IP-SUISSE in conf. speciale, per 100 g 27% 13.75 invece di 17.25 Capesante M-Classic, MSC pesca, Atlantico nordoccidentale, in conf. speciale, 240 g 20% 2.95 invece di 4.40 Arance bionde bio Spagna, rete da 1,5 kg 32% 5.50 invece di 7.50 Zucca a cubetti Italia/Portogallo, al kg 26% 2.95 invece di 4.50 Extra Clementine foglia Spagna, al kg 34%
Migros Ticino
Fiori e giardino Offerte valide solo dal 27.12.2022 al 2.1.2023, fino a esaurimento dello stock. Migros Ticino Consiglio: tagliare in verticale e immergere nel dip di quark ed erbe aromatiche Dolce regalino per un po' di fortuna in più nel 2023 3.95 Quadrifoglio in vaso di terracotta vaso, Ø 6 cm, il pezzo Hit 4.95 Tulipani disponibili in diversi colori, mazzo da 12, per es. fucsia, il mazzo Hit 13.95 Bouquet di rose M-Classic, Fairtrade disponibile in diversi colori, mazzo da 30, lunghezza dello stelo 40 cm, per es. rosso, giallo e arancione, il mazzo Hit 2.10 invece di 2.90 Cavolfiore Spagna/Italia, al kg, confezionato 27% 1.95 invece di 3.10 Carote bio Svizzera, sacchetto da 1 kg 37% 1.50 invece di 1.95 Avocado bio Spagna, il pezzo 23% 2.50 invece di 3.30 Mirtilli Perù/Cile/Africa del sud, vaschetta da 250 g 24% 1.10 invece di 1.40 Minestrone bio Svizzera, al 100 g 21%
Sapore e gusto per un menù di San Silvestro ben riuscito Carne e salumi In vendita ora al bancone 1.65 invece di 2.10 Spezzatino di maiale al banco, IP-SUISSE per 100 g 20% 1.65 invece di 2.10 Carne macinata mista, IP-SUISSE per 100 g, in self-service 20% 2.85 invece di 3.40 Fettine di pollo Optigal Svizzera, per 100 g, in self-service 15% 4.40 invece di 5.50 Fettine di manzo à la minute, IP-SUISSE in conf. speciale, per 100 g 20% 6.70 invece di 8.45 Fettine fesa di vitello fini, IP-SUISSE per 100 g, in self-service 20% 2.65 invece di 3.40 Spezzatino di manzo, IP-SUISSE per 100 g, in self-service 20%
Pane e prodotti da forno Offerte valide solo dal 27.12.2022 al 2.1.2023, fino a esaurimento dello stock. Migros Ticino Il nostro pane della settimana: a pasta acida, preparato ogni giorno dalla nostra panetteria della casa 7.45 invece di 10.80 Prosciutto crudo dei Grigioni surchoix affettato Svizzera, in conf. speciale, 153 g 31% 3.90 invece di 5.85 Panini per aperitivo in conf. speciale, con il 50% di contenuto in più, 360 g 33% 8.75 invece di 10.95 Carne secca del Vallese Sélection, IGP Limited Edition, Svizzera, 100 g, in self-service 20% 3.90 Pane Hercules, IP-SUISSE 410 g, confezionato Consiglio: ideale per cornetti al preparatiprosciutto in casa Tutti i prosciutti Tradition, IP-SUISSE per es. prosciutto da forno a fette, per 100 g, 2.55 invece di 3.20, in self-service 20% Voilà: quel qualcosa in più per gli amanti del pesce 4.55 invece di 5.70 Fondue di pesce Sélection, ASC, MSC Limited Edition, vaschetta da circa 500 g, per 100 g, in self-service 20% 5.25 invece di 6.60 Filetti di sogliola limanda selvatici, Oceano Atlantico nord-orientale, per 100 g, al banco a servizio e in self-service 20% 3.05 invece di 4.10 Salametti a pasta grossa prodotti in Ticino, per 100 g, in self-service 25% 2.45 invece di 3.55 Prosciutto cotto Puccini prodotto in Ticino, per 100 g, in self-service 30%
Ingredienti per deliziosi antipasti e dessert Formaggi e latticini
2.15 invece di 2.55 Caseificio Blenio per 100 g, confezionato 15% Grana Padano Da Emilio per es. bocconcini, circa 150 g, per 100 g, 2.– invece di 2.40 15% 5.30 invece di 6.50 Formaggio fresco Cantadou aglio ed erbe aromatiche, rafano o mix di pepe, per es. aglio ed erbe aromatiche, 2 x 140 g conf. da 2 18% LO SAPEVI?
1.70 invece di 2.05 Emmentaler Surchoix per 100 g, confezionato 17% 1.60 invece di 2.–Appenzeller surchoix per 100 g, prodotto confezionato 20%
Migros Ticino
Il Cantandou è davvero versatile. Questo formaggio fresco può essere spalmato sul pane o utilizzato come ingrediente per piatti caldi e freddi. Nel cornetto al prosciutto o come ripieno per i funghi, ques conferisce ai cibi una nota di gusto raffinata. Più i spirazioni per nuove ricette: www.cantadou.ch
Dolce e salato Offerte valide solo dal 27.12.2022 al 2.1.2023, fino a esaurimento dello stock. Migros Ticino Cremoso snack di mezzanotte per chi ama i sapori dolci Bontà da sgranocchiare per grandi e piccini 2.80 invece di 3.30 Flan M-Classic vaniglia, caramello o cioccolato, per es. vaniglia, 6 x 125 g conf. da 6 –.50 di riduzione 3.80 invece di 4.80 Magdalenas M-Classic al cacao o al limone, per es. al cacao, 2 x 225 g conf. da 2 20% 5.65 invece di 6.70 Panna intera UHT Valflora, IP-SUISSE 2 x 500 ml conf. da 2 15% Tutti gli yogurt Excellence, 150 g per es. ai truffes, –.80 invece di 1.–a partire da 4 pezzi 20% Flips o Triangles alla paprica M-Classic per es. Flips , 200 g, –.80 invece di 1.–20% Cialde finissime Choc Midor Classico, Noir o Black & White, per es. Classico, 3 x 190 g, 5.90 invece di 8.85 conf. da 3 33% Tutti i tipi di crème fraîche (prodotti beleaf e aha! esclusi), per es. Valflora al naturale, 200 g, 2.30 invece di 2.70 a partire da 2 pezzi 15% Tutte le tavolette di cioccolato Frey da 100 g (Sélection, Suprême, M-Classic e confezioni multiple escluse), per es. al latte con nocciole, 1.50 invece di 1.85 a partire da 2 pezzi 20% migros .ch Ordinato, consegnato!
Serviti a 360 gradi Scorta Pronto in un attimo per il buffet di San Silvestro Un aiuto per iniziare al meglio la
del nuovo anno 16.50 invece di 22.–Mini pizze Piccolinis Buitoni surgelate,
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scaloppina al pepe e al limone, 2 x 220 g, 7.90 invece di 9.90 conf. da 2 20% 2.95 Pasta Garofalo penne, farfalle o spaghetti, 1 kg Hit Tutto l'assortimento di barrette ai cereali Farmer per es. Soft Choc alla mela, 288 g, 3.60 invece di 4.50 20% Pasta bio tortelloni all'arrabbiata, spätzli o gnocchi rigati, in confezioni multiple, per es. tortelloni, 3 x 250 g, 9.– invece di 11.25 conf. da 3 20% Ketchup Heinz Tomato, Tomato Light o Hot Chili, per es. Tomato, 2 x 570 g, 5.50 invece di 6.90 conf. da 2 20% Tutti i tipi di aceto e i condimenti Ponti e Giacobazzi per es. aceto balsamico di Modena Ponti, 500 ml, 3.60 invece di 4.50 a partire da 2 pezzi 20%
mattina
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speciale, al prosciutto o alla mozzarella, 40 pezzi, 1,2
Caffè istantaneo, in chicchi e capsule Dolce Gusto® Starbucks per es. Pike Place Roast in chicchi, 450 g, 7.– invece di 9.95, in vendita nelle maggiori filiali a partire da 2 pezzi
de Paris tagliati M-Classic in confezioni multiple, per es. 3 x 230 g, 3.95 invece di 4.95 conf. da 3
Tutte le lenticchie, la quinoa, i ceci e il couscous bio (prodotti Alnatura esclusi), per es. lenticchie rosse, 500 g, 2.25 invece di 2.85
Tutto l'assortimento Mister Rice bio per es. Carnaroli, 1 kg, 3.90 invece di 4.90
Scaloppina al pepe e al limone Cornatur o cordon vert Cornatur per es.
Inizia l’anno nuovo in convenienza Varie Offerte valide solo dal 27.12.2022 al 2.1.2023, fino a esaurimento dello stock. Una carica di energia per il giorno dopo la lunga notte Ciao ciao Natale: iniziare il nuovo anno con ordine 12.95 Box per bocce di Natale e per bricolage con suddivisione interna e maniglia per il trasporto, 47 x 34,5 x 23,5 cm, il set Hit Shampoo o balsami Fructis in confezioni multiple, per es. shampoo Cucumber Fresh, 3 x 250 ml, 7.45 invece di 10.65 conf. da 3 30% Tutto l'assortimento Vitamin Well per es. Reload, 500 ml, 1.80 invece di 2.25 20% Tutto l'assortimento Ceylor e Cosano (confezioni da viaggio escluse), per es. Cosano Regular, 10 pezzi, 3.75 invece di 4.95 a partire da 2 pezzi 25% 14.95 invece di 19.95 Succo d'arancia bio 6 x 1 l conf. da 6 25% Latte di cocco Thai Kitchen in confezioni multiple, bio, light o normale, per es. bio, 3 x 250 ml, 6.95 invece di 8.70 conf. da 3 20% 44.95 Parure da letto Caspar 2 pezzi, grigio, 160 x 210 cm e 65 x 100 cm, il set Hit 6.65 invece di 8.90 Shampoo o balsami Ultra Doux per es. shampoo al miele, 2 x 300 ml conf. da 2 25% 21.95 invece di 27.90 Detersivi Elan in conf. di ricarica, per es. Spring Time, 2 x 2 l conf. da 2 21% Tutto l'assortimento di confetture Favorit per es. lamponi svizzeri, 350 g, 3.40 invece di 4.80 20%
Let’s party! Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli già ridotti. Offerte valide solo dal 27.12.2022 al 2.1.2023, fino a esaurimento dello stock. «Virgin Clementine Mimosa» e altre ricette su migusto.ch/capodanno Tutte le bevande da aperitivo Apéritiv per es. Tonic Water, 500 ml, –.80 invece di 1.20 30% 14.95 Bomba da tavolo Maxi Neon Cucina & Tavola il pezzo 6.95 Set di palloncini Illooms Cucina & Tavola dorati e argentati, 5 pezzi 8.95 Bastoncini fluorescenti Cucina & Tavola 50 pezzi Tutto l'assortimento Happy Hour prodotti surgelati, per es. cornetti al prosciutto M-Classic, 12 pezzi, 504 g, 4.– invece di 6.60, offerta valida dal 29.12.2022 all'1.1.2023 a partire da 2 pezzi 40% Tutto l'assortimento Maybelline per es. concealer Instant Anti-Age, 01 light, il pezzo, 7.45 invece di 14.90, offerta valida dal 29.12.2022 all'1.1.2023 a partire da 2 pezzi 50% 13.50 invece di 27.–Fondue moitié-moitié Caquelon Noir, AOP Le Gruyère e Vacherin Fribourgeois, 2 x 600 g, offerta valida dal 29.12.2022 all'1.1.2023 conf. da 2 50% imbattibili weekend del Prezzi Validi gio. – dom.
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