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Considerazioni sulla consulenza filosofica L’USO DELLE PAROLE Hans Blumenberg Pensosità Laura Boella Il movimento del pensiero Pier Aldo Rovatti Dove sta e chi è il consulente filosofico Discussione sulla consulenza filosofica con Umberto Galimberti e Andrea Vitullo Tiziano Possamai Scene di consulenza MATERIALI Neri Pollastri Il consulente filosofico di quartiere Neri Pollastri Daniele. Una relazione di consulenza

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CONTRIBUTI Ottavio Marzocca “Omnes et singulatim” Il doppio vincolo del governo Dario Melossi Penalità e “governo delle popolazioni” tra Marx e Foucault Fabio Polidori Esperienze del soggetto

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FARE SCUOLA Alessandro Dal Lago Diamogli ventisette

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti redazione: Graziella Berto, Laura Boella, Paulo Barone, Giovanna Bettini, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Maurizio Ferraris, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento, tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Gabriele Piana, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto direzione: via Pacini 40, 20131 Milano. collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, J. Baudrillard, R. Bodei, M. Cacciari, G. Comolli, G. Dorfles, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, A. Prete, R. Rorty, M. Serres, G.C. Spivak, M. Trevi, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Zˇizˇek

Gruppo editoriale il Saggiatore S.p.A. Via Melzo 9, 20129 Milano ufficio stampa: autaut@saggiatore.it abbonamento 2006: Italia w 60,00, estero w 76,00 L’Editore ha affidato a Picomax s.r.l. la gestione degli abbonamenti della rivista “aut aut”. L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Picomax s.r.l. responsabile dati, Via Borghetto 1, 20122 Milano (ai sensi della L. 675/96). servizio abbonamenti: Picomax s.r.l., Via Borghetto 1, 20122 Milano telefono: 02 77428040 fax: 02 76340836 e-mail: abbonamenti@picomax.it www.picomax.it Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci Stampa: Arti Grafiche Bertoni, Verderio Inferiore Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano. Finito di stampare nel dicembre 2006


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L’uso delle parole Pensosità HANS BLUMENBERG

gni forma di vita tende a dare senza indugio e senza scrupolo le risposte alle domande che le si pongono. Lo schema di stimolo/reazione è una semplificazione troppo grande dei dati e dei fatti, eppure sembra essere il segreto ideale per la buona funzionalità del comportamento organico. Solo l’uomo si permette la tendenza opposta. È l’essere che esita. Sarebbe, questa, una omissione che la vita non perdona se lo svantaggio non fosse bilanciato da un grande dispendio di prestazioni il cui risultato è da noi chiamato esperienza. Che non si percepiscano solo segnali ma cose, significa che abbiamo imparato ad attendere quello che di volta in volta si manifesterà ancora. L’indecisione rischiosa di fronte all’alternativa: fuga o attacco può essere stato il primo passo verso la civiltà, non dimostrabile con alcuno scavo, come rinuncia, cioè, alle soluzioni rapide, alle vie più brevi. L’esitazione, misurata sulla norma della semplice funzione, può certo venire intesa come conseguenza di un turbamento: un cambiamento del biotopo o un mutamento di flora e di fauna causato dalle oscillazioni climatiche potrebbe aver turbato, deformato, modificato l’univocità e la sicurezza dei dati del mondo ambientale

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Tratto da: “In forma di parole”, Elitropia, Reggio Emilia 1981. Titolo originale: Nachdenklichkeit. Discorso di ringraziamento per il premio di prosa “Sigmund Freud”, pubblicato in Deutsche Akademie für Sprache und Dichtung. Jahrbuch 1980, Schneider, Heidelberg 19812.

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per il comportamento. La famosa sintesi teorico-conoscitiva della molteplicità delle sensazioni sarebbe sorta dalla mancanza di chiarezza, dalla estraneità del mondo ambientale. Nella esitazione non si trova alcun piacere della funzione, ma si sarebbe potuto trovare il piacere dell’indugiare nel forzato rinvio dell’azione. Ogni nuovo spazio conquistato di sicurezza protetta avrebbe permesso di ampliare l’ambito di questo profitto di piacere. La vita richiede utilità, però concede ai suoi favoriti l’esperienza della libertà dallo scopo. È da qui che nasce ogni civiltà. Già nelle sue manifestazioni più primitive, negli ornamenti come nella decorazione sugli oggetti d’uso, è contenuto il gesto dell’acquisto della liberà dallo scopo, della sospensione dell’economia. Dall’esitazione come momentanea perplessità, come pura utilizzazione di un rinvio, può nascere la condizione che ha un valore di vita diverso da quello dell’esame delle scelte. Per questo valore di vita gli equivalenti linguistici appaiono quasi del tutto consunti. Come quello, per esempio, della condizione meditativa della vecchiaia, di cui si parlava una volta, e che non dovrebbe consistere nel meditare su qualcosa così da eliminarne l’esperienza. Anche la pensosità non gode la benevolenza dei contemporanei che esigono almeno una facilità di decisione. Essere pensosi è considerata una perdita di tempo abbastanza oziosa. Il pensare e il pensare sul pensare può forse conferire competenza tecnica; la pensosità non viene reclamata come possesso proprio da nessuna professione o disciplina. L’idea che abbiamo del pensare è che realizzi il collegamento più breve tra due punti, tra un problema e la sua soluzione, fra un bisogno e la sua soddisfazione, fra gli interessi e il consenso a essi – lungo quella corda del discorso su cui fanciulli ormai critici debbono arrivare a celeri conclusioni ed emancipazioni. Chi è pensoso può contare nel migliore dei casi sull’indulgenza. Non ci si aspetta da lui risultati quando si alza. Quello che fa o piuttosto quello che non fa, non eccita nessuno e meno di tutti lui stesso. Una delle descrizioni dell’essere pensoso è quella del farsi passare per la testa le cose così come vengono. Nella pensosità è contenuta un’esperienza di libertà, e tanto 4


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più una libertà del divagare. L’ampiezza dello spettro in cui si reagisce al divagare si estende dai culmini dello humour alla pura disperazione di coloro che in una cosa vorrebbero arrivare alla conclusione. Nessun genere di socialità può permettere ai suoi membri di staccarsi dal complesso delle funzioni. La digressione esige gradi di libertà che non ci si può permettere nel discorso sui poteri del pensare. Le strategie del dialogo non consentono a nessuno di restare pensoso. In questa situazione sarebbe infatti permesso di far passare una cosa per l’altra, di rendere meno esigente la severità dei controlli e quindi di non usare nessuna misura di grandezza nei problemi. Si può dubitare se sia possibile pensare il senso della vita secondo regole tecniche; sarà permesso pensarci anche senza riuscire mai ad avvicinarsi a una risposta – anche solo a una tra le molte forse possibili, e pure alla fine non possibili. La filosofia viene considerata la metodica disciplina di questi problemi, nel caso limite la loro proibizione, per la dimostrata irraggiungibilità delle risposte in maniera fededegna. Il pensiero regolato appare lontano dalla pura pensosità. Molte figure della filosofia sembrano essere contrarie a questa separazione. Socrate era un “pensatore” nel senso di questa severità? I suoi risultati sarebbero stati allora i più miseri di tutti quelli possibili: che cosa si sarebbe raggiunto nel sapere che non si sa nulla? E che cosa, nel coinvolgere gli altri, che si credevano in possesso del sapere, nell’attirarli e nello spingerli ironicamente nella perplessità e nella confusione? A meno che non lo si intenda come il ricondurre il pensiero all’esser pensosi, alla sua origine, al terreno che ha abbandonato ma a cui deve sempre ritornare. Lo si chiami pure, il terreno del mondo-della-vita. In esso la filosofia ha superato ogni dubbio sul proprio diritto all’esistenza, con grande meraviglia di chi la diceva morta. Per me la filosofia non è uguale alla pensosità, ma non si può negare la sua origine da questa e soprattutto la sua volontà di servirla. La sua forma ideale non è soltanto “il pensatore” che si assicura secondo tutte le regole d’arte e che è impedito a ogni passo dalla pura riflessio5


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ne sui metodi. Altrimenti Socrate, Diogene, Kierkegaard o Nietzsche sarebbero entrati nella storia della filosofia? Socrate, in carcere, prima della sua morte è ritornato alle favole di Esopo che i greci conoscevano già dalla loro infanzia. Questo piccolo particolare è un segno che per il momento vorrei seguire. La favola di Esopo è una forma di estrema e tuttavia artistica semplicità. Ecco un esempio: “Un vecchio tagliava la legna, se l’era caricata sulle spalle e aveva cominciato a camminare per un lungo tratto. La strada lo aveva stancato. Si tolse allora il carico dalle spalle e chiamò la morte. Che apparve presto e gli chiese perché l’avesse chiamata. Il vecchio rispose: perché tu mi aiuti a rimettere sulle spalle di nuovo il mio carico”. Si sente che la storia breve, se le si presta attenzione, rende pensosi. Ne più né meno: pensosi. Ora, le favole che sono state tramandate sotto il nome di Esopo non sono finite quando il loro racconto è alla fine. Hanno sentenze su ciò che debbono insegnare o abbiano potuto insegnare: il loro epimythion, la “morale della storia”. Gli umanisti e i filologi si erano accorti della sproporzione o della non proporzione di queste sentenze con le storie a cui sono attribuite. Se ci si è lasciati andare alla pensosità cui la favola induce, la sua “morale”, come risultato da intendere, non è solo spesso estremamente deludente ma addirittura sconcertante e tormentosa nella sua incomprensione. Sebbene quasi nessuna di queste sentenze si possa definire sbagliata, tutte in fondo hanno qualcosa di particolare e di inspiegabilmente improprio e inopportuno. Nel caso della favola che ho scelto, Il vecchio e la morte, è scritto che da tempo antico, forse non antichissimo, la storia (logos) dimostra che ogni uomo è amante della vita (philozoos) e questo anche se le cose gli vanno male. Certamente non è sbagliato, eppure delude. Non è soltanto una triste riduzione del senso della favola, ma un turbamento della pensosità appena risvegliata. È costretta a misurare la banalità della morale, il significato del nudo avvenimento; costretta al dubbio che una tale meravigliosa opera possa davvero essere stata pensata per tale quintessenza. Se si tenta da soli di estrarre dalla favola il messaggio, l’informa6


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zione che vorrebbe trasmettere, ci si accorge presto che ogni frase che si pronuncia appiattisce la profondità che può essere compresa, non solo intesa, nella pensosità; esclude troppo perché si possa accettare in questo modo, per quanto sia giusto che non possa esistere alcun grado di miseria della vita che le tolga completamente il suo valore. Vorrei allora fare un passo avanti dicendo che la pensosità, che la favola provoca, è legata alla pensosità che nella favola si manifesta. Il vecchio di cui si racconta non è un “pensatore” che tra il buttare via il carico e l’arrivo della morte abbia mutato una considerazione sul poco valore della vita, ma è qualcuno che nell’indugio impara il profitto che esso soltanto concede. Il vecchio ha gettato via il carico insopportabile perché alla fine è deciso e vuole aspettare la morte, e l’aver gettato il carico gli concede ancora una dilazione, trarre un respiro, guardare il mondo, che sotto il carico aveva osservato, guardarlo ancora una volta per sentire quale sarebbe il prezzo per essere liberato definitivamente dal carico. Mentre sta così pensoso, si avvicina la morte chiamata; e sembra che il vecchio ottenga dalla morte quel prolungamento della dilazione che si era procurato con la sua stanchezza della vita. La favola non dice nulla di quello che era passato in mente al vecchio per commuovere la morte e aiutarlo nel continuare a portare il carico, quasi fosse stata chiamata per questo. Ma in quello, appunto, che la favola non dice, si concede a noi lo spazio possibile in cui restiamo pensosi. La pensosità si manifesta anche nella sproporzione tra favola e morale. Si vorrebbe quasi credere che gli epimythia siano stati inventati proprio per dimostrare agli ascoltatori e ai lettori come ben poco si ottenga dal trarre una morale dalla storia, dal ricondurla a una frase conclusiva e comodamente trasferibile, e come invece sia essenziale raggiungere una condizione di pensosità che protegga da queste frasi. La pensosità è una pausa anche rispetto ai risultati banali che il pensiero ci procura quando ci si interroga sulla vita e sulla morte, il senso e il non senso, l’essere e il nulla. Il mio risultato – e per obbligo di professione ne devo pur dimostrare uno – è che la filosofia debba conservare se non rinno7


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vare qualcosa della pensosità, della sua origine dal mondo della vita. Per questo non deve essere vincolata a particolari aspettative sul tipo della sua utilità. Il legame col mondo della vita sarebbe distrutto se il diritto di interrogare della filosofia fosse limitato dalla normatività delle risposte o anche solo dalla costrizione di porre interrogativi secondo le possibilità delle risposte e della loro disciplina. La filosofia rappresenta solo un risultato più generale in ogni cultura: quello della insopprimibilità dei suoi bisogni e problemi elementari attraverso il suo ipotetico superamento. Cultura è anche rispetto dei problemi cui non possiamo dare risposta e che ci fanno riflettere e ci lasciano pensosi. Heine ha riversato tutta la sua beffarda ironia su Kant dicendo che ha scritto la sua seconda Critica, quella della ragione pratica, con i temi della pensosità: libertà, esistenza di Dio, immortalità, soltanto per far piacere al suo vecchio servitore Lampe. Quando l’audacia dell’ironico beffardo poeta si è dissolta, si resta pensosi: non potrebbe forse essere vero? Non c’è bisogno di fare nomi venerabili. Rispetto al mondo volevamo e vogliamo sapere a che cosa attenerci. E anche se siamo sicuri che non ci saranno da formulare risposte e che le risposte formulate non saranno realizzabili, non ci lasciamo convincere facilmente a rinunciare, solo temporaneamente, solo confidando nell’Ersatz delle risposte. A che cosa attenerci, a questo pensiamo, ora che siamo stati distolti dal non pensarci. Pensosità vuol dire: non tutto resta così semplice e naturale com’era. Questo è tutto. Traduzione dal tedesco di Lea Ritter Santini

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Il movimento del pensiero LAURA BOELLA

Il pensiero non porta al sapere come vi portano le scienze. Il pensiero non comporta una saggezza utile alla vita. Il pensiero non risolve gli enigmi del mondo. Il pensiero non procura immediatamente forze per l’azione. M. Heidegger, Che cosa significa pensare?

a filosofia è tornata nella piazza, i suoi aspetti di pratica concreta che adotta metodi e tecniche specifiche di argomentazione e di interpretazione dei testi, sceglie determinati oggetti o temi, interessano oggi molto più di correnti e autori, la sua vocazione pubblica conosce un rilancio significativo di fronte ai problemi posti dalla politica globale e dalle innovazioni tecnologiche, il suo buon uso nelle faccende umane diventa sempre più importante in un’epoca confusa e angosciata. Attraverso la consulenza filosofica, la filosofia si riscopre strumento o via di trasformazione interiore, maestra di vita. Ne dobbiamo concludere che la filosofia è uscita dalle scuole e dalle università e si è mescolata alla vita comune, al mondo del lavoro, delle professioni e delle tecnologie avanzate, ai problemi di sopravvivenza psico-fisica nelle grandi metropoli? Il filosofo di professione non è più dunque quello che la tradizione ci consegna in un’infinità di variazioni più o meno grottesche o ridicole: solitario, preferibilmente seduto in poltrona o vicino alla stufa intento a godersi i piaceri della vita contemplativa o a patire cerebrali sofferenze, dimentico del proprio corpo e del mondo, tutto preso da entità ideali, superconcetti o fondamenti (la verità, l’essere, il tempo)?1 In effetti, la filosofia è diventata una professione che

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1. H. Arendt, La vita della mente (1978), a cura di A. Dal Lago, il Mulino, Bologna 1987, ha ricostruito la storia del pensatore di professione lungo l’intera tradizione della filosofia occidentale alla luce del suo dissidio e allontanamento dalla realtà.

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non individua più esclusivamente gli studiosi accademici, i costruttori di teorie e nemmeno gli insegnanti di filosofia, ma comprende l’intellettuale pubblico (che può essere un grande scienziato o un grande poeta) che giudica questioni di bioetica o di politica, il consulente filosofico in aziende, ospedali e studi privati e spesso anche lo psicanalista, il sociologo, il saggista e il letterato che, nella veste di conferenzieri o opinionisti in televisione o sui grandi quotidiani, esprimono un “pensiero” sulla vita e sulle passioni perfettamente adeguato alle richieste di un’umanità incerta e confusa che si interroga sull’esistenza. Assistiamo così alla diffusione di una pratica sapienziale e terapeutica della filosofia, legata, da un lato, alla crisi e all’alto costo della psicanalisi e, dall’altro, al fenomeno tipico di una società tecnologica dominata dai mass media e preda di fantasmi apocalittici, che trasforma la propria insicurezza in ossessione di dibattere pubblicamente della vita e della morte, dell’amore e del dolore.2 Se questa è la situazione, se la filosofia, con sorpresa di chi a più riprese ne ha proclamato la morte, sta mostrando in molti modi la sua vitalità lasciandosi investire dalla realtà del mondo contemporaneo, si è tentati in un certo senso di prendere le distanze, considerando il fenomeno nei termini di una questione di mercato, di albi professionali, di formazione più o meno rigorosa dei nuovi addetti alle diverse branche: ricerca pura, consulenza, bioetica ecc. Oppure si guarda alla nuova “professionalità” della filosofia, al suo successo come terapia dell’anima, alla valorizzazione della sua funzione pubblica, avanzando dubbi sul suo parassitismo nei confronti delle mode e delle questioni del giorno, nonché sul dilettantismo di coloro che filosofeggiano su tutto. Sembra insomma difficile sfuggire allo scetticismo, visto che la figura del filosofo tradizionale, sacerdote di una ricerca altamente sofisticata e per definizione inac2. Numerose e varie sono già le riflessioni sul tema. Cfr. il numero monografico di “Discipline filosofiche”, XV, 2005, vol. I: La svolta pratica in filosofia; vol. II: Dalla filosofia pratica alla pratica filosofica; F. D’Agostini, Nel chiuso di una stanza con la mente in vacanza. Dieci lezioni sulla filosofia contemporanea, Carocci, Roma 2005; S. Veca, La priorità del male e l’offerta filosofica, Feltrinelli, Milano 2005; R. Màdera, L.V. Tarca, La filosofia come stile di vita, Bruno Mondadori, Milano 2004, e i testi della collana “Pratiche filosofiche” diretta da Umberto Galimberti presso l’editore Apogeo.

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cessibile ai più, non è affatto scomparsa e, per il resto, la divulgazione e la chiacchiera sono fenomeni della società contemporanea che non stupiscono più nessuno. In realtà, quanto sta accadendo dovrebbe provocarci a rilanciare una questione di fondo a dire il vero paradossale: è possibile esercitare l’attività specifica della mente che corrisponde al pensare con la finalità di produrre effetti sulla vita delle persone, è possibile praticarla in modo da far sì che la sua “cassetta degli attrezzi”, notoriamente piena di concetti, metafore, idee, essenze, invece di produrre aeree e cerebrali costruzioni, aiuti a comprendere l’esperienza vissuta? Questa domanda ovviamente non è nuova e ha trovato molte risposte nel corso dei secoli, a cominciare dall’antichità. Non è un caso che da Socrate allo stoicismo e all’epicureismo, la concezione della filosofia come “esercizio spirituale”3 e le sue pratiche di meditazione, dialogo, lettura forniscano oggi un modello alla consulenza. Essa diventa invece molto più delicata e quasi spiazzante nella situazione attuale, se si fa riferimento all’eredità tormentata e contraddittoria, ma che ha gettato semi di inquietudine e di rinnovamento, del pensiero del Novecento. Del resto, è proprio questa eredità a segnare le nostre biografie di studiose e studiosi di filosofia, nonché la pratica filosofica che cerchiamo di realizzare e che riscontriamo nei pensatori e nelle pensatrici che più hanno contato nella nostra formazione. Ma soprattutto, se la filosofia torna a farsi guida per la vita, è quasi impossibile dimenticare che siamo appena usciti da un secolo in cui il rapporto con la vita, la storia, la politica, tenendo conto dell’importanza del marxismo, della nascita delle cosiddette scienze umane e dell’impatto della psicanalisi, ha segnato fortemente e intimamente la filosofia prima della tematizzazione delle filosofie pratiche o applicate. La filosofia si trova ancora oggi a fare i conti con la potente tempesta del Novecento, in cui scuole e 3. Cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica (1988, 2002), a cura di A.I. Davidson, Einaudi, Torino 2005 (edizione ampliata); C. Horn, L’arte della vita nell’antichità. Felicità e morale da Socrate ai neoplatonici (1998), a cura di E. Spinelli, Carocci, Roma 2005; M. Nussbaum, Terapia del desiderio. Teoria e pratica nell’etica ellenistica (1996), a cura di R. Davies, Vita e Pensiero, Milano 1998; J. Annas, La morale della felicità (1993), Vita e Pensiero, Milano 1997.

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dottrine molto raramente sono rimaste immuni da eventi come le guerre mondiali, la rivoluzione bolscevica, l’avvento del nazismo, la ricostruzione dell’Europa nel secondo dopoguerra con i noti fenomeni della società dei consumi e delle rivolte giovanili del Sessantotto. La filosofia in Europa, a differenza che negli Stati Uniti, è stata spesso travolta da fedi, ideologie, avanguardie artistiche e letterarie, sommovimenti politici e sociali. Comunque si giudichi il Novecento, che è stato anche un secolo di irripetibili rivoluzioni del pensiero, non si può trascurare il fatto che il problema della concretizzazione della filosofia, molto vivo fin dalle filosofie della vita di inizio secolo, ma ben presente anche nel rigore della fenomenologia husserliana, non ha affatto segnato una crisi irrimediabile, bensì ha rimescolato le carte dell’attività del pensiero nella sua forma convenzionale. Certo, ci troviamo di fronte a un paradosso: la filosofia diventa concreta cambiando radicalmente pelle, togliendosi letteralmente il terreno sotto i piedi, abolendo i puntelli che da sempre la sostenevano (la saggezza, a volte l’arroganza del filosofo che guarda e giudica gli affari umani stando fuori della mischia, ma anche le rassicuranti e doverose pratiche cognitive, la cui funzione di accumulo di dati sulla realtà viene sempre più delegata alle scienze della natura e alle scienze umane). Che cosa significa diventare concreta per la filosofia? È chiaro che non si tratta semplicemente di acquisire una sensibilità per i problemi politici e sociali, alleandosi magari con la psicologia, la sociologia, l’economia, l’antropologia, ancor meno di cercare la soluzione dei propri problemi nell’azione rivoluzionaria (cosa peraltro accaduta con il marxismo critico-utopico degli anni venti e con Sartre negli anni cinquanta). La filosofia si è sentita piuttosto chiamata a potenziare l’attività della mente che le è peculiare per rispondere, non più ai problemi suscitati dal suo stesso esercizio, bensì all’accadere che la interpella. Il suo compito diventa quello di comprendere ciò che accade e spesso anche di assumere una responsabilità morale nei suoi confronti. E ciò è avvenuto, a dire il vero, attraverso molteplici contaminazioni ed esperimenti: con la poesia, con l’apertura alla trascendenza della fede, con la pratica di una fedeltà minuziosa alle 12


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manifestazioni più banali e inappariscenti del reale, con il mettere al centro la questione dell’abitare un mondo comune, luogo di scambio di esperienza e non di violenza e di asservimento. Il pensiero ha recuperato in questo modo un rapporto forte con la realtà, contro tutta una tradizione di distacco, corrispondente all’accademizzazione e parcellizzazione della filosofia in ambiti disciplinari. Tale relazione con la realtà ha inciso dal di dentro il pensiero, trasformandone i modi di espressione e di scrittura e la configurazione stessa dei problemi. Questo impetuoso sconvolgimento ha forse modificato radicalmente l’atteggiamento di pietas, di ascolto dei terrori e degli stupori della condizione umana tipico della filosofia antica o lo ha sostituito con domande molto aspre e impietose, perlopiù prive di risposta? A prima vista sembrerebbe che tra il fenomeno abbastanza definito della consulenza filosofica e di tutto ciò che le ruota attorno e il modello di pensiero frutto della crisi e della trasformazione della filosofia del Novecento ci sia un’enorme distanza. Quando pensatori come Heidegger, Jaspers, Benjamin, Wittgenstein non sono celebrati come monumenti quasi “classici” di un “nuovo pensiero” sull’Essere, la Storia, l’Esistenza, il Linguaggio, la loro distruttività, il radicalismo, le abiure, i tradimenti, le ipocrisie e anche il loro sacrificio vengono considerati un attraente dato storico-biografico, tipico di tempi “maledettamente interessanti” ormai alle nostre spalle. Qualcosa di simile avviene con pensatrici come Simone Weil, María Zambrano, Hannah Arendt, Edith Stein o Jeanne Hersch, che possono venire canonizzate e accolte nella comunità dei pensatori, ma più di frequente restano ingombranti e a volte pericolosi esempi di come l’esilio, la fede, l’esperienza delle catastrofi storico-politiche possano imprimere al pensiero brusche sterzate oppure portarlo a un punto limite, quasi un punto zero. Il Novecento ci consegna dunque un pensiero radicale, a volte estremo, dotato della forza d’urto delle avanguardie e delle rivoluzioni, troppo ambizioso nei suoi progetti di distruzione della metafisica e al tempo stesso troppo critico della norma, come tale difficile da tradurre in una pratica di meditazione e di vita appropriata alla dimensione quotidiana o professionale della società attuale? 13


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Questa domanda non dovrebbe riguardare solo una minoranza di addetti ai lavori, caratterizzati da biografie filosofiche inquiete e un po’ fuori dell’ordine, ma andare al cuore del problema: che utilità può avere per la vita un esercizio del pensiero che distrugge la sua solidità e certezza superficiale, che ne moltiplica le fessure e gli strati, che apre vuoti di irresolutezza, di sospensione? Lo stupore ammirato, che scopre nell’ovvio e nel banale la scintilla dell’infinito, il dono più prezioso che la filosofia dell’antichità ha recato agli esseri umani, quale forma assume, se è riuscito a preservarsi, in un pensiero che cerca, a volte furiosamente, tra le rovine dell’insensato qualcosa che non osa più definire? Per essere utile alla vita, per ridestare i germi di una ricerca del senso non solo nei “pensatori”, ma nelle persone comuni, la filosofia deve forse attenuare la sua distruttività, la sua interrogazione infinita? Proviamo a mettere alla prova la “pensosità”4 di Hans Blumenberg, autore che ha riflettuto in molti modi sul rapporto sfuggente e ambiguo del filosofo con la realtà. Blumenberg ci ha insegnato che, si trovi in una piazza come Socrate e i sofisti o programmaticamente per la strada, come i cinici, oppure nella sua stanza vicino alla stufa, come Cartesio, il filosofo, in fondo, non è mai lì, sta in un altrove, che risulta a volte dall’espressione del volto, che è concentrata, dal tipo di camminata (intorno alla cattedra), o ancora dal brandire la matita e, come nel caso di Simmel e di Husserl, dal farle fare lente circonvoluzioni nell’aria oppure, dopo la lezione, nell’usare il bastone da passeggio scagliato contro lo stipite della porta come ritorno alla realtà.5 La pagina di Blumenberg è apparentemente lieve e disincantata, sembra essersi lasciata alle spalle la solennità e la severità dei padri fondatori (Husserl e Heidegger), per procedere sul terreno del mondo della vita, in cui un essere costituzionalmente debole e scarsamente attrezzato per la lotta per la so4. Cfr. H. Blumenberg, Pensosità (1980), in questo fascicolo. 5. Cfr. gli scritti in cui Hans Blumenberg ripercorre la storia di alcune metafore incentrate sul rapporto del pensatore con la realtà: Naufragio con spettatore (1979), il Mulino, Bologna 1985; Il riso della donna di Tracia (1987), il Mulino, Bologna 1988; L’ansia si specchia sul fondo (1987), il Mulino, Bologna 1989.

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pravvivenza elabora dispendiose e a volte semplicemente dilatorie strategie per fronteggiare l’estraneità del mondo circostante. Blumenberg sa quanto efficacemente l’arte, il gioco, la narrazione alleggeriscano il peso della realtà, altrimenti insopportabile per le fragili spalle umane. Gli esseri umani, più che interrogarsi pensosamente sull’Essere e sul Nulla, inventano, costruiscono e si raccontano storie che permettono di contenere e di ordinare l’insicurezza e il caos derivanti dalla realtà sovrabbondante che costituisce il loro ambiente di vita. “Per chi pensa filosoficamente nessuna storia è indifferente, fosse pure la storia naturale delle scimmie.”6 Le storie sono la vera materia della filosofia perché sono infinite variazioni sul tema di quel fondo oscuro del mondo della vita che non può essere né controllato né dominato, ma solo colto per ombreggiature, per giochi di luci e di ombre. La filosofia non incontra la vita direttamente, così com’è vissuta nell’immediatezza, bensì nello spazio intermedio delle storie, in cui la realtà va in dissolvenza come nei sogni oppure assume la solidità dei concetti, delle norme giuridiche e delle spiegazioni scientifiche oppure ancora si rimpicciolisce, diventando l’aneddoto banale che fa scendere dal piedistallo il grande scrittore o il grande filosofo o la notizia di cronaca che abbindola il borghese credulone o la raffinata scoperta del filologo che verrà apprezzata nel suo valore scientifico inestimabile solo da tre esimi colleghi. L’opera di Blumenberg potrebbe essere considerata un esempio emblematico di filosofia che umanizza – non si saprebbe usare un’altra parola – l’eredità della grande cultura classica europea, nonché della fenomenologia e della filosofia dell’esistenza, mettendo tra parentesi i suoi ambiziosi progetti e traducendola in un sempre rinnovato esperimento di arginare l’urto delle potenze più antiche – il mito e i suoi idoli sempre risorgenti: la purezza e l’origine – e di quelle moderne e contemporanee – la scienza e la tecnica, la noia, la guerra e l’identità. Che cos’è la “pensosità” per una filosofia che partecipa in questo modo della condizione umana? 6. Id., Elaborazione del mito (1979), il Mulino, Bologna 1991, p. 455.

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La “pensosità” (Nachdenklichkeit) è una forma di meditazione caratterizzata dal “farsi passare per la testa le cose così come vengono”, una forma di esitazione e di perplessità totalmente inconcludente, di rinvio delle decisioni, insomma una “perdita di tempo abbastanza oziosa”. Eppure, essa sta all’origine del pensiero che segue regole e metodiche e conduce a risultati, ha un “valore di vita”, per nulla antitetico a quella che comunemente si chiama esperienza, perché è libertà – libertà dallo scopo e dalla decisione –, dispendio di tempo e di energia che amplia lo spettro del reale e ne mette in prospettiva gli aspetti di indeterminazione e le turbolenze. Per dare un esempio di “pensosità”, Blumenberg racconta una storia, una breve favola di Esopo, Il vecchio e la morte: “Un vecchio tagliava la legna, se l’era caricata sulle spalle e aveva cominciato a camminare per un lungo tratto. La strada lo aveva stancato. Si tolse allora il carico dalle spalle e chiamò la morte. Che apparve presto e gli chiese perché l’avesse chiamata. Il vecchio rispose: perché tu mi aiuti a rimettere sulle spalle di nuovo il mio carico”. Inutile prestar fede alla morale della favola: che l’uomo ama la vita anche quando tutto va male. La favola è piuttosto un esercizio filosofico o di pensosità che mette in atto o in pratica la pensosità medesima e i suoi “effetti” molto speciali sulla vita – e sulla morte. Il vecchio non è uno che, dopo aver gettato il carico ormai esausto, ha riflettuto sulla morte e ha cambiato idea sul valore della vita. Il vecchio, gettato il carico e chiamata la morte, non fa nulla, vive una pausa, un tempo dilazionato che gli permette di esitare, di essere perplesso, di sospendere ogni decisione, forse anche di gettare ancora uno sguardo sullo spettacolo del mondo. A quel punto, quando arriva la morte, la sua richiesta di aiutarlo a rimettere il carico sulle spalle non è altro che il prolungamento di quella dilazione, di quel rinvio. La pensosità non ha dunque prodotto alcun effetto specifico sulla vita e sulla morte, ancor meno sulle idee che possiamo avere su di esse. “La pensosità è una pausa anche rispetto ai risultati banali che il pensiero ci procura quando ci si interroga sulla vita e sulla morte, il senso e il non senso, l’essere e il nulla.” La pensosità, in fondo, ha un rapporto di posteriorità rispetto 16


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all’accadere, forse anche di riconfigurazione nella mente di ciò che sta accadendo (il nach intraducibile di Nachdenklichkeit). I giochi sono fatti, il vecchio è arrivato alla fine, ma è proprio questo che lo colpisce e lo porta leggermente fuori della sua condizione. Il fermarsi e chiamare la morte è il vivere (la stanchezza di un vecchio) che si trasforma in esperienza di verità e così crea un arresto, una dilazione, una condizione meditativa che produce un unico effetto: “Non tutto resta così semplice e naturale com’era”. “Questo è tutto”, conclude Blumenberg. Il suo tutto – che tronca abbastanza bruscamente il discorso di ringraziamento per il conferimento del premio di prosa Sigmund Freud – è un quasi niente, perché è quel che “non […] resta così semplice e naturale com’era”. Esso fa effettivamente pensare perché modera molte delle aspettative che istintivamente leghiamo alla capacità del pensiero di aprirci qualche varco, se non di comprensione, almeno di orientamento nel disordine delle nostre esistenze. Al tempo stesso, ci dice che il momento, che un giorno o l’altro viene per tutti, di una crisi di stanchezza, di un gioco brutale del destino o del semplice incresparsi della superficie piatta di un’infelicità senza desideri, non spalanca direttamente e univocamente il dramma umano della vita e della morte, la domanda tragica, altisonante e in definitiva frustrante sul “perché?”, né può più permettersi, nei tempi bui che ci circondano, la grazia della domanda greca sul “come vivere”, bensì contiene la “pensosità”, nient’altro che un atteggiamento di esitazione, di dilazione del tempo. Ma allora, qual è il nocciolo di ogni nostro sforzo di comprensione, di ricerca del senso? In questione è un passaggio, una pausa, una sospensione, quindi un movimento molto particolare, uno spostamento: occorre probabilmente sforzarsi di descriverlo – concretizzarlo? – per capire che cosa accade, se accade qualcosa, in esso. Le domande diventano allora più precise: 1. Che cosa si fa quando si pensa? Pare che non si faccia niente, non si fabbricano né sedie né tavoli né progetti di legge o costituzioni, ma in ogni caso si attivano alcune facoltà della mente: la ragione, il sentire, l’immaginazione, che, pur essendo silenziose e in17


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visibili, hanno comunque uno specifico rapporto con il corpo, l’ambiente esterno, la storia di un’epoca. 2. Dove si è quando si pensa? Nella propria stanza in poltrona o in giardino sull’amaca, in un’aula, sul palco di un teatro, su di un sentiero di montagna, nel mezzo di una battaglia, di una rivoluzione, in un monastero? Più che di una collocazione spaziale, non si tratterà piuttosto della collocazione temporale di colui che pensa rispetto all’epoca in cui vive, alle dinamiche storico-politiche, morali e psicologiche che la agitano? 3. Chi è colei/colui che pensa? Una donna, un uomo, quindi un essere sessuato, con data di nascita, lingua, una biografia fatta di eventi privati e di appartenenza storica, culturale, sociale? Hannah Arendt è tornata varie volte, in luoghi molto noti della sua opera, sul brano di Kafka Egli (1920),7 che considerava uno dei rari esempi di metafora, ossia di immagine capace di descrivere la misteriosa, silenziosa e invisibile attività del pensiero e il suo posto specifico nell’esperienza. Kafka racconta una breve storia, dotata dei caratteri dell’apologo: Egli ha due avversari: il primo lo incalza alle spalle, dall’origine, il secondo gli taglia la strada davanti. Egli combatte con entrambi. Veramente il primo lo soccorre nella lotta col secondo perché vuole spingerlo avanti, e altrettanto lo soccorre il secondo nella lotta col primo perché lo spinge indietro. Questo però soltanto in teoria, poiché non ci sono soltanto i due avversari, ma anche lui stesso: e chi può dire di conoscere le sue intenzioni? Certo sarebbe il suo sogno uscire una volta, in un momento non osservato – è vero che per questo ci vuole una notte buia come 7. Cfr. F. Kafka, “Egli” (1920), in Confessioni e diari, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1972, pp. 807-819. In questa edizione il brano unifica una serie di frammenti pubblicati in luoghi diversi da Max Brod. Hannah Arendt promosse la prima edizione di molti inediti di Kafka e si può pensare che, basandosi sull’ordine dato ai manoscritti da Brod, il testo “Egli” a cui fa riferimento avesse una configurazione più breve. Il suo commento e riflessione sul brano di Kafka è contenuto in: H. Arendt, “Premessa: la lacuna tra passato e futuro” (1958), in Tra passato e futuro, a cura di A. Dal Lago, Garzanti, Milano 1991, pp. 25-39; Id., La vita della mente, cit., pp. 296-305.

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non è stata mai – dalla linea di combattimento e per la sua esperienza nella lotta essere nominato giudice dei suoi avversari, che combattono tra loro.8 Vediamo più da vicino i caratteri di “egli”, servendoci anche del riferimento ad altri brani compresi nel testo kafkiano non citati nel commento arendtiano. Non sappiamo se “egli” (nonostante o proprio a causa della terza persona maschile) sia un uomo o una donna, non ha connotati individuali, storici, niente che ci dica se sia un ebreo o un tedesco o un ceco, quale lingua parli, se sia giovane o vecchio. È, appunto, un egli, un qualcuno, un’identità denudata e svuotata, anonima, certo priva di maschere, resa fragile e vulnerabile campo di battaglia tra due forze estranee. Esiste e resiste solo in quanto preso in mezzo, in quanto si interpone. “Egli non è abbastanza preparato in nessuna occasione.” “Egli ha trovato il fulcro di Archimede, ma lo ha lo sfruttato contro di sé.” “Tutto ciò che fa gli sembra straordinariamente nuovo, ma anche, in corrispondenza a questa impossibile abbondanza di novità, straordinariamente dilettantesco.” “Talvolta nella sua superbia è più in pensiero per il mondo che per sé.” “Con una prigione egli si sarebbe conciliato. Ma era una gabbia di gretole. Indifferente, imperioso come a casa propria, entrava e usciva da quella grata il rumore del mondo.” “Egli ha l’impressione che col fatto di vivere blocca la strada a se stesso.” “Il suo appartamento ha una strana porta: quando la si chiude, non la si può più aprire, ma bisogna farla levare dai cardini. Per questo egli non la chiude mai.” “Tutto, anche le cose più comuni, come ad esempio il farsi servire in una trattoria, egli se lo deve conquistare con l’aiuto della polizia.”

8. F. Kafka, “Egli”, cit., pp. 811-812.

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“Il proprio osso frontale gli taglia la strada, egli si batte la fronte contro la propria fronte fino a sanguinare.” “La corrente contro la quale egli nuota è così rapida che in una certa distrazione siamo talvolta disperati per la calma deserta, entro la quale sguazziamo.” “Egli non vuole conforto, ma non perché non lo voglia – chi non lo vorrebbe? – bensì perché cercare conforto significa dedicare la vita a questa fatica, vivere sempre in margine alla propria resistenza, quasi fuori di essa, non sapere, si può dire, per chi si cerca conforto, e non essere quindi neanche capaci di trovare un conforto efficace, non già vero, che non esiste.” Questi brevi estratti sono già di per sé un esercizio di pensiero. Essi configurano una singolare posizione: “egli” si scopre ostacolato in fondo da se stesso (dal proprio osso frontale), costretto a volgere contro di sé la sua scoperta del principio primo dell’universo (e solo a tale condizione ci è arrivato), né libero né prigioniero (la sua gabbia ha le sbarre così larghe che può entrare e uscire), senza storia (tutto è nuovo per lui), ma anche senza capacità di imparare da ciò che fa, privo di uno spazio privato, di qualcosa che gli appartenga, e al tempo stesso socialmente irrilevante, se fa fatica persino a farsi servire in trattoria. “Egli” è dunque un anonimo singolarissimo, presenza vivente eppure pressoché inesistente, d’ingombro a se stesso e agli altri. Alcuni suoi tratti richiamano, oltre all’uomo moderno ostaggio di poteri invisibili (la burocrazia, la tecnica), gli apolidi e i profughi, i soggetti senza cittadinanza, “superflui” che il totalitarismo, secondo le analisi arendtiane, crea per escludere intere popolazioni dal mondo comune.9 Eppure, nonostante il forte realismo, sarebbe sbagliato attribuirgli la concretezza di un perseguitato, di una vittima, di una “non persona”. “Egli” è un essere individuale interamente costituito da una realtà contrastante, che può essere benissimo quella dell’umanità contemporanea, ma la cui consistenza di creatura vivente è per così dire autonoma rispetto a tutti i processi reali che lo premono da vicino e in gran parte lo 9. Cfr. H. Arendt, “Noi profughi” (1943), in Ebraismo e modernità, a cura di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 1993, pp. 35-49.

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determinano. “Egli” non si trova infatti in una situazione storica precisa, in un lager, sotto un bombardamento, al centro di una rivoluzione o in un caseggiato di periferia, bensì in quella che Arendt chiama la “lacuna del presente”, il punto zero in cui si urtano esperienza singolare vissuta e forze incontrollabili del passato e del futuro, della natura e della storia. La collocazione di “egli”, nonostante gli impliciti riferimenti all’esperienza contemporanea, non è dunque “reale” o oggettiva, come potrebbe essere una collocazione storica e sociale determinata. La lacuna del presente è piuttosto il modo in cui il presente storico, politico, esistenziale viene vissuto da parte di un soggetto singolo in carne e ossa. Nessuno di noi “vive” (anche se spesso lo dice) il terrorismo, la globalizzazione, la finanziaria o altro. Il presente storico diventa esperienza vissuta nel momento in cui ci troviamo al punto d’incrocio, spesso di urto violento con ciò che accade. Viviamo il presente solo nel momento in cui le dinamiche di un’epoca attraversano la nostra esistenza e ne determinano la tonalità, il ritmo. Ma sarebbe riduttivo pensare che ciò avvenga quando facciamo esperienza in prima persona di un avvenimento. Spesso, infatti, l’esperienza diretta ci travolge oppure provoca un’adesione così totale che il tempo dell’evento diventa, per quanto per brevi periodi, il nostro stesso tempo. Nell’esperienza in prima persona, il presente è sempre pieno, per quanto rotoli via molto rapidamente, perché fa parte integrante del fluire del tempo. Quando invece il soggetto concreto recupera, per quanto minimamente, la sua posizione, il suo semplice ma realissimo esistere e resistere (il suo corpo, i suoi desideri, le sue mancanze) e sente che gli avvenimenti, nella loro sproporzione, nella loro logica del tutto incompatibile con la sua esistenza reale, gli vanno (in)contro, la linea del tempo si spezza, cambia la sua direzione: non è più una retta che dal passato transita nel presente e va verso il futuro (questa è l’immagine del tempo suddiviso in unità puntuali – gli istanti – sempre identiche che si succedono regolarmente, propria delle raffigurazioni oggettive, di cui, per esempio ha bisogno la matematica, ma anche la nostra vita quotidiana, che ricorre non a caso al tempo degli orologi), ma si è spezzata in due: nel passato e nel futuro che convergono su 21


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un fragile corpo/io senza progetto. Non è un caso che Arendt commenti con attenzione anche le parti dell’immagine kafkiana che riguardano i due avversari in lotta. Si tratta del passato e del futuro, ma la loro rappresentazione è atipica: il passato è una forza che spinge in avanti (non il fardello che pesa sulle spalle) simile al cumulo di rovine dell’Angelus Novus di Benjamin, mentre il futuro è una tempesta che spira dal paradiso e spinge indietro (a ricomporre l’infranto). Sappiamo che le due forze rischierebbero di elidersi se non ci fosse in mezzo “egli”, verso il quale peraltro sono puntate. “Egli” resiste, ma in una situazione di labilità e incertezza assolute. Torniamo a chiederci: chi è “egli”, che cosa fa e dove si trova a questo punto? È una creatura reale che incarna tutta la contingenza di ogni essere umano, può essere ogni uomo e ogni donna che cerca il senso della propria esistenza ed è sbattuto dalle onde della storia. Se restiamo all’immagine kafkiana di “egli” stretto tra due avversari, notiamo tuttavia come essa, per così dire, si blocchi nell’antitesi tra il fragile corpo che a malapena si regge in piedi e il sogno – della notte più oscura che mai si sia data – di uscire dal campo di battaglia e di ergersi a giudice tra i due avversari (per l’esperienza accumulata nella battaglia), il sogno in fondo del pensatore che contempla da spettatore imparziale la catastrofe. Un’antitesi così netta di pensiero ed esperienza vissuta presuppone tuttavia che la condizione di “egli” sia la condizione umana in generale, nella sua vulnerabilità e impotenza, dalla quale ci si può distaccare solo uscendo dalla mischia, facendo un salto in un altro mondo pacificato e sottratto al tempo. Hannah Arendt scorge peraltro una possibilità di sviluppo della figura kafkiana in direzione del sorgere, dal conflitto tra passato e futuro, di una diagonale, la “sottile pista atemporale del pensiero”.10 Il campo di battaglia della vita umana diventa a questo punto anche il luogo del pensiero che, ritrovata la sua radice nella finitezza dell’esistenza umana, si proietta verso l’infinito. Occorre tuttavia sviluppare ulteriormente questo suggerimento. È importante infatti notare che la posizione di “egli” è frutto di 10. Id., “Premessa: la lacuna tra passato e futuro”, cit., p. 35; Id., La vita della mente, cit., pp. 302-305.

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uno spostamento, di una vera e propria, per quanto infinitesima, rotazione sull’asse del suo fragile corpo. “Egli” rimane un essere vulnerabile e indifeso, tutto il contrario del pensatore che, al sicuro sulla riva, guarda il mare in tempesta11 – questo è il contributo fondamentale dell’immagine di Kafka – ma la sua posizione di resistenza lo fa muovere impercettibilmente. “Egli” perde terreno sotto i piedi, fa vuoto nella propria esperienza, e apre una crepa che amplifica la superficie della sua interposizione rispetto alle due forze. Il presente diventa una lacuna, un vuoto che spezza la furia distruttiva del divenire nel momento in cui ci si muove, si fa spazio, si accetta di abitare senza le abituali protezioni della collocazione storica e sociale e delle appartenenze, lo spazio minimo, normalmente muto e doloroso del “vivere”, che non è altro che essere attraversati, colpiti da ciò che accade in noi e fuori di noi. Cos’è questo movimento che fa vuoto, che rende, se ce ne fosse bisogno, ancora più nudi ed esposti alle tempeste, se non la sospensione della vita ordinaria, l’arrivare a un punto zero? Si tratta di un movimento di resistenza che crea un intervallo, una pausa nel furioso combattimento di passato e futuro. Tale movimento consiste nel puntare contro di sé il passato e il futuro. La nudità ed esposizione della condizione umana non è quindi un dato sociologico o psicologico o esistenziale nel senso comune del termine, da acquisire eventualmente prendendone coscienza con adeguate riflessioni, bensì è in un certo senso frutto del desiderio di difendere la propria presenza contro il mutamento perenne del divenire, di una volontà di vivere il presente (senza esserne schiacciati o senza illudersi di esserne il motore) per esistere. Essa si svela pertanto solo in seguito a uno spostamento rispetto alle comuni occupazioni, a un nuovo o diverso uso delle proprie forze da parte del fragile essere che ha maturato tanta esperienza nella lotta: questo nuovo uso delle proprie forze è pensiero in atto, perché corrisponde al vedere, da una certa distanza e con una certa imparzialità, il campo del passato e del futuro, iniziando forse a scorgerne, se non un senso in generale, almeno il carattere di non più e di non ancora, che è tale solo se c’è un esse11. Cfr. H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, cit.

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re verso il quale le due forze sono rivolte e rispetto al quale esse diventano il suo passato e il suo futuro. Il pensiero nasce dunque dal movimento interno all’esperienza di un essere che cerca di sottrarsi alla pressione degli avvenimenti, cerca di non essere solo sballottato dalle forze in lotta, ma vuole guadagnare la realtà, in fondo, del suo esistere, della sua presenza nel mondo. Il movimento interno all’esperienza del presente (la rotazione o spostamento) che consente di imboccare la via del pensiero implica l’accettare che il passato e il futuro vengano “puntati” contro di noi, il che significa che diventino il nostro passato e il nostro futuro, entrino in contatto, si incrocino o attraversino la nostra limitata e singolare esperienza. Accettare che il passato e il presente vengano puntati su di noi vuol dire in particolare spostarsi rispetto all’asse del presente (quello delle guerre, dell’economia mondiale ecc.) e assumere una posizione che può essere eccentrica, in anticipo o in ritardo, in ogni caso non contemporanea rispetto al presente. Questo è il “tempo/non tempo” del pensiero con la sua tipica trascendenza, la sua preveggenza e la sua capacità di far durare nella memoria ciò che accade. Il movimento appena ricostruito descrive semplicemente la nascita della ricerca del senso, il diventare “pensosi”, il momento in cui il vivere, il fare, lo stare al mondo diventa tanto reale, spesso doloroso, da trasformarsi in esperienza di verità. Vita e pensiero sono dunque legati, ma non perché quest’ultimo prenda a oggetto di analisi e riflessione quella, bensì perché pensare è un’esperienza vitale dotata di caratteri specifici. Da questo punto di vista, la rotazione sull’asse della propria epoca o della propria condizione esistenziale – l’essere giovani, l’essere vecchi, l’essere uomo, l’essere donna, l’essere ebreo, l’essere musulmano – che trasforma il vivere in esercizio di pensiero o in “pensosità” non produce altri effetti (conoscere se stessi, capire come va il mondo) se non il movimento medesimo, lo spostamento in cui consiste. È altrettanto vero che l’emergere della pensosità nel cuore dell’esperienza non cambia la vita delle persone, magari avvolgendola nella quiete meditativa del saggio. È più probabile che avvenga il contrario: diventa più vivo il 24


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rischio della condizione umana – morire invisibili e inascoltati. In quel punto tuttavia, nel luogo e nel tempo della pensosità, è anche possibile diventare poeti, scrittori, politici, uomini e donne d’azione o di pensiero “pensanti”, ossia che si interrogano sulla qualità della propria esperienza.

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www.raffaellocortina.it

NOV I

Joseph Dan

La cabbalà Breve introduzione

Giulio Giorello, Umberto Veronesi

La libertà della vita Testamento biologico, clonazione, fecondazione assistita… le questioni che spaccano società e ricerca

Fabio Quassoli

Riconoscersi Differenze culturali e pratiche comunicative

Gian Piero Quaglino, Augusto Romano

A colazione da Jung Un vademecum per contrastare la banalità e il chiacchiericcio del nostro tempo

Colin Bruce

I conigli di Schrödinger Fisica quantistica e universi paralleli


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Dove sta e chi è il consulente filosofico PIER ALDO ROVATTI

ltrove (cfr. La filosofia può curare?, Raffaello Cortina, Milano 2006) ho cominciato a rispondere alle questioni che fanno da titolo a questo intervento. Ho attribuito una precedenza al “dove” della consulenza filosofica, cioè a un fenomeno che sta diventando oggetto di molto interesse nonostante le sue dimensioni per ora ridotte; e ho ritenuto opportuno partire da qui perché nella già apprezzabile pubblicistica sull’argomento questo “dove” viene quasi sempre sottovalutato, ritenuto irrilevante, quasi ovvio. Per “dove” non intendo tanto il luogo fisico, che pure fa problema, bensì il luogo sociale, la collocazione di questa pratica nascente all’interno e in rapporto con i dispositivi di potere – ma sarebbe meglio dire di “micropotere” – in cui attualmente stanno e acquistano la loro identità pubblica i “soggetti” che noi tutti siamo. Che il consulente filosofico apra un suo studio privato, o lavori in azienda, o anche si affacci in alcune istituzioni, disegna uno scenario composito e non privo di significative differenziazioni. Ma, in tutti i casi, qualunque ne sia l’effettiva caratteristica, questa pratica non è sospesa nell’aria e non può in alcun modo chiamarsi fuori dai rapporti di potere. Qui c’è anche da far chiarezza sulla filosofia stessa, poiché nelle esperienze di consulenza filosofica agisce spesso una pretesa di purezza e infine di superiorità che la filosofia in fondo ha sempre avocato a sé, certo producendo un’immagine nell’opinione pubblica come di qualcosa di astratto e di poco conto per la vita delle persone, che hanno da pensare a ben altro, ma al

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tempo stesso conservando il privilegio di esercitare proprio tale astrazione: uno sguardo dall’alto e da fuori non inquinato dal dentro e dal basso. Di ciò, cioè del “dove” inteso in questa prospettiva più larga e più critica, cercherò di dare qualche indicazione nella prima parte del mio intervento. Nella seconda parte vorrei affrontare alcuni aspetti della questione del “chi”. Chi è e chi dovrebbe essere il consulente filosofico? È la questione più spinosa per gli stessi addetti ai lavori, i più riflessivi dei quali sanno benissimo come si studia filosofia all’università e quale sia invece, nell’insieme, il problema di una formazione adeguata alle responsabilità che dovrebbe assumersi il consulente filosofico. In tale contesto incontriamo un punto curioso e forse imbarazzante per il comune modo di intendere la filosofia: non è sufficiente avere una “bella testa”, occorre anche un tipo di “sentire” che la filosofia accademica è sempre stata poco incline – così almeno risulta – a sollecitare e ad alimentare. Allora una gran parte dell’attuale personale filosofico attivo, compresi i grandi nomi (quelli che di solito chiamiamo appunto “i filosofi”), sembrerebbe assai poco adatto alle esigenze della consulenza filosofica, con l’aggiunta di un motivato pessimismo su un’eventuale adattabilità. Ne risulterebbe che la questione del “chi” è tutt’altro che scontata e che, se il fenomeno della consulenza filosofica ci aiutasse a identificarla meglio, ciò avrebbe un contraccolpo non irrilevante sul problema stesso del senso e dello statuto della filosofia nella società contemporanea. Foucault docet In realtà la consulenza filosofica è situata due volte nei dispositivi di potere. Se il consulente, come è ovvio e come vedremo più avanti, deve dotarsi di una qualche tecnica di autoanalisi e quindi misurarsi con le procedure dell’analista, in ogni caso non può scendere in campo con il semplice presupposto che la filosofia produca saggezza e benessere agendo su individui bloccati o stressati, senza avere una consapevolezza critica approfondita del ruolo che gioca oggi la pratica in generale della consulenza nella produzione di soggettività all’interno dei regimi di sapere-potere in cui ci trovia28


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mo. Ai fini di questa consapevolezza critica, che si identifica solo in parte con l’idea tradizionale di critica (concretizzatasi nel Novecento nella figura dell’intellettuale politicamente impegnato), ritengo che la lezione di Michel Foucault possa essere per il consulente in formazione un equipaggiamento molto utile e perfino irrinunciabile. Una chiarificazione sul nesso non scioglibile tra sapere e potere e intorno agli effetti che i relativi giochi di verità hanno sull’idea di soggetto spazza via un equivoco di partenza, altrimenti disastroso. Il consulente filosofico dovrà perciò rendersi conto che la sua pratica è immersa in una cultura terapeutica che ha come obiettivo l’autosorveglianza, e che il suo sapere (per esempio, la tecnica del dialogo che mutua dal modello platonico) si articola ai dispositivi esistenti di potere. Di conseguenza il suo scatto critico, per dir così, si collocherà in un distanziamento rispetto al ruolo di funzionario del sapere-potere che comunque si trova a rivestire e di cui deve avere la massima coscienza. Questa considerazione ha un peso evidente quando il consulente filosofico si trova ad agire nell’azienda, su un terreno già ampiamente attraversato dalle pratiche di counseling, e in risposta a una domanda interessata di spazi di riflessione soprattutto per i manager. Tuttavia non è meno importante per la pratica individuale: quest’ultima, anche se è difficile immaginare che si affermi come il principale sbocco della consulenza filosofica, funziona sempre da scena primaria e modello di sperimentazione mentale. Tale scena non è mai avulsa dalla rete dei poteri-saperi, anzi ne è un epifenomeno. Lo scatto critico – attualmente assai vago e spesso non rilevabile – riguarda l’aspetto complessivo del discorso, ma incide soprattutto sulle idee di verità e di soggetto e sui modi in cui il consulente le utilizza. Quanto alla verità, il sapere filosofico manovrato dal consulente dovrà essere ogni volta decostruito in una pluralità di giochi di verità nei quali si situa in concreto la consulenza stessa nella sua eteronomia. Non ci saranno allora né Autori né Testi con la maiuscola, nessun Valore esterno e autonomo, nessun Pensiero già costituito cui assegnare il ruolo di referente assoluto. Non potrà essere questa la “filosofia” della consulenza filosofica, cioè un qual29


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che itinerario prestabilito verso la Verità, accompagnati da una Guida specializzata. Tutto si gioca, invece, nell’esercizio e nella capacità di eseguirlo. Mi piacerebbe dire: nella capacità di imparare a “giocare” questo esercizio da parte sia del consulente sia del consultante. Il carattere filosofico di tale esercizio è abbastanza evidente. Lo troviamo, anche quando non viene esplicitamente tematizzato, in ogni filosofia e in ogni filosofo ma anche altrove, ogni volta che una pratica di pensiero viene espressa e articolata, nella letteratura, ma non solo lì. Da Platone a Cartesio fino a Husserl e Wittgenstein, e certo fino a Foucault. Ma perché non in Proust, in Joyce, o anche in Bernhard? E perché non in Freud o in Jung? O nelle riflessioni degli scienziati, per esempio nello stesso Einstein? Occorre, però, ricordare che il ritrovamento di questo esercizio è comunque affare della filosofia, del suo modo peculiare di porre la domanda che riguarda precisamente l’esercizio. Ma di una filosofia, mi sembra chiaro, che sia appunto doppiamente critica. Che abbia la capacità di collocare il proprio discorso nella microfisica dei poteri entro cui parla e che alla lettera le presta le parole; e che insieme, davvero nello stesso tempo e con lo stesso gesto, riesca a orientarsi nel gioco stesso della filosofia, dove la Verità pretende ogni volta di dettare le regole e affermare il proprio potere attribuendosi il privilegio di un luogo stabile da cui parlare. O – per usare un’immagine antica – di una terraferma su cui appoggiare saldamente i piedi e da cui osservare il “naufragio” delle esistenze agitate e squassate nella liquidità turbolenta del mare. La pretesa di uno sguardo un po’ sopraelevato è il potere della filosofia che ogni volta ritorna. Lo scatto critico, la chance della consulenza filosofica, consiste nella capacità di scendere da questo gradino, mettendosi di traverso rispetto alla tendenza dominante (ma non esclusiva) della filosofia stessa e insieme disattendendo le aspettative più manifeste di chi di solito si rivolge al filosofo. È come se questo consulente che sto immaginando dicesse di no sia alla Filosofia (da cui comunque proviene), sia al “cliente” (ricorro volutamente a questo termine in uso) e alla sua probabile domanda di Verità. Questo paradossale “no” non do30


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vrebbe essere una posizione di principio ma la pratica stessa dell’esercizio. Nella quale, andando al nocciolo dello scatto critico che permette alla consulenza di “resistere” al completo assorbimento nei dispositivi sociali di autosorveglianza, è in gioco soprattutto la questione del soggetto. In che cosa consiste, dunque, nella scena di potere-sapere attuale l’esercizio della soggettività? Proporrei la seguente risposta: in un processo di trasformazione di se stessi che sfora ogni idea precostituita di soggetto. Di nuovo Foucault può insegnarci parecchio a questo proposito, se solo riusciamo ad articolare il suo discorso sul potere (e sulla soggettivazione come insieme di effetti storicamente determinati prodotti dai dispositivi di potere) con il discorso sulla “cura di sé”, cui approda e dove la soggettivazione appare come una chance di vita. Bisognerà ricordare, per inciso, che questa articolazione rappresenta la dimensione più discussa degli esiti del suo pensiero: su di essa si condensano infatti i maggiori dilemmi interpretativi degli epigoni. La linea critica che li divide separa l’importanza teorica, da attribuire a tale articolazione (che resta aperta e problematica nello stesso Foucault), dalla ipotesi, assai più pigra, e comunque non documentabile, che Foucault a un certo punto abbandoni il paradigma del potere e – durante la realizzazione incompiuta del suo progetto di una Storia della sessualità – svolti verso un’etica dell’esistenza. La soggettivazione che ci interessa non può che articolarsi sugli effetti del potere disciplinare (e, in scala macrofisica, biopolitico) relativi alla produzione di soggettività. Escluso, nell’esercizio, ogni Soggetto-Verità nelle sue molteplici versioni storiche, la cura di sé (come la definisce Foucault, partendo da modelli greco-ellenistici e romani) non nasce grazie a un semplice sgombramento del terreno (cioè da un’epoché comunque complessificata, e oltre tutto mai davvero realizzabile), ma ha a che fare con gli assoggettamenti specifici, cioè con i soggetti e le soggettivazioni prodotte dal potere. Il soggetto della cultura terapeutica in cui siamo è un soggetto malato, bisognoso di sorveglianza, nonché di consulenza. Se la cura di sé proponesse un soggetto sano e che non ha bisogno di nulla, 31


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servendosi di modelli filosofici ad hoc, o della stessa filosofia come modello, sarebbe nient’altro che un inganno improduttivo. Nella cura di sé, così come almeno la vede Foucault, il sé non è un oggetto di conoscenza – non in prima istanza e comunque mai del tutto – bensì un soggetto in trasformazione, e la “cura” è la sperimentazione (l’esercizio) di questo cambiamento. Al soggetto passivizzato nel suo bisogno di assistenza, e dunque anche di controllo, si contrappone così un’altra attivazione che consiste nel riuscire a sbloccare se stessi, o semplicemente nel muoversi, nel riuscire a fare l’esperienza di uno spazio di gioco. Senza, però, alcuna rete protettiva. Come si capisce bene, siamo su un limite sottile e particolarmente mobile, su una soglia incerta, in una situazione di equilibrio instabile. Le strategie di questa soggettivazione si costruiscono di volta in volta, caso per caso. Prende corpo una politica della soggettività scabrosa che non coincide con un ripiegamento in se stessi ma chiede l’invenzione di forme nuove di riconoscimento e di legami intersoggettivi. La cura di sé è sempre anche una cura degli altri. Anzi, in tutte le dimensioni del termine, una cura dell’altro. A partire dal riconoscimento che la soggettivazione di cui stiamo parlando è un’alterazione della propria soggettività. Riconoscimento che porta con sé la scoperta dell’alterità che ci circonda. C’è pane, per dirla così, per una parte consistente del discorso filosofico che ha da pensare il senso e i modi di questa alterazione o eccedenza del soggetto rispetto a se stesso, e che possiede strumenti adatti per farlo. La formula “abitare la distanza da se stessi” può dare un’idea del terreno paradossale e impervio in cui si tratta di avanzare. E se anche ci sembrasse sulle prime una formula ragionevole e infine utilizzabile, per quanto inabituale, dobbiamo poi ammettere che non siamo per nulla preparati a riconoscerla e manovrarla al di là della dimensione individuale o interna (interiore, magari), cioè come una formula politica che attraversa e può orientare le pratiche sociali. E che, forse, ci mette in grado di entrare criticamente nella apparente palude del mondo cosiddetto globalizzato, dove risulta sempre più difficile distinguere il dentro dal fuori e rispetto al quale di solito reagiamo in maniera retrograda, cercando ogni volta di ristabilire i vecchi confini tra il dentro e il fuori. 32


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La consulenza filosofica non può illudersi di potersi chiamare fuori da questa politica della soggettività. Se lo fa, si lascia subito riassorbire nei dispositivi di autosorveglianza che picchettano le nostre esistenze. Perciò la consulenza, se vuole essere una vera consulenza filosofica, non può che proporsi di bucare la rete dell’autosorveglianza, esponendo il soggetto a se stesso. Ma, allora, la parola cura implode o, se si preferisce, esplode fuori di sé. Implode, ritrovando radici antiche che ci riportano – come ci ha indicato Foucault – a una pratica complessiva di vita in cui il lato intellettuale non gode di alcuna separatezza o privilegio ma si mescola con tutti i regimi dell’esistere, dove, insomma, la mente e il corpo giocano la stessa partita. Esplode perché eccede ogni idea di cura come terapia speciale (le psicoterapie di oggi) e anche come terapia in generale. In altre parole, eccede la presa multiforme dell’attuale cultura terapeutica. La sottolineatura heideggeriana del prendersi cura è, al riguardo, un richiamo filosofico prezioso e da tenere in molta considerazione. In ogni caso, questa cura di cui parla la consulenza filosofica va chiarificata criticamente nella sua ambiguità. E di nuovo, qui, la filosofia critica trova pane per i propri denti. Questa cura rovescia ogni idea normale di cura, anzi la combatte smascherandone – se riesce – la macchina di potere che la attraversa e i soggetti assoggettati che produce. Una bella testa e una bella pancia Nella discussione redazionale che il lettore trova qui di seguito, Umberto Galimberti, cui si deve buona parte delle più significative riflessioni critiche relative al dibattito in Italia sulla consulenza filosofica, afferma: “Mentre per fare il filosofo basta una bella testa, per fare il consulente filosofico occorre anche una bella pancia”. E aggiunge che “la pancia è una tecnica non trasmettibile” perché, fin dall’inizio, “c’è chi ce l’ha e c’è chi non ce l’ha”. Naturalmente sono affermazioni a caldo che appartengono a un discorso parlato e trascritto come tale. Mentre ci intendiamo al volo sull’espressione “una bella testa”, specie quando parliamo di un pensatore, l’espressione “una bella 33


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pancia” può lasciare qualche perplessità e va comunque precisata: ci si riferisce all’emotività, e più precisamente a un sapere delle emozioni che equivale a un saper fare, dunque a una capacità particolare di sentire e di far agire questo sentire nell’esperienza intersoggettiva. Galimberti arriva a chiamare tale sentire, che ha la sua metafora nella pancia piuttosto che (come è abituale dire) nel cuore, una tecnica: una tecnica che non si può imparare davvero, se già non se ne possiedono le qualità di base. Aggiungo che queste affermazioni vengono fatte in un contesto determinato e problematico: ci si riferisce infatti alla questione dolente della formazione dei consulenti filosofici, che evidentemente ha molto a che fare con la questione più generale dell’identità di questi operatori, insomma con la nostra domanda relativa al “chi”. Dico “dolente” perché tutti gli interessati sanno che gli studi universitari specifici, almeno per come sono strutturati oggi, non garantiscono una piattaforma di partenza adatta (al massimo, addestrano alcune “belle teste”), e che gli attuali strumenti di formazione post lauream (master dentro l’università, corsi di formazione organizzati da varie associazioni, di cui la più nota si chiama Phronesis, cicli seminariali tematici di arricchimento) rappresentano un importante fermento di iniziative ma al tempo stesso rivelano non poche incertezze, automatismi, lacune e dubbi sul da farsi. Qui si innesta, innanzi tutto, il confronto-scontro con la psicanalisi, problema che alza ulteriormente il livello di difficoltà della formazione del consulente filosofico. È uno dei principali punti interrogativi. Ma è chiaro che la consulenza filosofica, se vuole salvaguardare i propri presupposti critici, dovrebbe al tempo stesso allontanarsi dalla psicanalisi e avvicinarsi a essa. Tenere a distanza l’impianto terapeutico dell’analisi, le sue derive dottrinali, il suo carattere istituzionale, e infine tutto l’apparato di “clinica” con i connessi obiettivi di cura che la caratterizzano. Ma non chiudere gli occhi né di fronte all’importanza filosofica che l’esperienza della psicanalisi, nella sua secolare vicenda, riveste e riverbera sulla scena complessiva del pensiero (un solo esempio: la radicale messa in questione dell’idea di soggetto a opera di Freud e dei suoi epigoni); e neppure sulle procedure di autoanalisi con cui essa caratte34


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rizza il proprio training di formazione. Il problema non è quello di mutuarne atteggiamenti e metodi, bensì di tenerne criticamente conto per non trovarsi in una posizione retrograda (come se l’epoca della psicanalisi non avesse mai avuto luogo) o credere di riuscire ad azzerare, ritornando a una presunta innocenza, un intero e pervasivo dispositivo di sapere-potere. Quando parla di una “tecnica” legata alla pancia, Galimberti – a mio parere – si trova a usare questo termine sdrucciolevole proprio per indicare la difficoltà che ho appena segnalato: mantenere, nel distacco della consulenza filosofica dalla psicanalisi (e mi riferisco, come certo fa Galimberti, alla psicanalisi più critica e autocritica), la valorizzazione del debito che comunque va riconosciuto. Se riconosciamo che, pur con tutti i distinguo che sono opportuni e anzi necessari (cioè con l’esigenza di un severo attraversamento critico), la psicanalisi può fornire strumenti alla consulenza filosofica, allora essa deve in qualche modo entrare nella formazione del consulente e non venire semplicemente stigmatizzata. Mi fermo sulla soglia del merito specifico di una questione da elaborare: voglio solo far notare che il confronto critico consulenza-psicanalisi non è meno imprescindibile dello scontro critico che la prima deve pure ingaggiare nei confronti della seconda, e inoltre che questo aspetto del “chi” segna ancor più la differenza tra il filosofo comunemente inteso (cioè colui che si occupa professionalmente di filosofia) e la nuova figura del consulente filosofico. Da questo punto di vista il curriculum studiorum del cosiddetto filosofo non solo risulta per tante ragioni inadeguato alla pratica (sia pure virtuale) del cosiddetto consulente filosofico, ma contiene dei veri e propri buchi formativi che bisognerà pure colmare. Al consulente filosofico serve qualcosa di più di una capacità di pensiero educata attraverso le conoscenze teoriche di un curriculum sia pure eccellente (anche se sempre commisurato ai livelli dell’istituzione universitaria attuale). Un ottimo ricercatore non sarà automaticamente un buon consulente. E poiché credo che un buon consulente abbia a che fare con un rilancio dell’idea di filosofia come esercizio su di sé e con gli altri, nel senso di quella cura di cui abbiamo appena detto, ci si può augurare con qualche ragione 35


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che la pratica della consulenza, quanto meno tematizzata nelle attuali riflessioni attorno alla questione della formazione dei consulenti e nei tirocini che essa richiede (ma poi anche in parte oggetto di sperimentazione e quindi già documentabile), abbia un effetto di ritorno sui modi in cui ci si avvicina alla filosofia, e la si insegna, nelle università e nelle stesse scuole superiori. La credibilità di questo augurio può trovare una garanzia in quegli insegnanti di filosofia che già la intendono e l’hanno praticata in quanto esercizio. Queste figure, nonostante tutto, esistono ed è ovvio che oggi i loro occhi guardino, al di là di una ragionevole perplessità, con un effettivo interesse alla pratica della consulenza. Resta sempre il problema di una pancia che, se già non la possiedi, nessuno – a quanto sembrerebbe – può trasmetterti. Come è possibile negare completamente questa constatazione? Essa allude a una disposizione individuale all’ascolto che implica tutto uno stile di soggettività, fin dall’inizio caratterizzato da una ricchezza di esperienza e dalla conseguente apertura comunicativa verso gli altri. D’altronde, non tutti si sentono portati alla filosofia e quindi esiste già una naturale autoselezione. Ma qui c’è un salto ulteriore: siamo di fronte a una selezione ancora più impegnativa, perché altro è avviarsi verso la relativa solitudine della ricerca speculativa, altro è tentare di giocare la carta dell’esercizio filosofico in cui l’ascolto intersoggettivo e la dimensione problematica delle esperienze effettive di vita dei soggetti vengono prima di tutte le pratiche di sapere comunemente intese. Non mi sento quindi di negare del tutto l’assunto concernente la predisposizione. Tuttavia credo che la pancia si possa, per così dire, educare e che ciò riguardi in modo speciale la formazione del consulente filosofico. Se all’immagine dura del possesso (chi ce l’ha e chi non ce l’ha) sostituissimo l’immagine più debole di un’atrofia (determinata socialmente) che di solito resta confermata e bloccata in se stessa, mentre potrebbe venire anche sbloccata e trasformata in una capacità di sentire più larga e perciò più ricca, ci troveremmo in uno scenario di pensiero diverso, più accessibile e produttivo. Preferisco parlare di ascolto di sé e degli altri piuttosto che di 36


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emotività. Concordo che si tratti di “movimenti dell’anima”, ma appunto il termine movimento ci salvaguarda dai molti equivoci che una teoria e una pratica delle emozioni possono risvegliare (con pericolose scie metafisiche e risucchi nella palude dell’irrazionalità), e ci permette soprattutto di gettare un ponte tra testa e pancia, evitando l’impasse di una semplice contrapposizione. Infatti il consulente non deve saltare da un’altra parte, ma la sua eventuale bella pancia ha da aggiungersi in qualche modo alla sua eventuale bella testa. Poiché l’ascolto di cui parlo è un movimento di conversione della soggettività complessiva, è chiaro che l’esercizio che l’aspirante consulente deve compiere su di sé ha le stesse caratteristiche dell’esercizio di cui sarà fatta – come ho appena indicato – l’esperienza stessa della consulenza, nella prospettiva di un approfondimento in prima persona da parte del consultante. Se l’esercizio funziona, pure in mezzo a tante asperità, la dimensione della cosiddetta pancia diventa, per ciò stesso, un’esperienza pratica condivisa, senza che ci sia bisogno di introdurla nella relazione grazie al tocco di una qualche bacchetta magica. Tutto sta – a quanto sembra – nel riuscire a entrare nella dimensione dell’esercizio. Se è così, il compito di una formazione adeguata dei consulenti filosofici non si presenta più come un compito impossibile: c’è infatti molto materiale (filosofico e anche psicanalitico, senza sbarrare la strada ad altre pratiche di sapere che vi si intrecciano) che può andare ad alimentare questo allenamento all’esercizio della consulenza. Mi rendo conto che le mie sono solo indicazioni preliminari, tuttavia credo che in questo momento – in cui il fenomeno della consulenza filosofica ha più i tratti di una scoperta che di un acquisto – sia necessaria una segnaletica precisa, seppure minima, soprattutto per evitare di imboccare subito la strada sbagliata. Per esempio, in cosa consiste propriamente l’arricchimento di una bella testa con una bella pancia? Il termine “aggiungere”, che ho adoperato poc’anzi, va virgolettato e decostruito. È evidente che il consulente dovrà avere qualcosa di più del ricercatore (mentre molti, oggi, magari a mezza bocca, avanzano al contrario il so37


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spetto che sia un ricercatore fallito e che dunque la sua testa non sia poi così bella), ma questo più, se lo si ottiene, è il risultato di una operazione indebolente nei confronti di un sapere pervasivo che comporta quasi sempre un gioco di verità e un potere della teoria che riducono al minimo lo spazio della dimensione esistenziale (come dimensione degna di essere pensata e valorizzata), quando non lo cancellano del tutto. La formazione del consulente filosofico dovrà allora procedere in una sorta di contromovimento rispetto alla formazione abituale del ricercatore universitario. Dovrà mirare alla filosofia ma, con un diverso atteggiamento, smontando almeno parzialmente, il dispositivo di sapere-potere con cui essa di solito viene insegnata e appresa ai fini di costruire e valorizzare, nei giovani in formazione, solo delle belle teste.

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Discussione sulla consulenza filosofica con Umberto Galimberti e Andrea Vitullo

1. Alcune domande Pier Aldo Rovatti. L’idea è che la consulenza filosofica sia un tipo di evento di cui non possiamo ignorare l’esistenza. Quindi, invece di chiederti un intervento, ti abbiamo proposto questa strada… Umberto Galimberti. …che forse è anche quella più vera, la strada del dialogo. Rovatti. La questione che ritengo più interessante da discutere con i nostri ospiti è quella che passa attraverso la parola “cura”. Sulla consulenza filosofica gravano vari tipi di equivoci. Per chiarirli, dobbiamo fare un passo indietro e togliere di mezzo questa parola, o dobbiamo fare un passo avanti e costruire attorno a questa parola un plafond di significati filosofici, che la contrapponga al mondo terapeutico? Detto in modo semplicissimo, la consulenza è o non è una terapia? La risposta che diamo di solito è no, però poi ci rivolgiamo a quelle filosofie, che, come quella di Foucault, parlano di cura di sé. La discussione dovrebbe toccare queste implicazioni terapeutiche che arrivano fino ai rapporti con la psicanalisi. Antonello Sciacchitano. Mi chiedo e vi chiedo quale sia la filosofia di riferimento, quale sia la razionalità in nome della quale il consulente filosofico si dichiara consulente. Di filosofie ce n’è più di una. La discussione con la redazione di “aut aut” è avvenuta il 10 giugno 2006.

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Non voglio entrare negli schematismi che contrappongono la filosofia continentale a quella analitica. Ma mi chiedo se nella pratica della consulenza filosofica venga privilegiata una piuttosto che l’altra dottrina filosofica, una piuttosto che l’altra forma di razionalità, oppure venga aperto un ventaglio di alternative e la scelta sia lasciata al cosiddetto consultante. Silvana Borutti. Sulla questione della consulenza filosofica ho idee confuse. Ma penso che la confusione sia utile per cominciare. Mi riallaccio ai due interventi precedenti. Quel che ha detto Antonello ci riporta al problema dell’autorità filosofica. A quale discorso filosofico si fa riferimento? Tu hai parlato di razionalità, io parlerei di autorità filosofica. Dall’altra parte c’è il tema della cura che mi pare sia declinato come relazione dialogica. Il dialogo è un tema molto rilevante della tradizione filosofica. Chiedo come si declini il dialogo all’interno della pratica di consulenza. Viene declinato nella direzione di un dialogo paritario o no? Se c’è un soggetto che conduce il dialogo siamo ricondotti all’alterità filosofica. Se, invece, il dialogo è condotto in modo paritario, socratico, si ritrova il tema tradizionale dell’azione di verità a due. Laura Boella. Provengo da una filosofia che ha come autori Bloch, Lukács, volendo anche Benjamin, da una parte, e dall’altra le filosofe, Simone Weil, Hannah Arendt. Per me c’è il problema dell’inveramento – così lo chiamavano – della filosofia nella prassi. In maniera più complessa, è il tema della filosofia al femminile dove la filosofia ha voluto sporgersi verso la vita. Oggi, di fronte a questa nuova realtà, che ritengo interessantissima, mi chiedo se la distinzione teoria/prassi, che ha contato così tanto nel Novecento, con le sue rotture e le sue innovazioni, valga ancora o siamo andati oltre. Probabilmente non si parla più di vittoria o di sconfitta dell’una sull’altra, ma di concretizzazione della filosofia che diventa vita. Allora le mie domande sono: la filosofia sta diventando concreta? E la filosofia cosiddetta astratta è veramente finita, scomparsa dall’orizzonte?

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Damiano Cantone. La questione che a me interessa della consulenza filosofica, anche rispetto ai teorici come Achenbach, è la questione del denaro. Che mi sembra produca un inciampo all’interno della consulenza filosofica. Se, da una parte, c’è una possibilità di uscita dal discorso filosofico, per esempio l’uscita da riferimenti specifici, specifiche filosofie, specifiche pratiche, con il rifiuto della gerarchia delle parti messe in gioco (il consulente e il consultante), dall’altra parte il denaro ripropone tutte queste configurazioni anche in modo piuttosto brutale. Raoul Kirchmayr. Quel che vorrei chiedervi è il rapporto tra consulenza e istituzione – come potrebbe essere l’istituzione universitaria –, con il connesso problema della formazione dei futuri consulenti. Vedo un pericolo relativo alla veste istituzionale della formazione del consulente in quella che potrebbe essere una filosofia prêt-à-porter, che sia spendibile – e qui mi ricollego alla questione del denaro –, fruibile e utilizzabile come qualunque altro sapere tecnico, in netta contraddizione con la filosofia e con il pensiero. Ilaria Papandrea. Mi chiedo se e come l’istituzione dei master di consulenza filosofica non sia un escamotage per bypassare la legge Ossicini rispetto alla questione della formazione. L’altro problema è la questione delle persone che si rivolgono ai consulenti filosofici. Si è in grado già da ora di fare una sorta di mappatura delle persone che scelgono un consulente piuttosto che un altro tipo di terapeuta? Nella domanda rivolta al consulente è possibile rintracciare una richiesta di senso? Tiziano Possamai. Riprendendo il tema autorità/razionalità, mi sembra che la consulenza filosofica possa essere un’esperienza nuova, un modo nuovo di resistenza. Mi sembra che il riferimento all’autorità sia inevitabile. Per confermare se stessa la consulenza filosofica cerca riferimenti forti: Socrate, Platone, Aristotele… Ma il confronto con l’autorità e la tradizione come può avvenire, se poi c’è sempre questo ritorno ai grandi? E poi c’è il discorso della razionalità, legato anch’esso a una particolare tradizione. Non si ri41


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schia di perdere la lezione freudiana che mette in guardia dal ridurre la razionalità a una pratica intellettualistica? Il punto è l’esperienza del soggetto. Non vorrei che alla fine si recuperi un soggetto ridotto, esistente solo sul piano intellettualistico, perdendo tutto il riferimento freudiano alla necessità della vita. Per Freud il soggetto non è padrone in casa propria, quindi… Rovatti. Posso aggiungere qualcosa al mio primo intervento? L’altro giorno al popolare quiz televisivo Chi vuol essere milionario, un concorrente ha dichiarato di occuparsi di consulenza filosofica. Ah, interessante, ha ribattuto Gerry Scotti. Finalmente un mestiere nuovo. Naturalmente era tutto preparato prima, per dire alla gente che finalmente la filosofia esce dall’università e va nelle piazze. A questo slogan collego un riferimento al libro di Andrea Vitullo, Leadership riflessive (Apogeo, Milano 2006). Mi pare che la filosofia, posta da Vitullo alla base della consulenza filosofica, sia la filosofia dell’“abitare la distanza”. Se esiste una filosofia dell’abitare la distanza, questa è la filosofia praticata dalla consulenza filosofica. Mi chiedo anche come mi sento adesso io stesso riguardo alle cose che ho pensato sul silenzio, la distanza ecc. Vitullo nel suo libro risponde a Gerry Scotti. Vitullo si chiede quali sono oggi le piazze, qual è oggi l’agorà. Non è più la scuola, ma l’azienda. Se la filosofia va nelle piazze, va nell’azienda. 2. Spazi per pensare nell’azienda Andrea Vitullo. All’interno delle organizzazioni aziendali c’è un rapporto con l’esperienza, quindi con la dimensione del fare, che è terribilmente ravvicinato. L’organizzazione è orientata a un fare che mira a un risultato immediato. Il distanziarsi, cioè il riportarsi all’esterno per guardare cosa succede all’interno dell’organizzazione, è uno dei punti caldi della consulenza, proprio perché il mondo organizzativo è disabituato a prendere una distanza. L’osservatore, gli occhi che osservano, lo sguardo, non sono assolutamente valorizzati. Tutto il riferimento all’oggettività, che attraverso il metodo consente di ottenere un dato risultato, cioè il paradigma dell’azione finalizzata, non funziona più. Questo giudizio vale 42


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per tutto il mondo organizzativo, non solo quello aziendale, perché l’azienda è vista principalmente sotto il profilo dei profitti e delle perdite. Se domina il pensiero economico, automaticamente io sono orientato a un’azione che deve ottenere un risultato immediato. La distanza non abita qui. Non c’è né tempo né spazio per prendersi una pausa e mettersi a osservare. Vivere filosoficamente ha questo senso. Significa riconiugarsi con l’incertezza, con la possibilità di dubitare in un mondo che per definizione deve sapere sempre tutto. Il mondo organizzativo è un mondo di pieni, non è un mondo di vuoti. Anzi, il vuoto crea disagio. Nel vuoto non si sa sostare. Il problema della consulenza filosofica è di rieducare persone che non sono abituate al disagio del vuoto. Rovatti. Perché mai l’azienda dovrebbe essere interessata a questo? Vitullo. È molto difficile dirlo. L’azienda ha un bisogno. Non possiamo dire che la consulenza filosofica sia la risposta, altrimenti diventa l’ennesima tecnica. La gente è abituata a mangiarsi regolette formative alla moda. Ora uso la consulenza filosofica perché quella classica non funziona più. Anzi chiamiamola cura. Ma la cura è terapeutica, quindi di nuovo c’è un fine, un obiettivo: la guarigione. Sarebbe un altro errore. Rischiamo di tornare dentro una terminologia che ricodifica tutto. L’azienda oggi ha bisogno di ritrovarsi in un percorso di riflessione. Io lo chiamo spazio di gratuità, perché gli spazi della persona sono spazi gratuiti. Sono spazi in cui mi occupo di alcune persone che hanno un obiettivo comune, un progetto da realizzare insieme, e contemporaneamente hanno bisogno che qualcuno si occupi di loro. Le menti hanno bisogno di ispirazione. Anche nell’organizzazione c’è bisogno di ispirazione. Perché? Perché lì dentro ci sono i destini di tanta parte dell’umanità che in azienda passa i tre quarti della propria vita. Giovanna Bettini. Tu dici che bisogna educare le persone che non sanno “sostare nel vuoto” o “abitare la distanza”. Perfetto. Ma se tu vieni da me e mi parli di raccoglimento dell’anima, o di filosofia 43


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personale, io non ti capisco. Io lavoro in un’azienda. Tu vieni da me e io ti dico che non riesco più a trovare uno spazio vuoto in cui sostare. E tu mi dici che bisogna individuare un punto in cui ritrovarsi, imparare a osservare, ritrovare la propria anima, riscoprire la capacità di pensare. Vitullo. Oggi il desiderio di sapere le risposte giuste è stringente e genera ansia. È l’organizzazione stessa che genera quest’ansia, perché ha il suo tornaconto ad alimentarla. Naturalmente tu non esisti come persona all’interno dell’organizzazione. Riportare un elemento di gratuità significa dare un senso alle persone che sono dentro l’organizzazione. Spesso lavoriamo dietro a un computer, svolgiamo dei compiti, mandiamo avanti delle comunicazioni mediate dalla tecnologia. Dobbiamo rispondere a domande da evadere in breve tempo e in base alle quali veniamo misurati. Non sto dicendo che questo è un paradigma da buttare completamente. Sto dicendo che oggi c’è una forte esigenza a vari livelli, dall’impiegato al manager e al leader, di essere rivalutati e riconsiderati anche per quello che si pensa. Per fare breccia nell’organizzazione – può essere durante la pausa pranzo, può essere durante una qualunque conversazione – basta un momento di attenzione alla persona, per far sì che la persona rievochi le domande fondamentali sul senso di ciò che sta facendo. È questo che oggi sta diventando importante. Altrimenti tu perdi la persona. L’organizzazione perde il talento. Subentra la mediocrità. Svanisce il pensiero alternativo. Perdi il senso di quel che stai facendo. Tutto si appiattisce verso il basso. Boella. Sono venute fuori le domande quale filosofia, quale agorà, quale azienda. Come conseguenza di quel che tu dici la domanda fondamentale è: quale vita? Allora mettiamoci a ragionare e proviamo a intenderci su quale vita. Rovatti. Io mi chiedo: il “filosofo”, chi è che l’ha chiamato nell’azienda? Se qualcuno l’ha chiamato, vuol dire che qualcuno ha sentito il bisogno di chiamarlo, dentro un discorso di produttività e improduttività. Qui forse c’è un equivoco da chiarire. Non è detto 44


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che il filosofo entri nell’azienda. Forse ci entra in modo disseminato la filosofia. Se l’azienda “paga” un filosofo, comincio con il chiedermi perché l’ha fatto. Possamai. Parlando di bisogni e di soddisfazione di bisogni si rischia di far rientrare dalla finestra quel che si fa uscire dalla porta. C’è sia l’aspetto della finalità cosciente, che si tenta di risolvere, sia l’aspetto della funzionalità rispetto all’azienda. Come uscirne? Rosella Prezzo. Tutti questi discorsi e anche tutte queste conflittualità si collocano in un punto di crisi. Da una parte c’è la crisi della filosofia, istituzionale e non, dall’altro c’è il disagio della civiltà. Mi viene in mente un fenomeno che in Germania sta prendendo piede. Durante gli intervalli della pausa pranzo si utilizzano le sale dei cinema senza immagini. Gli impiegati vanno in queste sale buie, sospendono la coazione alla vista e alla risposta immediata, e passano lì del tempo al buio, senza immagini e ascoltando musica. L’esperimento si è presto diffuso perché corrisponde a una sorta di camera di decompressione, dove si sospendono il tempo e lo spazio. Qui si colloca il discorso del filosofo, ossia del pensare di arrivare a far sentire il vuoto. Le persone che sono nella coazione della velocità – immagine, tempo, risposta – hanno bisogno di qualcuno che il vuoto glielo faccia sentire e le introduca alla possibilità della riflessione. In tutto ciò vedo una risposta al disagio, che non è solo il disagio aziendale ma di tutta la civiltà contemporanea. Con tutti i problemi che abbiamo indicato, del passaggio del filosofo da filosofo a consulente, da filosofo a filosofo in piazza, per non dire piazzista, piazzista del pensiero. La questione non è peregrina e non va vista semplicemente come l’uso improprio della filosofia da parte dell’industria, che assume personale, magari anche il filosofo, perché pensa sempre e solo a produrre più merci. Però non bisogna dimenticare la vecchia logica, derivata dal Sessantotto, che qualunque cosa si faccia nell’industria sei sempre fottuto. Papandrea. Mi chiedo quali sono i rischi della suggestionabilità e di come gioca l’intenzione del leader nella consulenza filosofica. Il 45


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soggetto che dovrebbe essere valorizzato come persona non rischia di diventare a sua volta oggetto di una suggestione? 3. Il problema del senso Galimberti. C’è un dato di fatto da cui partire. Un mese fa su “la Repubblica” è uscito un articolo di cronaca secondo cui le aziende cercherebbero consulenti filosofici ma non psicologi. Questo è un fatto. Mi appoggio all’esperienza di Pier Luigi Celli, attuale rettore della Luiss, il quale, contro quel che pensavo io, sostiene che la valorizzazione del personale sia una cosa importantissima per l’azienda. Io non capivo e non capisco cosa voglia dire. Però, se togliamo di mezzo l’anticapitalismo e la categoria della funzionalità – perché delle due l’una: o si esce dal capitalismo o ci si sta dentro meglio di come si sta –, dal fatto di valorizzare le persone, far loro trovare un senso alla loro esistenza, tirando fuori quello che l’azienda cancella (secondo l’idea che rispetto alle macchine gli uomini che lavorano in azienda sono ancora troppo umani: si stancano, tradiscono, generano, vanno in depressione e presentano tanti altri inconvenienti), salta fuori un altro fatto e cioè che gli inconvenienti umani, una volta valorizzati, fanno funzionare meglio tutta la baracca. Se rinunciamo alla pregiudiziale anticapitalista – anche perché sembra che non siamo capaci di trovare strategie sufficienti per uscire dal capitalismo –, valorizzare gente che lavora per il capitale per me non è un problema, se fa star tutti meglio. Pertanto i consulenti filosofici sono molto più ricercati degli psicologi. È anche ovvio. Lo psicologo opera con uno schematismo troppo ristretto rispetto ai problemi che fanno soffrire la gente. La gente oggi soffre per mancanza di senso della vita. Per quanto riguarda la mancanza di senso gli psicologi non hanno alcuna categoria interpretativa. Se vogliamo poi utilizzare la categoria della tecnica, che pensa solo al proprio autopotenziamento, nell’assoluta mancanza di senso della sua direzione e di assenza di finalità, perché la tecnica tende al proprio sviluppo e non al miglioramento dell’umanità, è chiaro che la dimensione della mancanza di senso, per cui la gente si affligge, trova risposta più facilmente nella consulenza filosofica 46


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che nella pratica psicologica (uso qui la parola “psicologia” in senso lato). Teniamo presente che la consulenza filosofica ha due direzioni che non vanno confuse. Una è quella aziendale, di cui abbiamo parlato finora, e una è quella personale, che funziona sul modello psicanalitico, pur non essendo una psicanalisi. C’è la consulenza di gruppo e quella duale. Le due consulenze operano con strumentazioni molto differenti. Per esempio, Socrate faceva un’operazione da città. L’agorà, come dicevate, oggi è l’industria. Però tra le rovine di Corinto trovate una cappelletta dove sta scritto in greco “bottega dell’anima”, omilia tes psyches. Lì c’era uno che la gente andava a consultare e poi usciva stando un po’ meglio di prima, almeno con le idee più chiare. La pratica era già molto diffusa tra gli stoici. La consulenza filosofica non nasce oggi. Oggi se ne parla e si fanno i master. Però, se guardo indietro a quel che ha scritto Pier Aldo Rovatti, trovo che ha scritto libri di consulenza filosofica molto più belli – lo sottolineo – di quelli di Gerd Achenbach e soci. Abitare la distanza (1994), L’elogio del pudore (1989), Il declino della luce (1988) sono autentici libri di consulenza filosofica. Io penso che tu abbia pagato seriamente in termini di carriera accademica per aver scritto proprio quei libri. Invece di ridurre la filosofia a cinquecento parole, discutendo di essere, non essere e principio di non contraddizione, hai fatto della fenomenologia in grande stile. Lo dico per esperienza. Io stesso ho compromesso la mia carriera accademica perché ho scritto un libro intitolato Il corpo (1983). Severino mi disse che, se pubblicavo quel libro, avevo chiuso con l’università perché – parole sue – era un libro da gangster. Boella. È anche la mia storia personale, che è poi la storia della mia generazione. Le pensatrici più o meno famose non hanno fatto carriera accademica perché si era in tempi particolarmente tormentati. In ogni caso questo sporgersi sulla vita, questo non essere accademica è tipico di una certa filosofia… Per me è interessante il fatto che una certa generazione di uomini ha pagato di persona. È vero che adesso siamo in epoca postrivoluzionaria. Probabilmente il senso si sta arricchendo. Attraversa più strati. Però voglio far nota47


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re questo. Ad Atene e Corinto c’era l’agorà. Qui e oggi c’è l’industria. In mezzo sembra che non sia successo niente. Con le sue rotture, con le sue rivoluzioni fallite, due guerre mondiali e le catastrofi politiche, il Novecento ha messo in gioco insieme teoria e prassi. Quando oggi parliamo di filosofia che va in piazza, l’affermazione è molto pesante. Cos’è questa concretizzazione verso cui la filosofia sta andando? Nell’azienda viene messa a tema la vita. Interroghiamoci su questo. Non si tratta solo di recuperare una certa tradizione filosofica rispetto a un’altra, un filosofo più comunicativo rispetto a uno più difficile. Rovatti. Osservo che c’è un equivoco sulla parola filosofo. Dove sono i filosofi? Se parliamo dei filosofi come esempi di quella storia di cui parla Laura – il filosofo era anche quello che diventava rivoluzionario –, parliamo di singolarità eccezionali. Ma quando qui si parla del filosofo si parla di una categoria più ampia di operatori e di lavoratori… Prezzo. … del pensiero… Rovatti. … di facilitatori – come si chiamano anche oggi. L’aspettativa di chi si laurea in filosofia è di attraversare l’imbuto che porta all’insegnamento della filosofia, perché non dimentichiamo che siamo insegnanti di filosofia. Con la consulenza filosofica, invece, si propone una pratica, che può diventare diffusa, collettiva, ampia. Poi uno può fare un discorso critico, in nome di uno scetticismo che aleggia anche in questa stanza, e dire che non ci crede. Perché non ci crede? Non solo perché nessuno osa affermare che ci si può vivere, nel settore dell’individuale, mentre forse nel settore dell’azienda sì, ma perché per attuare fino in fondo questo tipo di pratica occorre essere dei personaggi con una formazione e una costruzione personale, perfino un’autoanalisi, che è raro trovare in circolazione. Se, tolta qualche eccezione, i consulenti filosofici sono quelli che si suppone che siano, con le scuole che vi stanno dietro e quant’altro, possiamo ben dire che si crede poco che questa pratica produca effetti interessanti. 48


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Boella. Hannah Arendt ricostruisce tutta la storia del pensiero occidentale alla luce della categoria del filosofo di professione. Il filosofo professionale, che forse i nostri studenti troveranno come sbocco lavorativo, è tutt’altra cosa. Ritengo che sia giusto segnalare il passaggio. È una novità, forse meno recente in Italia che in altri paesi. Quando si parla di filosofo di professione, trovo il termine adattissimo per ricostruire la collocazione spazio-temporale del modo in cui il filosofo viveva, si viveva, interpretava, cioè si rapportava alla vita e al corpo, oltre che all’università. Oggi parliamo della professione del filosofo in un senso completamente diverso. Sciacchitano. Sono d’accordo con Umberto che lo psicologo non ha alcun senso da distribuire, tanto meno da reinventare. Lascio da parte la questione della reinvenzione che è un fatto eccezionale e penso a quella più terra terra della distribuzione di senso. Rovatti. Però lo psicologo ha un potere… Sciacchitano. Lo psicologo ha il potere di distruggere senso, di toglierlo. Non per nulla lo si chiama strizzacervelli, perché esegue potature, strizzature di senso là dove ce n’è troppo e gronda. La mia questione riguarda il consulente nella misura in cui entra o è convocato in scena da qualcuno come apportatore di senso. Tradizionalmente il distributore di senso è stato il prete. La macchina religiosa è semplice nel suo funzionamento. L’autorità religiosa fissa un telos, uno scopo da raggiungere, meglio se escatologico, perché così è fuori dal potere del fedele modificarlo, e quello scopo dà automaticamente senso alla vita. Si introduce un gettone nella macchina religiosa ed esce la risposta di senso. Funziona a meraviglia. Allora mi chiedo, il filosofo – che si offre di fornire senso, magari “a togliere”, facendo il vuoto, invece che “a mettere”, facendo il pieno – in cosa si differenzia dal prete, che per professione “fa senso”? Dà senso alla vita, magari con l’oppio dei popoli, la religione, riempiendo dei vuoti che non si tollerano più dei pieni. In questo i preti sono più bravi degli psicologi, dei tecnici, degli scienziati, degli psicanalisti, dei sociologi, nonché dei filosofi. 49


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Vitullo. La figura del consulente filosofico o di chi si prende cura di perimetrarlo ha il compito di legittimare il vuoto per farlo diventare uno spazio di libertà, lo spazio della biografia, dove la persona è libera. In questo senso il vuoto va difeso. Galimberti. Avendo una mentalità greca, penso che la categoria del senso sia una faccenda giudaico-cristiana. E nel giudaismo e nel cristianesimo ci metto anche Marx. Il senso nasce quando io conferisco al tempo un disegno. Una volta che si carica di disegno, il tempo diventa storia. Fuori di qui, se non attribuisco al tempo un disegno, la storia non nasce. All’interno della storia c’è un senso della storia e un senso della vita. Il problema del senso è una faccenda dell’antropologia giudaico-cristiana, non è un carattere dell’uomo. È un carattere dell’uomo giudaico-cristiano. Gli indiani non si pongono il problema del senso. Guardano il Gange e muoiono. I greci non si ponevano il problema del senso della vita. Non pensavano che questo corpo meschino fosse stato creato per te, che devi aggiustarti, se vuoi essere giusto, all’armonia cosmica. Non avevano il senso della vita né il senso della storia, perché non avevano alcuna prospettiva escatologica. Noi però ci troviamo in un contesto che ha un’antropologia cresciuta con le categorie giudaico-cristiane. So che il senso non c’è, ma devi dargli qualcosa perché loro credono che ci sia e non riescono a impostare la loro vita al di fuori della sensatezza. Tutta la gente che viene da noi si lamenta che non trova più senso nella vita e nel lavoro. È sbagliato chiedersi il senso. Tu sei come una pianta, come un vegetale. Nasci, cresci e muori, espandi la tua vita per quanto è espandibile, sostieni il dolore per quanto è sostenibile, punto e a capo. Non c’è un senso, che è solo una faccenda di narcisismo collettivo. Marx aveva dato un senso mediante la rivoluzione. Ma oggi non è più possibile nessuna rivoluzione. Come ci insegna Hegel, la rivoluzione è il conflitto tra due volontà, del servo e del signore. Oggi tutti e due si trovano dalla stessa parte contro quella dimensione enorme e indifferente che si chiama “il mercato”. È vero che dietro il mercato ci sono delle volontà, ma spero che queste volontà non accadano. La rivoluzione è im50


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possibile perché non c’è più il conflitto di volontà. Il conflitto delle volontà è finito. Voglio presentarvi due momenti di un grande personaggio che è stato il primo grande consulente filosofico. Nel 1913 Jaspers distrusse la psichiatria esplicativa e inaugurò quella comprensiva. Come faccio a intendermi con lo schizofrenico, si chiedeva Jaspers. Fece una rivoluzione di natura filosofica. All’interno della psichiatria non si riesce a cambiare la psichiatria. Sartre si accorse che l’operazione era filosofica e tradusse la Psicopatologia generale nel 1928, a quindici anni dalla sua uscita. Il cambiamento della psichiatria rappresentava una novità e un pericolo, il pericolo che la filosofia soppiantasse la psichiatria. Il frutto di quel cambiamento, la psichiatria fenomenologica, oggi è morta perché si è visto il pericolo insito in questo scenario. È molto meglio la farmacologia. L’operazione fu comunque filosofica, non psichiatrica. Infatti, Jaspers approdò alla filosofia interrogandosi sul senso di colpa, come inteso dagli psichiatri, e valutando la possibilità di intenderlo con categorie più ampie di quelle psichiatriche. Questa è un’altra operazione filosofica, non psichiatrica. Infatti, Jaspers calò il senso di colpa in una dimensione collettiva che fa parte del mondo della vita. Nel 1948, quando pose il problema della colpa della Germania, Jaspers fece un’operazione filosofica significativa. Rispondeva alla domanda iniziale: quale filosofia? Passava dalla psichiatria alla filosofia. Con disprezzo, Heidegger diceva di Jaspers che era un educatore di giovani. È il disprezzo classico per chi si occupa della vita. Che per il filosofo accademico diventa “un educatore di giovani”. Noi dobbiamo fare l’operazione inversa. La filosofia è stata accolta nell’accademia. È diventata autoreferenziale. La filosofia o si riduce a commento di qualche pensatore, a partire dalle tesi di laurea, oppure, quando vuole elevarsi, diventa obiezione interna al circuito autoreferenziale dei filosofi. In entrambi i casi muore. Rovatti. La prima domanda riguardava la cura. Cosa ne pensi? 4. Prendersi cura Galimberti. Ho letto un po’ della nuova traduzione di Alfredo Ma51


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rini di Essere e tempo. Personalmente sono affezionato alla traduzione di Chiodi perché ho studiato su quella. A proposito del sorgen e del besorgen Marini ha trovato due belle soluzioni. Prima avevamo prendersi cura e avere cura, praticamente indistinguibili. Marini differenzia tra prendersi cura e procurare. La consulenza filosofica non dovrebbe procurare niente, dovrebbe prendersi cura. Bisogna prendersi cura del momento riflessivo della gente. La gente non pensa più, non riflette più. Vive l’ansia per problemi per i quali non ha neppure le parole per nominarli. Non ha più il vocabolario per esprimere il proprio dolore. Il guaio dei nostri licei è che stanno eliminando progressivamente la storia della letteratura. La storia della letteratura è il grande vocabolario per esprimere il mondo emotivo. Di cosa parla la letteratura? Di dolore, di amore. Dalla letteratura impari il linguaggio delle emozioni. Quando non sai più nominare la tua emozione o il tuo dolore, soffri in modo cieco, assurdo e sordo, perché non riesci neanche a verbalizzarlo, ad articolarlo. Lo spazio riflessivo è il luogo del vocabolario, perché la nominazione è importante per imparare a conoscere quel che ti passa dentro. Rovatti. Pensi che sia spendibile la parola “cura”? La parola è carica di un’eredità pesante. Se dici “curare” vuol dire che c’è un disturbo. Galimberti. La parola rende sicuri… Rovatti. I filosofi, o chi per loro, ce la faranno a sfondare con la parola “cura” in un mondo dove il curare e la cultura terapeutica sono le culture dominanti? Ogni volta che dici cura convochi uno scenario medicalizzato. Sconfiggere l’effetto “psi” non è così semplice. Galimberti. C’è da fare il percorso che ha inaugurato Heidegger quando ha introdotto il concetto di Sorge. Sciacchitano. Una piccola annotazione sulla traduzione di Sorge. 52


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Concordo con Marini che besorgen sia da tradurre con “procurare”. Ma Sorge, proprio perché non è cura medica (Kur), ha la semplice connotazione di “pensiero”. Corrisponde alle nostre locuzioni “pensare a”, “darsi pensiero per” ma senza la preoccupazione della cura, nel senso latino. Il termine Seelensorger è usato anche da Freud. È tradotto “curatore d’anime”. In realtà è intraducibile, perché bisognerebbe dire “colui che si dà pensiero per l’anima”. Vitullo. Uno degli effetti più importanti del dialogo socratico all’interno delle organizzazioni è appunto l’apertura di spazi di riflessione. Il dialogo socratico è una delle tecniche – se vogliamo parlare di tecniche – che si applica alla riflessione su una domanda importante riguardante l’organizzazione o la persona. Per esempio, sul mio bisogno di essere responsabile o su cosa significa per me oggi il successo o avere un obiettivo. L’efficacia del dialogo socratico è di creare la consapevolezza del processo. Le persone cominciano a non sentire più il bisogno di parlare subito. Cominciano a pensare che le parole costano, hanno un costo. Piuttosto che spendere una parola, forse è meglio cavalcare il silenzio un po’ di più. Il senso di quel che stai dicendo, l’importanza delle parole, la cura e la ricerca del vocabolo che utilizzi per esprimere un concetto, rientrano in un processo. Il processo è ciò che conta di più. Portare all’interno del mondo organizzativo la consapevolezza del processo significa aiutare le persone a riappropriarsi di un vocabolario, a imparare a dare un peso a quel che viene detto, a introdurre una distanza rispetto a quel che si fa. Questo è il risultato della cura. Ho intervistato un infermiere che lavora in un reparto di cure palliative per malati terminali. Rispetto agli psicologi, il suo lavoro è di far stare il malato nel suo dolore. L’esperienza del dolore è molto pesante. L’infermiere, che ha fatto della formazione psicologica, è terrorizzato dal dover dare una risposta. Il malato soffre. Il primario non c’è. Non sa che medicina dargli. Non sa gestire la domanda. Il consulente filosofo sollecita allora l’infermiere a chiedere del dolore, a fare delle domande. Scopriamo così che il paziente ha molta voglia di narrare il proprio dolore e di esporre tutta la di53


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namica che sta dietro. Questo esempio, mutatis mutandis, si può calare nel mondo organizzativo. Galimberti. Prendiamo proprio questo esempio. Di fronte alla sofferenza, l’infermiere chiama il medico, procura una soluzione. La consulenza filosofica, invece, dice all’infermiere: “Fidati della tua umanità. Qui c’è un uomo che soffre. Tu sei un uomo che ha conosciuto il dolore. Puoi interloquire con il dolore dell’altro”. La consulenza filosofica conferisce di nuovo agli uomini la fiducia nelle proprie capacità curative per il solo fatto che sono uomini. Come diceva il buon Socrate, la verità non te la insegno io, ma la cavo da te perché suppongo che tutti gli uomini siano depositari di verità. Tutti gli uomini sono depositari di umanità e sono in grado, con la sola esperienza umana, di sostare nel dolore, aprendo la narrazione. Rovatti. Aggiungo: di sostare anche nell’insuccesso. Vitullo. Il successo sta diventando una specie di droga: il successo è obbligatorio. Il divario di reddito tra un manager di successo e un impiegato medio è di uno a cinquanta. In queste condizioni come facciamo a portare la riflessione e la filosofia? Che credibilità possiamo avere partendo da tale disparità? Il tema è molto caldo attualmente. Che ne facciamo di tutte queste risorse umane che vogliono avere una biografia e non solo un curriculum vitae? Ho letto oggi su una rivista: “Nel regno democratico di Bill Gates il campus di Redmond compie vent’anni, una città nella città dove lo stile informale domina a tutto vantaggio di produttività e di people satisfaction”. Bill Gates ha organizzato delle comunità di lavoro dove people satisfaction = produttività. Siamo ancora una volta calati in un paradigma tecnico, funzionale, strumentale. Le suggestioni, che hanno come fine di creare un universo ancora più efficace e performante, sono assolutamente vere. Però vorrei portare anche la mia esperienza concreta. Il coaching, che è entrato pesantemente nelle organizzazioni, nasce come pratica applicata delle discipline di tipo psicologico. Cosa fa il coach? Il coach è un 54


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allenatore che porta la squadra da A a B, come si dice. Funziona la metafora del trasporto, ma la meta B è predefinita. Il coach ti trasporta dove l’azienda ha deciso, aiutando la persona a essere più efficace relazionalmente. Grazie al suo aiuto la persona impiega al meglio la propria intelligenza emotiva, visto che oggi il potere è il potere di muoversi in un network di relazioni, che non prescindono dalla sfera emotiva. I termini di questo allenamento sono le tecniche di comunicazione e l’influenza della leadership efficace. Significa saper cogliere velocemente lo stile predominante in una situazione e usarlo per “bucare” e penetrare nella guardia dell’interlocutore. Ma quello che i miei clienti mi chiedono oggi sia nell’one-to-one, se parliamo di coaching filosofico, sia nel gruppo, è un’altra cosa. In realtà io vado lì perché c’è una dinamica relazionale da facilitare, da rendere più fluida, perché ci sono dei nodi da sciogliere all’interno dell’organizzazione. Alla fine, però, la verità è un’altra. Le persone continuano ad avere conversazioni con me perché lì trovano uno spazio sicuro. Il consulente filosofico riesce a dare la sicurezza che è lì per loro. In realtà apre delle finestre sul fuori. Non fa il lavoro dello psicoterapeuta, ma può evidenziare delle dinamiche da approfondire altrove. Grazie al trucco delle finalità imposte dall’azienda, le persone si possono rilassare e respirare un’aria di libertà. Prezzo. Allora qual è l’obiettivo? Vitullo. Il consulente filosofico può essere chiamato direttamente dal manager, dal direttore generale o di marketing, che vuole averti come coach perché vuole riflettere su determinate situazioni aziendali. Da lì si può “shiftare” su obiettivi personali. Spesso è una fantomatica direzione aziendale, per esempio la direzione del personale, che dà l’incarico in funzione di stili di leadership propri a ciascuna azienda, per implementare valori che ciascuna azienda privilegia. Sono stabiliti da una direzione che non è lì, magari è in America, la quale vuole che ne sia permeata tutta l’organizzazione aziendale. Il consulente, quindi, ha un obiettivo, determinato da altri. Questo diventa il pretesto per avviare una conversazione au55


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tentica. Più vai su nella scala gerarchica dell’organizzazione aziendale più trovi solitudine. La solitudine deriva dal fatto che sei circondato da persone che non ti dicono più le cose come stanno. Il manager di alto livello non ha più indipendenza perché ha solo dipendenti intorno a sé. È il paradosso per cui tutti dicono di sì, per esempio, alla proposta di andare in un luogo dove nessuno dei singoli vuole andare. Perché? Perché queste non persone non si legittimano. L’importanza di saper dire di no, cioè di dissentire, è fondamentale per diventare persone. Gli slogan dei corsi di formazione aziendale sono all’insegna del “diventa leader di te stesso”, quindi del dissentire. L’organizzazione avverte il bisogno di avere al suo interno dei “folli”, cioè gente che dica che il re è nudo. Rovatti. Sottolineo questa tua affermazione: “L’organizzazione avverte il bisogno di avere al suo interno dei folli”. Vitullo. Chi vive le dinamiche organizzative quotidiane lo avverte meglio. L’azienda è il luogo del conformismo più assoluto e dell’omologazione imperante. Il tema dell’omologazione è stato fomentato in tutti questi anni, in quanto si preferiva avere delle persone con delle tecniche ben precise e una competenza ben definita all’interno di uno spazio di libertà predefinita da altri. Oggi questo paradigma mostra di non funzionare più tanto bene. Se nessuno riesce a dissentire, le scelte aziendali si rivelano alla lunga suicide. Rovatti. Il “folle” sarebbe chi sa dire di no? Vitullo. Si tratta, prima ancora, di saper dire, per esempio in riunione: “Signori, oggi c’è troppo consenso. Aggiorniamo la seduta a domani. Vediamo, pensandoci su ventiquattr’ore, se emerge un po’ di dissenso”. Borutti. Una domanda relativa alla formazione del coach o di chi si prende cura del rapporto interpersonale. Mi sembra che ci sia un problema di tecnica della parola e di tecnica dell’ascolto. In un programma televisivo dedicato al caso di Vanna Marchi, alla fine 56


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Roberto Vacca ha detto: “Noi stiamo qui a discutere dei creduloni che credono a Vanna Marchi. Ma non sapete che ci sono illustri professori, ordinari di filosofia teoretica, che all’università insegnano Hegel, Deleuze e Lacan?”. Papandrea. La questione della finalità terapeutica è messa in discussione già da Freud. In analisi si va perché si ha una domanda di senso. Ma non è certo il caso di iniettare del senso in più. Come può una persona, senza formazione analitica, affrontare le domande di senso che provengono dall’altro? 5. Filosofi di professione? Boella. Avete aperto la questione decisiva psicanalisi/consulenza. Vorrei affondare il pungiglione ancora di più per non girare in tondo. Forse siete d’accordo, ma non è stato ancora esplicitato, che la filosofia in gioco nella consulenza non è solo un insieme di immagini e rappresentazioni sensate. Romanzi e poesie vanno benissimo. Sono un grande repertorio per trovare le parole. Ma la filosofia non si può fermare lì. Questo interrogarsi sul senso del fare dovrebbe forse anche superare i pregiudizi anticapitalistici, come Umberto giustamente diceva. Il discorso della e sulla persona potrebbe anche uscire dall’azienda, accentuando il momento proprio e specifico del pensare senza risultati. Lo chiamerei “vuoto a perdere”. In quel vuoto la filosofia, invece di essere solo un repertorio di immagini, potrebbe diventare un certo tipo di vita filosofica, che sceglie percorsi che non sono necessariamente le strade maestre, una vita filosofica – dico – che non solo gli antichi hanno conosciuto e condotto. I contemporanei hanno condotto vite filosofiche abbastanza esclusive, operando scelte mirate. Abbiamo parlato di cura. Ma sappiamo benissimo che la competenza relazionale e la competenza nella cura sono un tema che riguarda in modo particolare le donne. Proprio per aprire le porte di questa famosa azienda, che ci costringe in uno spazio troppo stretto, mettiamo sul tavolo la differenza tra uomo e donna. Forse uomini e donne che fanno i manager si credono asessuati, tranne poi fare sesso al cesso.

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Rovatti. E se facendo l’esercizio del vuoto domani mattina dico: “Non vado alle nove a lavorare. Vado alle dieci”. Cosa succede? Vengo licenziato? Vitullo. Dipende. Se hai molto talento e competenza non succede. Galimberti. Bisogna distinguere. Vado alla dieci come acting out o vado alle dieci come risultato di una riflessione per ritrovare la mia personalità? L’acting out non funziona. Prezzo. Mi sembra che ci sia una premessa non esplicitata che crea qualche resistenza. Intendo l’idea che ci sia un filosofo, il filosofo di vocazione o il filosofo di professione o l’insegnante di filosofia. Questa figura a un certo punto deciderebbe di andare da qualche parte, per esempio in azienda. Credo che non sia così. Forse si è formata una nuova figura di filosofo che fa – volendo usare questo termine – il mediatore culturale. Media tra culture che non si parlano. Le due culture sarebbero una quella del pensare tecnico-razionale e l’altra quella del sentire, della vita, del dolore. La figura del mediatore mette in crisi le altre, perché propone una modalità di pensare diversa. Non è il filosofo di professione o di vocazione che a un certo punto prende armi e bagagli e va fuori dal suo studio per insegnare filosofia a qualcuno. È una figura il cui pensiero si fa mediatore di pensiero. L’industria è un luogo, ma non l’unico, dove esercitare questa mediazione. Ci sono altri luoghi dove si gioca la metamorfosi di chi fa vivere il pensiero, il pensiero che entra nella vita. È una sorta di rivoluzione. Il pensiero è pensato in modo più largo di quello proposto dalla filosofia e dalla storia della filosofia. Rovatti. A un certo punto Wittgenstein dice che la filosofia è quel gioco la cui posta è che non si giochi più. Stai dicendo questo? Prezzo. In parte. Qui c’è qualcosa che deborda dal gioco di Wittgenstein. In questo periodo ho incontrato parecchi medici, gente che si illumina quando dici che fai filosofia. Si aggrappano al filo58


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sofo perché c’è tutto un mondo che non riescono ad articolare. È il mondo oscuro del sentire, della vita. Credo che qui si giochi qualcosa di nuovo. Sul problema del denaro, che mi sembra giustamente sollevato, secondo me si torna al discorso di Socrate e dei sofisti. La filosofia si insegna a pagamento o è libera? La questione va alleggerita. Rispetto alle pratiche della mediazione del pensiero, il libero pensatore che pensa fuori dal mercato è sulla luna. Non mi scandalizzo per il fatto che girino dei soldi. Non vedo perché no. Rovatti. Il passaggio al denaro, come è stato importante per la psicanalisi, altrettanto dovrebbe esserlo per la filosofia. Il denaro ha un’importanza anche teorica. C’è chi dice: “Non dedico mezz’ora o un tempo fisso ai colloqui, ma talvolta tre o quattro ore”. Come se la giornata fosse di un numero infinito di ore e il lavoro di consulenza non fosse in realtà un lavoro ma una sorta di oasi, allargabile a piacere in termini temporali. Vitullo. Sul denaro vi porto un’esperienza concreta. Sta succedendo, soprattutto nel Nord-Europa, che vada via via scomparendo il criterio di un costo oggettivo della consulenza filosofica. L’attività di consulenza originariamente era regolata dal principio “faccio questo, costo tot”. Oggi il consulente decide il valore di quel che fa d’intesa con il consultante. Rovatti. Si può fare una stima della diffusione della consulenza filosofica nel mondo? Vitullo. Rispetto a un’utenza profit è ancora molto scarsa. Con utenza profit intendo tutte quelle organizzazioni che hanno nell’ultima riga di bilancio il loro focus. Per esempio, se la città dell’Aia vuole sapere come comunicare con i cittadini, convoca i filosofi per una serie di workshop su questo. Il mondo organizzativo si è appropriato di una serie di vocaboli che prima si usavano nel mondo della spiritualità. C’è un credo comune diffuso – our credo. La riflessione ferve all’interno, non all’esterno delle organizzazioni. 59


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Proporre una consulenza filosofica all’interno del mondo organizzativo diventa sfidante, perché è un mondo vivo. Nel mondo profit molte persone, non necessariamente filosofi, hanno un approccio filosofico. Cercano di dare spazio a una certa gratuità per ritrovare un certo benessere. Questa è una parola chiave. Per lo meno si tratta di abbassare il livello di aggressività che è altissimo nelle organizzazioni. In tanti cominciano a fare delle cose perché il bisogno è molto esteso. Cosa fanno? Cose diverse. Nel Nord-Europa sono più avanti. Gli Stati Uniti hanno invece un côté molto strumentale. Il loro universo è prevalentemente di coaching. Si basano sull’equazione people satisfaction = maggiore produttività. Ma stanno cominciando a riflettere su questo punto. 6. Filosofi e psicanalisti Galimberti. La consulenza filosofica in pratica è più rappresentata nel mondo occidentale perché siamo la civiltà più oppressa, rispetto a tutte le altre, la più codificata. Non esistono più movimenti di funzionalità. La gente sta soffocando. Società arcaiche non hanno bisogno di consulenza filosofica, mentre società rampanti, come quella cinese, dove non c’è più religione e si pensa solo al denaro, non si rendono ancora conto di aver bisogno di consulenza filosofica. Provo ad affrontare il problema della differenza tra psicanalisi e consulenza filosofica. Io sono psicanalista con tutti i crismi nazionali e internazionali. Ho lavorato in manicomio. Quel mondo lo conosco. Quel che ho imparato dalla pratica analitica è che molta gente sta male non solo perché ha avuto dei traumi, ma è malata perché ha delle idee sbagliate. Ai miei pazienti faccio leggere tanti libri. Qualcuno sono riuscito a farlo arrivare alla laurea, partendo dalla quinta elementare. Il momento culturale è un fattore enorme per l’alleviamento della sofferenza. La cultura allarga la visione del mondo. Gli strumenti di cui dispongo per affrontare la sofferenza sono pochi. Ma la cultura è cura. La consulenza filosofica è una strumentazione culturale. Chi è colto soffre di meno di chi è ignorante. L’ignorante passa subito all’atto – ammazza – perché non ha mediazioni culturali. Passi al gesto quando non hai più le parole. 60


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Non hai più le parole perché non hai più pensieri e non hai pensieri perché non hai letto niente. Se allarghi la tua visione del mondo rispetto a quella che possiedi per la tua storicità e per l’ambiente dove sei vissuto, più allarghi la tua visione del mondo e più rimpicciolisci il tuo problema. Qui interviene il “conosci te stesso”. La visione del mondo va considerata sulla base del fatto che la gente ha una visione estetica del mondo che non può essere cancellata. La conoscenza della propria visione del mondo, la qualità del proprio modo di pensare e di sentire è tale che uno può andare a lavorare in banca, sapendo che quello non è il suo mestiere. La visione del mondo va intesa come conosci te stesso, come conoscenza della qualità dei pensieri che ti girano in testa. Le idee dentro di noi vivono in modo molto confuso. Io dedico un pomeriggio al ricevimento studenti. Arriva una che mi dice che è incinta e deve laurearsi. Dico che deve avere in mente una classifica dei suoi problemi. Probabilmente laurearsi è l’ultima cosa. La gravidanza è il problema imminente, l’accordo con i genitori forse è il successivo. L’attuazione della classifica mette ordine e sposta la tensione emotiva a partire dai punti stabiliti. Questo è un lavoro da consulenza filosofica. Laura ha introdotto il problema delle donne. A partire da Schopenhauer credo che la filosofia possa insegnare alle donne che in loro c’è una doppia soggettività. C’è anche nei maschi, che però possono non accorgersene. Il corpo della donna può essere organizzato in termini egoici, come quello dell’uomo, ma è più marcatamente funzionale alla specie di quello maschile. Una ragazza che ha le prime mestruazioni sente che il suo corpo ha un’economia diversa da quella dei suoi sogni e dei suoi progetti. La doppia soggettività differenzia radicalmente il maschile dal femminile. Una volta si diceva che le ragazze erano più timide dei ragazzi. In realtà le ragazze sono più riflessive perché devono capire se organizzare la propria vita su di sé o su qualcosa di sfuggente. Segnalare la doppia soggettività è un lavoro da consulenza filosofica. Generare porta via vita, sonno, progetti. Diventare consapevoli della doppia soggettività è importante. Nei master e nelle scuole di consulenza filosofica si entra solo 61


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se si è filosofi. Il laureato in legge non entra. Non è che l’abbiamo stabilito. È accaduto con la scuola di Torino, con Phronesis e con il master veneziano. Prima veniva citata la legge Ossicini. Certo, dobbiamo denunciare il meccanismo di esclusione attuato da questa legge. Vivendo in una società psicanalitica, considero il materiale umano, rappresentato da certi cosiddetti analisti, impressionante rispetto a tanti saggi filosofi in circolazione. Lo dice Jung, ma lo pensano tutte le scuole, che si guarisce solo per un rapporto personale. Un cretino, anche se è un analista, resta una persona superficiale. Rovatti. Escludiamo che tra i filosofi ci siano persone superficiali? Galimberti. Attenzione! Non solo superficiali, ma anche intellettualistici, privi di emotività. Senza una componente emotiva, senza uno sguardo accogliente non si può fare consulenza filosofica. Nel master veneziano avevo proposto che si inserissero almeno cento ore di psicanalisi. Non per fare confusione tra i due mondi della consulenza e della psicanalisi, ma per dare a ciascuno la possibilità di conoscere se stesso. Non l’hanno voluto, perché l’accademia ha paura di contaminarsi con percorsi soggettivi. Io invece l’avrei voluto, perché ci sono filosofi che non hanno alcuna parentela con la relazione. Qui c’è un problema serio. Rovatti. È semplicemente il fatto che l’università forma in un altro modo. Galimberti. E possono venir fuori persone con capacità di empatia e persone che non ne hanno neanche l’ombra. C’è chi di fronte al dolore mette giù il telefono, perché non sa cosa dire. Queste persone non devono fare i consulenti filosofici. L’empatia è una condizione necessaria. Noi siamo solo all’inizio della consulenza filosofica. In seguito dovremo trovare dei modi per “testare” l’emotività. Il paziente avverte subito quando dall’altra parte non c’è nessuno. Boella. L’esito di alcune terapie convenzionali è la normalizzazio62


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ne. Anche in filosofia ci sono sistemi di pensiero ipernormalizzati. Allora diciamo che per la consulenza filosofica ci vuole un pensiero critico. Galimberti. A proposito del denaro, nella consulenza filosofica come in psicanalisi, si deve pagare il tempo. La relazione di denaro è più pulita della relazione di riconoscenza. Dal punto di vista teorico, tra psicanalisi e consulenza filosofica passa la stessa differenza che trovo tra giudaismo e grecità. I giudei vedono il dolore come conseguenza della colpa e non come costitutivo dell’esistenza. Il cristiano assume il dolore come caparra della salvezza. Per la grecità non c’è salvezza e infine non c’è guarigione. Con il dolore l’uomo greco deve imparare a convivere, magari aiutandosi con qualche consolazione mitologica. Tra consulenza e psicanalisi c’è, in questo senso, un abisso. Qui gioca una differenza antropologica. Rovatti. Ma hai appena parlato di cento ore di psicanalisi che sarebbero servite al consulente per controllare le proprie emozioni… Galimberti. Premetto che non ho nulla contro la psicanalisi. Dovrei rinnegare metà della mia vita. Come la psicanalisi è diventata discorso filosofico, perché la filosofia non può diventare discorso di cura? Perché la psicanalisi può invadere la filosofia e diventare luogo di riflessione filosofica e la filosofia non può invadere la psicanalisi e diventare luogo di cura? Oggi, non conoscendo altra strumentazione per conoscere se stessi, proporrei ai consulenti di andare a conoscere se stessi con una metodologia abbastanza collaudata come quella psicanalitica. Dal punto di vista teorico sono in perfetta contraddizione. Ma dal punto di vista pratico non posso fare altrimenti, non conoscendo altri metodi. Al buddismo, allo yoga, alla meditazione preferisco la psicanalisi che vedo più armata e collaudata. O fai le passeggiate solitarie di Rousseau o vai da qualcuno che ti guarda dentro.

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Papandrea. Vorrei andare più a fondo della differenza tra consulenza e psicanalisi. Secondo me bisogna fare un’ulteriore distinzione tra terapia e psicanalisi. La normalizzazione, l’ortopedia, le strategie per ritrovare il senso, gli aggiustamenti relazionali, si possono trovare anche all’interno della psicologia del lavoro e si collocano sul versante delle psicoterapie. Il rischio è che la consulenza filosofica diventi una delle tante psicoterapie. Vitullo. Voglio ricordare il momento storico in cui appare la consulenza filosofica. È un momento in cui c’è commistione di tante cose. Questo significa che, quando io, che non sono filosofo, propongo un approccio filosofico, propongo una pratica di un certo genere. All’interno di quella pratica ho la funzione di facilitatore, non faccio il filosofo. Dall’altra parte ci sono persone dotate di un immaginario ricco, pieno di tante aspettative. Mi possono dire: “È probabile che facciamo anche della meditazione?”. Si aspettano di fare dello yoga, per non parlare di pratiche esoteriche o new age. Cominciamo dal corpo? Gli olandesi, per esempio, iniziano cantando. Danno una dimensione gruppale attraverso il canto e la musica. È un modo come un altro. Non abbiamo più bisogno né ci interessa più presentare biglietti da visita. In questo momento storico di contaminazioni plurime, filosofi e non filosofi devono essere molto aperti. Per questo motivo ogni volta che sento il bisogno di raccordarmi a una teoria o a un metodo mi viene un po’ di paura. Oggi non credo sia più possibile un metodo. Galimberti. Perché proprio oggi è venuta fuori la consulenza filosofica? I paesi dove è più sviluppata sono l’America, l’Olanda, la Germania, Israele. Adesso sta prendendo piede anche in Italia. Guardiamoli da vicino questi paesi. Il sistema organizzativo americano ha creato problemi in rapporto alle vite umane. L’efficienza portata all’eccesso ha mortificato la vita. L’Olanda è la nazione più aperta a qualsiasi problematica, dalla sessualità alla droga. La Germania è arrivata a riconoscere che mio fratello non è il mio nemico. Israele vive la continua drammatizzazione della sua collocazione geografica. In Italia vent’anni di televisione commerciale hanno 64


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azzerato i cervelli. È venuta meno la religione come risposta significativa. E la psicanalisi è costosa e troppo lunga. Ogni volta che parla un teologo ci va un sacco di gente. Vorrà pur dire qualcosa. 7. Una bella pancia Rovatti. Secondo te quali sono i rischi maggiori della consulenza filosofica? Sciacchitano. E quanto dura una consulenza? Galimberti. Oggi come oggi la consulenza filosofica è più vicina al problem solving che a un percorso di analisi. Quindi può durare dieci o venti sedute. Io tendo a farle consecutive. Neri Pollastri lascia decidere al cliente. Secondo me il consulente filosofico deve farsi carico della persona. Il rischio della consulenza filosofica sta tutto nella formazione del consulente. Un master di due anni, qualche tirocinio in ospedale, dove non si fa nulla, non sono all’altezza di garantire la qualità della formazione. Il rischio che io vedo è nell’improvvisazione. C’è chi si improvvisa consulente filosofico e nessuna legge glielo vieta. Secondo me la formazione è il problema. Rovatti. C’è un albo all’orizzonte? Galimberti. C’è un’iscrizione all’ordine dei consulenti della SICO presso il Ministero del lavoro che raccoglie tutti i consulenti. L’albo specifico è prematuro e dipende da decisioni a livello europeo. Ma è inevitabile una regolamentazione, come è successo per la psicanalisi. Con la differenza che la psicanalisi si è degradata perché è finita nel mare magnum delle psicoterapie, mentre avrebbe fatto meglio a mantenere il proprio statuto specifico. Per i consulenti filosofici resta aperto il problema della formazione, intesa anche come formazione della personalità. Mentre per fare il filosofo basta una bella testa, per fare il consulente filosofico occorre, oltre a una bella testa, anche una bella pancia. Ci vuole anche una componente emotiva. 65


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Rovatti. Come si allena la pancia? Galimberti. Bisogna fare una selezione ab origine, perché la pancia, c’è chi ce l’ha e c’è chi non ce l’ha. La pancia è una tecnica non trasmissibile. A ciò si aggiunga che molta gente fa il filosofo in termini difensivi. Sciacchitano. Non diversamente dagli psicanalisti che fanno psicanalisi per difendersi dalla psicanalisi. Galimberti. La difesa inconscia è quella di teorizzare i problemi invece di entrarci dentro con le mani. In alternativa c’è il desiderio di una maggior comprensione degli altri e del mondo. Delle due l’una, a mio parere: o i filosofi si occupano del mondo della vita o l’università sparisce.

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Scene di consulenza TIZIANO POSSAMAI Se la felicità fosse veramente desiderabile per l’uomo, l’idiota sarebbe l’esemplare più bello di umanità. F. Nietzsche

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edi, Falk, c’è una grande saggezza nelle barzellette. Sul serio! Ce n’è una vecchia su un pugile che sta sul ring e lo stanno uccidendo. Gli stanno spappolando il cervello. La madre è tra il pubblico e lo guarda mentre lo fanno a pezzi sul ring. E c’è un prete accanto a lei, così gli dice: padre, preghi per lui, preghi per lui! E il prete dice: beh, io prego, ma se lui dà qualche cazzotto è meglio! C’è più acume in questa barzelletta, in ciò che io chiamo l’immenso, che in tanti libri di filosofia.” Riso e pericolo Una delle più interessanti e originali introduzioni (di certo la più divertente) al fenomeno “consulenza filosofica”, a mio parere, non è un libro ma un film. Un film che si prende gioco, fin dalle battute iniziali, di entrambi i termini della questione, filosofia e consulenza appunto. Eppure non dalla “filosofia” e nemmeno dalla “consulenza” sembra prendere, più o meno definitivamente, le distanze. Semmai proprio nel prendere tale “distanza” sembra piuttosto suggellarne lo spazio di una possibile, futura, proficua convergenza. Nel senso che il riso provocato dalle scene iniziali non può fare a meno di rievocare, quasi ne fosse il limite di apertura corrispondente, un altro ben più famoso iniziale sorriso: quello che inaugura la storia stessa del pensiero filosofico, che ha per protagonista Talete (il primo filosofo e saggio della nostra tradizione antica) e che Gerd aut aut, 332, 2006, 67-84

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Achenbach (il primo “filosofo consulente” della nostra epoca) riflettendo su di esso e sulla storia della sua ricezione,1 “al fine di dare una presentazione indiretta della consulenza filosofica, ma anche, in particolare, dei pericoli che la minacciano”,2 definisce come il “pericolo specifico della filosofia” e della suddetta convergenza. Più precisamente: “Quel pericolo estremo a cui si espone colui che si butta nell’impresa rischiosa della consulenza filosofica”;3 che la filosofia, cioè, in tutta questa storia, e sempre con le sue parole, “subisca ancora il destino di Talete. Le servette che oggi deridono e che si troveranno sul posto se noi falliremo, non sono più certo provenienti dalla Tracia, ma saranno di provenienza viennese”.4 Una precisazione che se da un lato sembra farsi sfuggire il buon auspicio di un tale “destino”, dall’altro non manca di segnalarci, prima ancora di una qualsiasi differenza, una prima curiosa prossimità tra filosofia nella sua veste teorica e filosofia nella sua veste pratica della consulenza, curiosa perché trova nel sopra indicato “pericolo” il suo punto di massima convergenza 5 (come se essa, in qualunque modo si muovesse, portasse sempre con sé l’ombra – o piuttosto l’assillo? – del proprio scherno); e che rende al contempo ancor più indicativo l’accostamento al film in questione, la cui comicità, in un intricato sovrapporsi di risa, non risparmia di certo tali “provenienze”. E se in parte, questa volta, per certi versi lo fa, è solo il segno del venir meno di una loro preminenza. Ma cerchiamo di andare con ordine. Innanzitutto il film in questione è Anything Else di Woody Allen: la storia di un giovane aspirante scrittore, Jerry Falk, in crisi e 1. Cfr. H. Blumenberg, Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria (1987), il Mulino, Bologna 1988. 2. G. Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita (1987), Apogeo, Milano 2004, p. 41. 3. Ivi, p. 46. 4. Ivi, p. 56. 5. Se il riso della donna di Tracia, come ci ricorda Blumenberg, segna la distanza fra teoria e mondo della vita, e se la consulenza filosofica, come ci insegna Achenbach, è quel movimento che si propone in qualche modo di ridurre questa distanza, allora forse dovrebbe cominciare a farsi carico di questo riso invece di viverlo come un pericolo da evitare. In questo senso, il timore di Achenbach non è molto in linea con se stesso, anche perché, come egli stesso scrive, se la filosofia “teme i pericoli – a cui certo soccombe, ma nei quali solo può giungere a se stessa – è persa” (ivi, p. 50).

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in analisi da diversi anni (da uno psicanalista pressoché muto), che trova la soluzione ai suoi problemi grazie agli illuminanti consigli filosofici di uno scentrato professore, David Dobel (lo stesso Allen), conosciuto per caso in un ufficio di New York.6 Chi se non Allen, d’altronde, poteva continuare a dilettarsi (e a dilettarci) con gli “effetti collaterali”7 di questo passaggio d’epoca su cui schiere di “scienziati sociali” dibattono da tempo? A cominciare dal sempre più rumoroso silenzio di un sapere e di una pratica (la psicanalisi appunto), che, dopo averne percorso, e fissato, alcuni luoghi essenziali, sembra sempre più collocarsi dall’altro lato di questo passaggio, lasciando così sempre più spazio a nuove forme di manovra. Concretizzate, nello specifico, in un insolito rovesciamento laterale: cedendo (per la prima volta) la parte del protagonista in crisi al suo alter ego più giovane e tenendo per sé quella dell’anziano “consulente”, Allen sembra mettere in scena, in una sorta di liberatorio (contro)transfert, anche un tentativo di risposta “nuova” a quegli effetti e a quel silenzio. Quanto poi di questa messa in scena sia legato a un effettivo bisogno o a un semplice desiderio è materia su cui si potrebbe discutere. Il che non mancherebbe di farci imbattere in quell’“evento catalizzatore” (il sentimento di delusione) che, come ci ricorda Albert Hirschman, è “una delle principali forze motrici nelle faccende umane”,8 proprio perché (a conferma del nostro paradossale statuto di soggetti desideranti,9 oltre che bisognosi) ne è al contempo una delle principali fonti di esaurimento.10 Non deve (o dovrà) 6. Insieme a quelle in esergo, il film si apre con una battuta (con cui anche si chiude e a cui deve il titolo) di un tassista “filosofo” a un passeggero sconsolato che si interroga sull’inesplicabile mistero della vita: “La vita? È come tutto il resto!”. 7. Cfr. W. Allen, Effetti collaterali (1975), Bompiani, Milano 1981. 8. A.O. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica (1982), il Mulino, Bologna 2003, p. 33. 9. A tal punto paradossale che, forse, come afferma François Jullien in un penetrante appunto a Freud, “senza osare confessarselo, l’uomo non desidera la felicità a cui dichiara di tendere” (F. Jullien, Nutrire la vita. Senza aspirare alla felicità, 2005, Raffaello Cortina, Milano 2006, p. 118). 10. “Nella misura in cui la delusione non è completamente eliminata da un istantaneo aggiustamento verso il basso delle aspettative, ogni modello di consumo o di uso del tempo porta dentro di sé, per citare la nota metafora, ‘i semi della sua distruzione’” (A.O. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica, cit., p. 28).

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proprio a esso, la stessa “consulenza filosofica”, in entrambi i suoi termini e componenti,11 insieme alla sua nascita, ogni sua opportunità di successo e di scacco?12 Questo però non è certo il punto, bensì solo uno spiraglio, da cui cominciare a intravedere alcuni sfondi (im)possibili di questo scenario ancora in via di costruzione; e soprattutto che il “riso” in questione, implicando Talete non meno di Allen, della donna di Tracia o di Vienna, può rivelare degli spazi di senso ben meno angusti e minacciosi di quelli sottesi dai timori di Achenbach. Ma cerchiamo, appunto, di andare con ordine. Le donne! Camus ha detto: le donne sono quanto di più vicino esista al paradiso in terra. Ora, in quanto a te, Falk, c’è una barzelletta quintessenziale, che io trovo perfetta. È il compendio perfetto per quanto riguarda te. Un tizio va nello studio di un medico e dice: dottore, mi fa male quando faccio così. E il dottore gli dice: e lei non lo faccia! Riflettici. Dentro o fuori Questa specie di apologetica parodia della consulenza filosofica, insomma, come spesso accade (ossia inavvertitamente), tocca diversi nervi coperti della cosa. Alcuni dei quali proverò a scoprire brevemente. Il primo ha a che fare con uno dei suoi aspetti più specifici, seb11. Sia dal lato del “consultante”, come conferma l’esperienza di Achenbach (e a suo modo la stessa storia di Allen): “Finora ho avuto a che fare soprattutto con persone che avevano alle spalle esperienze di terapia psicologica o anche cure psicanalitiche, che le avevano deluse” (G. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 21). Sia dal lato del “consulente”, come testimonia ancora l’esperienza di Achenbach, quando descrive la sua delusione nei confronti non solo della filosofia accademica (“macchina per lo smaltimento dei rifiuti spirituali”, ivi, p. 59) e “di tutto il filosofare tradizionale” (cfr. ivi, pp. 100, 107, 172), ma anche di una certa pratica medica “consulenziale” (cfr. ivi, p. 98). A questo punto, ci si potrebbe chiedere se in tale confluenza di delusioni non si situi, oltre che il limite, la forza di questo fenomeno; e soprattutto se questo non sia, oltre che un sintomo, un frutto di quel disagio di cui vorrebbe farsi carico. 12. Al di là del fatto che, non lasciandosi “dominare da un bisogno” né ponendosi “al servizio del desiderio”, la stessa “consulenza filosofica – per Achenbach – è una delusione mirata” (ivi, p. 85).

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bene a prima vista meno propri, e dico significativamente perché tale (in)apparente incongruenza è anche uno dei primi sintomi del disturbo che cela. Partendo dal suo livello più “basso” è presto detto: l’eccentrico professor Dobel, come nella migliore tradizione socratica,13 chiarisce i dubbi al giovane Falk discorrendo liberamente e filosoficamente con lui, per le strade e i parchi di New York, senza percepire o riscuotere alcun compenso o parcella. La questione è delicata, parlar di soldi fa sempre un certo effetto in filosofia.14 Ma interessante, in definitiva, più che per se stessa, per quello che ci permette di vedere grazie a ciò che non mette in scena. Achenbach ne fa un significativo accenno quando, riflettendo sulla filosofia come professione, molto coscienziosamente si chiede: Ma la domanda essenziale che nasce, secondo me, in questo contesto non è: come si può magari procurare alla disciplina un riconoscimento sociale e, in questo modo, procurarle lo status di una professione consolidata e con diritto di compenso, ma, sostanzialmente, in primo luogo: dobbiamo volerlo? Non si deve temere che la filosofia degeneri a trivialità mondana, nel momento in cui diventa una professione? Non si espone alla seduzione di rinunciare alla fine a se stessa e al suo niveau cristallizzato, in nome di un successo troppo mondano? E poi, in secondo luogo, che cosa mostriamo, in quanto filosofi, facendoci pagare?15 “Che cosa mostriamo, in quanto filosofi, facendoci pagare?” Un ulteriore timore, per un’ulteriore possibile figuraccia, si aggiunge al precedente. Questa volta non più di ordine epistemologico (il non riconoscere una parte di mondo, pena appunto la caduta, che fa ridere la donna di Tracia), ma innanzitutto ontologico (il rinun13. Non a caso già nel 1975 Allen dichiarava: “Fra tutti i grandi uomini famosi, quello che avrei voluto essere io è Socrate” (W. Allen, Effetti collaterali, cit., p. 33). 14. Per una semplice ragione: la relazione che essa intrattiene con il denaro deve sempre essere, o quanto meno apparire, al di sopra di ogni sospetto. 15. G. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 79.

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ciare al proprio modo di essere: alla grande festa della vita, racconta una delle più antiche scene della filosofia, attribuita al leggendario capostipite Pitagora, il filosofo non si reca per commerciare ma solo per osservare lo spettacolo).16 Un timore che da ontologico si fa subito etico (il non fare la cosa giusta, pena un altro tipo di caduta, della quale nessuno ride): “Che cosa mostriamo, in quanto filosofi, facendoci pagare?”. Una domanda su cui vale la pena di soffermarsi. Il discorso si è spostato di livello, così come le altezze da cui si rischia di cadere. Dalla filosofia naturale alla filosofia morale, dal problema del cosmo al problema dell’uomo. In breve: da Talete a Socrate. E questo “breve” – come “una cancellatura che lascia leggere ciò che sopprime”,17 si potrebbe dire, con le parole di chi ha fatto di questo “doppio gioco” uno dei perni del proprio agire filosofico (ma nel tentativo di scardinarne ogni fissità e chiusura) – già ci mostra ciò che manca. Il nervo (s)coperto di questo (non) passaggio e pericolo. In primo luogo il suo regista supremo: Platone; al quale dobbiamo oltre alla scelta delle scene anche quella degli attori; e quindi – e in secondo luogo – delle (s)comparse occorrenti per la configurazione del proprio discorso. Per la sua apparizione, appropriazione, conservazione, potremmo aggiungere con Michel Foucault, tanto per ridimensionare il ruolo di questo, pur supremo, regista; e per non dimenticare, in terzo e ultimo luogo, quello di un (altro) “campo pratico che è autonomo (benché dipendente) e che si può descrivere al suo livello (benché lo si debba articolare in qualcosa di diverso)”.18 Ovvero di quelle dinamiche d’emergenza e soprattutto di limitazione ed esclusione che sottostanno a ogni sua (e nostra) pratica discorsiva. “La più evidente, e anche la più familiare, è quella dell’interdetto”,19 ci dice Foucault, indicandoci subito dopo quella su cui tanto ha lavorato e per cui forse è mag16. Cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, I, 12 e VIII, 8. 17. J. Derrida, Posizioni. Scene, atti, figure della disseminazione (1972), ombre corte, Verona 1999, p. 15. 18. M. Foucault, L’archeologia del sapere (1969), Rizzoli, Milano 1999, p. 164. 19. Id., L’ordine del discorso (1971), Einaudi, Torino 2004, p. 5.

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giormente ricordato: “Non più un interdetto, ma una partizione (partage) e un rigetto”.20 E su una partizione e un rigetto sembra giocarsi, a un altro livello, anche la posta meno visibile, ma non meno cospicua, di questo secondo pericolo avvertito da Achenbach. In particolare su quella che fa propria l’opposizione del vero e del falso quale ulteriore criterio d’esclusione, e che, con chiaro riferimento a Nietzsche, Foucault chiama “volontà di verità”: “Partizione storicamente costituita, senz’altro. Poiché, già nei poeti greci del VI secolo, il discorso vero – nel senso forte e valorizzato del termine – il discorso vero per cui si aveva rispetto e terrore, quello al quale bisognava pur sottomettersi, perché regnava, era il discorso pronunciato da chi di diritto, e secondo il rituale richiesto; era il discorso che diceva la giustizia e attribuiva a ciascuno la sua parte; era il discorso che, profetizzando il futuro, non solo annunziava quel che stava per accadere, ma contribuiva alla sua realizzazione”.21 Poi, come sappiamo, qualcosa muta. Nuove forme di verità entrano in scena. E con esse nuove divisioni ed esclusioni, timori e pericoli, che riecheggiano ancora nelle (non) parole di Achenbach. Torniamo dunque al suo quesito e proviamo a immaginare il “discorso vero” cui sembra sottomettersi: che cosa mostriamo, in quanto filosofi, facendoci pagare? Di essere forse dei sofisti? È questo il pericolo adombrato e da evitare per non passare, in tutta questa storia, direttamente dalla parte del torto? Achenbach in realtà non risponde, non dice nulla a tale proposito. E questo è già di per se stesso significativo. Un silenzio che ritroviamo in tanta parte della letteratura specialistica sulla consulenza filosofica. Il meno che si può dire è che denota un certo imbarazzo, il più è che il “prodigioso macchinario”,22 per quanto arrugginito, continua a funzionare. L’“anatema” di Platone non smette di incombere. E con esso tutto il peso di una tradizione, e di una ri-partizione, che continua a ordi20. Ibidem. Sulle quali, tra l’altro, non ha lavorato di meno uno dei suoi più grandi amici/nemici, se è vero che “decostruire” la storia della filosofia è, tra le diverse cose, “un determinare ciò che tale storia ha potuto dissimulare o interdire, quando si è fatta storia, appunto, attraverso questa repressione interessata” (J. Derrida, Posizioni, cit., p. 15). 21. M. Foucault, L’ordine del discorso, cit., p. 8. 22. Ivi, p. 11.

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nare e disporre i “dentro” e i “fuori” del proprio “discorso”. E di quelle stesse pratiche discorsive che pur dichiarano di volerne rinnovare le linee e le derive, senza però fare i conti, o cercando di farli fin troppo bene, con questi suoi presupposti, inseparabili da quelle “strategie di potere” su cui si concentrerà l’attenzione del quasi ultimo Foucault.23 Sentiamo allora la prosecuzione del suo discorso:24 “Ed ecco che un secolo più tardi la più alta verità non risiedeva più ormai in quel che il discorso era o in quel che faceva, bensì in quel che diceva: un giorno è venuto in cui la verità si è spostata dall’atto ritualizzato, efficace e giusto, d’enunciazione, verso l’enunciato stesso: verso il suo senso, la sua forma, il suo oggetto, il rapporto con la sua referenza. Tra Esiodo e Platone si è stabilita una certa partizione, che ha separato il discorso vero e il discorso falso; partizione nuova perché ormai il discorso vero non è più il discorso prezioso e desiderabile, poiché non è più il discorso legato al potere. Il sofista è cacciato”.25 Cacciato, il sofista avrà sempre meno luogo. “Questa volontà di verità, come gli altri sistemi d’esclusione, poggia su di un supporto istituzionale: essa è rinforzata e riconfermata insieme, da tutto uno spessore di pratiche come la pedagogia.”26 D’ora in avanti avranno luogo l’Accademia e il Liceo. Bisognerà attendere l’apparizione, la crescita e l’invecchiamento di un’altra forma di volontà di verità, perché una nuova stanza si renda ancora praticabile. Certo, non una camera, ma almeno un corridoio sul quale sostare. Il ricordo e il timore di quella prima cacciata tuttavia permane; anzi si raddoppia, perché ora sono due le case cui chiedere asilo.27 Questa volta onorerà se non la madre almeno il padre.

23. Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 2005. 24. Come ci avverte Mauro Bertani in effetti: “Tutto ciò non deve farci dimenticare che siamo comunque di fronte a un discorso solenne. L’ordine del discorso è infatti il testo della lezione inaugurale di Foucault al Collège de France pronunciata il 2 dicembre 1970” (M. Bertani, “Postfazione”, in M. Foucault, L’ordine del discorso, cit., p. 74). 25. M. Foucault, L’ordine del discorso, cit., p. 8. 26. Ivi, p. 9. 27. E se la “seconda” è quella che potrebbe permettere un’entrata senza identificazioni sconvenienti, che lo ricaccerebbero fuori, è anche quella da cui bisogna tenersi lontano per non ritrovarsi fuori prima ancora di essere entrati.

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Capra e cavoli Ma il rischio, come si dice in questi casi, è di curare il malato uccidendo il paziente. A scanso di equivoci, in altre parole, qui non si tratta affatto di segnalare “il ritorno del sofista”, come titolava un caustico articolo di Roger Scruton alcuni anni fa,28 semmai il disatteso auspicio per un ritorno, in definitiva, mancato e ancora mancante, se non nei suoi aspetti di “rottura” meno destabilizzanti e critici. Non si tratta neanche di ridurre la questione al semplice livello da cui siamo partiti, la cui incongruenza può essere ora così riarticolata: al di là di ogni, per quanto legittimo e per molti versi plausibile, desiderio e sforzo di professionalizzare la cosa, proprio alcuni dei suoi elementi più propri, continuerebbero a tenerla, per la sua stessa salvaguardia e coerenza, al di fuori di tale ambito. In particolare riconoscere in Socrate l’ispiratore primario del proprio agire,29 il quale, come noto, non ha mai voluto “accettare da nessuno né un dono né una paga”.30 Si tratta piuttosto di cominciare a scorgere in questo “riconoscimento” il rischio di un ritorno fin troppo ossequioso e acritico, a quella tradizione – e ri-partizione – che è all’origine della propria stessa esclusione, proprio perché all’origine di quella stessa filosofia “degenerata” di cui la consulenza filosofica – sempre con le parole di Achenbach – dovrebbe essere “la sfida”.31 Il rischio, in altri termini, di ricollocare quest’ultima al di qua di se stessa, al di qua di ciò che pur afferma di perseguire, riproponendo, a un altro livello, proprio ciò da cui si vorrebbe distinguere.32 28. R. Scruton, The Return of the Sophist, “The Times”, 11 agosto 1997 (disponibile al seguente indirizzo: http://www.geocities.com/Athens/Forum/5914/press/scruton.html/). Un articolo che reitera pedissequamente quel gesto d’esclusione (cattiva coscienza inclusa), senza riconoscere alcun possibile sovrappiù in gioco. 29. “Io non critico. Constato e procedo per un’altra strada: una strada che parte da Socrate” (G. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 19). 30. Senofonte, Apologia di Socrate, La Vita Felice, Milano 2004, p. 41; cfr. anche Platone, Apologia di Socrate, 31b-c. 31. Cfr. G. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 142. 32. Inclusa quella strana situazione di cui parla Foucault in una lezione del 27 gennaio 1982, “ovvero il fatto che, parallelamente alla progressiva diffusione della pratica di sé, il personaggio del filosofo di professione – che almeno a partire da Socrate, come sapete, era sempre stato accolto con non poca diffidenza, e che aveva suscitato parecchie reazioni negative – diventa a sua volta sempre più ambiguo” (M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France 1981-1982, 2001, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 130-131).

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Le avvisaglie non mancano. Basti pensare a come la “cosa” stia già mostrando, a diversi livelli, quella autoreferenzialità che Achenbach imputa alla filosofia accademica. Di questa tendenza, il libro del consulente canadese Peter Raabe, “il primo – e tuttora unico – ‘manuale’ di consulenza filosofica a essere pubblicato nel mondo”,33 ne è un chiaro esempio. Come rileva, in una sua recensione all’edizione italiana, Ermanno Bencivenga, “gli esigui riferimenti a Platone, Aristotele e Kant impallidiscono, nel libro di Raabe, di fronte alla sua straordinaria conoscenza della letteratura ‘specializzata’ di consulenza filosofica; si ha l’impressione di assistere a uno di quei seminari (a pagamento) in cui gli psicoterapeuti [!] si informano con rapidità ed efficacia su quel che ‘tira’ nella loro comunità”.34 In questo modo (e ciò può valere anche per i corsi di formazione che stanno nascendo in questi anni nel nostro paese, mutuando i propri assetti dal mondo accademico e prescindendo da qualsiasi effettiva domanda), quasi a riflettere quella sintomatologia del pensiero di cui ci si vorrebbe prendere cura,35 si rischia di riprodurre un meccanismo di riciclaggio e di smaltimento analogo a quello denunciato da Achenbach più di vent’anni fa: in cui i “consulenti filosofici”, come quei “filosofi, alimentati dallo stato nelle scuole superiori della Germania dell’Ovest, sono impegnati principalmente nel fornire un self-service filosofico, nel quale loro stessi sono gli unici clienti”.36 A questo punto, potremmo provare a riformulare la questione in questi termini: al di là di ogni, per quanto legittimo e per certi versi plausibile, desiderio e sforzo di dar vita alla cosa, facendola uscire in qualche modo da una certa tradizione, proprio alcuni dei suoi elementi più propri (compreso questo stesso desiderio e sforzo), continuerebbero a tenerla sostanzialmente dentro, discono33. N. Pollastri, “Introduzione. Un primo ‘manuale’ per l’apprendista consulente filosofico”, in P. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica (2001), Apogeo, Milano 2006, p. XVI. 34. E. Bencivenga, Cercasi consulente pratico di felicità, “tuttoLibri”, supplemento di “La Stampa”, 10 giugno 2006. 35. “L’esperienza di girare in qualche modo in tondo” (G. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 66). 36. Ivi, p. 58.

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scendone rilevanti aspetti di possibile distinzione, a cominciare dal principale: il ritorno a una “filosofia pratica”.37 L’imbarazzo della questione economica, a questo punto, è solo un lieve riverbero di una più ampia difficoltà, di cui l’appello a Socrate può rimanere comunque l’emblema più rilevante e proprio. E questo non tanto per il fatto che, come ci avvertono Enrico Berti e Franco Volpi, un attento esame della storia del concetto “dovrebbe indurre, per correttezza, a usare l’espressione ‘filosofia pratica’ solo nell’ambito della tradizione aristotelica”.38 Ma perché proprio nella concretezza di questa dimensione la sua figura sembra ancora più la posta di un rientro che di un rilancio;39 più di un’“intesa” che di una sfida. Come scrive Blumenberg, in quel libro da cui siamo in qualche modo partiti: “A Socrate e alla sua autodescrizione dell’individuarsi della filosofia è intrinseca una carenza che fa apparire assai poco meditata la dedizione dell’avanguardia della filosofia pratica a questo capostipite: una mancanza di socializzazione”.40 Dato che in fondo “ciò che Socrate aveva scoperto, dopo aver abbandonato la filosofia naturale, era la sfera della concettualità per le cose dell’uomo; ma anche da questa si mancava la realtà dell’immediato, la quale di conseguenza si trasformava in un trabocchetto. Infatti la teoria della prassi non è meno teoria della teoria delle stelle”.41 Un trabocchetto che farà di Socrate il “martire” della verità del 37. In questo senso, ricalcando, e un po’ forzando, una nota osservazione di Derrida, si potrebbe forse aggiungere che “non potendo operare fin dal momento che si dichiara, se non all’interno della “teoria”, questa rivoluzione contro la “teoria” rischia di avere sempre la dimensione limitata di ciò che si chiama, nel linguaggio appunto del ministero degli interni, una agitazione” (cfr. J. Derrida, “Cogito e storia della follia”, 1963, in La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, p. 46). 38. E. Berti, Filosofia pratica, Guida, Napoli 2004, p. 5; cfr. anche F. Volpi, Che cosa significa “filosofia pratica”? Per una storia del concetto, “Paradigmi”, 19, 2001, pp. 587-597. 39. Cfr. F. Volpi, “La rinascita della filosofia pratica in Germania”, in C. Pacchiani (a cura di), Filosofia pratica e scienza politica, Francisci Editore, Abano Terme (PD) 1980, p. 29. 40. H. Blumenberg, Il riso della donna di Tracia, cit., p. 19. 41. Ivi, p. 18. Continua Blumenberg: “La ‘rivoluzione socratica’, che doveva far scendere la filosofia dal cielo e darle da indagare il più prossimo di tutti i temi – ‘cosa è, e che cosa alla natura dell’uomo, a differenza degli altri esseri, conviene fare e patire’ –, non aveva trasformato in nulla l’azione teoretica: aveva solo sottratto il suo oggetto alla dimestichezza quotidiana, portandolo a quella distanza in cui esso appare non meno esotico degli astri” (ibidem).

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concetto e del valore assoluto della scelta morale, a scapito di quella della vita. E in cui rischia di cadere anche questo movimento, nel momento in cui lo eleva a modello e irrigidisce la propria critica su quello che in fondo, adesso, può essere solo un falso problema, e una falsa alternativa. Dietro la denuncia della partizione teorico/pratico, insomma, rischia di uscire in qualche modo rafforzata una partizione ben più dispotica e arrogante (di cui Socrate può essere ancora la più illustre maschera e il suo “discorso”42 la più palese attestazione), unitamente a quella che Nietzsche chiama la sua seduzione più grande, “la vera e propria Circe dei Filosofi”,43 di quelli, cioè, che Tibor Fischer chiamerebbe “la gang del pensiero”. Cos’era scritto sulla copertina di quell’esilarante romanzo?44 “Avere in mano una pistola è come essere dalla parte giusta in un dialogo socratico.” Chi è il consulente? Questo discorso, più o meno indirettamente, si lega a un altro nodo sensibile messo in scena dal film di Allen: se Dobel risolve i dilemmi esistenziali al giovane Falk, non per questo è in buone relazioni con se stesso e il mondo; tutt’altro, basti pensare che è stato in manicomio, e ha provato la camicia di forza, per aver tentato di far fuori il suo analista a colpi di estintore. Ora, scansando ogni possibile riferimento metaforico di questa specifica sequenza, la stravaganza, al confine tra il ridicolo e il tragico, di questo personaggio trova un’altra curiosa corrispondenza nella stravaganza del filo42. “La grande tradizione del dialogo, a partire da Socrate fino alla diatriba stoico-cinica, mostra in maniera convincente che l’altro […] tutto sommato non ha il compito di parlare, e comunque sia quel che gli si fa dire fornisce semplicemente, al discorso del maestro, un modo e un’occasione per insediarsi e svilupparsi. Non esiste autonomia del suo proprio discorso, non esiste una funzione specifica per il discorso di chi viene diretto. Fondamentalmente, infatti, il suo ruolo è quello di conservare il silenzio. E la parola che gli è strappata, la parola che gli è estorta, quella che da lui viene estratta, quella che viene in lui suscitata, per mezzo del dialogo o della diatriba, non sono altro, in fondo, che dei modi intesi a mostrare che solo nel discorso del maestro risiede la verità nella sua interezza, lì e soltanto lì” (M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., pp. 325-326). 43. F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali (1881), Adelphi, Milano 1996, p. 5. Anche in questo caso gli indizi non mancano, a cominciare da tutta la retorica giustificatoria sulla povertà di senso e di autenticità del nostro tempo. 44. T. Fischer, La gang del pensiero (1994), Garzanti, Milano 1998.

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sofo così come si mostra nella storia. A partire, come abbiamo visto, dai suoi prototipi più arcaici, Talete (entro il limite del ridicolo) e Socrate (fino al limite del tragico), che nel Teeteto dice di sé: “Sono il più stravagante [atopos] degli uomini e genero soltanto aporia”.45 Anche in questo caso, insomma, il film coglie nel segno, toccando uno dei punti più imbarazzanti della questione; e da entrambi i suoi lati. Se da una parte, infatti, la messa in scena di questa stravaganza, (s)coprendo l’insita idiosincrasia tra la figura del filosofo (essenzialmente, e necessariamente, “un cittadino sfasato”46) e quella del consulente (decisamente, e necessariamente, più equilibrato47), ci riporta al timore iniziale di Achenbach: “Con una tale reputazione, si può seriamente pensare il filosofo come consulente?”;48 dall’altra, mostrando che tale “sfasatura” (e reputazione) non è per forza un limite (al di là di tutto, e a differenza del suo inappuntabile analista, Dobel risolve i problemi a Falk), non fa che ridimensionarlo; ridimensionando pure lo sforzo in cui troppo spesso si traduce: quello di dare un’immagine di rispettabilità e affidabilità che, a ben guardare, poco si confà al primo, e molto – forse appunto troppo – al secondo. In definitiva quindi ci mostra che considerare la “consulenza” e la “filosofia” come fatti convergenti può comportare non solo fare una mediazione dove esiste una distinzione, ma anche e, in un’ottica di professionalizzazione, soprattutto il rischio di farla a scapito della seconda. Ora, se da un lato tutto ciò fa entrare in gioco quella domanda che Achenbach definisce “il fondamento della consulenza filosofica”: la “più imbarazzante e per questo meticolosamente evitata, ‘chi è il filosofo?’”,49 dall’altro ci fa pensare che non meno imbarazzante, e forse per questo evitata dallo stesso Achenbach (o, più

45. Platone, Teeteto, 149a. 46. P. Riffard, I filosofi: vita intima (2004), Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 41. 47. Da lui ci si aspetta, infatti, “sedute regolari, puntualità; che sia una persona quadrata, ragionevole” (J. Hillman, in Id., M. Ventura, Cent’anni di psicoanalisi. E il mondo va sempre peggio, 1992, Rizzoli, Milano 2005, p. 48). 48. G. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 40. 49. Ivi, p. 29.

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semplicemente, troppo in fretta assimilata alla prima) è piuttosto la domanda: chi è il consulente? Nondimeno, provare a rispondere alla prima è forse ancora il modo migliore per cominciare a mettere a fuoco la suddetta distinzione, senza per questo voler negare (semmai in vista di) una possibile mediazione.50 E non a caso sarà ancora la figura di Socrate in una sorta d’ironia doppia (Gregory Vlastos la chiamerebbe “complessa”51) e capovolta, a sostenerci in questo tentativo. In essa, infatti (e ora, precisamente, in quello che sempre Vlastos definisce il suo “paradosso centrale”52), si può rintracciare non solo il “diritto” (e i possibili inciampi) di questa “mediazione”, ma anche il suo più inaspettato “rovescio” (e rilancio). Chi è il filosofo? All’inizio della prefazione al libro già citato di Pierre Riffard, Maurizio Ferraris mette in scena un ipotetico spassoso siparietto di philosophical counseling, che, a differenza di quello ancor più ipotetico, ma non meno spassoso, preso a prestito da Allen e messo in scena all’inizio di questo scritto, comincia (e finisce), almeno a prima vista, subito male. Il supposto consultante, infatti, non fa a tempo a entrare nello studio del supposto consulente che già si chiede “perché diavolo è finito lì, e come possa scappare”.53 Un velocissimo surreale scambio di battute e la consulenza si chiude con questa riflessione di Ferraris: “Il Cliente tornerà a casa nelle condizioni di partenza ma, e questo è il punto che vorrei sottolineare sin dall’inizio, era proprio questo che si aspettava dalla consulenza, se ha un minimo di sincerità con se stesso. Dal consulente non si aspettava saggezza, né 50. In questa prospettiva, l’interesse di un personaggio come David Dobel (“ufficialmente”, non dimentichiamolo, né “filosofo” né “consulente”), sta proprio nel riuscire a incarnare entrambe. 51. “In cui ciò che è detto è, e al tempo stesso non è, ciò che s’intende” (G. Vlastos, Socrate: il filosofo dell’ironia complessa, 1991, La Nuova Italia, Firenze 1998, p. 17). 52. Ivi, p. 4. 53. M. Ferraris, “Prefazione all’edizione italiana”, in P. Riffard, I filosofi: vita intima, cit., p. IX.

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consiglio, né conforto, ma solo la rassicurante sensazione che anche quelli che credono di saperla lunga, più lunga degli altri o comunque più lunga di lui, sono dei disgraziati e dei pasticcioni qualsiasi, dei poveri diavoli nel migliore dei casi”.54 Conclusione interessante perché a suo modo, come a suo modo l’opera di Allen, mette in scena una componente essenziale di quella che ora potremmo anche chiamare la “pratica filosofica” di Socrate (la sua famosa ironia, in effetti, come leggiamo in ogni dizionario,55 si fonda su una dissimulazione analoga); e in questo modo ci permette di cominciare a immaginare una possibile risposta alla domanda su cui ci siamo lasciati, “chi è il filosofo”? Ci aiuta dunque, ma ancor più ci può aiutare, a questo punto, la celebre definizione del filosofo formulata nel Simposio da Platone, attraverso il discorso di Diotima riportato da Socrate. Dove quest’ultimo assurge a modello stesso del filosofo: colui che, come Eros, “sta in mezzo fra la sapienza e l’ignoranza”.56 E qui per sapienza si può intendere anche saggezza, se è vero che, come ci insegna Pierre Hadot, “nella tradizione greca il sapere, ovvero la sophia, è più un saper-fare, un saper vivere che un sapere puramente teorico. Si troveranno infatti le tracce della sophia nel modo di vivere, non nel sapere teorico, del Socrate filosofo che Platone evoca, appunto, nel Simposio”.57 Continua quindi Hadot: “Ci sono, dice Diotima, due categorie di esseri che non filosofano: gli dei e i saggi, perché appunto sono saggi, e gli stolti, perché credono di essere saggi”:58 Nessuno degli dei filosofa o desidera diventare sapiente [sophos], infatti, lo è già; e se esiste qualche altro saggio, neppure quello filosofa. D’altra parte neppure gli ignoranti filosofano 54. Ivi, pp. IX-X. 55. “Il procedere speculativo del celebre filosofo che, dichiarandosi ignorante, chiede lume all’altrui sapienza, per mostrare come questa si riveli inferiore al suo stesso ‘sapere di non sapere’” (G. Devoto, G.C. Oli, Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 2002, alla voce “Ironia”). 56. Platone, Simposio, Adelphi, Milano 1980, 203e. 57. P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica? (1995), Einaudi, Torino 1998, p. 46. 58. Ibidem.

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né aspirano a diventare saggi: infatti è questa la disgrazia dell’ignoranza, quella di credere di essere belli, buoni e saggi quando invece non lo si è. Colui che non è consapevole di essere privato di una cosa non desidera ciò di cui non pensa di avere bisogno.59 Chi saranno allora i filosofi – chiede Socrate a Diotima – se non lo sono né i sapienti (o saggi), né gli ignoranti (o stolti)? “Sono quelli che si trovano a metà strada fra i due, e Amore è uno dei due”,60 risponde appunto Diotima. E Hadot, dopo aver rilevato l’identificazione tra Socrate, il filosofo ed Eros, tutti e tre accomunati da una carenza (di saggezza, bellezza e bene), dalla consapevolezza di questa carenza e dal desiderio di compensarla, trae le conseguenze del discorso di Diotima con un’analisi che vale la pena riportare per intero: In apparenza, non vi è nulla di più semplice e di più naturale di questa posizione intermedia del filosofo: a metà strada tra il sapere e l’ignoranza. Si potrebbe supporre che gli sarà sufficiente praticare la sua attività di filosofo per superare definitivamente l’ignoranza e raggiungere la saggezza. Ma le cose sono alquanto più complesse. In effetti, sullo sfondo della contrapposizione tra saggi, filosofi e stolti, affiora uno schema logico di divisione di concetti di estremo rigore, che non dà spazio a prospettive troppo ottimistiche. Diotima, infatti, contrappone saggi e non-saggi, esprime due termini opponendoli uno all’altro in una contraddizione che non ammette vie di mezzo: o si è saggi, o non lo si è. Da questo punto di vista, non si potrà dire che il filosofo sia un termine intermedio tra saggio e non saggio, perché egli non è “saggio”, anzi, è necessariamente e decisamente “non-saggio”. Egli è dunque votato a non raggiungere mai la saggezza. Tuttavia, tra i non saggi, Diotima ha stabilito una divisione: ci sono quelli che non sono coscienti della propria non-saggezza: gli 59. Platone, Simposio, cit., 204a. 60. Ivi, 204b.

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stolti; poi ci sono quelli che sono coscienti della propria nonsaggezza: i filosofi.61 Queste parole di Hadot ci conducono dritti all’ultimo nervo coperto della questione, uno dei suoi nodi più paradossali e inconfessabili: nella consulenza filosofica il “filosofo”, quel non-saggio (e non-sapiente) cosciente della propria non-saggezza (e non-sapienza), è innanzitutto il consultante, non il consulente. Solo chi ha raggiunto una tale consapevolezza, infatti, può chiedere una consulenza: chi “sa”, chi è già “saggio” (o “sapiente”), evidentemente, non ha alcuna ragione per chiederla (ma molte, semmai, per avviare un’attività di consulenza: di solito, infatti, gliela si chiede, come fa Socrate con Diotima), mentre chi non sa di non esserlo (l’ignorante o stolto del discorso di Diotima) semplicemente non è nella condizione per poterla chiedere (ma non in quella di non poterla offrire), dato che ignora la sua stessa mancanza. In questo senso, è esattamente il socratico sapere di non sapere a fondare l’evento “consulenza”,62 tanto più, dunque, l’evento “consulenza filosofica”. Ma non dal lato del consulente (come per certi aspetti già vorrebbe una parte di questo movimento63) bensì da quella del consultante. È quest’ultimo colui che, prima di ogni altro, porta con sé la domanda filosofica per eccellenza, la domanda del perché? In lui, prima di ogni altro, si manifesta una carenza,64 la consapevolezza di questa carenza (di sapere, saggezza, bellezza, bene ecc.) e il desiderio di compensarla che è all’origine di ogni filosofare. È quindi lui, in definitiva e innanzitutto, il cercatore, l’interrogante. E solo nella misura in cui il primo sa assumere l’atteggiamento del secondo può dirsi a sua volta filosofo, ma non più consulente (e viceversa).65 61. P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, cit., p. 47. 62. A ben riflettere, infatti, ciò vale per qualsiasi tipo di consulenza. 63. Quella, tra l’altro, “filosoficamente” più illuminata e che fa capo al suo fondatore Achenbach. 64. “La sensazione di non essere ciò che si dovrebbe essere” la chiama Hadot (Id., Che cos’è la filosofia antica?, cit., p. 31). 65. E solo nella misura in cui il secondo riesce a mostrare come il supposto sapere del primo si riveli inferiore al suo stesso sapere di non sapere, si può parlare di riuscita della consulenza, come riscoperta e rilancio della propria “competenza” filosofica.

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Riconoscere questa antecedenza, per la consulenza filosofica, significa riconoscere la sua più propria (im)possibilità: Socrate, Eros, il filosofo, non è il consulente, ma il consultante per eccellenza. La domanda che entra in gioco a questo punto, allora (forse davvero la più imbarazzante e per questo finora evitata), è la seguente: e se passasse proprio da questo riconoscimento (“pratico” prima ancora che “teorico”) la sfida più alta e pericolosa della (e per la) consulenza filosofica?

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Materiali

Abbiamo ritenuto significativo presentare in questa sezione alcuni contributi di Neri Pollastri, cui è riconosciuto un ruolo di spicco nell’introduzione in Italia della consulenza filosofica. Pollastri si è formato a Firenze ed è stato uno dei fondatori di “Phronesis”, la più nota tra le associazioni nazionali del settore. Ha scritto, tra l’altro, Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza filosofica e alle pratiche filosofiche (pubblicato da Apogeo, Milano 2004, nella collana diretta da Umberto Galimberti e coordinata da lui stesso), e ha accumulato un’intensa esperienza sulle pratiche specifiche. Il primo contributo è il resoconto di una sperimentazione pilota condotta nel 2003-2004 in un quartiere di Firenze per conto dell’amministrazione pubblica locale. Il secondo contributo è la descrizione-elaborazione di un caso di consulenza individuale. Si tratta di un documento quanto meno singolare nel contesto di diffuso silenzio che sembra per ora avvolgere questo genere di esperienze.

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Il consulente filosofico di quartiere NERI POLLASTRI

1. Introduzione Il presente articolo non ha finalità “teoretiche”, non vuole proporre nuove prospettive sulla consulenza filosofica, né discutere alcuni dei suoi rilevanti nodi problematici e neppure presentare dei resoconti di relazioni di consulenza. Di tutto questo si discute in abbondanza, in Italia e all’estero, e io stesso ho scritto varie cose fino a oggi.1 In queste pagine darò per già noti i risultati – provvisori e talvolta precari – del dibattito filosofico-pratico, per condividere invece con i lettori un’importante esperienza professionale che ho avuto la fortuna di poter fare a cavallo tra le estati del 2003 e del 2004 come “consulente filosofico di quartiere” nella mia città, Firenze. Di tale esperienza descriverò la genesi – importante, perché testimonia le modalità con cui mi fu possibile intraprendere un’attività professionale ufficialmente riconosciuta, sponsorizzata e sovvenzionata dalla pubblica amministrazione –, il procedere – sebbene nelle sue generalità – e le ragioni della sua conclusione – banali, eppure da tenere in gran conto, in quanto mostrano il genere di difficoltà a cui si va incontro nel promuovere e praticare un’attività così innovativa, anzi per certi aspetti perfino “sovversiva”, come la consulenza filosofica. Ma di quell’esperienza mostrerò anche alcuni “esiti”. Più precisamente, presenterò un serie di dati statistici relativi ai consultanti Esperienza e valutazione della sperimentazione condotta a Firenze nel biennio 2003-2004. 1. Per una bibliografia selezionata sulla materia e una mia bibliografia personale, rinvio al mio sito, www.consulenza-filosofica.it/.

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con i quali ebbi modo di lavorare e, cosa forse ancora più interessante, un’ampia selezione di loro impressioni, giudizi e valutazioni su quanto essi stessi avevano svolto nelle relazioni di consulenza, sugli effetti che queste avevano avuto su di loro, sugli insegnamenti e i “vantaggi” che ne avevano tratto. A mia conoscenza, ciò che sto presentando è solo il secondo “studio empirico dei risultati” del lavoro di consulenza filosofica che sia stato finora prodotto, dopo quello pubblicato da Ran Lahav nel 2001 e oggi edito in Italia con il titolo L’efficacia della consulenza filosofica: un primo studio sui risultati.2 Come già allora scriveva Lahav, nel momento in cui la consulenza filosofica, uscendo dall’ambito delle pure discussioni in merito alla sua teorica “praticabilità”, si affaccia sul palcoscenico sociale con l’ovvia pretesa di trovarvi un riconoscimento, è importante “far vedere che l’approccio funziona realmente”.3 Sebbene sia vero che la valutazione del suo “funzionamento” metta in gioco anche una serie di considerazioni critiche in merito al significato sociale di termini come “funzionare” ed “efficacia”,4 in questa occasione tralascerò in larga misura questo genere di riflessioni critiche – che ci ricondurrebbero all’ambito della riflessione filosofica – e mi limiterò anch’io a illustrare soprattutto “l’impatto della consulenza filosofica sui consultanti”,5 appunto attraverso le loro stesse dichiarazioni, così come sono state avanzate in risposta a un questionario che ho loro sottoposto. Sarà il dibattito della comunità di ricerca praticofilosofica (e filosofica in genere) a dover valutare gli aspetti positivi e negativi emergenti da tali testimonianze. 2. Genesi Nella primavera del 2003, quando ormai da oltre due anni svolge2. R. Lahav, “L’efficacia della consulenza filosofica: un primo studio sui risultati” (2001), in Comprendere la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche (2004), Apogeo, Milano 2004, pp. 79-104. 3. Ivi, p. 79. 4. Per una drastica critica all’odierno concetto di “efficacia”, cfr. N. Pollastri, Il pensiero e la vita, Apogeo, Milano 2004, in particolare p. 103. 5. R. Lahav, “L’efficacia della consulenza filosofica: un primo studio sui risultati”, cit., p. 80.

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vo ufficialmente la professione di consulente filosofico a Firenze, fui contattato da un funzionario dell’amministrazione pubblica della città, operante presso il Quartiere 4, incaricato dal presidente del Consiglio del medesimo quartiere di valutare la possibilità di istituire un servizio di consulenza filosofica, finanziato dall’istituzione pubblica. La mia posizione in città era già piuttosto nota: avevo svolto per un anno e mezzo dei Café Philo in un noto locale del centro (il caffè storico-letterario “Giubbe Rosse”, antico ritrovo di intellettuali, poeti e letterati); avevo svolto – già nel 2001 – un fortunato ciclo di conferenze sulle “pratiche filosofiche”, patrocinate da un’altra amministrazione pubblica; più volte ero stato intervistato sulle pagine locali dei quotidiani più letti in città. Inoltre, l’anno precedente avevo fatto richiesta di svolgere un ciclo di conferenze anche presso il quartiere che adesso mi cercava, anche se poi la cosa non aveva avuto esiti. Ciò nonostante la mia attività professionale non si poteva definire florida: nei due anni avevo avuto una trentina di consultanti, con i quali le relazioni erano state di durata variabile e solo una metà erano proseguite sufficientemente a lungo da permettermi di trarne delle valutazioni significative. Raramente avevo avuto più consultanti contemporaneamente. Avevo inoltre trovato molte difficoltà a promuovere il mio lavoro, dato che le pubblicità sono in genere molto costose e, in questo caso, possono risultare controproducenti: il servizio è troppo personale perché il potenziale utente possa affidarsi a un nome trovato “freddamente” su un giornale, per giunta in uno spazio propagandistico a pagamento. Perciò accolsi la proposta con grande entusiasmo, ma anche con qualche timore: sarebbe stata forse un “test” fondamentale per l’appeal della professione, per le sue possibilità di affermarsi e, non ultimo, per le mie proprie capacità di svolgerla soddisfacentemente. Va anche aggiunto che il quartiere in questione, nella zona chiamata “Isolotto” urbanizzata negli anni cinquanta e sessanta con la costruzione di case popolari particolarmente curate e “umane”, ha una lunga tradizione di attenzione agli aspetti sociali e che da oltre quindici anni era amministrato da un presidente – Eros Cruccolini 88


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– ormai notissimo in città per la sua sensibilità e per il coraggio nel proporre servizi spesso all’avanguardia. Dopo un breve colloquio con il funzionario, mi incontrai direttamente con il presidente, il quale mi raccontò di aver avuto occasione di ascoltare l’audiolibro di Platone è meglio del Prozac6 – il lavoro divulgativo sulla consulenza filosofica di Lou Marinoff – e di averne particolarmente apprezzato la critica alla “patologizzazione” di ogni difficoltà esistenziale e l’idea della possibilità di tornare a usare il pensiero, la comprensione chiarificatrice, la filosofia, per affrontare le vicende critiche della vita. Mi disse che, da questo punto di vista, la consulenza filosofica si sposava a suo parere tanto con l’idea di prevenzione, quanto con quella di promozione della cultura e che gli sembrava molto interessante e importante effettuare una sperimentazione sul territorio. Ne definimmo molto rapidamente i contorni: nel quartiere era già presente uno sportello di ascolto, denominato Il bandolo, che io avrei affiancato, lavorando in autonomia e negli orari lasciati liberi dagli altri operatori. Stabilimmo un numero di ore globali per la sperimentazione e una loro distribuzione, che prevedeva due ore settimanali fino alla fine dell’anno, dopo le quali avremmo valutato l’andamento del servizio e deciso se e come proseguire. Trattandosi di una sperimentazione, rimanevo tuttavia libero di adeguare l’impegno settimanale alle richieste che mi sarebbero giunte, con il solo accordo di tenere aggiornata l’amministrazione del lavoro che stavo svolgendo. Non vi furono altre formalità (se non le pratiche amministrative del caso), dato che l’amministrazione aveva per proprio conto preso informazioni su di me, né fu necessaria una selezione, dato che risultavo l’unico operatore attivo sul territorio con le competenze necessarie per svolgere il servizio. Iniziai così alla fine di maggio, con una serie di tre conferenze di presentazione, una alla settimana, presso la biblioteca comunale di quartiere (che ebbero una media di cinquanta presenze a sera), e il 29 maggio con il lavoro allo sportello. 6. Cruccolini è non vedente.

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3. Il servizio Se tra le mie perplessità e i miei timori aveva trovato posto la paura di rimanere per ore tristemente in attesa che il telefono squillasse, fui prontamente smentito: due giorni prima dell’avvio del servizio, ricevetti la prima telefonata per un appuntamento e il giorno stesso dell’inaugurazione, oltre alla persona che mi aveva contattato, ricevetti una nuova visita. Questi primi consultanti erano venuti a conoscenza del servizio attraverso la mia prima conferenza, che era stata a sua volta pubblicizzata attraverso volantini e manifesti distribuiti e affissi nei vari locali del quartiere (asili nido, biblioteche, uffici pubblici). In seguito, per alcuni mesi un mio breve scritto di presentazione comparve sul giornale di quartiere e della cosa si parlò in città con una certa insistenza, grazie a una conferenza stampa di presentazione del servizio alla quale partecipai assieme al presidente del quartiere e all’assessore alla Pubblica istruzione. Il successo di pubblico del servizio si manifestò in modo imprevedibilmente vistoso fin dai primi due mesi, durante i quali incontrai nove persone, per un impegno totale di cinquanta ore – vale a dire l’80% di quanto inizialmente previsto per l’intera sperimentazione semestrale. Di conseguenza, concordammo con l’amministrazione un rinnovo del contratto, in considerazone del fatto che la cittadinanza apprezzava l’offerta di servizio. Un analogo rinnovo fu poi necessario a fine anno, dato che nel corso dell’autunno il successo del servizio crebbe ancora e si innescò il processo del “passaparola”, probabilmente la “via maestra” per la diffusione di un’attività di questo genere: quasi quotidianamente ricevevo telefonate di persone alle quali i consultanti avevano parlato della consulenza e che volevano essere ricevute. Nei mesi di novembre e dicembre saturai quasi interamente le ore di disponibilità dello studio presso il quartiere, ricevendo per tre pomeriggi la settimana fino a cinque persone e in alcuni casi fissando appuntamenti anche nei giorni festivi. Sfortunatamente, a quel punto divenne chiaro che la sperimentazione stava dando frutti paradossalmente troppo buoni e che l’amministrazione non poteva far fronte economicamente al90


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le richieste. Iniziammo dunque a pensare a un “filtro” e ipotizzammo una serie di possibilità pratiche (un numero limitato di incontri a persona, eventualmente gestibili da me stesso in funzione del tipo di problema e della sua “intensità” nella vita del consultante, oppure una valutazione delle possibilità economiche del richiedente), ma non ci fu il tempo per applicarle, a causa di due vicende politiche connesse e concomitanti: il taglio dei finanziamenti governativi agli enti locali e una polemica politica sulle spese dei medesimi. Il taglio dei finanziamenti venne varato dal governo all’interno della finanziaria di quell’anno e a fronte di esso divenne subito chiaro che il quartiere non era in grado di reperire le risorse per far proseguire un servizio nuovo come la consulenza filosofica, a prescindere dal fatto che avesse indubitabilmente incontrato l’interesse dei cittadini. Ma la manovra del governo produsse, come sempre avviene in questi casi, una serie di reazioni, e in particolare quella del sindaco di Firenze Leonardo Domenici, in quanto anche presidente dell’ANCI, Associazione dei comuni italiani. La risposta del governo venne per bocca di Giuseppe Vegas, sottosegretario al Ministero dell’economia e finanze (all’epoca ricoperto da Giulio Tremonti), il quale il 10 novembre 2003 dichiarava a Palazzo Madama di aver rilevato una serie di “spese inutili”7 effettuate dalle amministrazioni locali: “Vegas ha svolto una breve ricerca su Internet ricavandone alcune sorprese: ‘Un Consiglio di quartiere del Comune di Firenze ha finanziato un corso di filosofia del dottor Neri Pollastri. Il Comune di Carini spende 768mila euro per progetti tra cui uno sui Gusti che si perdono, l’altro sulla conoscenza del dialetto […]’”.8 Sarebbe forse interessante capire se il sottosegretario fosse realmente a conoscenza di cosa fosse quel mal denominato “corso di filosofia” (sic!), e ancor più se avesse idea del gradimento che dell’investimento avevano i cittadini (come vedremo, più che buono). In ogni modo, le sue dichiarazioni innescarono un’ulteriore pole7. “Il sole-24 ore”, 309, 11 novembre 2003, p. 2. 8. Ibidem. Ma sulle dichiarazioni di Vegas cfr. anche “la Repubblica”, 11 novembre 2003, p. 28 e http://www.regioni.it/regioni_it/NOVEMBRE_03/12_112003/n163.htm#4/.

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mica a livello locale, portata avanti da suoi compagni di partito e alleati politici – a Firenze non già al governo, bensì all’opposizione. Il tema della “inutile” spesa per il consulente filosofico tornò ripetutamente in Consiglio comunale, fino al punto da far inserire lo stanziamento (peraltro complessivamente piuttosto modesto, nell’ordine di tredicimila euro lordi in oltre un anno) in un ricorso alla Corte dei conti. Vale la pena di sottolineare che i ricorrenti, in risposta ad alcune mie comunicazioni personali, si scusarono, augurandomi i migliori successi per il mio “serio e importante lavoro”, senza però far cessare la polemica. In conseguenza di tutto questo, l’amministrazione locale si vide nell’impossibilità di proseguire il servizio, né io feci alcun tentativo per evitare ciò: quando si giunge a “limare” gli orari di apertura degli asili nido e si chiudono i distaccamenti delle biblioteche pubbliche, non è serio insistere per far ottenere finanziamenti alla consulenza filosofica. Va detto che il servizio sperimentato a Firenze era un progetto piuttosto raro, ma non unico al mondo: qualcosa di simile era stato finanziato dall’amministrazione della città di Berlino una quindicina d’anni prima, con la collaborazione del consulente filosofico Alexander Dill,9 e in Europa sono molte le amministrazioni cittadine (per esempio, quella di Parigi) che finanziano seminari di pratica filosofica di gruppo. Inoltre, il servizio era stato inserito all’interno di un progetto pilota di “Sistema integrato di salute” che, seguendo le direttive dell’Organizzazione mondiale della sanità, mirava a creare una rete di prevenzione alle patologie favorendo la collaborazione dei molteplici operatori sociali attivi sul territorio, sulla base del dato – ormai consolidato – che circa l’80% delle patologie non hanno cause sanitarie ma scaturiscono da errati stili di vita. Per un progetto del genere, la chiarificazione del proprio modo di essere e di guardare al mondo, la crescita della consapevolezza individuale, lo sviluppo del “retto pensare” sono elementi essenziali – elementi che un consulente filosofico è probabilmente la 9. Cfr. M. Berg, Philosophische Praxen im deutschsprachigen Raum, Die Blaue Eule, Essen 1992, p. 76 sgg.

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persona più adatta a promuovere. Ma tutto questo sembra purtroppo rimanere oggi ben lontano dall’orizzonte che i politici sono in grado di osservare. 4. Un resoconto ragionato Narrata la vicenda del servizio, passiamo adesso a descriverne l’esperienza concreta, basandoci in parte su “freddi” resoconti di dati, in parte sulle risposte – spesso assai più appassionate – date dai fruitori del servizio a un questionario che sottoposi loro dopo la sua sospensione. I dati del servizio. Il servizio ebbe inizio il 29 maggio 2003 e si concluse nel settembre del 2004. Complessivamente incontrai trentatré persone, operando in totale per trecento ore.10 Sette erano uomini (21%), le rimanenti ventisei erano donne (79%).11 La maggior parte degli incontri ebbe durata oraria; solo nel primo periodo scelsi, in poche occasioni, di attuare la prassi che prediligo, ovvero di lasciare maggior tempo ai primi incontri.12 Poi, per ottimizzare il servizio pubblico, utilizzai la più canonica sessione di un’ora. In sette casi (21%) il rapporto non andò oltre il primo incontro: in uno perché il consultante si trasferì in un’altra città; in due perché aveva già un rapporto con un altro professionista e scelse di proseguirlo; in altri due la visita era dovuta poco più che a cu10. Una parte delle quali, all’esaurimento del contratto, fu svolta come lavoro di volontariato per concludere alcune relazioni in corso. 11. I dati riportati in questo paragrafo sono tratti dalle informazioni e dalle comunicazioni direttamente offertemi dai consultanti nel corso dei nostri incontri. 12. Su suggerimento di Shlomit Schuster, la quale ritiene che la riflessione filosofica abbia tempi dipendenti dalla personalità dell’individuo e dal tipo di problema che si affronta, fin dalle mie prime esperienze ho cercato di lasciare che i primi incontri avessero tempi del tutto liberi e decisi dal consultante. Per questo più di una volta mi sono trovato a svolgere incontri di durata anche superiore alle quattro ore. Per non aggravare in modo insostenibile il costo, in questi casi chiedo solo il 50% in più della semplice tariffa oraria. Questa scelta è impegnativa per la gestione della professione (è infatti impossibile fissare più appuntamenti nella medesima mezza giornata), ma apre straordinari spazi all’incontro ed è estremamente proficua, giacché permette di mettere a fuoco gran parte della situazione problematica sin dalla prima volta. La mia esperienza mi ha poi convinto che le sedute senza limite di tempo divengono solitamente inutili – anzi, in taluni casi addirittura controproducenti – dopo il secondo o il terzo incontro.

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riosità; negli ultimi due perché le problematiche erano tali che il consultante non riuscì a trovare la forza per tornare.13 In undici casi (33%) il rapporto fu più lungo di dieci incontri e una parte di essi (16%) si spinse fino a una ventina di incontri.14 Sei consultanti (19%) sono poi tornati, a distanza di tempo, in consulenza privata. Dodici (36%) sono stati presenti, più di un anno dopo, alla presentazione pubblica del mio libro sulla consulenza filosofica. A ventisei di loro ho inviato il questionario; l’85% di essi (ventidue) me lo ha rimandato compilato. Il 60% dei consultanti aveva un’età compresa tra i quaranta e i cinquant’anni; il 15% aveva tra i trenta e i quarant’anni; il 9% era di età superiore ai cinquanta; il 6% aveva tra i venti e i trent’anni; solo uno era inferiore ai vent’anni (e peraltro si presentò solo al primo incontro). L’estrazione sociale era molto diversificata e difficile da schematizzare. Comunque, il 40% era disoccupato, con attività lavorative fortemente precarie, o studente (quest’ultima categoria raggiunse il 10%) e perciò in gravi difficoltà a sostenere i costi di una consulenza privata. In condizioni economiche non sufficienti ad affrontare la spesa di una serie di consulenze private era anche un altro 12% del campione. In totale, oltre la metà dei consultanti avrebbe avuto oggettive difficoltà a svolgere una serie di incontri a pagamento. Per quanto riguarda il livello culturale, al 40% di laureati faceva da contraltare un 10% privo di diploma di scuola superiore. Il 60% erano però discreti lettori – un dato senz’altro in controtendenza con la media nazionale. Veniamo adesso alle ragioni della loro visita. Il 36% presentava difficoltà relazionali di vario tipo (sul lavoro, in famiglia, o semplicemente nel generico rapporto con gli altri). Il 54% aveva problemi sentimentali; particolarmente elevato il numero dei casi dei separati (24%, di cui solo il 6% erano uomini) e delle donne single 13. Le valutazioni sulle motivazioni sono quelle che ho personalmente tratto dagli incontri e non sono state sottoposte a conferma degli interessati. Vanno perciò intese come puramente indicative. 14. Cfr. più avanti per il prezioso insegnamento datomi da questa estensione.

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(10% escludendo le separate). Nel 30% dei casi vi erano problemi riconducibili a questioni di senso dell’esistenza, in genere connessi ad altre difficoltà, come quelle relazionali o sentimentali. Infine, il 21% si trovava a fronteggiare difficoltà più particolari e specifiche: lutti, comportamenti sgraditi ma non controllabili, gravi malattie, complesse situazioni familiari. Come si può dedurre dalle percentuali indicate, in numerosi casi era piuttosto difficile “isolare” un singolo problema fin dall’inizio: perlopiù, anche nella consapevolezza del consultante al suo arrivo, più problemi si legavano in modo apparentemente indissolubile. Ipotizzando una scala da 1 a 5 per indicare lo stato di tensione emotiva, commozione e prostrazione dello stato d’animo dei consultanti al momento del loro arrivo allo studio, si può stimare una composizione di questo genere: 1) serena curiosità su aspetti della loro esistenza – 12% 2) preoccupazione diffusa, ma priva di rilevanti disagi – 22% 3) preoccupazione marcata, umore ora prostrato, ora reattivo, ma discreta capacità di condurre la propria vita – 30% 4) forte stato emotivo, momenti di ossessività, imbarazzi nella quotidianità – 21% 5) forte prostrazione, serie difficoltà nel gestire l’esistenza quotidiana – 15%. Il 57% dei casi aveva avuto precedenti esperienze con psicoterapeuti o psichiatri, la maggior parte con risultati giudicati insoddisfacenti. Nel 12% la relazione con psichiatri o psicoterapeuti rimase aperta anche nel corso della consulenza filosofica: in tutti questi casi, anche a giudizio dei consultanti stessi, la consulenza produsse in tempi brevi alcuni effetti significativi che le lunghe relazioni di psicoterapia non erano riuscite a ottenere. Tutti questi consultanti affermarono, sebbene in forme diverse, che a loro parere ciò era dovuto principalmente al fatto di essere stati lasciati liberi di fare o di non fare certe scelte, assumere o meno determinate posizioni o valori, e di essere stati soltanto messi chiaramente al corrente del significato e delle conseguenze delle loro azioni. In breve, di essere stati considerati persone adulte e responsabili, e rimandati alla loro responsabilità, piuttosto che essere messi “sotto 95


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tutela”. Ciò aveva fornito loro le ragioni per trovare anche le motivazioni delle scelte. Il 9% dei casi presentava qualche rischio, e infatti era già sotto un controllo medico, che richiesi esplicitamente che fosse mantenuto come condizione del proseguimento del rapporto. È interessante notare che tutti quei casi furono particolarmente ricchi e soddisfacenti, sia ai miei occhi sia a quelli dei consultanti. Con nessuno dei consultanti ho mai fatto uso di testi scritti e solo occasionalmente e in modo indiretto ho consigliato dei libri. Occasionalmente, ho avuto esplicita richiesta di suggerimenti di lettura, di fronte ai quali ho sentito la chiara insufficienza della letteratura “filosofico-pratica” attualmente disponibile sul mercato: molti dei consultanti non avrebbero potuto affrontare testi specialistici, mentre la maggior parte dei lavori “divulgativi” alla loro portata a me noti non toccavano i temi che stavano loro a cuore. Invece, in circa 20% dei casi sono stato io stesso a scrivere dei brevi testi – talvolta su esplicita richiesta – che i consultanti hanno utilizzato come bussola d’orientamento e promemoria di ciò che stavamo elaborando assieme. In alcuni casi sono stato informato del fatto che il consultante, tra un incontro e l’altro, prendeva appunti o comunque scriveva delle personali riflessioni. Solo in pochi casi il dialogo ha fatto riferimento in modo diretto e significativo a pensatori o teorie filosofiche. In genere, coerentemente a quella che è la mia personale concezione della consulenza filosofica, il lavoro si è svolto sul dettato del consultante ed è consistito soprattutto nell’analisi linguistico-concettuale dei termini usati per descrivere lo stato d’animo e la situazione, nella critica dei valori e dei presupposti di quella descrizione, nella ricerca comparata di alternative di pensiero, nel cooperativo riesame delle vicende successive agli incontri e del nuovo comportamento tenuto dal consultante, nell’osservazione analitica delle forme relazionali e sociali, nella rilettura dei tratti essenziali dell’essere umano (pensiero, sentimenti, emozioni ecc.), e così via.15 15. Per maggiori dettagli sulla mia concezione della consulenza filosofia, rimando al mio già citato Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche.

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Per quanto riguarda una valutazione degli esiti, in questo caso fatta esclusivamente dal mio punto di vista e limitata ai ventisei casi che ebbero un reale decorso, posso stimare un 38% (il 30% del totale) di esiti positivi, nei quali il rapporto è stato interessante, ricco e soddisfacente da entrambe le parti e ha alla fine prodotto qualcosa di importante nella vita del consultante; un 54% (il 41% del totale) di esiti buoni, nel quale il rapporto è stato interessante, ha soddisfatto il consultante e gli ha lasciato insegnamenti, senza però permettergli – almeno al momento dell’interruzione16 – un diretto miglioramento nella gestione del suo problema di partenza; infine, un 8% (il 6% del totale) di esiti negativi, con interruzione repentina del rapporto a uno stadio nel quale neppure per me vi era stata soddisfazione. Per meglio intendere tanto queste stime, quanto la consulenza filosofica in se stessa, vale la pena di ricordare che l’obiettivo della consulenza non è quello di “risolvere” il problema. La filosofia non “risolve” problemi, piuttosto li studia, analizza, comprende e contestualizza, aprendo così nuove possibilità e prospettive anche per la loro soluzione. La valutazione dell’esito di una relazione di consulenza non può dunque incentrarsi sulla “soluzione” del problema, anzi, paradossalmente si potrebbero dare casi di “soluzione” non valutabili, però, come “buone” relazioni di consulenza – laddove, per esempio, la via intrapresa dal consultante, per quanto positiva, fosse incoerente, priva di consapevolezza o accidentale. È vero, tuttavia, che la professione di consulente è anche legata alla domanda che solitamente spinge gli individui a recarsi dal filosofo e che è connessa a un ben determinato problema che ingombra la strada e strazia l’esistenza del consultante, “togliere” (in qualche senso) il quale è e rimane un momento importante del rapporto. La stima sopra proposta, dunque, tiene conto di quanto il problema sia apparso modificato e ridimensionato, se non risolto, nel quadro esistenziale dei consultanti al termine delle relazioni, ma tiene anche conto del modo in cui la loro concezione della realtà, le loro ca16. Come si vedrà in seguito, a detta dei consultanti in molti casi il processo di riflessione e di rielaborazione non si è però fermato al momento dell’interruzione del rapporto, ma è proseguito anche in seguito, sulla base di quanto sviluppato nel corso degli incontri.

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pacità di pensiero, il livello della loro consapevolezza fosse cresciuto, e in che modo, nel corso dei dialoghi. Il questionario. Una migliore valutazione della mia stima sarà comunque possibile alla luce dei commenti che i consultanti stessi hanno prodotto rispondendo al questionario a cui facevo cenno in precedenza. Esso nasceva sulla falsariga e come ampliamento del questionario usato da Ran Lahav per produrre il suo già menzionato studio di valutazione della consulenza filosofica.17 Il mio questionario riprendeva, adeguandole, buona parte delle domande proposte da Lahav e ne aggiungeva alcune altre, presentandosi alla fine nella forma seguente. Questionario 1. Perché hai deciso di recarti dal consulente filosofico? 2. Gli incontri rispondevano alle tue aspettative, oppure sono stati una sorpresa inattesa? 3. Come descriveresti i tuoi incontri di consulenza a qualcuno che non ne avesse mai fatto esperienza? 4. Le conversazioni contenevano elementi filosofici? In caso affermativo, quali sono stati? In caso (anche parzialmente) negativo, cosa mancava? 5. Come ti sei sentita/o durante gli incontri? 6. Ci sono state cose che ti hanno disturbata/o? Se sì, quali? 17. Cfr. R. Lahav, “L’efficacia della consulenza filosofica: un primo studio sui risultati”, cit. Sebbene importante e indicativo, quello studio appariva peraltro viziato da significative parzialità che ne limitavano il significato generale. Infatti, a parte il fatto – notato anche da Lahav – che l’efficacia in termini di conseguimento della saggezza dovrebbe essere valutata su tempi lunghi, impossibili da prendere in considerazione in uno studio classico, la tipologia del campione scelto da Lahav era troppo omogenea, essendo interamente composta da studenti universitari accolti gratuitamente. Ciò fa sì che la cultura e le aspettative esistenziali del campione fossero sempre piuttosto alte; che l’urgenza del problema non fosse necessariamente elevata, mancando – come del resto nel caso del mio campione – il riscontro dell’impegno economico; che la relazionalità con il consulente ricalcasse sempre da vicino quella con il “docente”; che, infine, i consultanti fossero tutti individui che stavano attraversando una “normale” evoluzione legata al proprio processo di crescita e che in tal modo i problemi manifestati (così come le soluzioni in qualche modo attese) fossero legate a tale specifico passaggio esistenziale. Da questo punto di vista, il campione del mio studio appare molto più variegato e, per questo, attendibile, sebbene anche qui manchi il riscontro economico come misura dell’urgenza.

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7. Ci sono stati momenti particolarmente positivi? Se sì, quali? 8. Complessivamente, gli incontri sono stati positivi? Hanno significato qualcosa per te nel periodo in cui vi hai partecipato? 9. Che influenza hanno adesso sulla tua vita? 10. Quando hai interrotto, avresti avuto piacere di proseguire? Se sì, perché non l’hai fatto? 11. Pensi che un giorno possa nuovamente esserti utile fare nuovi incontri di consulenza? 12. Credi che l’amministrazione pubblica dovrebbe tornare a investire risorse per offrire ai cittadini questo servizio? 13. Quando sei venuta/o in consulenza, avevi preso in considerazione la possibilità di recarti da uno psicoterapeuta? Se sì, perché hai scelto il filosofo? 14. Se in passato hai fatto esperienze di psicoterapia, puoi indicare di che tipo (se lo sai) e di che durata? 15. Quali differenze e quali affinità hai riscontrato nei confronti della consulenza filosofica? 16. Altri commenti. Il questionario fu inviato accompagnato da una lettera che ne spiegava il senso e l’utilità, assicurando il più totale riserbo, per garantire il quale si invitava a rimandarlo in forma anonima. La quasi totalità delle risposte – come già accennato, l’85% di coloro a cui era stato inviato – giunsero però firmate, o in busta con indirizzo. Prenderemo adesso in considerazione le risposte a ciascuna domanda. 1. Perché hai deciso di recarti dal consulente filosofico? A questa prima domanda, informativa, le risposte dei consultanti sono state solo in parte ovvie. Solo pochi infatti hanno indicato direttamente il malessere che li aveva condotti dal consulente (per esempio “per cercare aiuto al mio mal di vivere”, “per un problema nella sfera lavorativa”, “avevo problemi con il mio ragazzo”), mentre i più hanno posto l’accento sulle motivazioni per fare proprio la scelta di andare da un filosofo. Così, il 25% ha indicato tra le motivazioni la “curiosità” (“intellettuale”, “per il metodo”, per “una spiegazione 99


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filosofica del mio malessere”), alcuni hanno posto in risalto l’importanza della filosofia, altri ancora (circa il 20%) hanno indicato la loro esigenza di rivolgersi a qualcuno che non fosse uno psicologo. Questo indica che già all’inizio esisteva nei consultanti un orientamento nella ricerca di qualcosa di diverso (“mi è parsa una proposta innovativa”, scrive uno di loro) per far fronte alle loro difficoltà, qualcosa che la filosofia, anche ai loro occhi perlopiù profani, quanto meno poteva incarnare. 2. Gli incontri rispondevano alle tue aspettative, oppure sono stati una sorpresa inattesa? A questa domanda solo una parte esigua dei consultanti ha risposto nel modo che si potrebbe ritenere più ragionevole, ovvero “non avevo delle aspettative particolari, dato che non sapevo di preciso cosa fosse la consulenza filosofica”; i rimanenti si sono divisi pressoché a metà tra chi riteneva gli incontri corrispondenti alle proprie aspettative e quelli che ne erano rimasti sorpresi. Tra i primi, alcuni non si riferivano però al “contenuto” della consulenza, ma al fatto che si aspettavano (o meglio, speravano) di essere ascoltati e compresi, e così era avvenuto. E anche tra i secondi la sorpresa stava più nella “qualità” che nel contenuto: “Sono stati una piacevole sorpresa nel senso che hanno più che corrisposto alle mie aspettative”; “mi hanno stupito la sensibilità e l’umanità della persona che li teneva”; “non pensavo di trovarmi così a mio agio, così bene”; “non mi aspettavo che un servizio pubblico gratuito fosse comunque molto accurato e ben condotto”. Tra le risposte, la seguente è quella che maggiormente rende conto del lavoro svolto in consulenza e della percezione avutane dal consultante: “La sorpresa è stata verificare la validità del metodo e le capacità del consulente di inquadrare ogni spunto di riflessione in un contesto filosofico più ampio”. 3. Come descriveresti i tuoi incontri di consulenza a qualcuno che non ne avesse mai fatto esperienza? Questa è una delle domande più interessanti, giacché spesso perfino un consulente filosofico ha difficoltà a descrivere con semplicità cosa sia una consulenza filosofica senza fare riferimento a descrizioni comparative o a esempi. 100


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Ecco per esteso alcune delle risposte, che – a mio parere – dimostrano come i consultanti siano alla fine i migliori giudici di cosa sia la consulenza. Credo che sia un po’ come parlare dei propri problemi a un amico, però senza il coinvolgimento emotivo di quest’ultimo e con maggiore razionalità. Discussioni, colloqui, scambi di valutazioni, approfondimenti di tematiche esistenziali, riflessioni sui perché di un disagio e possibili alternative. Indagine razionale della propria e altrui esistenza. Come un dialogo costruttivo, con grande capacità di ascolto e di condivisione da parte del consulente, che sa inquadrare la situazione e trarne gli eventuali elementi positivi concreti, che consiglia di valorizzare. Incontri utili/umani/costruttivi e di grande chiarezza/crescita personale. Degli incontri tra due persone con ruoli e posizioni differenti – professionista e utente – tra cui avviene un’interazione mentale potenzialmente fertile, creativa. Gli incontri di consulenza filosofica danno la possibilità di esporre liberamente a qualcuno i propri problemi senza timore di essere “misurati” o “giudicati” ma con la consapevolezza che l’esperienza del consulente verrà messa a disposizione per aiutare nell’individuazione delle cause, dei motivi che hanno portato alla situazione contingente. Piacere di esprimere e di essere compresi. Occasione per riflettere sulle metafore dei nostri comportamenti. Possibilità di andare oltre. Trovare un’ipotesi di sperimentazione e cambiamento. 101


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Incontri a carattere colloquiale dove ci si sente a proprio agio e non si vive l’angoscia di essere psicanalizzato. Si parla pienamente di ciò che ti viene in testa o di ciò che vuoi parlare. A volte poi (spesso… poco… non si sa) arriva qualcosa che ti aiuta: una considerazione, una particolare punteggiatura data al tuo racconto, un riferimento filosofico. Qualcosa si chiarisce, prende luce e si va un po’ più avanti. Tra le molte, quella che mi ha personalmente più colpito – diciamo pure gratificato – è però la seguente: “A chi me lo ha chiesto, ho risposto così: sei seduta davanti a una persona gentile e carina, che ti fa parlare e ti ascolta e ti dà una versione dei fatti diversa da quello che pensi e vedi tu”. La ragione della mia soddisfazione non sta solo negli elogi personali rivoltimi, ma soprattutto nel fatto che questa risposta, come e più delle altre, mostra che la consultante ha realmente percepito ciò che cercavo intenzionalmente di fare: promuovere in lei la capacità di guardare la realtà con occhi diversi, di valutarla con nuovi criteri, e di permetterle di confrontare la sua precedente visione del mondo con altre e diversamente articolate concezioni. 4. Le conversazioni contenevano elementi filosofici? In caso affermativo, quali sono stati? In caso (anche parzialmente) negativo, cosa mancava? Qui le risposte sono state più oscillanti, in ragione del fatto che non tutti avevano una chiara concezione di cosa si indicasse con l’aggettivo “filosofico”. Ciò non è strano, dato che nessuno dei consultanti era un esperto in filosofia e solo pochi ne avevano una conoscenza almeno chiara. Inoltre, va anche sottolineato che il dibattito specialistico internazionale svoltosi in questi anni tra i consulenti ha evidenziato come la difficoltà di trovare una definizione chiara e – soprattutto – condivisa su cosa sia “filosofico” è grande anche tra gli stessi filosofi. Forse, anche in questo caso c’è qualcosa da imparare, ascoltando alcune delle risposte date dai consultanti.

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Sì: modelli etici comportamentali, dono, vulnerabilità, rapporti affettivi. Sì, si sono fatti riferimenti a libri e pensieri filosofici. Sì, le conversazioni contenevano elementi filosofici: vita, morte, dolore, sofferenza, coraggio e vigliaccheria e anche il perché della gioia e della ricerca della felicità. Gli elementi filosofici sono stati sempre presenti nei nostri incontri: a volte espliciti, con riferimenti diretti a delle ideologie (il pensiero socratico, il marxismo, Schopenhauer, le concezioni del pensiero corrente); più spesso si ricavavano dal vissuto particolare e dalle concezioni ideologiche personali di fondo che lo sostengono. Non contenevano, sicuramente, elementi filosofici cattedratici, ma qualcosa di filosofico esistenziale di fondo sicuramente sì. Non mi pare mancasse niente. Penso di sì: riuscire a vedere il più possibile obiettivamente le cause e gli effetti dei pensieri e delle azioni. Riflessioni sull’esistenza, l’amore, la convivenza, il malessere, le nostre reazioni ai problemi della vita quali la morte e la malattia, la separazione, la “caduta” delle nostre reazioni, lo smarrimento di fronte a nuove situazioni. Non sono un filosofo e quindi non sono in grado di dire se il contenuto era filosofico o meno; sicuramente venivano affrontate le mie problematiche da un punto di vista diverso, nuovo. Abbiamo, per esempio, parlato molto del tempo e della difficoltà che oggi viviamo poiché “il tempo non è mai abbastanza”. Elementi filosofici di riferimento da utilizzare come spunti. Lo 103


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spazio maggiore è stato dedicato alla ricerca di una filosofia personale come strumento per vivere meglio. Questo era il senso degli incontri. Va ricordato che, come accennavo, negli incontri sono stati piuttosto rari i riferimenti diretti alla “storia” della filosofia e a ben definite teorie filosofiche, cosa che qualcuno ha considerato una carenza: Forse le conversazioni partivano da fatti particolari di vita e poi veniva introdotto l’elemento filosofico: sarebbe stato interessante sviluppare più gli elementi filosofici e poi ricondurli al caso specifico. Mi sarei aspettata una sorta di “resettaggio” del mio modo di pensare, più astratto, più per categorie, meno legato ai problemi personali. Mi hanno però anche offerto degli spunti di pensiero notevoli e interessanti. Mi sono sembrati un po’ troppo simili a una psicoterapia. Al contrario, per altri i pochi accenni a filosofi e teorie erano già un elemento di difficoltà (“il riferimento a qualche filosofo mi coglieva impreparata. Mi sono vergognata della mia ignoranza. La scuola mi ha dato poco”), oppure di scivolamento nel freddo intellettualismo (“mancava il coinvolgimento del corpo e dell’emozione. Mi sentivo divisa, come se dal collo in giù fossi addormentata e la testa fosse impegnata in un supersforzo”). Complessivamente, però, le risposte evidenziano non solo la generale soddisfazione dei consultanti, ma soprattutto il fatto che le consulenze hanno costituito per essi un momento di deciso arricchimento nella loro consapevole comprensione di concetti chiave e temi esistenziali. 5. Come ti sei sentita/o durante gli incontri? Riporto le risposte a questo interrogativo con qualche imbarazzo, dato che per la mag104


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gior parte esse sono commenti sulla qualità della relazione tra me e i consultanti, il cui tono generale è molto positivo (“tranquilla, a mio agio. Libera di parlare di ciò che mi premeva”; “libera di parlare”; “bene”; “a mio agio e capìta, non giudicata”; “molto capìta”; “perfettamente a mio agio”). In generale, l’agiatezza e la libertà di parlare sono gli elementi che emergono ripetutamente. Solo alcune risposte offrono maggiori indicazioni sul contenuto percepito, al di là di un clima positivamente dialogico. Vediamone alcuni. In due parole: a mio agio. Ho avuto modo di parlare liberamente dei miei problemi, ho potuto superare le mie difficoltà nel capire me stesso e sono riuscito ad approfondire l’analisi di aspetti che altrimenti, senza aiuto esterno, non sarei stato in grado di approfondire. Mi permetteva di non venire travolta dalla tempesta emotiva che provavo, mi spingeva a dare un ordine e una forma verbale a dei contenuti per certi versi inesprimibili. Benissimo. Continui stimoli, desiderio di farmi domande e mettermi in gioco. Queste affermazioni mostrano la percezione di un lavoro di consapevole chiarificazione concettuale di aspetti altrimenti lasciati in balia dell’emotività – che è poi una delle intenzionalità che esplicitamente perseguo nel lavoro di consulenza. Ma tra le molte risposte addotte alla domanda, anche in questo caso una mi ha particolarmente toccato: “Bene, benissimo. Per il tempo che sei seduto in quella stanza, anche se parli di fatti tuoi, che ti sono successi, sei fuori dal mondo. Tutto è lontano, e possibile. Appena scendi le scale tutto è terribilmente così vicino”. Ancora una volta, al di là della gratificazione datami dal giudizio sul mio lavoro, quel che mi tocca è il fatto che il consultante conferma di provare sensazioni che corrispondono alle intenzioni del mio lavoro con lui. In particolare, qui traspare il potere di astrazione presente nelle riflessioni, sebbene queste abbiano per oggetto 105


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eventi e problemi concreti e personali, e l’effettiva creazione, nel corso delle consulenze, di un ambiente “separato e protetto” nel quale prendersi tempo per pensare secondo criteri diversi da quelli abituali, frenetici e utilitari, della vita quotidiana. 6. Ci sono state cose che ti hanno disturbata/o? Se sì, quali? Pochi i commenti da fare sulle risposte a questa domanda, tra le quali – accanto a una teoria di “no”, “niente”, “no, nessuna” – si segnalano solo due indicazioni legate all’ambiente: “No. Anzi sì, i rumori molto invadenti nella stanza accanto”; “l’ambiente pubblico, sempre così squallido e poco curato”.18 Oltre a esse, solo una risposta poneva l’accento su questioni concrete: “A essere sincera il mio turbamento quando ho realizzato che tu che svolgevi un’attività di consulenza eri anche un uomo. Non ho molta dimestichezza con l’universo maschile. Comunque durava poco”. L’osservazione coglie un possibile momento critico di ogni tipo di relazione tra uomini e donne, sul quale potrebbero essere svolte numerose riflessioni, ma che anche la stessa considerazione riportata mostra non essere materia da investire di importanza eccessiva, perché di fatto nella maggior parte dei casi non esorbita dalla ragionevolezza: si può non notare il fascino reciproco? E notarlo significa necessariamente anche subirlo? Personalmente, ritengo di no. 7. Ci sono stati momenti particolarmente positivi? Se sì, quali? In un breve lavoro sulla consulenza19 ho affermato che una delle difficoltà del suo studio e del suo insegnamento consiste nel fatto che nei suoi “casi” non è solitamente identificabile un “momento terapeutico”, vuoi perché, semplicemente, non vi è terapia, vuoi per18. Va detto che la sede degli incontri era in un prefabbricato degli anni sessanta, in precedenza adibito a scuola e poi a uffici pubblici, le cui stanze erano allora utilizzate per attività sociali di varia natura. Sebbene decoroso, lo stabile non è certo bello e nella stanza accanto a quella dove ricevevo talvolta si tenevano riunioni con numerose persone, talaltra qualcuno si preparava la cena… 19. Cfr. N. Pollastri, “In consulenza da un filosofo, per dar senso al racconto dell’esistenza”, in M. Montanari (a cura di), Consulenza filosofica: terapia o formazione?, L’orecchio di Van Gogh, Chiaravalle (An) 2006.

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ché il processo di riflessione solo raramente procede “per salti”, mentre normalmente è costante, continuo, quasi una caleidoscopica modificazione del quadro dei pensieri, che solo alla fine viene percepito come una figura compiuta e diversa da quella di partenza. Questa lettura trova conferma nelle risposte date a questa domanda dai consultanti, che non indicano quasi mai un “momento” o uno “stadio” della relazione, ma invece si soffermano su aspetti strutturali generali. Alcuni, per esempio, hanno dato risalto al valore complessivo degli incontri: Tutti gli incontri sono stati positivi in quanto ho ottenuto dei feedback utili per iniziare un lavoro personale. Per me tutti i sessanta minuti degli incontri sono stati positivi, dal primo all’ultimo, non ci sono stati momenti particolari. Era il giorno dell’appuntamento che era particolare (in senso positivo!). Direi che ogni appuntamento era particolarmente positivo, dal momento che ne uscivo molto più serena di come ero entrata. Altre risposte indicano sì momenti particolari delle relazioni, ma lo fanno riferendosi a essi come a situazioni stocastiche, senza considerarle stadi “decisivi” di un processo “necessario”: Quando parlando con il filosofo arrivavo a capire cose di me. È liberatorio. Sì. Li ritengo delle piccole illuminazioni con cui dopo quasi un anno vivo di rendita. Difficile dire quali. Chiarimenti, analogie interne ed esterne di modi di essere e di pensare. Rendermi conto che, anche al di fuori del momento dell’incontro, avevo ricevuto “la spinta” per riuscire a soffermarmi a pensare, ad analizzare le cose, le situazioni.

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L’effetto positivo degli incontri si estendeva anche dopo l’incontro stesso, come se venissero sbloccate, eliminate, alcune delle cause che mi impedivano di esaminare in modo più profondo, e comunque distaccato, le mie problematiche. Ogni tanto accade che una parola risuoni dentro di me in maniera particolare. Durante questi incontri è accaduto almeno due volte. Solo in poche risposte viene evidenziato, sebbene in modo in parte generico, un passaggio determinato e in certa misura strutturalmente fondamentale del rapporto: Aiuto nella comprensione e ulteriore recupero del rapporto con mia madre. Forse quando il consulente ha cercato di interpretare i miei sentimenti di disagio nel vivere e mi ha consigliato di sfruttare al meglio gli elementi positivi di affetto che la vita mi offre normalmente. Quindi, in generale si può affermare che le risposte confermino l’idea di un lavoro dialogico continuo e globale, nel corso del quale alcuni passaggi sono ovviamente maggiormente rilevanti perché portatori di contenuti specifici più qualificanti (particolari interpretazioni o teorie capaci di offrire nuovi spazi di comprensione, scoperte di presupposti fin lì celati, ecc.), ma che da soli non sarebbero sufficienti a dare una decisiva “svolta” al processo di riflessione, ricomprensione e presa di coscienza del consultante, che invece prende corpo lentamente e trova il proprio senso al termine della serie di consulenze e, spesso, perfino dopo la sua conclusione. 8. Complessivamente, gli incontri sono stati positivi? Hanno significato qualcosa per te nel periodo in cui vi hai partecipato? Le risposte a questa domanda sono state tutte indistintamente positive (sebbene si possa ovviamente ipotizzare che proprio chi non ha restituito 108


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il questionario avrebbe potuto rispondere negativamente). Molte di esse hanno posto l’attenzione sull’utilità della relazione in quanto tale, a prescindere dal suo contenuto: Sì, tutti gli incontri sono stati positivi, anche quando ho pianto. E sicuramente sono stati un grande aiuto per me. Sì, sono stati positivi. È stata una bella esperienza umana e intellettuale. Certamente sono stati positivi, e mi hanno aiutato moltissimo in un momento veramente critico. Sì, hanno significato un arricchimento positivo, un sentirsi meno soli e non “malati”, ma solo persone in momenti di fragilità. Altri consultanti, più significativamente, hanno risposto facendo riferimento all’instaurarsi di una riflessione lucida sul proprio modo di essere: Assolutamente positivi! Avevo le idee molto chiare. Dover rendere comprensibili certi fatti interni a un altro con cui si intrattiene un rapporto di stima e fiducia e avere degli incontri regolari mi stimolava a una rielaborazione continua e mi obbligava a fare chiarezza in me attraverso il mio interlocutore. Altri ancora hanno evidenziato come il processo di chiarificazione iniziato in consulenza non si sia fermato al termine degli incontri, ma sia proseguito in autonomia anche in seguito: Non solo in quel periodo. Continuo a elaborare. Ho utilizzato molto le riflessioni. Qualcosa è anche cambiato. Sì. Hanno aperto uno spiraglio che ha dato avvio a un percorso di crescita personale che tuttora sta continuando. 109


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Nell’incontro, l’altro a volte ti prospetta una lettura diversa del tuo racconto personale, insolita rispetto ai tuoi schemi. In questo senso gli incontri sono stati positivi. Sì, molto positivi. Hanno significato un miglioramento della mia depressione e della mia confusione. È a mio parere molto importante che quest’ultimo fenomeno sia stato sottolineato da un buon numero di persone, perché esso mostra, da un lato, come la consulenza abbia realmente fornito loro elementi sufficienti a innescare una riflessione non sporadica o legata alla presenza del consulente, dall’altro, che essa ha favorito la crescita della loro autonomia – un aspetto assai importante, quest’ultimo, dato il rischio sempre incombente di trasformare un rapporto cooperativo di ricerca in un mero “supporto emotivo”. Inoltre, l’effettiva promozione nel consultante di “capacità” di pensiero e riflessione autonoma corrisponde in buona sostanza a ciò che Peter Raabe e Ran Lahav, con termini diversi, indicano come la finalità più alta della consulenza, la più specifica e quella che la differenzia da ogni tipo di psicoterapia.20 Che i consultanti stessi abbiano percepito il conseguimento di questo obiettivo è pertanto parziale conferma della buona riuscita del lavoro. 9. Che influenza hanno adesso sulla tua vita? La questione trattata nel contesto della precedente domanda ritorna in modo più specifico in questa. Tuttavia, può apparire a prima vista deludente che diverse risposte rilevino come il lavoro non sia giunto a una “risoluzione” del problema, in alcuni casi in modo netto: “Non sono del tutto ‘guarita’; forse ne avrei bisogno ancora”; “mi sento più sicura e me stessa, ma so che ho ancora molto lavoro da fare”. In altri casi, l’assenza di “risoluzione” è però accompagnata dal20. Come è noto Raabe, nel suo Teoria e pratica della consulenza filosofica (2001), Apogeo, Milano 2006, indica nell’insegnamento delle competenze del pensare filosofico lo stadio più elevato della consulenza, quello che va al di là della mera elaborazione del problema, che potrebbe essere praticata anche in ambiti diversi dalla consulenza filosofica, mentre Ran Lahav ha parlato a più riprese del perseguimento della saggezza come dell’obiettivo principale e di più ampia portata del lavoro di consulenza (cfr. R. Lahav, Comprendere la vita, cit.).

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la chiara consapevolezza della maturazione della propria capacità di proseguire da soli: Nel parlare con te mi ascoltavo, ti ascoltavo. Mi conosco di più. Difficile rispondere: sicuramente molte cose sono da me viste anche da un’ottica diversa. Servono da chiave di lettura. Riesco ad affrontare le situazioni con maggiore distacco. Alcuni problemi rimangono, ovviamente, ma riesco a farli influire meno nella mia vita. Sono tuttora motivo di riflessione. Forse è presto per giudicare, penso che i frutti matureranno col tempo quando la comprensione intellettuale sarà diventata anche “di pancia” ma posso già dire che mi hanno permesso di mettere a fuoco alcuni miei atteggiamenti errati. Cerco costantemente di lavorare su quelle situazioni problematiche emerse durante gli incontri operando una continua analisi delle mie attitudini, abilità e comportamenti. Cerco di essere molto più a contatto con la mia sfera emotiva. In questo senso, una delle risposte coglie esplicitamente il senso della ricerca di una personale forma di “saggezza filosofica”, alla maniera di Lahav o della Lebenskönnerschaft di Achenbach:21 “In una interazione qualcosa si cede e si prende sempre, come in una reazione chimica. Non ho trovato nessuna risoluzione ai miei problemi né a un certo dolore di fondo, ma forse proprio nella rinuncia a trovare ‘la’ soluzione a tutti i costi e nell’accettazione di una realtà tanto complessa da sottrarsi a ogni interpretazione definitiva sta la formula per stare meglio”. 21. Cfr. G. Achenbach, Saper vivere (2001), Apogeo, Milano 2006.

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Infine, tra le risposte pervenute, due erano comunque decisamente negative: “A volte rifletto sugli argomenti che abbiamo trattato, ma confesso di non averci lavorato molto”; “nessuna”. Si può e si deve accettarlo senza troppi drammi e senza che cresca lo scetticismo sulla disciplina: è proprio qui che il consulente deve, lui per primo, essere un Lebenskönner e vivere con serenità e oggettività anche gli aspetti insoddisfacenti della sua attività. 10. Quando hai interrotto, avresti avuto piacere di proseguire? Se sì, perché non l’hai fatto? La maggior parte delle risposte a questo interrogativo hanno fatto riferimento alla sospensione del servizio pubblico da parte dell’amministrazione quale ragione primaria dell’interruzione. Solo nel 20% dei casi c’era però un’esplicita manifestazione di rammarico legata all’esigenza di proseguire l’esperienza e all’impossibilità economica di farlo privatamente; in alcuni la scelta veniva accettata in base all’esigenza di “lasciar posto ad altri” o di non gravare sulla spesa pubblica, forti dell’aver comunque ricevuto qualcosa di importante (“non l’ho fatto per non togliere spazio a chi aveva più bisogno di me. Mi ritenevo privilegiata per aver ricevuto in dono una consulenza così efficace. Non potevo abusarne”). Un 20% affermava comunque di aver interrotto volutamente, perché era “il momento giusto” o per “camminare con le proprie gambe”. Infine, giova ricordare che diversi consultanti si offrirono di fare pressione sull’amministrazione per far riprendere il servizio o di testimoniare sulla sua qualità nel caso che la Corte dei conti si fosse pronunciata negativamente sull’opportunità della spesa pubblica, mentre il 18% di essi tornarono per altri incontri qualche tempo dopo. 11. Pensi che un giorno possa nuovamente esserti utile fare nuovi incontri di consulenza? Non ci sono molti commenti da fare alle risposte date in questo caso, in quanto tutte erano semplicemente affermative. Le poche che aggiungevano qualcosa, lo facevano cercando di tener conto (in modo diretto o indiretto) del significato di una eventuale nuova esigenza di consulenza, come nei due casi se112


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guenti: “Spero di no, vorrebbe dire che starei di nuovo male”; “non lo so, e non me lo sto chiedendo”. 12. Credi che l’amministrazione pubblica dovrebbe tornare a investire risorse per offrire ai cittadini questo servizio? Coerentemente a quelle date alla precedente, le risposta a questa domanda auspicavano che l’amministrazione pubblica riuscisse a reperire le risorse per garantire ai cittadini un servizio del genere, sottolineando come in molti casi le difficoltà economiche rendano pressoché impossibile un’esperienza a pagamento. Il tono generale delle risposte più dettagliate può essere riassunto da quelle sotto riportate. Certamente, ci sono persone che troverebbero sicuramente beneficio e si recherebbero dal consulente con una facilità maggiore che da uno psicoterapeuta. La psicoterapia appare a molti ancora oggi un “demone”, il percorso è lungo, tortuoso e costoso, e “angosciante”. Decisamente sì. Di solito quando si dice che uno sta male, si pensa sempre a un male fisico e a un dottore che con una medicina lo risolve. I dottori sono dappertutto. In questi casi il malessere non è fisico, ma molto più profondo. E non sai dove andare. Non ci sono medicine per tornare a vedere il blu del cielo o il verde degli alberi, come era prima, occorre qualcuno che con pazienza ti ascolti, che ti faccia sentire a tuo agio, e che ti sappia dire le cose. Anche il modo in cui ti vengono dette è importante. Questo tipo di malessere ho riscontrato che è molto diffuso, purtroppo; ci dovrebbero essere più “dottori”. Quello che nessuno mette in conto è il tempo. Per tornare a vedere il mondo come prima occorre tempo, molto tempo. Ma il tempo mi sa che nessuno lo considera. Assolutamente sì. Per me che sono studentessa e non ho un lavoro è stato fondamentale il fatto che il servizio fosse gratuito. Altrimenti, avrei sicuramente rinunciato all’idea, perdendo l’occasione di un aiuto molto importante. 113


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13. Quando sei venuta/o in consulenza, avevi preso in considerazione la possibilità di recarti da uno psicoterapeuta? Se sì, perché hai scelto il filosofo? Come osservavo nel commentare le risposte alla prima domanda, sebbene i consultanti in genere non conoscano né la consulenza filosofica, né – con competenza – la filosofia, si deve tutto sommato riconoscere loro la capacità di individuare nel “filosofo” un tipo di “specialista” con caratteristiche che egli di fatto possiede, specie se ben addestrato a svolgere il suo compito nell’ambito specifico della consulenza. In particolare, la loro scelta è diretta a esso per la sua (da essi almeno presunta) capacità dialogica e conoscenza di molteplici “prospettive sul mondo”. Oltre a questo, incide molto la differenza dagli psicoterapeuti, ritenuti – per esperienza diretta o conoscenza indiretta – inadeguati alle loro esigenze. Quest’ultimo dato si evidenzia in molte risposte: No. Non avevo disagio. Solo voglia di capire qualcosa di più. Il filosofo per me era perfetto. No, in quanto il problema che ho portato al consulente filosofico era di ambito circoscritto e non attinente a disturbi della personalità. No, perché non ero malata. Il 65% dei consultanti che hanno dato risposta al questionario avevano avuto precedenti esperienze con psicoterapeuti, perlopiù non positive. Alcune delle loro affermazioni in proposito danno risalto anche alla differenza percepita nelle due diverse relazioni: Ho provato entrambi, il filosofo mi ha fatto sentire a mio agio, la psicologa è più rigida, mi mette più a disagio e con lei si crea un rapporto di dipendenza. Sì, tre anni da una psicoterapeuta. Ho scelto il filosofo per conoscere un’altra strada per comprendere me stessa, una strada dove vivere una parità nella relazione e nel dialogo. 114


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Una delle risposte evidenzia la convinzione a posteriori che quella del filosofo fosse una scelta più adeguata rispetto a quella di uno psicoterapeuta: Ho scelto il filosofo perché questo mi veniva offerto allora dal quartiere, ma comunque adesso penso che non essendo il mio un problema psicologico (nel senso di dipendente dalla mia psiche) ma un problema esistenziale dovuto a eventi tragici realmente accaduti, il filosofo fosse più adatto a darmi suggerimenti per riuscire ancora a vivere nel miglior modo possibile per me stessa. Il 12% dei consultanti hanno seguito gli incontri di consulenza contemporaneamente a sedute di psicoterapia e/o a una cura psichiatrica: Mi stavo già recando da una psicologa e da una psichiatra per la depressione. Ho svolto le due esperienze contemporaneamente. Al filosofo chiedevo un inquadramento generale dei problemi dell’esistenza e del pensiero svincolato dal modo un po’ morboso e cervellotico dello psicoterapeuta. Come già rilevato in precedenza, in tutti quei casi e dopo un numero quasi sempre breve di sedute, le persone in oggetto hanno preso decisioni assai importanti per modificare la loro situazione esistenziale, che il precedente lungo periodo di lavoro con i terapeuti non era stato sufficiente a far effettuare loro, e hanno dato come spiegazione il fatto di essersi sentiti più liberi e responsabili di una scelta (e dunque di un “cambiamento”) che viceversa nelle relazioni di psicoterapia si sentivano obbligati a produrre. In alcuni casi, ciò è stato considerato il frutto del “maggiore rispetto” che il filosofo aveva per loro, a paragone del terapeuta. Più che di rispetto, direi che probabilmente è la conseguenza del rapportarsi con i consultanti esclusivamente come persone, piuttosto che come malati, in115


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vestendoli di responsabilità ed esplicitando la loro totale libertà di rimanere, se lo preferiscono, anche interamente nella situazione problematica. 14. Se in passato hai fatto esperienze di psicoterapia, puoi indicare di che tipo (se lo sai) e di che durata? Per circa il 50% di coloro che avevano precedenti esperienze di psicoterapia, la durata della relazione era stata in realtà piuttosto breve e l’interruzione dettata da disagio nel rapporto o da mancanza di stimoli a proseguire. Per i rimanenti la durata variava da due a oltre dieci anni. Ecco alcune risposte: Durata tendenzialmente infinita perché lo psicoterapeuta non mi dichiarava mai “guarita” nonostante si trattasse di piccole depressioni e banali problemi esistenziali. Ho fatto esperienze con psichiatri che ritenevo più affidabili essendo dei medici. Sono in psicoterapia individuale da anni, ho fatto qualcosa anche di gruppo (ma a me non piace). Credo che fosse psicoterapia comportamentale-cognitiva, le sedute erano individuali, una volta alla settimana. Sono durate un paio di mesi, poi ho smesso un po’ per il costo, un po’ perché non mi erano di aiuto. Psicologia analitica a indirizzo junghiano. Per un’eternità. 15. Quali differenze e quali affinità hai riscontrato nei confronti della consulenza filosofica? Anche le risposte al presente quesito permettono di trarre qualche indicazione in merito alla valutazione comparativa tra consulenza filosofica e psicoterapie fatta dai consultanti con esperienze precedenti in queste ultime. Mediamente, la relazione di consulenza viene ritenuta più amichevole e perciò al tempo stesso più serena, compartecipata e paritetica: 116


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Entrambe danno grande peso al dialogo, ma l’atteggiamento del consulente è diverso rispetto allo psicoterapeuta-guru. Atmosfera più rilassata (col consulente). Capacità di affrontare temi forti con più tranquillità (col consulente). Nella consulenza filosofica si sdrammatizza, si resta in contatto direi amichevole. Non si enfatizzano le cause malefiche ma gli strumenti benefici. Sembra un rapporto più di conversazione/scambio di idee tra amici. La psicologa è troppo distaccata e mi provoca più chiusura che apertura nei suoi confronti. La figura dello psicoterapeuta è più neutra, la sua funzione è quella di restare in ombra, in ascolto dell’altro, per portare a galla in un flusso continuo di nessi associativi il proprio vissuto più intimo, segreto. Il rapporto con il consulente filosofico si configura più come uno scambio, un’interazione dinamica. Lo psicoterapeuta ha a che fare con un materiale primitivo e storico, con gli elementi strutturali originari della personalità, il consulente filosofico ha a che fare con la parte più evoluta della psiche, più legata alla razionalità, alla sintesi logica. Sostanzialmente diverse nell’impostazione. In alcuni casi le risposte sottolineano in modo più diretto l’importanza che nel rapporto non ci sia un approccio terapeutico: La differenza è che ti senti meno “malata”, vivi la difficoltà in un’ottica di normalità, forse anche perché mi sono rivolta al filosofo quando stavo meglio. Le affinità sono nel comunicare i propri stati d’animo, le paure, le opinioni, le possibili “soluzioni”. Mi piaceva il concetto di non dover per forza “ravanare” nel passato ma, come un uccello, sorvolare dall’alto, come un gran117


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de occhio esterno amico e obiettivo riuscire a sorvolare per guardare le vicende dall’alto nel loro insieme e ordinarle, dar loro forma e una giusta collocazione. Le differenze sono infinite. Soprattutto la consulenza filosofica non è una terapia e questo si avverte quando, anche inconsapevolmente, vengono toccate parti sofferenti. In psicoterapia il rapporto è guastato da una dipendenza emotiva, nelle consulenze filosofiche mai. 16. Altri commenti. Il questionario si concludeva con lo spazio per un eventuale commento supplementare, che però, visto il numero delle domande precedenti, solo pochi hanno utilizzato, e perlopiù solo per attestati di stima o per auspicare che il servizio fosse riattivato. Tra le poche risposte che hanno svolto considerazioni più specifiche, due possono essere riportate a conclusione della rassegna delle impressioni dei consultanti: Ritengo l’iniziativa molto utile, alternativa e/o complementare ad altri interventi: serve per farti sentire meno “malata”, per favorire le tue capacità di riflessione dei problemi, per affrontarli con una consapevolezza maggiore. Gli incontri ti permettono di approfondire aspetti come la consapevolezza di non essere l’unica a stare male, che i tuoi sono problemi e tematiche un po’ di tutti, che alcuni “vedono” e altri nascondono. Personalmente ho “indagato” meglio dentro di me cercando di capire certe reazioni, mi sono sentita meno fragile ma più sensibile e forse anche un po’ più forte, perché ho compreso che talvolta la debolezza è un indicatore della nostra sensibilità e non solo una “mancanza”, un’inadeguatezza ad affrontare e risolvere i tanti problemi personali e non. Auspico che la consulenza filosofica possa diffondersi come valida alternativa alla psicoterapia. Non siamo tutti affetti da patologie mentali o nevrosi varie. L’uomo può vivere consapevole 118


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dei propri limiti ma anche della propria grandezza, un po’ più serenamente. Deve imparare a farlo, ma ci vuole un po’ d’aiuto. 5. Considerazioni conclusive Come premesso nell’introduzione, questo lavoro non aveva in primo luogo pretese teoretiche, ma voleva soprattutto presentare un’esperienza e le testimonianze di coloro che, assieme a me, l’avevano attraversata. Nel corso dell’esposizione, mi è ovviamente stato inevitabile aggiungere alcuni commenti personali, che non voglio appesantire traendo in questa sede delle ulteriori conclusioni. Desidero solo aggiungere, terminando, una riflessione sul successo di pubblico avuto dal servizio e alcune brevi considerazioni sul significato che l’esperienza ha avuto per me e per la maturazione della mia professionalità. Più volte, nel corso dell’esposizione, ho accennato al fatto che la risposta data dal pubblico alla sperimentazione fu molto più positiva di quanto sia io sia l’amministrazione potessimo attenderci: in pochi mesi ricevetti infatti un numero più alto delle richieste di consulenza che avevo avuto nei due precedenti anni di attività professionale. Questo risultato si spiega in più modi, solo alcuni dei quali possono sembrare ovvi. Tra questi va per esempio annoverato il fatto che, grazie al supporto offerto dalla pubblica amministrazione, la propaganda dell’attività professionale fu ben più ampia ed efficace di quanto non avessi potuto svolgere in precedenza con le mie sole forze: i giornali riportarono estesamente la notizia e questa si diffuse anche per vie altrimenti difficilmente percorribili (i volantini nelle biblioteche, ma anche il “passaparola” attraverso gli uffici pubblici). Inoltre, anche il fatto che il servizio – in quanto finanziato dall’amministrazione – fosse gratuito per i consultanti fu, come si è visto dalle condizioni economiche di molti di loro, essenziale per la loro decisione. Ma accanto a questi aspetti, ce ne sono a mio parere altri meno ovvi e più interessanti per il futuro professionale della consulenza, il più importante dei quali è l’ufficialità a essa conferita dalla sua presentazione all’interno di una cornice istituzionale. In due casi esplicitamente, ma anche in altri in modo indiretto, mi venne riferito che la mia presenza sul territorio era no119


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ta già prima della nascita del servizio pubblico, ma che, accanto alla curiosità e all’interesse suscitati dalla particolarità dell’offerta, i consultanti avevano avuto delle (più che legittime) perplessità, dovute alla novità, alla mancanza di informazioni e di riscontri sul tipo di attività e sulla serietà personale e professionale di chi la svolgeva. Perplessità che si erano dissipate di fronte al fatto che il quartiere avallava la sua pratica entro le proprie strutture e con il suo finanziamento. In un caso, un consultante confessò di essere stato sul punto di fissare un appuntamento con me oltre un anno prima, ma di aver rinunciato dopo aver letto il libro di Marinoff, ritenuto da lui fumoso e “troppo americano”. Solo il riconoscimento da parte del quartiere e le informazioni prese presso i suoi uffici sull’affidabilità della mia persona, avevano potuto farlo tornare sulla decisione. Questa riflessione si ricollega a un compito che oggi – non solo in Italia – vede fortemente impegnati i singoli professionisti e le associazioni di settore: conferire dignità e “immagine” pubblica alla consulenza filosofica, attraverso attività istituzionalizzate di formazione, riconoscimenti professionali e iniziative informative. Tutto questo – come ben sanno coloro che si muovono all’interno di questo ambito – produce talvolta fenomeni in parte discutibili, anche a fronte del fatto che la consulenza filosofica è difficilmente riducibile a “metodi” e “competenze”, ed è per questo altrettanto difficile definirne univocamente le modalità di “insegnamento” e “riconoscimento”. Tuttavia, come dimostra anche l’esperienza della sperimentazione pubblica, è un momento quasi certamente essenziale per il futuro della professione: senza una qualche forma di “istituzionalizzazione”, i dubbi dei potenziali consultanti sono e rimarranno del tutto legittimi e ragionevoli – anzi, oserei dire, perfino auspicabili. Infine, mi preme sottolineare come tutta l’esperienza sia stata per me fonte di innumerevoli insegnamenti, a seguito dei quali alcune mie “astratte concezioni” sulla consulenza filosofica hanno subìto (almeno) parziali correzioni. Per esempio, il fatto che – complice l’assenza di onere economico per i consultanti – alcuni rapporti siano durati sensibilmente di più di quanto avessi fino ad 120


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allora stimato essere la durata media di una consulenza (attorno a una decina di incontri orari), mi ha svelato l’importanza di “sostare” più a lungo presso un problema e presso una sua (nuova) lettura. Dopo qualche perplessità e una latente sensazione di “perdere tempo”, ho infatti compreso meglio ciò che anche alcune delle risposte dei consultanti evidenziano, cioè che, una volta elaborato un nuovo modo di guardare la realtà e la convinzione che essa sia più coerente, più adatta a noi, più “giusta” (in tutti i sensi, forti e deboli, del termine), non sempre è facile “praticarla” nella vita e far sì che sia essa a produrre nella sfera emotiva del nostro essere gli effetti dominanti; e che, per questo, è necessario guardare e riguardare, con attenzione, acume, astrazione, il suo concreto “agire” dentro di noi, “ritoccandone” il profilo, correggendo le nostre “sviste”, e così via. Mi sono così persuaso che la consulenza filosofica, pur non avendo una durata “standard” – non c’è niente di “standard” in essa, così come non c’è nella filosofia, che non è una popperiana “scienza normale” – e pur rimanendo destinata a non durare “tempi biblici”, non deve “per principio” essere pensata come limitata a dieci o a venti incontri, ma che anche in questo caso debba adattarsi alle esigenze del consultante – sebbene, purtroppo, nella professione privata queste ultime siano vincolate anche dalle sue esigenze economiche. Un altro particolare e importante insegnamento che ho ricevuto da quell’esperienza – che in questo caso conferma una mia precedente intuizione, sulla quale avevo però forti perplessità e timori – è quello relativo alla possibilità di lavorare anche con persone fortemente prostrate o alle quali siano state diagnosticate da medici o da psicoterapeuti delle patologie. Come ho messo in evidenza, questo è ciò che ho fatto, con esiti estremamente interessanti, e anzi tanto positivi da essere stati forse fonte delle maggiori soddisfazioni professionali di tutte le relazioni. Anche in questo caso, l’esperienza è stata resa possibile dalla gratuità del servizio, che ha permesso ai consultanti di non interrompere il trattamento medico (altrimenti troppo oneroso, se congiunto al costo delle consulenze). In generale, la mia concezione della consulenza filosofica – che 121


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avevo sviluppato teoreticamente sulla base della letteratura di settore, degli scambi di esperienze con altri consulenti e delle mie precedenti, ma fin lì più sporadiche, esperienze – è stata in quell’occasione messa alla prova e complessivamente confermata nei suoi capisaldi. Ma, soprattutto, i “risultati” delle consulenze che ho qui riportato hanno prima di tutti gli altri convinto me stesso non solo della sua concreta e fruttuosa praticabilità, ma anche – definitivamente – del suo valore e dell’importanza sociale della sua (ancora oggi solo auspicabile) affermazione. Lascio ai lettori e all’eventuale dibattito decidere se questa mia persuasione possa o meno essere condivisa.

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Daniele. Una relazione di consulenza filosofica NERI POLLASTRI

er quanto a prima vista possa sembrare strano, i resoconti di relazioni di consulenza filosofica non sono facili da presentare come lo è la casistica della psicoterapia. La ragione, come ho spiegato altrove,1 è piuttosto semplice: nella psicoterapia esiste di solito un ben determinato “momento terapeutico” che la presentazione del caso tende a mettere in evidenza, mentre i dettagli della personalità e delle modalità esistenziali del paziente possono restare sullo sfondo e persino essere modificati a piacimento; nella consulenza filosofica, al contrario, non essendoci “terapia”, non esiste nessun momento terapeutico da evidenziare e, di solito, neppure nessun passaggio “fondamentale”, perché ciò che conta sono la complessa totalità del dialogo, la ricerca di nuovi elementi di comprensione di eventi e vissuti, la lenta e progressiva modificazione e ricomposizione della visione del mondo del consultante che si verifica attraverso la comune riflessione dei due dialoganti. Per questo, ogni dettaglio della personalità e della vita del consultante è importante; e trascurarne l’esposizione o camuffarne le forme può falsare del tutto il resoconto, fino a farlo apparire banale, confuso, incomprensibile. Dato però che nel dialogo di consulenza entrano in gioco questioni estremamente personali, spesso perfino intime, che in molti casi vengono narrate al filosofo e a pochi altri, rendere pub-

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1. Cfr. N. Pollastri, “In consulenza da un filosofo, per dar senso al racconto dell’esistenza”, in M. Montanari (a cura di), La consulenza filosofica: terapia o formazione?, L’orecchio di Van Gogh, Chiaravalle (An) 2006.

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blici i resoconti dei dialoghi si scontra con l’etica professionale e il rispetto che essa impone nei confronti del consultante. Credo sia per questo che la pubblicazione di reali rapporti di consulenza è così rara nella letteratura internazionale: perché è raro che il consultante sia disponibile a “esporre al pubblico” la sua storia personale, e ancor più raro che tra coloro che accettano di farlo vi siano “casi” di significativo interesse. Il resoconto che presento in queste pagine è un buon compromesso. Si tratta infatti di una delle relazioni più brevi, lineari e positive tra le molte che ho avuto nella mia attività professionale. Richiese solo tre sedute di circa due ore l’una, più un breve incontro un paio di mesi più tardi; la riflessione che io e Daniele conducemmo si diresse in numerose direzioni, che esplorammo però con calma, senza troppa ansia o urgenza; si concluse molto positivamente, grazie a un risultato al quale il consultante giunse da solo. Tutti aspetti che hanno permesso di ottenere un esplicito assenso alla pubblicazione, sebbene con dati personali modificati. Sfortunatamente, non tutte le consulenze sono così semplici; tuttavia, lo svolgimento della relazione con Daniele è coerente con quello di altre situazioni più complesse, con il vantaggio di essere più semplice da schematizzare; perciò, la sua illustrazione è utile per mostrare concretamente, ma in modo semplice e chiaro, cosa accade in una consulenza e, come vedremo, si presta a preziose riflessioni generali. Grazie alla semplicità della relazione, per la prima volta nelle mie esposizioni di casi ho voluto e potuto schematizzarne lo svolgimento in alcune figure, per realizzare le quali ho utilizzato un programma di mappe concettuali.2 Nella figura 1 è riassunto lo schema generale della consulenza che – come ho spiegato meglio altrove3 – è a mio parere riducibile a tre suoi momenti: cominciamento, prosieguo e conclusione. Nella mia concezione della consulenza filosofica, questo schema sosti2. Cmap Tools, uno strumento che va ben oltre la desolante semplificazione delle “presentazioni Power Point” che oggi imperversano, inibendo sempre più le capacità di usare il pensiero in modo complesso. Studiato per la formazione, Cmap Tools è reperibile gratuitamente presso il sito http://cmap.ihmc.us/. 3. Cfr. N. Pollastri, Il pensiero e la vita, Apogeo, Milano 2006, p. 205 sgg.

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tuisce il metodo – il quale, come è noto, nella riflessione teoretica sulla disciplina viene perlopiù considerato indeterminabile. A chi potesse ritenere lo schema troppo riduttivo e perciò banale e inutile, giova ricordare che si tratta dello stesso schema che Hegel usa per distinguere e descrivere il processo filosofico in apertura della Scienza della logica. Proprio perché sembra vuoto, esso rimane essenzialmente aperto a molteplici possibili “riempimenti”, e perciò

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adempie a una delle richieste fondamentali della filosofia: la non dogmaticità – ovvero, appunto, l’apertura. Nella figura 2 compare invece lo schema di un ipotetico cominciamento della relazione con Daniele. In essa viene mostrato non 125


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solo l’inizio reale della relazione (linea continua), ma anche alcuni dei numerosi altri modi in cui sarebbe stato possibile avviare il rapporto (linee tratteggiate). Con Daniele, così come preferisco fare di solito, iniziai lasciando che egli narrasse il suo problema e l’interpretazione che ne dava in quel momento. Ma questa non è l’unica possibilità e si deve essere pronti, laddove sia più opportuno, a iniziare anche in modi diversi, per esempio anticipando il racconto del consultante chiedendogli perché abbia scelto di recarsi da un consulente filosofico invece che da uno psicologo, oppure interrogandolo sulla sua concezione del mondo, i suoi stili di vita, i suoi interessi, e così via. È anche possibile iniziare stabilendo un “contratto”, per esempio spiegando con qualche dettaglio cos’è la consulenza filosofica, o definendo un piano di lavoro, oppure dettando alcune “norme” operative che il consultante è tenuto a rispettare nel corso delle sedute. Ciascuna di queste possibilità – e delle molte altre che possono essere immaginate – apre un decorso diverso alla relazione dialogica che è impossibile descrivere, in quanto dipende da quanto si verifica nella relazione stessa e non è in alcun

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modo anticipabile. Se personalmente preferisco iniziare dalla narrazione è perché credo che questo sia più rispondente allo spirito filosofico: il filosofo non conosce né le ragioni per cui il consultante lo ha cercato, né gli eventi nei quali egli è immerso, né l’interpretazione che ne dà; più conoscenza egli avrà, meglio potrà mettere in atto le proprie capacità riflessive, analitiche, critiche, sistematizzanti. Inoltre, la filosofia è un agire libero e creativo che si dà da solo le proprie regole in corso d’opera, dato che quest’ultima consiste anche e soprattutto nel giustificare proprio regole e norme; è pertanto contrario al suo statuto (oltre che controproducente) imbrigliarlo fin dall’inizio con regole e normative pre-definite. Ma, proprio per questo, deve sempre restare aperta la possibilità di scegliere liberamente di porsi dei vincoli, così che anche gli altri modi di iniziare il rapporto di consulenza, che ho indicato, restino possibilità sempre lecite. Nella figura 3 è rappresentato in forma più estesa lo schema del reale cominciamento del dialogo tra me e Daniele, che si avvia con

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la narrazione del consultante e che sarà più dettagliatamente esposto di seguito. Daniele ha circa trent’anni e una vita non diversa da quella di tanti suoi coetanei: abita con i genitori; lavora, e non ne è insoddisfatto; ha normali rapporti amicali e sentimentali; coltiva alcuni interessi, come i viaggi, e soprattutto la fotografia e la poesia. Proprio da questi ultimi arrivano però le delusioni: sebbene non manchi di talento e abbia avuto varie occasioni di successo, Daniele non riesce a impegnarsi con continuità, soprattutto a causa del disagio che prova nelle relazioni con le persone che frequentano tali ambienti. Così, finisce regolarmente con l’abbandonare in breve tempo ambienti e persone, ma con essi anche la possibilità di coltivare seriamente i propri interessi. Sulle ragioni di questa difficoltà Daniele è inizialmente un po’ incerto e la spiega con un’immagine: si sente “vuoto” e incapace di “riempire” la propria personalità. Mostra di apprezzare le persone capaci di “far valere quello che dicono”, cosa che a lui non riesce. Afferma di avere poche idee e ancor meno parole per esprimerle; spesso, durante il lavoro, pensa a cose che desidererebbe fare, ma poi, quando nelle ore di libertà potrebbe realizzarle, non le ricorda neppure più. Gli pongo qualche interrogativo: a) è sicuro che le cose che persegue gli interessino veramente? b) Non è possibile che la sua mancanza di capacità di andare avanti dipenda dal fatto che non si prepara adeguatamente? c) Quale progetto di vita si prospetta? d) In questo progetto quelle cose hanno un significato? Si può osservare, in una riflessione a posteriori, come porre questo tipo di domande abbia di mira non tanto la ricerca di “cause”, quanto l’apertura di una riflessione critica sul significato del problema (a), una prima possibile sua riconnotazione (b), l’inserimento di questa possibile rilettura in un contesto di significati e di valori più ampio (c, d).4 Per quanto gli interrogativi siano necessaria4. Sulla distinzione tra la ricerca di “cause”, propria della psicoterapia, e la ricerca di una “comprensione” “più critica, ampia e profonda”, propria della filosofia, ha insistito in particolare Ran Lahav, cfr. “L’efficacia della consulenza filosofica: un primo studio sui risultati” (2001), in Comprendere la vita (2004), Apogeo, Milano 2004, pp. 82-83.

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mente semplicistici (trattandosi di un primo “contatto” dialogico tra due persone, che mette in gioco anche l’esplorazione dei livelli di reciproca intesa linguistico-culturale), ciò che li muove non è la ricerca di una “spiegazione”, quanto piuttosto di una “comprensione”, che passa attraverso la chiarificazione dei presupposti della prima narrazione del problema. Presupposti, si noti, che non vengono considerati “inconsci”, quanto piuttosto “inconsapevoli” o, come di solito preferisco esprimermi, impliciti.5 Dialogando su questi temi emerge che Daniele non aveva mai pensato di doversi prospettare qualcosa come un “progetto esistenziale”, ritenendo che quanto lo interessava potesse essere sufficiente per dare un significato alla propria vita. L’interrogativo gli apre nuove prospettive di riflessione, così come l’ipotesi che le cose che lo interessano non siano realmente il massimo cui può aspirare. Diversa invece la posizione riguardo al suo reale impegno nelle cose che fa: Daniele ritiene infatti di occuparsi in genere a sufficienza delle attività che gli piacciono; anzi, ricorda un caso nel quale ciò che aveva proposto era piaciuto molto, ma ciò nonostante si fece egualmente da parte, per una ragione totalmente diversa da quelle abituali: pensò di essere superiore ai suoi compagni e che non valesse la pena seguitare a frequentarli. Gli faccio notare che questa potrebbe essere una buona scusa per evitare di frequentare persone nuove, con le quali “mettersi in gioco”, così come può esserlo quella di sentirsi inferiori, o incapaci di “riempire” di senso le proprie parole. Proviamo a concentrare l’attenzione sui concetti di “pieno” e “vuoto”. Sono immagini simboliche – gli spiego – che nascondono almeno parte del loro reale significato; è perciò importante cercare di svelare quanto possibile ciò che vi viene celato. Cosa è in gioco nell’immagine: l’apparenza o l’essenza? Ci lasciamo con questi interrogativi e con l’indicazione di approfondirli per proprio conto. 5. Il tema dell’esplicitazione dei presupposti impliciti come oggetto della filosofia è ricorrente nella storia del pensiero. Me ne sono occupato particolarmente, in riferimento alla pragmatica trascendentale e al pensiero di Hegel, nel mio L’assoluto eternamente in sé cangiante. Interpretazione olistica del sistema hegeliano, La città del sole, Napoli 2001.

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Ancora sul piano di un’analisi a posteriori – giacché il dialogo deve sempre rimanere libero da schemi, tecniche e progetti, per scaturire spontaneamente dall’interazione delle due soggettività che lo stanno effettuando – si può osservare che queste ultime suggestioni offerte al consultante seguono ancora lo spirito della ricerca critica di estrazione filosofica: la prima pone infatti nuovamente in dubbio l’immediata e non pienamente riflettuta autointerpretazione del problema, e ha di mira anche un ampliamento della concezione che il consultante ha della psicologia umana;6 la seconda suggerisce invece una migliore connotazione del significato dei termini usati, rinviando all’osservazione dei concetti cui fanno riferimento, i cui molteplici significati potenziali possono riflettersi inconsapevolmente sul discorso del consultante e condurlo a conclusioni affrettate e insoddisfacenti, proprio perché non chiaramente ed esplicitamente presenti alla sua intelligenza. Una cosa, infatti, già presente a questo stadio della riflessione con Daniele, il quale prima della riflessione proposta non era in grado di cogliere la relazione implicita tra “interessi” e “progetto di vita”. Nel secondo incontro Daniele mostra di aver riflettuto in particolare sulla possibilità che quanto gli interessa – la fotografia e la poesia – possa non essere per lui così importante come gli sembra, cosa sulla quale fino a oggi non aveva mai posto attenzione. Forse, afferma, potrebbe essere interessato a quelle attività principalmente perché sente allontanare il vecchio gruppo degli amici di adolescenza. Questo tipo di considerazione mostra che la sollecitazione critica effettuata nel primo incontro ha dato alcuni primi frutti: il dubbio ha agito, mettendo in movimento un pensiero che aveva affrettatamente assunto una solidità non accompagnata da un’adeguata consistenza. Concentriamo allora l’attenzione su questo gruppo. Ne emerge che Daniele, in passato, vi si trovava bene “per comodità”: non facendo niente di particolarmente importante – serate al bar, attività 6. A questo livello, è sufficiente che tale ampliamento rimanga sul piano di una migliore e più dettagliata comprensione della cosiddetta folk psychology; ovviamente, ad altri livelli di complessità ciò può non essere più sufficiente e la suggestione informativa può richiedere una maggiore precisione.

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sportive, scampagnate con le moto –, non c’era neppure la necessità di prendere posizione ed egli poteva rimanere “nella scia” senza percepirne il peso. Oggi si sente però “allontanato”, perché gli altri stanno pian piano cambiando vita: alcuni hanno ormai un rapporto esclusivo con la ragazza, altri si sono sposati e hanno dei figli, altri ancora sono assorbiti dai loro lavori; in generale, il loro mondo non è più centrato sul gruppo, hanno un’altra vita. Riflettiamo allora sul fatto che alla sua età è normale l’esigenza di chiedersi come realizzare la propria vita: gli altri, diversamente da lui, lo stanno facendo; ciò a cui si dedicano, ne siano o meno pienamente consapevoli, sono “progetti di vita”. Proprio per questo, però, anche in lui c’è una forte necessità di qualcos’altro dal vecchio gruppo di amici, di un’altra vita, che prende la forma proprio di quegli interessi che egli fatica a realizzare. Ecco perché gli avevo chiesto del suo “progetto esistenziale”. Dato che il più ovvio e diffuso progetto di vita è (non solo oggi) quello che passa attraverso la creazione di una propria famiglia, ci soffermiamo sull’assenza in Daniele di un forte interesse ad avere un rapporto più profondo e continuativo con una donna. Egli ha infatti avuto finora solo relazioni temporanee, abbastanza superficiali, che si sono interrotte proprio quando iniziavano a diventare “serie”. Daniele afferma di sentire di non avere molto da dire e da dare a una compagna, ma di avere viceversa il bisogno, prima di un rapporto profondo, di “riempire” quel “vuoto” che sente dentro di sé. Solo allora, forse, potrebbe affrontare una relazione che sia a sua volta “piena”. Ancora a posteriori, le sollecitazioni dialogiche qui proposte si mostrano come un tentativo di ampliare il quadro concettuale e conoscitivo del consultante, tramite l’innesto di semplici considerazioni antropologiche, analoghe – fatte le debite proporzioni – a quelle che Kant ha affidato alla sua Antropologia pragmatica. Considerazioni che, probabilmente, erano almeno in parte già disponibili a Daniele, ma che egli non riconnetteva al quadro che aveva personalmente elaborato. Le suggestioni antropologiche, così come quelle sociologiche e psicologiche, quando assunte all’interno di un dialogo critico-riflessivo di tipo filosofico, rimangono (e de131


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vono rimanere) solamente “orientative”, un mero invito a prendere seriamente in considerazione l’ipotesi che nel proprio quadro, nella propria concezione del reale, esse possano avere un posto, senza che però vengano mai considerate “normative” – cosa che invece potrebbe verificarsi se assunte entro un approccio “diagnostico”. Detto diversamente, qui la suggestione antropologica ha un valore euristico: sta al consultante valutare se essa gli si adatta, e in che modo; egli resta libero di rigettarla come “non sua”, ma gli viene dialogicamente imposto di farsi carico di argomentare il suo rigetto. Un’operazione, questa, che ha buone possibilità di produrre chiarezza nel suo pensiero. A questo stadio, si può analiticamente considerare conclusa la prima parte della relazione, incentrata sulla narrazione. Come si è visto, neppure nel “cominciamento” la narrazione era stata “pura”, dato che l’intervento dialogico del consulente era stato significativo, sotto forma di domande e ipotesi critiche. Da adesso, con un quadro narrativo relativamente definito e grazie all’instaurazione di un rapporto di comprensione dialogica reciproca, di “intesa”,7 proprio l’uso delle ipotesi diviene quasi interamente centrale e il lavoro prosegue nella loro critica, verifica o falsificazione e nel loro adattamento al pensiero del consultante, accompagnato da una serie di riflessioni sui più rilevanti aspetti problematici emergenti dal dialogo. In altre parole, il lavoro diviene marcatamente ermeneutico, mirando a reinterpretare il quadro concettuale che sovrintende la narrazione alla luce dell’inserimento delle nuove ipotesi, dei nuovi elementi di conoscenza e dei presupposti prima impliciti e adesso esplicitati dalla riflessione precedente. La figura 4 illustra lo schema complessivo del “prosieguo” della relazione.

7. Parlo di intesa nel senso specificato da Andrea Poma in “Questioni di frontiera per la consulenza filosofica”, in R. Longo, D. Miccione, Vivere con filosofia. La consulenza come pratica, Bonanno, Acireale-Roma 2006, p. 108 sgg. Il termine “intesa”, forse ancora da specificare meglio nella letteratura, è utile a denotare una forma di “comprensione” di tipo intellettuale, dialogico, filosofico, uscendo dalle ambiguità in cui viceversa finisce sempre e fatalmente per scivolare il termine “empatia”.

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L’avvio di questa fase – la cui distinzione ha comunque un valore puramente analitico, perché, come già detto, nel dialogo non esiste, né deve esistere, alcuna soluzione di continuità – avviene con il ritorno agli interessi di Daniele, in merito ai quali facciamo due ipotesi.8 Le cose di cui mi ha parlato potrebbero non interessarlo veramente. Ciò non vuol dire che non lo interessino affatto, ma solo che esse potrebbero avere un posto subordinato nella sua sfera di valori e perciò non essere sufficienti a farlo sentire “pieno”, realizzato. Potrebbero essere cioè solo dei “completamenti”. Socialmente, gli faccio osservare, la realizzazione di un individuo passa attraverso l’intersoggettività, che può essere praticata attraverso la creazione di un legame, la costituzione di una famiglia, la realizzazione professionale. Anche attività come la poesia hanno a che fare con l’intersoggettività, ma in modo meno diretto; gli narro di persone che, appassionate di poesia, non riuscivano più a dedicarsi a essa per mancanza di un compagno, e sono tornate a occuparsene solo dopo aver risolto questo problema. Oppure, può essere che la poesia e la fotografia lo interessino profondamente, ma che egli non riesca a portarle avanti solo per un “difetto di personalità”. Ma cos’è quest’ultimo? Probabilmente un timore, legato al rischio sempre incombente di non essere apprezzato – o, per meglio dire, “riconosciuto” – quanto desidererebbe. Eppure, questo “rischio” Daniele deve probabilmente correrlo, perché le sue parole sembrano implicare che si tratti esattamente di ciò che sta cercando: infatti, egli cerca un ambiente sociale nel quale mettersi in luce (quello che frequentava abitualmente e in cui non aveva la necessità di esporsi non gli interessa più), ove sottoporsi al giudizio altrui, e perciò proprio per 8. Uso volutamente il verbo al plurale, perché il dialogo filosofico di consulenza è essenzialmente duale. È poi vero che il consulente, grazie alla sua preparazione superiore (a quella del consultante) e alla sua maggiore lucidità (dovuta al non essere parte in causa delle conseguenze emozionali del problema), è di fatto colui che avanza la maggior parte delle sollecitazioni; ciò nonostante, una corretta relazione prevede che il filosofo “scenda dalla cattedra” e sia pienamente e intimamente deciso a non far valere le sue parole come “oggettive”, ma solo come ipotesi da utilizzare all’interno dell’altrui concezione del mondo e alla luce delle argomentate preferenze e decisioni del consultante.

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questo più rischioso, in quanto sempre soggetto alla possibilità di giudizio critico o negativo. Gli chiedo perché nel vecchio ambiente il problema delle relazioni non si ponesse e Daniele afferma che lì “ormai era stato accettato”, mentre nei nuovi non ha la pazienza di rimanere a lungo senza fare qualcosa per mettersi in luce. Gli faccio allora notare un’incongruenza. Se davvero il problema fosse solo integrarsi, probabilmente sarebbe in grado di trovare la pazienza per avere il tempo necessario a farlo; ma apparentemente lui chiede di più: non vuole rimanere nel gruppo come un soggetto fisico senza una precisa caratterizzazione personale, una propria riconosciuta specificità. Ecco perché sente il bisogno di “riempire” il suo “vuoto”: pensa la sua persona “fisica” come un contenitore inutile e ha la necessità di mostrare la propria presenza attraverso altro, che deve trarre dalla sua interiorità. Questa riflessione ci conduce subito a un’altra, sui tipi di attività che lo attraggono: gli faccio notare come poesia e fotografia siano attività creative, nelle quali non può comparire solo “in figura”, o rimanere meramente a traino del gruppo. Al contrario, in esse deve fare, deve creare, e per farlo ha la necessità di cercare dentro di sé qualcosa che gli sia proprio, per poi porlo fuori di sé come un se stesso da esibire, da sottoporre a giudizio. Qualcosa di sé che vuol lasciare nel mondo come il proprio segno, la propria impronta nella realtà umana, intersoggettiva, che lo circonda. L’ultima osservazione lo colpisce molto. Riconosce che è vero e sottolinea che la sua tendenza alla creatività gli è sempre stata presente, ma non aveva mai congiunto le cose in questo modo. Torno a fargli notare come la cosa sia da mettere in relazione con il suo mai affrontato “progetto esistenziale”, nel quale la creatività – intesa come produzione di qualcosa di originale, di “proprio”, per porlo nel mondo come sua personale “traccia” – sia importante, anzi spesso insostituibile. Deve però capire, senza angoscia o fretta, se la poesia o la fotografia siano davvero l’essenziale della sua realizzazione creativa nel mondo, oppure vi sia dell’altro. Si osservi come in questa fase la rielaborazione della concezione del mondo del consultante abbia subìto un salto qualitativo: seb135


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bene con una profondità certo non paragonabile a quella di una “teoria filosofica” degna di figurare su un testo della letteratura, si è scesi dal piano del “problema immediato” a quello di una più elaborata sistematizzazione dei concetti che permettevano di descriverlo e illustrarlo. Il concetto di “soggetto” del consultante è stato ricondotto alla sua relazione con il concetto di “intersoggettività”, così come i concetti di “identità” e di “interesse” sono stati riportati rispettivamente a quelli di “riconoscimento” e di “progetto”. Il tutto gravita attorno al concetto di “creatività”, la cui presupposizione “di fatto” è stata adesso esplicitata e contribuisce a far comprendere al consultante in modo più completo l’intero quadro. Sebbene non sia stato introdotto all’interno di questo dialogo, l’elaborazione rinvia, includendolo, anche al concetto di “senso”, nell’accezione laica (e perciò filosofica) di consistenza reciproca in un sistema di significati.

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Alla luce di tutto ciò, quello svolto si presenta come un lavoro di “costruzione filosofica” nell’accezione più tradizionale e propria del termine. E non è perciò sorprendente che, a un’analisi retrospettiva, a questo punto la relazione mostri di essere già entrata nella fase conclusiva, che viene schematizzata nella figura 5: le riflessioni condotte, in particolare quelle sui progetti di vita e sulla creatività dei suoi interessi, aprendo nuovi squarci di interpretazione, permettono a Daniele di essere in prima persona protagonista di un ulteriore e decisivo consolidamento della propria concezione del mondo e della propria situazione esistenziale.9 Il terzo incontro (nel corso del quale prosegue la fase conclusiva) è infatti in certo modo risolutivo. La riflessione condotta sulle ragioni per le quali Daniele sente l’esigenza di realizzare se stesso in nuovi ambienti – in particolare, la nuova comprensione del perché proprio gli ambienti creativi siano quelli che lo interessano – ha favorito la spontanea formazione di un’immagine complementare a quella del “vuoto da riempire”, la quale – mi dice – si è rivelata un ottimo “antidoto” al disagio che è solito provare nelle situazioni relazionali che lo interessano. L’immagine che Daniele ha escogitato – e che mi narra – è quella di un “secchio” da calare nel “pozzo” della sua personalità, dal quale attingere pensieri e idee proprie, provenienti dalla sua esperienza e dalla sua interiorità, da usare per essere creativo e poter mostrare agli altri ciò che ha loro da offrire. Daniele afferma che questa immagine lo rassicura molto, perché gli fornisce una garanzia di possedere ciò che gli serve per affrontare il rapporto con persone che non conosce e che mostrano di avere già maturato una propria personalità. Non gli importa che l’“acqua” non sia ancora stata attinta; gli è sufficiente realizzare che essa ci sia e che può attingerla quando vuole. Infatti, seppur con qualche incertezza, è già

9. Vale la pena di osservare che, dopo il secondo incontro, avevo inviato a Daniele per email una “mappa riassuntiva” del punto della discussione a cui eravamo arrivati, come mi capita talvolta di fare con i consultanti, per evitare che dimentichino alcuni dei passaggi della riflessione e per stimolarli a ripercorrerla di nuovo e approfondirla da soli. In questo caso, tuttavia, la cosa non fu di alcuna utilità, perché Daniele, per ragioni tecniche, non fu in grado di aprire il file prima del nostro incontro successivo.

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riuscito a riprendere contatti con persone con le quali esitava a relazionarsi. Gli illustro in che modo l’immagine fornisca una forma concreta all’interpretazione raggiunta attraverso le nostre riflessioni. Essa gli mostra, per usare una terminologia aristotelica, la sua astratta “potenza” di creare qualcosa di proprio, attingendo alle sue idee e ai suoi sentimenti; dandogli un quadro concreto di se stesso, l’immagine lo aiuta a tradurre in “atto” questa sua “potenza”. Dato che ha già avuto modo di sperimentare gli effetti positivi dell’immagine nelle situazioni che normalmente lo mettevano in difficoltà, Daniele si mostra notevolmente sollevato rispetto agli incontri precedenti, molto fiducioso riguardo alla possibilità che i suoi prossimi appuntamenti lo trovino capace di agire senza le insormontabili difficoltà del passato. Vista la serenità con cui me ne parla, decidiamo consensualmente di rimandare il prossimo incontro a quando lui stesso ne senta l’esigenza; nel caso che questa non si presenti prima, stabiliamo di rivederci per una “verifica” non prima di un mese. Ci rivedemmo infatti oltre un mese più tardi, quando lo trovai altrettanto sereno e con molti nuovi progetti avviati, ancora accompagnato dall’immagine rassicurante che, nei momenti di esitazione e difficoltà nelle decisioni, richiamava alla memoria, ritrovando la fiducia necessaria a fargli affrontare quelle situazioni relazionali che fino ad allora aveva sistematicamente evitato. Ci lasciammo così senza fissare altre scadenze, solo con la mia disponibilità ad accoglierlo in qualunque momento ritenesse di aver bisogno di riprendere la riflessione. Dopo circa un anno, in occasione di una prima stesura del mio resoconto sulla nostra relazione, ci scambiammo alcune lettere e ci sentimmo per una breve telefonata.10 Daniele mi confermò che i suoi progressi erano stati continui e lo avevano tratto fuori dalle difficoltà per le quali era stato spinto a incontrarmi. In una lettera mi scrisse che il mio resoconto corrispondeva alla sua percezione 10. L’occasione fu offerta dall’esigenza, deontologicamente tassativa, di avere un esplicito assenso all’uso del resoconto, per le ragioni che spiegavo in apertura.

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del lavoro che avevamo svolto, aggiungendo di sentirsi ancora “in quella disposizione di spirito” in cui lo descrivevo alla fine della relazione di consulenza. “È stato un periodo della mia vita difficile quello nel quale ci siamo conosciuti,” scriveva ancora Daniele, “ma come si disse anche l’ultima volta che ci vedemmo, è stato sufficiente parlarne un po’ per sbloccare un percorso mentale che rigirava su se stesso!” Come anticipato, questa relazione di consulenza è molto semplice nella sua struttura, particolarmente breve, compiuta nella sua conclusione. È in essa però ben evidente come l’esame dell’universo dei concetti e dei valori di Daniele, assieme a un completamento del quadro della sua conoscenza e della sua consapevolezza, abbia favorito un ampliamento della propria immagine di se stesso che – sebbene ottenuta attraverso un modello allegorico (il “secchio” e il “pozzo” a cui “attingere” elementi della propria interiorità spirituale) più che tramite una costruzione strettamente concettuale – gli ha permesso di assumere una più precisa e sicura relazione con la realtà, sia sul versante conoscitivo, sia su quello emotivo. In altre parole, il processo di riflessione, seguendo esclusivamente la sua idealità tipicamente filosofica, ha favorito un ampliamento e una chiarificazione del modo in cui Daniele pensava il mondo; quest’ultimo, tuttavia, ha a sua volta portato con sé – e senza che fosse intenzionalmente cercato o strumentalmente evocato – anche un mutamento (per il meglio) nel modo in cui Daniele sentiva il mondo. Il che significa che, dopo il lavoro di riflessione e ripensamento, Daniele guardava il mondo con maggiore chiarezza e coerenza, e proprio per questo riusciva anche a viverci meglio. Concludendo la mia esposizione, vorrei però proporre anche una suggestione per una più generale interpretazione della consulenza filosofica, che emerge dall’osservazione delle precedenti schematizzazioni e che viene illustrata in un’ultima figura (figura 6).

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In essa vengono semplicemente “montate” le figure precedenti, per formare lo schema completo della consulenza con Daniele; in aggiunta, l’immagine è stata divisa in due parti orizzontali. La linea divisoria simboleggia la superficie della terra; la parte superiore il mondo di superficie; la parte inferiore, più scura, il sottosuolo. Daniele, così come ognuno di noi, vive sulla superficie del mondo, ove incontra problemi e difficoltà di ogni genere, che deve affrontare in primo luogo comprendendoli con il proprio pensiero. Il lavoro di consulenza filosofica consiste nell’esplorare il pensiero, iniziando dal modo in cui si pensa la situazione problematica che sta attualmente occupando l’esistenza. Ma esplorare il pensiero significa scavare il terreno sul quale si vive; un terreno concettuale11 scavando il quale è possibile scoprire la complessa rete delle proprie radici. Scavando sempre più profondamente è possibile riuscire a mettere in luce in sempre maggior dettaglio la nostra reale interpretazione di noi stessi e del mondo. Così, nel caso di Daniele, la riflessione che svolgemmo assieme nel corso della consulenza viene a rappresentare il complesso radicale della sua identità; e la radice più profonda messa in luce nel corso della nostra ricerca è proprio quella che gli fu utile per affrontare, comprendendole in modo più articolato, le proprie difficoltà. Assumendo questa immagine (pur con tutti i limiti che ha ogni interpretazione allegorica) come interpretazione generale dell’agire consulenziale, potremmo affermare che nella consulenza filosofica non è affatto importante avere un “metodo” – questo Santo Graal del quale tutti sono illusoriamente alla continua ricerca12 – ma è invece determinante scavare nel pensiero profonda11. Definire il terreno “concettuale” non significa escludervi la sfera emozionale, la cui comprensione è sempre un momento decisivo delle relazioni di consulenza. Ma la comprensione delle emozioni passa attraverso concetti e non è (almeno in primo luogo) un fatto emozionale. 12. Ovviamente, non si può liquidare con questa semplicità un problema complesso come quello del “metodo” della consulenza filosofica, che è difficile fin dall’uso terminologico. In proposito, è sorprendente (e sconcertante) osservare come ciascuno di noi utilizzi la parola “metodo” in modo sensibilmente diverso dagli altri, in alcuni casi con estensioni d’uso di ampiezza fortemente diversa, molto spesso senza curarsi di comprendere meglio le affinità e le differenze degli usi linguistico-concettuali. Per l’argomento, oltre al mio già citato

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mente e senza sosta, in qualsiasi modo la pratica della filosofia ci metta in grado di farlo, alla ricerca di una nuova, più completa e sempre più profonda interpretazione del mondo. Sapendo che non sarà mai possibile conoscere l’intero complesso delle proprie radici, perché non scaveremo mai così tanto da raggiungere il fondo, ma, ciò nonostante, sapendo anche che, scavando e cercando, abbiamo sempre la possibilità di scoprire molte delle cose di cui abbiamo bisogno.

Il pensiero e la vita, rinvio a R. Lahav, Is Philosophical Counseling That Different from Psychotherapy?, “Zeitschrift für Philosophische Praxis”, 1, 1994, e al mio recente articolo “La consulenza filosofica come ‘pura’ filosofia”, in C. Brentari, R. Màdera, S. Natoli, L.V. Tarca (a cura di), Pratiche filosofiche e cura di sé, Bruno Mondadori, Milano 2006, particolarmente p. 179 sgg., ove illustro l’idea di un “metodo dell’improvvisazione”.

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Contributi

Pubblichiamo in questa sezione tre contributi che sono stati presentati al Convegno internazionale su Foucault, nel novembre 2004 a Trieste (“Il soggetto che non c’è. Michel Foucault 1984-2004”). Gli autori sono Ottavio Marzocca dell’Università di Bari, Dario Melossi dell’Università di Bologna e Fabio Polidori dell’Università di Trieste (e nostro redattore).

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“Omnes et singulatim” Il doppio vincolo del governo OTTAVIO MARZOCCA

1. Nell’autunno del 1979, dopo aver svolto al Collège de France due interi corsi annuali sulle arti del governo, Michel Foucault riprendeva questo tema in due conferenze tenute negli Stati Uniti, che successivamente pubblicò insieme intitolandole: Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica.1 In esse sintetizzava gran parte della ricerca svolta soprattutto per il primo di quei corsi e definiva il senso di una trasformazione importante che attraverso quel lavoro si era verificata nel suo percorso. In precedenza, la sua linea di ricerca – come lui stesso ricordava – era stata di “analizzare i rapporti tra esperienze come la follia, la morte, il crimine o la sessualità e le diverse tecnologie di potere” che si affermano attraverso certi saperi (come la psichiatria, la medicina, la criminologia, la psicologia) e certe istituzioni (come il manicomio, l’ospedale, il carcere, la famiglia, la scuola).2 Ora, pur non avendo certo perso interesse per questi terreni di indagine, Foucault diceva di essere impegnato a rispondere a una nuova esigenza, quella di esaminare “la forma di razionalità che si ha di fronte”, ovvero “in che modo sono razionalizzate le relazioni di potere”

1. M. Foucault, “Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica” (1979), in Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica. 1975-1984, a cura di O. Marzocca, Medusa, Milano 2001, pp. 107-146. Per i richiami ai corsi del 1978 e del 1979, qui e più avanti mi riferisco a: Id., Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978) (2004), trad. di P. Napoli, e Id., Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (19781979) (2004), trad. di M. Bertani, editi entrambi da Feltrinelli, Milano 2005. 2. Cfr. Id., “Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica”, cit., p. 111.

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all’interno della moderna “arte del governo”.3 Era di questo che, in sostanza, aveva cercato di occuparsi negli ultimi due corsi. Ma su tale questione tornò anche successivamente, in diverse occasioni, oltre che nelle conferenze statunitensi già citate. In particolare, vi tornò in un saggio e in una conferenza molto importanti del 1982, cioè dello stesso periodo in cui stava affrontando nel modo più ampio e approfondito un tema apparentemente distante da quello della razionalità politica: il tema della cura di sé. Il saggio, estremamente accurato, fu pubblicato con il titolo: Il soggetto e il potere; la conferenza, uscita postuma con il titolo La tecnologia politica degli individui, venne affiancata a un seminario sulle Tecnologie del sé, tenuto all’Università del Vermont.4 Quest’ultimo dato mostra con tutta evidenza che la contemporaneità del ritorno al tema della “razionalità dell’arte del governo” nel saggio e nella conferenza del 1982 con la ricerca sulla cura di sé non fu affatto fortuita. Essa rimandava a una precisa intenzione, che Foucault manifestò ripetutamente in quel periodo, di collegare i temi della razionalità politica e della governamentalità con quello della cura di sé, per il quale, del resto, egli utilizzava anche l’espressione governo di sé.5 Non si deve dimenticare, inoltre, che Foucault nel 1982 propose a un famoso editore parigino di pubblicare un libro intitolato Il governo di sé e degli altri e usò lo stesso titolo per i suoi ultimi due corsi al Collège de France.6 3. Ivi, pp. 144-145. 4. Id., “Il soggetto e il potere” (1982), in H.L. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault (1983), trad. di D. Benati, M. Bertani, I. Levrini, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, pp. 234-254; Id., “La tecnologia politica degli individui” (1982), in L.H. Martin, H. Gutman, P.H. Hutton (a cura di), Un seminario con Michel Foucault. Tecnologie del sé (1988), trad. di S. Marchignoli, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 135-153. 5. Su questa intenzione di M. Foucault, cfr. ivi, p. 14; Id., L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982) (2001), trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003, p. 222; Id., “Soggettività e verità” (1981), in I corsi al Collège de France. I Résumés, trad. di A. Pandolfi e A. Serra, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 98-99; Id., “L’etica della cura di sé come pratica della libertà” (1984), in Archivio Foucault 3. 1978-1985, trad. di S. Loriga, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 291-294. 6. Il filosofo propose di pubblicare un libro con il titolo indicato nel novembre 1982 alle Editions du Seuil. Lo stesso titolo fu usato per i corsi (inediti) del 1982-1983 e del 19831984, il secondo dei quali ebbe anche il sottotitolo: Il coraggio della verità. Estremamente significativo è inoltre il fatto che nel luglio 1983 Foucault suggerì a un gruppo di studenti di Berkeley di lavorare insieme sulla storia della governamentalità dagli anni trenta (progetto

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Ma, prima di vedere perché è importante cogliere il collegamento fra “governamentalità” e “cura di sé”, cerchiamo di capire in che termini Foucault era arrivato a definire la questione della razionalità politica moderna. 2. L’indicazione più importante e generale a tale proposito può essere enunciata nel modo seguente: più che nei contenuti specifici delle teorie e delle pratiche politiche, la razionalità politica moderna può essere riconosciuta nella loro comune tendenza a porre e a mantenere in relazione l’attenzione agli individui con l’esigenza di rafforzare costantemente il corpo collettivo. È questo che fa dire a Foucault che la moderna arte del governo ci pone di fronte a una “sorta di ‘doppio legame’ politico, costituito dalla individualizzazione e dalla totalizzazione simultanee delle strutture del potere”.7 Nel corso del 1977-1978 (Sicurezza, territorio, popolazione) Foucault sostenne che un ruolo di primaria importanza nell’instaurazione e nel perfezionamento di un simile doppio legame è stato svolto dal modello del potere pastorale affermatosi nella storia della chiesa. Tradizionalmente, questo è soprattutto un potere individualizzante, poiché si occupa in primo luogo dei singoli individui, chiedendo loro di lasciarsi conoscere e di farsi dirigere lungo il corso della loro esistenza verso la salvezza. D’altra parte, è proprio attraverso l’attenzione a ognuno che questo potere persegue la redenzione di tutti: esso accorda, dunque, la stessa importanza a ogni pecora e all’intero gregge.8 In età moderna la “funzione” di questo potere – secondo Foucault – è stata “estesa e moltiplicata al di fuori dell’istituzione ecclesiastica”. La sua vocazione prevalentemente individualizzante si è che ebbe qualche sviluppo l’anno successivo) e si dedicò alla lettura degli scritti di Jaurés, Blum e Mitterand nel tentativo di approfondire da parte sua la questione della “governamentalità socialista”. Su tutto questo cfr. “Chronologie”, in M. Foucault, Dits et écrits, a cura di D. Defert e F. Ewald, Gallimard, Paris 1994, vol. I, pp. 61-63. 7. Id., “Il soggetto e il potere”, cit., p. 244. In termini del tutto simili Foucault si esprime in “Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica”, cit., pp. 142 e 145, e in “La tecnologia politica degli individui”, cit., p. 153. 8. Cfr. Id., Sicurezza, territorio, popolazione, cit., “Riassunto del corso”, p. 266. Foucault dedica al tema del potere pastorale gran parte delle lezioni tenute dall’8 febbraio all’8 marzo 1978 del corso appena citato, ivi, pp. 91-183.

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integrata con la vocazione totalizzante dello Stato, creando nuove forme di un potere pastorale che non si è più prefisso “di guidare gli uomini alla salvezza nell’altro mondo, ma piuttosto di assicurarla in questo”, perseguendo gli scopi della crescita della salute, della ricchezza, della potenza, della sicurezza di tutti e di ciascuno.9 È così, dunque, che il doppio vincolo dell’esercizio moderno del potere si sarebbe formato e consolidato, tendendo poi a divenire sempre meno districabile. Per Foucault l’epoca inaugurale del potere politico-pastorale moderno coincide con l’affermarsi – fra il XVI e il XVIII secolo – delle teorie della ragion di Stato, del mercantilismo e soprattutto delle scienze di polizia, attraverso le quali uno Stato centralistico e interventista ha rivolto una crescente attenzione alle sorti della popolazione, intesa come insieme di esseri viventi e di risorse umane, in cui si articolano fra loro dimensione individuale e dimensione collettiva dei problemi di governo.10 In tal modo, lo Stato dell’Ancien Régime ha incarnato, ben prima dell’avvento dei totalitarismi contemporanei o delle forme democratiche dello Stato-provvidenza, la tendenza a funzionalizzare direttamente il controllo e la protezione dell’individuo alla conservazione della forza e del benessere del corpo sociale. Ma l’estensione e la moltiplicazione delle forme del potere pastorale – secondo Foucault – sarebbero andate anche oltre i limiti dello “statalismo”, sviluppandosi attraverso istituzioni e strutture sia pubbliche sia private, che agiscono nel campo della medicina, dell’assistenza, dell’educazione, dell’economia e, più in generale, della determinazione dei modi e degli stili di vita.11 Questo implica, evidentemente, che – secondo Foucault – anche le strategie politiche del liberalismo non siano rimaste immuni dal doppio vincolo in cui si intrecciano pratiche individualizzanti e procedure totalizzanti di potere. 9. Id., “Il soggetto e il potere”, cit., p. 243. 10. Cfr. Id., Sicurezza, territorio, popolazione, cit., specialmente la lezione del 25 gennaio 1978. Si veda, inoltre, Id., “Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica”, cit., pp. 142-143. 11. Cfr. Id., “Il soggetto e il potere”, cit., pp. 243-244.

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3. Certo, non si deve credere di poter scovare in fondo alla governamentalità liberale un’insospettata vocazione all’“assistenza” di tutti e di ciascuno. Né, ovviamente, si può ritenere che il liberalismo produca forme di interventismo o di coercizione politica paragonabili a quelle dello stato di polizia. Tuttavia Foucault, nel suo corso del 1979 (Nascita della biopolitica), ci invita a riflettere su un dato cruciale e illuminante della storia liberale. Nel XX secolo il neoliberalismo – da Friedrich von Hayek alla teoria del capitale umano – non si afferma semplicemente contrapponendosi in generale allo statalismo e al totalitarismo. Esso si propone anche come alternativa al liberalismo ottocentesco, denunciandone l’incapacità di controllare le sue stesse inclinazioni interventistiche dalle quali deriverebbero le politiche del welfare seguite in America e in Inghilterra a partire dagli anni trenta del Novecento. Ora, secondo Foucault, ciò che il neoliberalismo in tal modo pone indirettamente in luce è che le politiche del welfare in origine hanno risposto comunque a delle esigenze liberali, poiché sono state proposte innanzitutto come strategie di difesa delle libertà politiche ed economiche dal pericolo totalitario. D’altra parte, se il neoliberalismo si prefigge di superare il welfare liberale è perché lo ritiene inadeguato e rischioso rispetto alla difesa di queste libertà, nel senso che il welfare può favorire un’ingerenza eccessiva e potenzialmente liberticida dello Stato nella vita della società.12 Tutto questo sta a indicare – secondo Foucault – che, in un modo o nell’altro, sono proprio le diverse strategie di promozione e di difesa delle libertà il punto di innesto mediante il quale il liberalismo in generale si riconnette alla razionalità politica del doppio vincolo. In altre parole, tanto il liberalismo quanto il neoliberalismo, ognuno alla sua maniera, mira a “difendere” e a “promuovere” sia l’individuo sia la società o, più precisamente, una certa società libera attraverso un certo individuo libero. Ora, è per evitare che questo impegno resti inscritto nella sfera dei principi astratti e dei diritti formali che, sin dalle origini, il liberalismo cerca e trova sul 12. Cfr. Id., Nascita della biopolitica, cit., specialmente la lezione del 24 gennaio 1979, pp. 69-71.

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terreno dell’economia le principali libertà concrete alle quali agganciare saldamente la sua specifica governamentalità. È per questo che le libertà del mercato assumono una funzione centrale nel liberalismo.13 Foucault comunque sostiene in generale che per questa cultura politica le libertà non sono mai delle possibilità indefinite di azione che basterebbe semplicemente lasciare intatte. Al contrario, esse costituiscono sempre un problema; esse sono costantemente concepite come in pericolo o come fattori di pericolo. Le libertà economiche, in particolare, devono essere promosse dal liberalismo con una continua sorveglianza sul loro rispetto e sull’abuso che se ne può eventualmente fare. Per questo, prima o poi, si rendono necessarie, fra le altre cose, le leggi antitrust, la vigilanza contro i monopoli, le norme di tutela dell’integrità dei lavoratori, le tecniche di prevenzione dei rischi di ogni tipo, con le quali magari si finisce per condizionare le stesse libertà di impresa o di altro genere, che andranno perciò protette con altri accorgimenti, altri provvedimenti, e così via. Dunque, la promozione liberale delle libertà non può mai escludere completamente la necessità di interventi, di controlli o di sistemi che garantiscano la sicurezza delle stesse libertà e dei loro “titolari”, mediante assicurazioni, compensazioni, sanzioni, punizioni… Insomma, libertà e sicurezza – secondo Foucault – sono le due polarità, contrastanti ma indissociabili, fra le quali si sviluppano le arti del governo liberale. Ed è, evidentemente, nell’oscillazione fra queste polarità che il liberalismo mette all’opera la sua declinazione del doppio vincolo, cioè promuovendo e contemperando le libertà e la sicurezza individuali con le libertà e la sicurezza collettive. La conseguenza più problematica di questa oscillazione è che, nel proteggere di volta in volta determinate “libertà”, il liberalismo finisce inevitabilmente per condizionarne, limitarne o – come dice Foucault – addirittura distruggerne delle altre.14 13. Cfr. ivi, lezioni del 10 e del 17 gennaio 1979. 14. Cfr. ivi, lezione del 24 gennaio 1979, pp. 65-69.

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4. Nel suo corso del 1979 Foucault rimarca e spiega il ruolo paradigmatico che, tanto rispetto al liberalismo classico quanto rispetto al neoliberalismo, svolge la teoria della “mano invisibile” di Adam Smith. Come sappiamo, secondo questa teoria, il perseguimento dell’interesse privato è l’unico ambito di azione sul quale gli uomini possono sperare ragionevolmente di esercitare un controllo, mentre l’intricata molteplicità delle azioni individuali e dei loro effetti costituisce una realtà imprevedibile e incontrollabile. Perciò i governanti non possono pretendere di porre in atto politiche tese a realizzare l’interesse generale o l’armonizzazione degli interessi particolari. Anzi, essi dovranno astenersi dal “governare troppo”, se non vogliono esporsi a innumerevoli delusioni e a effetti controproducenti. Essi faranno meglio ad accogliere fiduciosamente i benefici spontanei del combinarsi delle azioni dei singoli che, mirando all’arricchimento privato, non possono non creare anche ricchezza e benessere per l’intera società. Ed è qui, appunto, che interviene l’idea di una “mano invisibile” che guiderebbe l’individuo che persegue il proprio guadagno a promuovere il bene pubblico, anche se non è nelle sue intenzioni.15 Secondo l’acuta riflessione di Foucault, la teoria di Smith intrattiene una parentela essenziale con l’idea kantiana dell’incolmabilità dello scarto tra sfera fenomenica e sfera noumenica, ovvero tra ciò che è umanamente conoscibile e la realtà inconoscibile delle cose in sé. Da questo punto di vista, ciò che conta maggiormente nella teoria della “mano invisibile” non è tanto la “mano” quanto la sua “invisibilità”. Se il governo deve generalmente astenersi dal dirigere l’economia è perché gli è del tutto impossibile “vedere”, cioè conoscere effettivamente il complesso delle azioni e dei loro effetti che condizionano l’insieme delle relazioni sociali. Insomma, è l’inconoscibilità della “totalità assoluta” delle cose che rende vana e dannosa ogni aspirazione del governo a totalizzare le forme del suo intervento. Ed è questa la ragione filo15. Cfr. A. Smith, Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), trad. di A. Campolongo, UTET, Torino 1950, pp. 409-410.

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sofica profonda per cui il liberalismo scuote radicalmente la legittimità del potere statale.16 Tuttavia, c’è pure un rovescio di questa medaglia. L’astuzia, ma anche l’aporia caratteristica della ragione liberale sta nel tradurre questi argomenti nella semplice idea che all’intervento del governo debba essere posto un limite. Si tratta di un’idea che non comporta mai né la negazione completa di questo intervento né la sua delimitazione chiara e stabile. Il liberalismo pretende sempre di porre un limite al governo, ma non lo fissa mai precisamente e definitivamente. Per cui è esso stesso che fa slittare questo limite ora in avanti ora indietro.17 Insomma, il liberalismo non può rinunciare completamente ad appellarsi alle ragioni della totalità, per quanto inconoscibile e intotalizzabile essa sia. E lo fa – dice Foucault – avvalendosi dell’idea di “società civile”, un’entità data per certa e indiscutibile, che incarna tanto l’indipendenza dell’insieme sociale rispetto allo Stato e al mercato, quanto il bisogno che un governo ne scongiuri la disgregazione. È proprio in suo nome, infatti, che il liberalismo finisce per restituire al governo di tutti e di ciascuno una legittimità sulla quale continuerà, all’occorrenza, a esercitare anche le sue critiche o le sue limitazioni.18 Dunque, volendo dare dei nomi precisi ai principali fattori dell’individualizzazione e della totalizzazione liberale del potere, diremo che nel primo caso abbiamo a che fare soprattutto con l’homo œconomicus e nel secondo con la “società civile”. In proposito è importante tener presente ciò che Foucault dice dell’homo œconomicus: questi – secondo lui – non è affatto il depositario di una libertà irriducibile, ma è piuttosto il paradigma dell’individuo meglio governabile da parte di un governo che debba 16. Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., lezione del 28 marzo 1979, pp. 232233 (sul tema della “mano invisibile” si vedano comunque le pp. 228-236); I. Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 1985, vol. II, “Dialettica trascendentale”, libri I-II, pp. 297-451. 17. Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., lezioni del 17 gennaio 1979, p. 44 sgg., e soprattutto del 24 gennaio 1979, p. 64 sgg.; in proposito cfr. inoltre P. Rosanvallon, Liberismo, Stato assistenziale, solidarismo (1981), trad. di P. Massimi, Armando Editore, Roma 1994. 18. Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., lezione del 4 aprile 1979, p. 241 sgg.

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far valere le ragioni della società stando attento anche a limitarsi di fronte all’indipendenza dell’economia.19 È del tutto azzardato perciò affidarsi a questo modello di individualità per affrancarsi dal doppio vincolo della razionalità politica moderna. Così come del resto è altamente improbabile che questa razionalità possa essere posta davvero in discussione con la semplice difesa delle forme di totalità sociale che essa stessa ha prodotto. 5. Torniamo ora all’importanza del collegamento tra il problema della razionalità politica e quello della cura di sé. Proprio nel 1982, come ho accennato, Foucault raggiunge una consapevolezza estrema della necessità di questo collegamento. Nel suo corso sull’Ermeneutica del soggetto così si esprime in proposito: “La serie formata da: relazioni di potere – governamentalità – governo di sé e degli altri – rapporto di sé con sé, costituisce una catena, una trama, e ritengo che sia proprio attorno a tali nozioni che diventa necessario tentare di articolare la questione della politica e quella dell’etica”.20 Il che, peraltro, sembra implicare il chiaro mantenimento di una specificità e di una relativa autonomia di etica e politica. La cura di sé per Foucault costituisce innanzitutto un insieme di pratiche di autogoverno che gli uomini devono essere in grado di applicare a se stessi. Essa mira a una padronanza delle passioni, delle inclinazioni, degli appetiti, che occorre formare e coltivare. L’uomo che vuole essere pienamente libero deve avere sempre ben chiaro che l’espressione immediata dei propri impulsi non produce necessariamente degli effetti benèfici sulla propria libertà. Egli perciò non potrà dare per probabili neppure i benefìci del libero sfogo delle ambizioni o del desiderio di arricchirsi. Nei libri e nei corsi degli ultimi anni Foucault fa emergere differenze molto importanti fra l’impostazione data a questi problemi nella città della Grecia classica e quella data a Roma nei primi due secoli dell’epoca imperiale. Nel contesto greco il governo di sé è un presupposto della capa19. Cfr. ivi, lezione del 28 marzo 1979, pp. 220-221; Sull’homo œconomicus si vedano comunque le lezioni dal 21 marzo al 4 aprile 1979, passim. 20. Id., L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 222.

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cità dell’individuo di accedere allo spazio pubblico e di confrontarsi liberamente con gli altri. Esso ha i caratteri molto spiccati del “dominio” o del “comando” che l’uomo libero deve essere in grado di esercitare su se stesso per poter padroneggiare attivamente anche le relazioni di potere in cui verrà a trovarsi nello spazio politico della polis. In tal senso, soprattutto nell’Alcibiade di Platone, la cura di sé raccomandata da Socrate ha i caratteri di un’opera di formazione che riguarda soprattutto i giovani che si accingono a entrare nella vita pubblica.21 Diversamente, nel contesto dell’impero romano la cura di sé viene presentata da Seneca o da Epitteto come una pratica che deve svolgersi lungo tutta l’esistenza. Essa – nello stesso tempo – sembra comportare il ripiegamento dell’individuo su se stesso. Ma in realtà – dice Foucault – essa non è affatto finalizzata al distacco dalla vita pubblica. Molti dei filosofi e dei personaggi che a Roma coltivano questa pratica si schierano a favore della repubblica, contro il potere dispotico dell’imperatore, e vengono perseguitati e condannati per questo.22 Ciò che è caratteristico della cura di sé, in questo caso, non è dunque il “riflusso”, ma un atteggiamento critico e disincantato, ovvero una costante “problematizzazione dell’attività politica”.23 Ora, lo stesso Foucault sembra suggerirci che la situazione romana sia quella alla quale può essere avvicinata maggiormente la condizione dell’uomo contemporaneo.24 Nella romanità dei primi due secoli dopo Cristo la dimensione limitata e controllabile dello spazio pubblico “locale”, tipica della polis, è stata ormai sopravanzata e riassorbita dalla dimensione “globale” del sistema imperiale. Perciò, l’uomo che riflette sulla sua condizione riconosce che nell’accedere alla vita politica dovrà fare fronte a una quantità e a un 21. Cfr. in generale Id., L’uso dei piaceri (1984), trad. di L. Guarino, Feltrinelli, Milano 1984, e Id., L’ermeneutica del soggetto, cit., in particolare le lezioni del 6 e del 13 gennaio 1982. 22. È il caso, per esempio, dello stesso Seneca, di Demetrio di Corinto, di Trasea Peto, di Elvidio Prisco ecc. In proposito, cfr. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., lezione del 27 gennaio 1982, pp. 127-129 e relative note. 23. Id., La cura di sé (1984), trad. di L. Guarino, Feltrinelli, Milano 1985, p. 90. 24. Cfr. quanto riferiscono i curatori di Tecnologie del sé, cit., p. XI.

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complesso enorme di relazioni imprevedibili, rischiose, fortemente gerarchizzate. Non ci sono più garanzie di realizzazione piena di un compito politico o di un ruolo pubblico né per l’uomo più virtuoso e forte né per chi sembri destinato dal suo status sociale a degli incarichi di potere. Occorre, quindi, avere cura di sé per divenire capaci di intervenire nella vita pubblica per scelta volontaria e meditata, oppure per riuscire ad abbandonare al momento opportuno l’attività politica, comprendendo che le difficoltà, i rischi e le forze che influiscono su di essa ne rendono profondamente incerte le fortune e gli esiti. Perciò, quello che l’uomo libero di quest’epoca chiede alla cura di sé non è soltanto la conquista di una forza personale che possa tradursi in virtù pubblica, ma soprattutto una serenità e un equilibrio che gli consentano tanto di partecipare consapevolmente alla complessità dei rapporti di potere, quanto di mantenere una distanza da essi, per non lasciarsene condizionare o travolgere indebitamente.25 La cura di sé costituisce, dunque, una forma attiva di prudenza che consente all’uomo libero anche di ridimensionare le sue pretese di determinare politicamente le sorti degli altri. Seneca, rivolgendosi a Lucilio, funzionario imperiale in Sicilia, gli ricorda le ragioni che gli permettono di comportarsi bene nell’esercizio della sua carica: egli riesce in questo scopo poiché si preoccupa costantemente di accompagnare allo svolgimento della sua funzione l’otium e le lettere, ovvero un tempo libero di riflessione dedicato a se stesso. È questo tempo libero lo strumento che gli consente di porre un limite all’esercizio del suo potere. È l’otium – dice Foucault – a tenere lontano l’individuo dal “delirio di presunzione di un potere che risulta debordante rispetto alle sue funzioni reali. Tutta la sovranità che esercita, questo tipo di individuo la colloca in se stesso, all’interno di sé, o più esattamente entro un rapporto di sé con se stesso”.26 Qui è evidente che la cura di sé si configura come una critica vissuta di ogni potere totalizzante. Essa implica necessariamente l’esi25. Cfr. in particolare M. Foucault, La cura di sé, cit., pp. 95-96. 26. Id., L’ermeneutica del soggetto, cit., lezione del 10 marzo 1982, p. 337.

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genza della limitazione del potere. Perciò, anche quando riveste importanti incarichi istituzionali, come Lucilio, colui che si prende cura di sé – dice Foucault – “non si crede un altro Principe, non ritiene di essere il sostituto del Principe, e neppure si confonde con il rappresentante globale del potere totale del Principe”.27 Per questi aspetti, la cura di sé è anche la prima condizione della libertà degli altri, in quanto “potere su se stessi che regola il potere sugli altri […], perché – come dice Foucault – il rischio di dominare gli altri e di esercitare su di loro un potere tirannico deriva proprio dal fatto che non si è avuta cura di sé e che si è diventati schiavi dei propri desideri”. E questo, beninteso, non vale solo per i potenziali tiranni politici, ma pure per “l’uomo potente e ricco che approfitta di questa potenza e della sua ricchezza per abusare degli altri”.28 L’indicazione generale che implicitamente sembra emergere da questo discorso riguardo alla questione del doppio vincolo è la seguente: poiché, in un modo o nell’altro, prendiamo sempre parte a delle relazioni di potere, dobbiamo sempre praticare un’etica della libertà su un duplice fronte: quello della nostra libertà dal governo di tutti e di ciascuno, e quello della libertà degli altri dal potere irreversibile che potrebbe esercitarsi pure attraverso di noi, anche se non ce ne rendiamo conto. Ma molti altri sono gli elementi utili che Foucault ci offre in merito al problema del doppio vincolo del potere. 6. Sia in Grecia che a Roma si dà un nesso strettissimo fra la cura e la conoscenza di sé: l’epimeleia heautou non può non intrecciarsi con lo gnothi seauton. Si tratta di un nesso che, in qualche modo, si perpetuerà anche nella cultura cristiana attraverso l’ascetismo e la confessione. Ma ciò che – secondo Foucault – a tale riguardo differenzia radicalmente la cura di sé greco-romana dalle analoghe pratiche cristiane è che la prima non tende a scoprire una verità del soggetto cercandola nella sua anima e nei suoi desideri per sottoporli a una mortificazione o a una rinuncia. Specie per i cinici, gli 27. Ivi, p. 336. Sul rapporto fra cura di sé e limitazione del potere si veda anche Id., “L’etica della cura di sé come pratica della libertà”, cit., pp. 280-281. 28. Ivi, p. 280.

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epicurei e gli stoici uno dei problemi principali è quello di fare esperienza di una verità che riguarda soprattutto “la nostra relazione con il mondo, il nostro posto all’interno dell’ordine naturale, la nostra eventuale dipendenza o indipendenza nei confronti degli eventi che accadono”.29 Per Seneca l’anima virtuosa è un’anima “in comunicazione con tutto l’universo e attenta a esplorarne tutti i segreti”, un’anima che in base a una simile attenzione “controlla se stessa, tanto nei propri atti, quanto nei propri pensieri”.30 La riflessione su di sé, insomma, è completa ed efficace solo se l’uomo libero si sforza di percepire l’insieme dei rapporti in cui è immerso. Questa riflessione – secondo Foucault – implica “una modalità di sapere di carattere relazionale” più che un sapere astrattamente scientifico delle cause degli eventi. Si tratta di divenire consapevoli della “relazione che sussiste tra gli dei, gli uomini, il mondo, le cose del mondo, da un lato, e noi dall’altro”.31 In questo modo l’individuo si pone al di sopra di se stesso, non per astrarsi dalla situazione in cui è, ma al contrario per poter ridiscendere in essa con la visione adeguata del fatto che egli è solo “un punto nel sistema generale dell’universo”.32 Ciò che, in ogni caso, distingue questo da ogni altro sapere è il fatto che esso non produce semplicemente descrizioni, ma si traduce immediatamente in prescrizioni, “poiché il nostro stesso modo di essere soggetti ne risulta […] trasformato”. Esso, insomma, ha un valore e un senso poiché tende immediatamente all’elaborazione di un ethos, a un’etopoiesi.33 È vero che gli stoici in particolare sembrano animati dalla fiducia nella possibilità di accedere e di partecipare alla razionalità dell’universo attraverso questo sapere. Ma le conseguenze di questa fiducia sono l’esatto contrario di un delirio di onniscienza e di onnipotenza. Ciò che risulta da questa conoscenza relazionale di sé all’interno del mondo è, infatti, una “tensione estrema” – dice Foucault – tra il sé come parte di una ragione universale e il sé come es29. Id., L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 446. 30. Ivi, lezione del 17 febbraio 1982, p. 247. Cfr. Seneca, Lettere a Lucilio, VII, 66, 6. 31. Id., L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 207. 32. Ivi, p. 245; ma si veda, in generale, la lezione del 17 febbraio 1982, pp. 242-253. 33. Ivi, pp. 208-210.

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sere individuale determinato, “collocato […] in un luogo del tutto circoscritto e delimitato”.34 Insomma, l’uomo della cura di sé definisce i termini della sua libertà etica attraverso una presa di coscienza della sua finitezza, che gli deriva dalla riflessione attenta sull’universalità intotalizzabile del mondo. Rispetto a questa finitezza, la “soluzione” non sta nell’aggrapparsi alla speranza di una salvezza ultraterrena, ma, piuttosto, nel liberarsi delle illusioni di poter fare le proprie scelte senza passare attraverso le avventure e le sventure del mondo; è così che si apprende a restare liberi, soppesando ogni volta attentamente queste scelte;35 è così, inoltre, che si diviene capaci di un modo irrinunciabile di essere liberi: quello di dire la verità di questo rapporto tra finitezza umana e indeterminabilità cosmica sia al potere che si crede capace di tutto, sia agli uomini che, non riconoscendo questa loro relazione con il mondo, non sanno neppure divenire veramente liberi.36 Non credo costituisca una forzatura ravvisare delle valenze “ecosistemiche” in questi aspetti fondamentali del governo di sé. Non a caso uno dei rari riferimenti di Foucault al “movimento ecologico” è presente nella sua intervista più importante su questo argomento. Qui, domandandosi “perché si ha cura di sé soltanto attraverso la cura della verità?”, egli rintraccia nell’ecologismo uno degli esempi significativi in tal senso: Il movimento che si definisce “ecologico” […] ha spesso avuto un rapporto un po’ ostile con una scienza o, in ogni caso, con una tecnologia che si legittima in termini di verità. Ma, in realtà, anche l’ecologia faceva un discorso di verità; la critica poteva essere fatta in nome di una conoscenza che riguardava la natura e 34. Ivi, p. 247. 35. Ivi, pp. 250-253. Del tutto consequenziale a questo lucido rapporto fra il sé e il mondo è quella che Foucault chiama la “squalificazione del pensiero dell’avvenire”. Cfr. ivi, lezione del 24 marzo 1982, p. 414 sgg. 36. Sul tema importantissimo del “dire la verità” (la parrhesia) si vedano le lezioni del 10 febbraio e del 10 marzo 1982 dell’Ermeneutica del soggetto. Sullo stesso tema Foucault ritornerà nei corsi, ancora inediti, tenuti al Collège de France nel 1983 e nel 1984, e in una serie di lezioni svolte a Berkeley nel 1983; cfr. Id., Discorso e verità nella Grecia antica (1983), trad. di A. Galeotti, Donzelli, Roma 1996.

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gli equilibri del processo del vivente. Si sfuggiva, dunque, a un dominio di verità, non giocando un gioco completamente estraneo al gioco della verità, ma giocando il gioco diversamente, o giocando un altro gioco, un’altra partita, altre mosse nel gioco di verità.37 7. Per concludere espliciterei una domanda (o la domanda) che aleggia attorno al lavoro dell’ultimo Foucault: non è comunque un’opzione individualistica quella che egli ci propone con le sue ricerche sul governo di sé? In realtà, basterebbe notare che nel suo ultimo libro egli distingue chiaramente la cura di sé dall’individualismo, poiché la prima non è espressione né di una valorizzazione assoluta dell’indipendenza dell’individuo, né di un privilegiamento necessario della vita privata. Essa è piuttosto un’“arte dell’esistenza” che non può non assumere il rapporto con se stessi come condizione primaria.38 In ogni caso, un interrogativo come quello appena richiamato rischia di farci ricadere esattamente nella trappola da cui Foucault cerca di liberarci: quella dell’eterna alternativa tra società e individuo o, se si preferisce, tra Stato e mercato. Proprio in Omnes et singulatim egli è estremamente chiaro in proposito: contrapporre allo Stato “l’individuo e i suoi interessi è rischioso quanto contrapporgli la comunità e le sue esigenze”.39 Nel corso del 19781979, inoltre, sostiene apertamente che il vero nodo politico da sciogliere non è più costituito dai rischi dello statalismo. Già a quell’epoca, per lui, liberalismo e neoliberalismo sono ormai il contesto generale entro il quale è destinato a svolgersi l’esercizio del potere politico.40 Ed è anche per questo che il suo vero scopo non potrà essere quello di rivalutare l’individuo tout court contro la società o lo Stato, ma quello di “promuovere nuove forme di soggettività attraverso il rifiuto – come lui stesso dice – di quel tipo di individualità che ci è stato imposto per così tanti secoli”.41 È il 37. Id., “L’etica della cura di sé come pratica della libertà”, cit., p. 288. 38. Cfr. Id., La cura di sé, cit., pp. 46-47. 39. Id., “Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica”, cit., p. 145. 40. Cfr. Id., Nascita della biopolitica, cit., lezione del 7 marzo 1979, p. 159.

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caso comunque di evidenziare le profonde differenze che si danno fra il soggetto della cura di sé e l’individuo delle libertà liberali. Abbiamo, da un lato, un soggetto che costruisce e coltiva la sua libertà etica sulla consapevolezza dei limiti che la propria relazione con la complessità del mondo impone innanzitutto a lui; dall’altro, abbiamo un individuo che rivendica libertà d’iniziativa e garanzie per la sua indipendenza dal governo, chiedendo a questo, ma non a se stesso, di non sfidare la complessità del mondo. E però a tale scopo, il soggetto liberale, per un verso, riduce la portata di questa complessità all’intrico delle relazioni socio-economiche; per un altro, enfatizza al massimo tale complessità, identificandola – come abbiamo visto – con l’inaccessibilità noumenica della “mano invisibile”. In realtà, alla luce delle analisi foucaultiane, è del tutto evidente che l’homo liberalis dovrebbe spingere più a fondo e in ogni direzione la sua drammatizzazione della complessità del mondo, e interrogarsi su se stesso e sulle sue relazioni con tale complessità, anziché presumere che il suo desiderio irriflesso di arricchirsi produca sempre e comunque non solo il suo bene, ma pure quello degli altri. Diciamo allora che, se la cura di sé ci pone in qualche modo sulla strada dello scioglimento del paradosso del doppio vincolo, questo non accade certo mediante una semplice scelta fra individualità e totalità. Questo scioglimento passa, piuttosto, attraverso una moltiplicazione attiva dei paradossi. Si tratta, infatti, di soggettivarsi liberamente passando attraverso una desoggettivazione, cioè distaccandosi da se stessi per cogliersi meglio nella propria immersione nel mondo. Si tratta, inoltre, di affermare il proprio sé attraverso la presa di coscienza della propria finitezza. Si tratta, infine, anche di “totalizzare” il rapporto fra il sé, la società e il mondo, ma sapendo avvertire nell’imprevedibilità di questo “tutto” inafferrabile un problema che va oltre l’individuo e la società, e che è perciò tanto più ineludibile non soltanto per il “governo”, ma per tutti e ciascuno. Omnes et singulatim, appunto. 41. Id., “Il soggetto e il potere”, cit., p. 244.

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Penalità e “governo delle popolazioni” tra Marx e Foucault DARIO MELOSSI

alibar ebbe a osservare che “una vera e propria lotta con Marx percorre tutta l’opera di Foucault ed è una delle fonti essenziali della sua produttività”.1 Mi sembra sia possibile riscontrare un certo consenso – peraltro, come vedremo, incoraggiato da affermazioni dello stesso Foucault – secondo cui il rapporto dello studioso francese con il marxismo fu, in ampia parte, il rapporto non tanto con “la teoria di Marx” quanto con i marxismi storicamente dati che Foucault si trovò di fronte nella sua esperienza storica, e francese, tra gli anni cinquanta e gli anni ottanta. Foucault ingaggiò una lotta con i marxismi della sua epoca, nelle due versioni in cui prevalentemente il marxismo si presentava al tempo. Vi era infatti, da un lato, il marxismo della tradizione ufficiale di provenienza secondo- e terzo-internazionalista, espresso dai partiti politici della sinistra francese dell’epoca (o comunque di ciò che ne rimaneva), e i cui capisaldi – che si dessero in una versione “riformista-socialdemocratica” o in una versione “rivoluzionaria-leninista” – erano sostanzialmente l’“economicismo”2 e lo “statalismo”. Erano cioè l’idea “sovrastrutturale” di un’economia determinante “in ultima istanza”, e l’idea dello “Stato” come “bersaglio da attaccare e [come] posizione privilegiata da occupa-

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1. E. Balibar, “Foucault et Marx. L’enjeu du nominalisme”, in AA.VV., Michel Foucault philosophe. Rencontre internationale, Paris 9, 10, 11 janvier 1988, Seuil, Paris 1989, p. 55. 2. M. Foucault, “Bisogna difendere la società” (1997), Feltrinelli, Milano 1998, p. 21.

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re”,3 due posizioni che si ricongiungono nella cosiddetta “teoria strumentale dello Stato”, caratterizzata dall’“economicismo” e dal “giuridicismo” del “potere”.4 La critica dell’“ipotesi repressiva” Ma tale concezione “tradizionale”, “marxista” del potere era all’epoca sempre più insidiata e soppiantata da un’altra, simile e diversa al tempo stesso, che si riassume in quello che è stato chiamato il “freudo-marxismo” degli anni sessanta e settanta, un’ideologia “liberazionista”5 o “gauchista, utopico-rivoluzionaria”,6 una tradizione “alternativa” che costituiva moneta corrente, per così dire, negli anni in cui Foucault espresse le sue opere più importanti, o almeno più note, tra Sorvegliare e punire7 e La volontà di sapere8 – una tradizione che rileggeva Marx attraverso le lenti di Freud, con l’aiuto della Scuola di Francoforte e soprattutto di uno degli autori più letti dal movimento studentesco “antiautoritario”, o della “democrazia partecipativa”, tra Germania e Stati Uniti, cioè Herbert Marcuse.9 Stabilendo una sorta di omologia tra “capitale”, “Stato” e “controllo sociale” – all’interno del quale comparivano anche l’istituzione familiare e le prime avvisaglie di una questione di “genere” – il potere veniva riletto secondo uno schema fondamentalmente patriarcalista in cui il “superuomo” di Hobbes, il capitalismo e il pater familias svolgevano grosso modo la stessa funzione, che era quella di reprimere un elemento “istintuale” di cui in qualche modo venivano visti come portatori una ridda di diversi “senza-potere”, fossero questi la classe operaia, i giovani, le donne, le minoranze etniche, gli emarginati, coloro che avevano orienta3. Id., Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978) (2004), Feltrinelli, Milano 2005, lezione del 1° febbraio 1978, p. 89. 4. Id., “Bisogna difendere la società”, cit., p. 21. 5. P. Breines, “Revisiting Marcuse with Foucault: An Essay on Liberation meets The History of Sexuality”, in J. Bokina, T.J. Lukes (a cura di), Marcuse: From the New Left to the Next Left, University of Kansas Press, Lawrence 1994, p. 44. 6. E. Balibar, “Foucault et Marx. L’enjeu du nominalisme”, cit., pp. 56-57. 7. M. Foucault, Sorvegliare e punire (1975), Einaudi, Torino 1976. 8. Id., La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 1978. 9. P. Breines, “Revisiting Marcuse with Foucault: An Essay on Liberation meets The History of Sexuality”, cit.

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menti sessuali non convenzionali ecc. (da cui, politicamente, l’ipotesi di improbabili “coalizioni-arcobaleno” che cercavano in qualche modo di unificare la rivolta contro il potere dei padri, uomini bianchi, anziani, ricchi ecc. – l’ideologia della cui supremazia, sulla base di una pretesa preminenza in termini di razionalità, si era storicamente affermata almeno dall’inizio dell’evo moderno: si vedano per tutti, i Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel10). È tale “ipotesi repressiva” che costituisce l’obiettivo polemico di Foucault tra Sorvegliare e punire, La volontà di sapere (esplicitamente dedicata alla critica della psicanalisi) e il corso del 1976 pubblicato sotto il titolo “Bisogna difendere la società”, nelle cui lezioni iniziali Foucault promette, ma non mantiene, una disamina della critica del concetto di repressione. Foucault nota come, in certo senso, tale ipotesi “liberazionista” costituisse già una risposta alla crisi del primo e più tradizionale tipo di marxismo, e cioè una risposta alla domanda se sia possibile “fare un’analisi non economica del potere”.11 Afferma Foucault: C’è una risposta-occasione, una risposta immediata che mi sembra riflessa dal fatto concreto di molte analisi attuali: il potere è essenzialmente quel che reprime. Il potere reprime la natura, gli istinti, una classe, degli individui. Ma non è certo il discorso contemporaneo ad aver inventato la definizione, ripetuta con insistenza, del potere come ciò che reprime. Ne aveva parlato Hegel per primo. E poi Freud, e poi Reich. In ogni caso, essere organo di repressione è, nel vocabolario attuale, l’epiteto quasi omerico del potere. Se così stanno le cose, non dovrebbe allora l’analisi del potere essere, innanzitutto ed essenzialmente, l’analisi dei meccanismi di repressione? Senza dovermene vantare troppo, credo di essere da ormai molto tempo diffidente nei confronti della nozione di “repressione”. 10. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (1821), Laterza, Roma-Bari 1979. 11. M. Foucault,“Bisogna difendere la società”, cit., p. 22.

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Il mio progetto – che abbandono però immediatamente – era di mostrarvi come lo strumento di cui l’analisi politico-psicologica si è dotata da ormai circa tre o quattro secoli, vale a dire la nozione di repressione – e che sembra piuttosto ricavata dal freudismo o dal freudo-marxismo –, si iscrivesse in realtà all’interno di una decifrazione del potere che veniva effettuata in termini di sovranità. Ma, dato che tutto ciò ci avrebbe indotto a ritornare su cose già dette, è preferibile procedere oltre e riprendere eventualmente l’argomento se, alla fine dell’anno, resterà un po’ di tempo.12 Dopo di ciò, nel prosieguo del corso, Foucault si dedica a sviluppare la sua visione del rapporto tra dominazione, razzismo e biopolitica. Prima, aveva brevemente ricordato le posizioni che era andato sviluppando sino allora, le “cose già dette”, ancora una volta soprattutto in Sorvegliare e punire e La volontà di sapere, sulla soggettivazione come legata al concetto di “disciplina” e tale concetto come quello realmente alternativo all’“ipotesi repressiva” in quanto incorpora la fondamentale intuizione foucaultiana – probabilmente il suo contributo più importante dal punto di vista sociologico, se non filosofico – del potere come qualcosa di produttivo, attivo, che costituisce, che offre ragioni e motivi invece di toglierli, reprimerli, censurarli ecc. Un potere che offre motivi all’azione invece che “dire semplicemente no” (così come nella propaganda antidroga di cui la first lady Nancy Reagan, in quegli stessi anni, era la principale testimone, “Just say no!”13). 12. Ivi, pp. 22, 24, 44 (corsivi miei). Vedi anche l’intervista di Alessandro Fontana e Pasquale Pasquino a Foucault (raccolta nello stesso anno, 1976), con cui si apre Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977 (ora in M. Foucault, Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, Torino 2001, pp. 171-192). 13. Tale posizione si era già manifestata in numerosi autori che avevano preso a oggetto la nascita della società democratica di massa, dal secondo volume della Democrazia in America di Tocqueville (1840, Cappelli, Bologna 1962) a Durkheim (Lezioni di sociologia. Fisica dei costumi e del diritto, 1898-1900, Etas Kompass, Milano 1978) a Gramsci (Quaderni del carcere, 1929-35, Einaudi, Torino 1975, 4 voll.), solo per citarne alcuni. E tutta la tematica nordamericana del “controllo sociale” nei primi tre quarti del XX secolo, muove essenzialmente da posizioni simili (su tutto ciò si veda D. Melossi, The State of Social Control: A Sociological Study of Concepts of State and Social Control in the Making of Democracy, Polity

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Paradossalmente, mi sembra si possa sostenere che nel prendere tale posizione, incentrata sul concetto di disciplina e che ripudia quello di repressione, Foucault sia rimasto sostanzialmente “fedele a Marx”. L’“ipotesi repressiva” infatti, piuttosto che sviluppare il lascito marxiano sembra semmai descrivere, come notato da Foucault stesso e poi da altri commentatori già citati, come Balibar e Breines, il freudo-marxismo degli anni sessanta, un pastiche di libertarianismo e liberazionismo di origine ottocentesca (che ben si saldava con il “terzomondismo” dell’epoca), e che ben spiega tra l’altro – anche se qui non è possibile argomentare come si dovrebbe tale affermazione – come sia potuto accadere che in seguito tale tradizione sia stata in parte egemonizzata dal neoliberismo, in quanto ciò che quest’ultimo e il “radicalismo” degli anni sessantasettanta avevano in comune era l’ostilità per i concetti di “Stato”, di “socialismo”, di welfare state “come sistema di controllo sociale” – come si diceva all’epoca, un’ostilità che ben si confaceva all’“antiautoritarismo” degli anni sessanta, del movimento studentesco, della “rivoluzione sessuale” (emblematico il caso di Wilhelm Reich, citato da Foucault sopra!).14 Compare il tema della “repressione” in Marx? Non tanto, mi sembra, salvo che in quegli scritti sullo Stato di natura “politica” più che “teorica” che sono fondamentalmente tangenziali ai suoi temi teorici di fondo. Nel Capitale, invece, il discorso di Marx sulla “disciplina” reca – sembra – una somiglianza a quello di repressione, per esempio in questo passo marxiano: Come nella cooperazione semplice, anche nella manifattura il corpo lavorativo in funzione è una forma d’esistenza del capitale. Il meccanismo sociale di produzione composto di molti operai parziali individuali appartiene al capitalista. La forza produttiPress-St. Martin’s Press, Cambridge-New York 1990, e, in estrema sintesi, i quattro contributi intitolati “Stato e controllo sociale 1-2-3-4”, in D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza. Teorie criminologiche e società tra Europa e Stati Uniti, Bruno Mondadori, Milano 2002). 14. In quegli anni generalmente il termine “repressione” era comunque riferito o alla “repressione sessuale” o alla “repressione politico-giudiziaria”, in una significativa scomparsa di qualsiasi dimensione “di classe”.

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va che deriva dalla combinazione dei lavori appare quindi come forza produttiva del capitale. La manifattura in senso proprio non solo assoggetta l’operaio, prima indipendente, al comando e alla disciplina del capitale, ma crea inoltre una graduazione gerarchica fra gli operai stessi. Mentre la cooperazione semplice lascia inalterato nel complesso il modo di lavorare del singolo, la manifattura rivoluziona questo modo di lavorare da cima a fondo, e prende alla radice la forza-lavoro individuale. Storpia l’operaio e ne fa una mostruosità favorendone, come in una serra, la abilità di dettaglio, mediante la soppressione d’un mondo intero d’impulsi e di disposizioni produttive, allo stesso modo che negli Stati del La Plata si macella una bestia intera per la pelle o per il grasso.15 Ma questa immagine, “storpia l’operaio e ne fa una mostruosità favorendone, come in una serra, la abilità di dettaglio, mediante la soppressione d’un mondo intero d’impulsi e di disposizioni produttive, allo stesso modo che negli Stati del La Plata si macella una bestia intera per la pelle o per il grasso”, che potrebbe apparire come un’immagine di “repressione”, o almeno di “soppressione” – e che richiama tanti passi analoghi in quella sorta di anticipazione filosofica del Capitale che sono i Manoscritti economico-filosofici del 1844 – è poi così lontana dal concetto “produttivo” di potere in Foucault? Si può forse negare che le pratiche di disciplina, nello stimolare particolari atteggiamenti umani (“la abilità di dettaglio”), “sopprimano” in certo senso “un mondo intero d’impulsi e di disposizioni produttive”? Concetto centrale in Marx è, piuttosto che quello di repressione, semmai il concetto di alienazione, di origine feuerbachiana, cui Marx rimane sostanzialmente fedele sino alla fine – come nota Derrida nel suo Spettri di Marx e a dispetto del marxismo “scientista” della coupure althusseriana16 –, l’idea 15. K. Marx, Il capitale. Libro I (1867), Editori Riuniti, Roma 1970, vol. II, pp. 60-61. 16. Nel citare il passaggio dall’Ideologia tedesca che è centrale alla sua argomentazione sugli “spettri di Marx”, Derrida afferma che colà “Marx mette in opera uno schema che Il capitale sembra aver continuamente confermato” (J. Derrida, Spettri di Marx, 1993, Raffaello Cortina, Milano 1994, p. 214): “Nella religione gli uomini fanno del loro mondo empirico

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cioè che il potere sia in qualche modo alimentato da coloro che vi sono assoggettati, i quali “creano”, o forniscono di “energia psichica”, per dirla freudianamente, i “fantasmi”, gli “spettri”, che li assoggettano – in un modo forse non troppo diverso da quello in cui, in Hobbes, i soggetti del patto sociale conferiscono la propria sovranità al Leviatano – attraverso il meccanismo della rappresentanza – o in cui, in Freud, l’io prende a proprio modello la figura del Super-io.17 Ma la metafora foucaultiana ripresa dal Panopticon benthamiano non esprime forse fondamentalmente lo stesso movimento? I soggetti del potere, rinchiusi nelle celle, guardano verso la torre del sorvegliante ma, non potendo vedere se sono effettivamente sorvegliati a causa di un sistema di tende – squisito particolare tecnologico in Bentham che diviene centrale nella nascita di tutta un’epoca18 – sono in certo senso costretti a sviluppare quel self-control, controllo di sé, che diviene cruciale per la possibilità stessa del self-government, governo di sé, autogoverno, democrazia. E in che senso, allora, lo stesso Foucault si è veramente distanziato dall’ipotesi feuerbachiana?19 un mondo semplicemente pensato, rappresentato, che si contrappone a essi come cosa estranea. Ciò non può essere affatto spiegato con altri concetti, con ‘l’autocoscienza’ e altre sciocchezze del genere, ma con tutto il modo di produzione e di scambio sinora esistito, il quale è tanto indipendente dal concetto puro quanto l’invenzione della self-acting mule e l’utilizzazione delle ferrovie dalla filosofia hegeliana. Ma se egli vuol parlare di un’‘essenza’ della religione, ossia di una base materiale di questo mostro, non deve cercarla nell’‘essenza dell’uomo’ né nei predicati di Dio, ma nel mondo materiale quale è stato trovato da ogni stadio dello sviluppo religioso. (Cfr. più sopra: ‘Feuerbach’.) Tutti i fantasmi che abbiamo passato in rivista erano delle rappresentazioni. Queste rappresentazioni, prescindendo dalla loro base reale (di cui del resto Stirner non tiene conto), intese come rappresentazioni all’interno della coscienza, come pensieri nel cervello degli uomini, ricondotte dall’oggettività nel soggetto, elevate dalla sostanza nell’autocoscienza, sono la mania o l’idea fissa” (K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, 1845-46, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 141). 17. Nelle pagine subito successive, Derrida passa a commentare il motivo dello “spettro” nel saggio di Freud tradotto in italiano con il titolo “Il perturbante” (1919, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1977, vol. IX, pp. 77-118). 18. Si veda il brillante saggio di Thomas Dumm (Democracy and Punishment: Disciplinary Origins of the United States, University of Wisconsin Press, Madison 1987) sulla nascita del carcere in America in relazione allo scritto già citato sulla democrazia di Tocqueville. 19. Il riunirsi in un movimento per trasformare lo stato di cose presente, sembra essere la “risposta” di Marx a tale situazione di alienazione. Vale la pena di citare, al di là delle sue ingenuità, un passo dai Manoscritti: “Quando gli operai comunisti si riuniscono, essi hanno primariamente come scopo la dottrina, la propaganda, ecc. Ma con ciò si appropriano insieme di un nuovo bisogno, del bisogno della società, e ciò che sembra un mezzo, è diventato

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Disciplina Piuttosto che il concetto di “repressione”, quindi, è il concetto di disciplina a costituire il nesso tra teoria marxiana – e anche teoria marxiana della pena, o meglio della pena nel capitalismo, cioè del carcere – e la teoria di Foucault in Sorvegliare e punire. Quando, in Carcere e fabbrica,20 applicammo alcune intuizioni marxiane tratte dalla sezione del Libro I del Capitale sulla cosiddetta “accumulazione originaria”, allo stato delle conoscenze sulla storia della pena, e soprattutto sulle origini del carcere, trovammo che le carceri, così come altre istituzioni sociali, erano state create in un momento in cui il principio disciplinare era divenuto un fondamentale principio organizzativo di molti aspetti della vita economica e sociale sia in Europa sia in Nord America, e ciò particolarmente in quelle aree in cui si erano sviluppate le varianti più radicali del movimento protestante (i Paesi Bassi, la Svizzera francese, le città dell’Ansa e l’Inghilterra tra seconda metà del Cinquecento e prima metà del Seicento – poco più tardi, in Nord America, la Pennsylvania quacchera di William Penn). Così facendo, ci accorgemmo di essere pervenuti a risultati assai simili a quelli che Michel Foucault presentava in Sorvegliare e punire. Nell’opera di David Garland Pena e società moderna,21 si accentua invece la discrasia tra ciò che viene descritto come “la tradizione marxista” della penalità e l’opera foucaultiana.22 Dopo aver scopo. Questo movimento pratico può essere osservato nei suoi risultati più luminosi, se si guarda a una riunione di ‘ouvriers’ socialisti francesi. Fumare, bere, mangiare, ecc. non sono più puri mezzi per stare uniti, mezzi di unione. A loro basta la società; la fratellanza degli uomini non è presso di loro una frase, ma una verità, e la nobiltà dell’uomo s’irradia verso di noi da quei volti induriti dal lavoro” (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1949, p. 145). 20. D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario, il Mulino, Bologna 1977. 21. D. Garland, Pena e società moderna (1990), il Saggiatore, Milano 1999. 22. Caratterizzando allo stesso tempo Carcere e fabbrica come “foucaultiano” (D. Garland, Pena e società moderna, cit., p. 349, nota 1). Per la verità, noi fummo in grado di leggere Sorvegliare e punire, fresco di stampa, quando il manoscritto di Carcere e fabbrica era quasi terminato, e ci compiacemmo del fatto che il testo del maestro francese giungesse a conclusioni assai simili alle nostre – almeno per quanto riguardava l’oggetto del nostro testo, che era l’origine dell’istituzione penitenziaria (vedi anche D. Melossi, “Alcune osservazioni sulla letteratura più recente”, in D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, il Mulino, Bologna 19792, p. 249).

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riassunto le tesi emerse negli studi di ispirazione marxista in “cinque punti chiave”, Garland conclude: Di questi cinque punti chiave, così come sono stati descritti, colpisce il fatto che, benché essi siano emersi all’interno di analisi marxiste o neo-marxiste, non dipendono necessariamente da quel contesto. Presi singolarmente o cumulativamente, i cinque punti non derivano da specifiche formulazioni marxiste, per esempio la teoria del plusvalore o il primato dell’economia, e non impiegano soltanto termini o concetti di quel vocabolario.23 Poco più avanti, accingendosi a discutere il contributo di Foucault e ponendolo in relazione con “l’orientamento marxista”, Garland sostiene che percorrere la strada di tale orientamento “significa analizzare la penalità dall’esterno, ossia valutare l’incidenza della divisione in classi sulle forme penali e sui modi in cui vengono utilizzate le sanzioni. Per contro Foucault si occupa dei rapporti di potere interni alla penalità, delle sue minute tecnologie e dei suoi saperi”.24 Al fine tuttavia di produrre una tale lettura, Garland deve concettualizzare l’approccio marxista, secondo quella visione tradizionale che abbiamo appena considerata, come fondata sull’idea che la penalità è il prodotto dello Stato, che lo Stato rappresenta la classe dominante, e che di conseguenza la penalità è lo strumento usato ai fini di quella stessa classe. Di conseguenza, nulla di specifico si potrebbe derivare dal contributo marxiano riguardo la penalità salvo per ciò cui ci siamo riferiti come una “teoria strumentale dello Stato”. Si potrebbe osservare che “lo Stato” cosiddetto, questa orribile astrazione che ha purtroppo infestato la letteratura “marxista” – in ciò Garland ha indubbiamente ragione – non gioca alcun ruolo nella teoria propriamente marxiana, anche se è comprensibile che abbia giocato un ruolo notevole negli scritti storici e politici di Marx, per non parlare poi delle tradizioni leniniste e socialdemo23. D. Garland, Pena e società moderna, cit. p. 174. 24. Ivi, pp. 176-177.

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cratiche che ne sono discese.25 Il luogo della lotta di classe, tuttavia, per Marx, è la produzione. Lo scopo della classe dominante, per Marx la classe capitalistica, è la produzione in un tempo di un prodotto più ampio di ciò che il capitalista ha dovuto anticipare per i cosiddetti fattori della produzione. Per Marx, qualsiasi altro aspetto – e particolarmente la sfera della politica – è subordinato al risultato di tale sfruttamento – cioè all’estrazione di plusvalore. Questo ragionamento – indubbiamente ridotto all’osso – avrebbe l’apparenza di un ragionamento economicistico. Dopotutto vi si parla di costi e ricavi. Ma il punto centrale della questione per Marx è che quella fondamentale differenza – che lui chiamerà “plusvalore” – dipende dall’adattarsi dei lavoratori alla disciplina di una nuova situazione, visto che particolarmente nel periodo dell’origine del modo di produzione capitalistico – ma questa situazione si riprodurrà poi sempre insieme all’espansione di tale modo di produzione – tali lavoratori non erano “nati” operai di fabbrica. Semmai, erano “nati” contadini. Per Marx, secoli di storia umana sono stati guidati da questa lotta fondamentale. Secondo Marx, infatti, il capitalista paga ciò che ha acquistato, la forza-lavoro dell’operaio, al suo “giusto” prezzo, ma tale merce particolare, unica nel suo genere, è caratterizzata dalla particolarità di essere “variabile” nel suo riprodurre il proprio “valore”. Il mistero di tale produzione – ed è questo il nocciolo geniale dell’analisi marxiana – non ha nulla a che fare con ciò che viene comunemente chiamato “economia” o “mercato” (salvo che per la “silenziosa coazione dei rapporti economici” nel mercato del lavoro, che prevale per “il corso ordinario delle cose”26). Ha molto a che fare invece con l’abilità del capitalista di estrarre dall’operaio, nel corso della giornata lavorativa, un valore per lui più grande di quello che retribuisce all’operaio. Tale abilità si basa su rapporti di potere che il capitalista deve essere in grado di stabilire “sul campo”, per così dire (anche, certo, con l’aiuto di quell’insieme di risorse e ideologie che i filosofi e i giuristi della modernità hanno 25. Per l’argomento più generale qui presentato si vedano ancora una volta le opere di cui alla nota 13. 26. K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., vol. III, p. 196.

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chiamato “lo Stato”). Tale potere del capitalista si deve esercitare sia rispetto al tempo sia alla qualità del lavoro: le due dimensioni che portano Marx a distinguere tra plusvalore “assoluto” e “relativo”, le due dimensioni, anche, rispetto alle quali capitale e lavoro hanno lottato tra loro dall’inizio del modo di produzione capitalistico – le due condizioni che Marx riassume nel concetto di disciplina del modo di produzione capitalistico. Secondo Marx quindi la storia che, come affermano Marx e Engels nei passi iniziali del Manifesto del partito comunista, è “storia di lotte di classi”,27 è la storia della lotta intorno alle condizioni che hanno riguardato la disciplina del lavoro e di tutto ciò che ha reso possibile creare, mantenere o sovvertire tale disciplina. In Carcere e fabbrica, avanzai l’idea di “istituzioni ancillari”.28 Sulla base di contributi che all’epoca venivano visti come cruciali, dal concetto goffmaniano di “istituzioni totali”29 a quello althusseriano di “apparati ideologici”,30 intendevo riferirmi con questo concetto a ciò che Bentham, nel frontespizio stesso di quel Panopticon che Foucault avrebbe reso famoso, chiamava “ogni tipo di stabilimento nel quale qualsiasi tipo di persone siano da tenere sotto sorveglianza, siano questi penitenziari, carceri, fabbriche, case di lavoro, ospizi per poveri, ospedali psichiatrici, lazzaretti, ospedali o scuole”.31 La mia idea all’epoca era che tale panoplia di stabilimenti svolgesse un ruolo “ancillare” nel senso di aiutare a preparare e gestire la forza-lavoro destinata alla fabbrica. Il carcere, per il suo carattere di “istituzione totale”, che riguardava cioè l’intera vita dei suoi soggetti, non era che il caso più “completo” di tali istituzioni. Lungi dall’essere il discorso marxiano sulla pena non specifico 27. K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista (1848), Einaudi, Torino 1948, p. 94. 28. D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario, 1977, cit., p. 73. 29. I. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali (1961), Einaudi, Torino 1968; F. Basaglia (a cura di), L’istituzione negata, Einaudi, Torino 1968. 30. L. Althusser, Ideologia e apparati ideologici di Stato, “Critica marxista”, 5, 1970, pp. 23-45. 31. J. Bentham, Panopticon (1787), in The Works of Jeremy Bentham, Russell & Russell, New York 1971, pp. 37-66.

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di quella concettualizzazione, quindi, al contrario il principio di “disciplina” costituisce il nesso tra la costruzione teorica marxiana nel suo nucleo più caratterizzante e originale, il concetto di plusvalore, e il discorso sulla penalità. Costituisce anche il terreno comune tra i discorsi di Marx e di Foucault (contra Garland).32 Per esempio, nelle pagine finali della sezione sulla disciplina in Sorvegliare e punire, Foucault afferma: “In effetti i due processi, accumulazione degli uomini e accumulazione del capitale, non possono venir separati; non sarebbe stato possibile risolvere il problema della accumulazione degli uomini senza la crescita di un apparato di produzione capace nello stesso tempo di mantenerli e di utilizzarli; inversamente le tecniche che rendono utile la molteplicità cumulativa degli uomini accelerano il movimento di accumulazione del capitale”.33 E, nella pagina seguente, la caratterizzazione foucaultiana delle “libertà formali e giuridiche”34 richiama alla mente la famosa distinzione marxiana nel Capitale tra “sfera della circolazione” – “un vero Eden dei diritti innati dell’uomo [dove] regnano soltanto Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham”35 – e “sfera della produzione”: 32. Più o meno negli stessi anni, così rispondeva Foucault a una domanda sulla sua relazione con il marxismo, in una delle tante interviste rilasciate: “C’è anche da parte mia una specie di gioco. Mi accade spesso di citare dei concetti, delle frasi, dei testi di Marx, ma senza sentirmi obbligato ad aggiungervi la prova di autenticità che consiste nel fare una citazione di Marx, nel mettere accuratamente la referenza a piè di pagina e nell’accompagnare la citazione d’una riflessione elogiativa. Il che fa sì che si sia considerati come qualcuno che conosce Marx, che lo riverisce e che sarà onorato dalle riviste cosiddette marxiste. Io cito Marx senza dirlo, senza mettere virgolette, e poiché la gente non è capace di riconoscere i testi di Marx, passo per essere colui che non lo cita. Un fisico, quando lavora in fisica, prova forse il bisogno di citare Newton o Einstein? Li usa, ma non ha bisogno di virgolette, di note a piè di pagina o di un’approvazione elogiativa che provi fino a che punto è fedele al pensiero del Maestro. E poiché gli altri fisici sanno quel che ha fatto Einstein, quel che ha inventato, dimostrato, lo riconoscono subito. È impossibile fare storia oggi senza usare una sequela di concetti legati direttamente o indirettamente al pensiero di Marx e senza porsi in un orizzonte che è stato descritto e definito da Marx. Al limite, ci si potrebbe chiedere che differenza ci sia tra esser storico ed essere marxista” (M. Foucault, “Conversazione sulla prigione: il libro e il suo metodo”, 1975, in Microfisica del potere, cit., p. 134, ora in Il discorso, la storia, la verità, cit., pp. 145-146, corsivo mio). 33. Id., Sorvegliare e punire, cit., p. 240. 34. Ivi, p. 242. 35. K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., vol. I, p. 193.

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Le discipline reali e corporali hanno costituito il sottosuolo delle libertà formali e giuridiche. Il contratto poteva ben essere formulato come fondamento ideale del diritto e del potere politico; il panoptismo costituiva il procedimento tecnico, universalmente diffuso, della coercizione. Esso non ha cessato di operare in profondità nelle strutture giuridiche della società, per far funzionare i meccanismi effettivi del potere contro il quadro formale che questo si era dato. I “Lumi” che hanno scoperto le libertà, hanno anche inventato le discipline.36 Naturalmente l’ortodossia marxiana avrebbe ribattuto qui che Foucault non coglieva la specificità di quel particolare “mistero della produzione” che faceva sì che il valore della forza-lavoro fosse sì scambiato “al suo prezzo” ma fosse tale da riprodurre al tempo stesso un valore più alto del prezzo cui veniva scambiato, l’origine di ciò che Marx chiama “plusvalore”. Foucault tuttavia non era interessato a scandagliare tale mistero. Non era interessato al concetto di plusvalore, che per Marx era al centro di tale scambio ineguale, nello stesso modo in cui non era interessato a dare un’interpretazione geschichtphilosophisch della sua analisi – in quanto l’identificazione marxiana del concetto di plusvalore è anche alla radice della concezione della possibilità di superare e trasformare i rapporti di produzione capitalistici. Pensare Marx dopo Foucault è un modo di pensare il capitalismo non come qualche necessità storico-filosofica di sviluppo della lotta di classe e quindi di potenziale finale superamento di tale lotta. Quella del capitalismo può essere piuttosto concepita – mi sembra – come un’invenzione geniale, una geniale invenzione morale, un’invenzione nella quale una certa idea di razionalità – un’idea, come ben avrebbe mostrato Weber,37 informata da una concezione ascetica – era cruciale. Penalità e governo delle popolazioni Tale lettura di Marx dopo Foucault porta a riconsiderare certi pas36. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 242. 37. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-05), Sansoni, Firenze 1965.

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saggi storici in un modo che mi sembra interessante. Una volta che il rapporto tra “fabbriche” e “carceri” sia liberato dalla visione teleologica in cui l’una è la realtà essenziale dell’altra, da quella metafora architettonica della “sovrastruttura” che troviamo dall’Ideologia tedesca alla Prefazione alla Critica dell’economia politica38 – ma anche nella giustapposizione del Capitale tra sfera della produzione e sfera della circolazione –, allora la storia della penalità nelle inglesi Bridewells del XVI secolo – così come in quelle “case di lavoro” olandesi dell’inizio del secolo successivo, che diventeranno poi il seme di tutta l’evoluzione successiva del carcere – diviene qualcosa di diverso da un occasionale contributo al modo di produzione capitalistico, pérdono il loro carattere meramente “ancillare” e divengono semmai l’immagine di un certo progetto, una certa visione dell’uomo, della donna, e della società, di un certo tipo di razionalità che tentava di trasformare tutti gli aspetti della società, della moralità e del lavoro. Al punto che la visione della penalità diviene altrettanto significativa della trasformazione storica che stava avendo luogo in quei secoli quanto l’introduzione della manifattura e della fabbrica, e forse ancor di più, in quanto ancor più chiaramente segnata dal senso morale di tutto questo sviluppo complessivo. In altre parole: i buoni borghesi olandesi dell’inizio del XVII secolo trovavano a propria disposizione, nella realtà dei loro traffici e della vita della città di Amsterdam, da un lato le enormi ricchezze accumulate nei commerci con le Indie, nel finanziamento delle guerre, nella depredazione delle campagne, e dall’altro la miseria economica e morale di uomini, donne e fanciulli che – al tempo stesso – lasciavano le campagne e si rifugiavano nelle città, dediti spesso all’ozio, alla mendicità, alla “lascivia”, quando non al più aperto brigantaggio e ai crimini più efferati. Come potevano tali bravi mercanti, istruiti del valore del lavoro e di una vita metodica e ordinata dall’insegnamento di Calvino e di altri predicatori, ritrarsi dall’idea geniale di congiungere insieme l’accumulazione dei be38. K. Marx, “Prefazione” (1859), in Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1971.

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ni – che stavano per divenire “capitali” – e delle persone, e conseguentemente offrire lavoro, o costringere allo stesso coloro che vi si rifiutavano, a maggior gloria di se stessi, dei poveri e di dio? Come si poteva rifiutare l’intuizione di legare tra loro, se occorreva con l’uso della forza, e quindi della penalità, uomini e cose? Come non si poteva vedere la necessità di una disciplina che instaurasse un ordine del lavoro che produceva frutti copiosi non solo di quattrini sonanti nelle proprie tasche – segno certo di grazia divina, come Weber ci spiegherà – ma soprattutto un ordine, una pace, e una serenità d’animo, che ne erano segno altrettale e ancor maggiore?39 Un altro passaggio esemplare in quest’uso della penalità come strumento di governo delle popolazioni è quello del periodo dopo la guerra civile negli Stati Uniti, quando la fine del regime della schiavitù legale e l’acquisizione della piena cittadinanza (giuridica), o quasi, da parte della minoranza afroamericana significò la fine delle pene di tipo “domestico” che avevano predominato sino a quel momento – per cui il padrone degli schiavi, vero e proprio padre-padrone, pater familias, esercitava su di essi un tipo di potere che era simile a quello esercitato sulle altre figure rappresentate come “minori”, cioè figli e donne – e l’inizio invece di quella “disproporzionalità” nell’esperienza della penalità (pubblica) che è rimasta poi come costante dell’esperienza afroamericana. Anche gli stati del Sud videro quindi, dopo la guerra civile, un’improvvisa ed enorme crescita della presenza afroamericana nelle carceri, simile a quella che già si era verificata nel Nord, dove una sparuta minoranza nera “libera” già riempiva le carceri degli stati abolizionisti 39. Quindi un discorso che probabilmente è più vicino a quello di Max Weber nell’Etica, già di per sé generalmente considerato una “risposta” a Marx, centrato com’è sul concetto di “affinità elettive” – tra l’elemento che Marx avrebbe definito “strutturale” del capitalismo e quello “sovrastrutturale” dell’“etica protestante” –, a differenza invece del “determinismo” marxiano (R. Howe, Max Weber’s Elective Affinities: Sociology Within the Bounds of Pure Reason, “American Journal of Sociology”, 84, 1978, pp. 366-385). A proposito dell’“ordine” e della “pace”, scrive Bentham nel Panopticon (quasi prevedendo le critiche di cui sarà oggetto circa due secoli dopo): “È più probabile che la felicità venga aumentata o diminuita da tale disciplina? – Chiamateli pure soldati, chiamateli monaci, chiamateli macchine: anche se così fosse ma fossero felici, non mi importa. Guerre e tempeste costituiscono ottimi soggetti per la lettura, ma la pace e la calma son assai meglio da godersi” (J. Bentham, Panopticon, cit., p. 64).

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prima della guerra civile. Appare qui con particolare chiarezza ciò che il grande criminologo e penologo americano Thorsten Sellin40 – cui dobbiamo molte delle ricerche cui sto facendo riferimento –, sviluppando un’intuizione di Gustav Radbruch,41 chiamava penal slavery, la servitù penale, quella “schiavitù, per un tempo, delle opere” che lo stesso Beccaria aveva raccomandato per coloro i quali, responsabili dell’“impoverimento” altrui tramite la commissione di furti, sarebbero dovuti essere puniti tramite pene pecuniarie ma, impossibilitati a pagare poiché coloro che commettono furti sono “quella infelice parte di uomini a cui il diritto di proprietà (terribile e forse non necessario diritto) non ha lasciato che una nuda esistenza”,42 dovevano quindi essere rinchiusi nelle nuove istituzioni carcerarie ispirate ai valori del lavoro e della disciplina (la casa di correzione di Milano, primo esempio italiano del tipo di istituzioni che erano state create quasi due secoli prima in Inghilterra e in Olanda, venne inaugurata da Maria Teresa nell’avanzato Stato milanese quasi nello stesso anno in cui Beccaria pubblicava Dei delitti e delle pene – esempio storico impressionante, nel contesto italiano, di quella frase di Foucault già citata sopra, secondo cui “I ‘Lumi’ [avendo] scoperto le libertà, hanno anche inventato le discipline”43). Nel periodo dopo la guerra civile vediamo quindi – come ben spiega Angela Davis in un recente libretto di grande interesse,44 ma riprendendo ancora una volta un materiale ben conosciuto dalla penologia soprattutto sotto l’influenza di Sellin – un’estensione ampia e improvvisa del sistema dei lavori forzati a contratto, il convict lease system, le chain gangs, che riportavano i neri sulle piantagioni, rimaste senza mano d’opera, ma questa volta come forzati, li sottoponevano alle medesime pene domestiche d’un tempo, come la frusta, ma ora come pene disciplinari interne alla gestione penale, e per giunta, non essendo più proprietà dell’im40. T. Sellin, Slavery and the Penal System, Elsevier, New York 1976. 41. G. Radbruch, “Der Ursprung des Strafrechts aus dem Stande der Unfreien”, in Elegantiae Juris Criminalis, Verlag für Recht und Gesellschaft, Basel 1938, pp. 1-11. 42. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764), Einaudi, Torino 1965, § XXII sui furti (p. 52). 43. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 242. 44. A.Y. Davis, Are Prisons Obsolete?, Seven Stories Press, New York 2003.

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prenditore ma forza-lavoro servile contrattata, li esponevano al rischio della piena fungibilità – “nuda vita”? – in un modo che ci ricorda quello dei campi di lavoro tedeschi nella Seconda guerra mondiale o dei gulag di Stalin,45 un concetto di fungibilità della forza-lavoro che è probabilmente difficile separare dal tema esplorato da Foucault in “Bisogna difendere la società” relativo al cosiddetto “razzismo di stato”. Giustamente Angela Davis, come anche Loïc Wacquant, fa notare la continuità dell’esperienza afroamericana della penalità durante il prosieguo della storia degli Stati Uniti ma soprattutto nell’ultimo periodo, quello che Alessandro De Giorgi in un lavoro recente46 ha associato al cosiddetto “postfordismo” – periodo in cui, è bene ricordarlo, vi è stata una crescita estrema dell’incarcerazione, che è aumentata tra il periodo di crisi che sfocerà poi nel postfordismo, verso la metà degli anni settanta, e la fine del secolo XX, di ben sette volte, e che riguarda tutta la popolazione nordamericana, compresi bianchi e donne sia bianche sia afroamericane, ma che per gli afroamericani ha raggiunto punte tali da potersi parlare, per certe sezioni di questa popolazione, di una vera e propria gestione diretta di esse da parte di quello che negli Stati Uniti è chiamato il “sistema correzionale”.47 Anche qui, è corretto a mio avviso far notare come la gestione della penalità non sia mero riflesso di trasformazioni socio-economiche. Essa è vero e proprio governo di tali trasformazioni, in un duplice senso – una duplicità di senso che viene talvolta letta come opposizione di significato, mentre a mio avviso è più produttivo leggerla come composizione di significati –, e cioè attraverso le lenti di quella “economia politica della penalità”, esplorata in opere come la pionieristica Pena e 45. G. Radbruch, “Der Ursprung des Strafrechts aud dem Stande der Unfreien”, cit.; T. Sellin, Slavery and the Penal System, cit.; A.Y. Davis, Are Prisons Obsolete?, cit.; L. Wacquant, Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale, ombre corte, Verona 2002. 46. A. De Giorgi, Il governo dell’eccedenza, ombre corte, Verona 2002. 47. Anche perché, si deve ricordare che alla popolazione carceraria, oltre due milioni di persone detenute, si devono aggiungere tutti coloro che sono sottoposti a qualche tipo di controllo carcerario extra mœnia, per un totale che raggiunge la strabiliante cifra di quasi sette milioni di persone, il 3,2% di tutti gli adulti (1 ogni 32 abitanti!), il 10% della popolazione afroamericana adulta! (Dati dal Bureau of Justice Statistics.)

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struttura sociale di Rusche e Kirchheimer48 – “le grand livre de Rusche et Kirchheimer”, come lo chiama Foucault in Sorvegliare e punire49 –, che mette in relazione il procedere del mercato del lavoro capitalistico con i grandi passaggi epocali nella gestione della penalità, e al tempo stesso attraverso l’intuizione durkheimiana, peraltro stranamente assente dall’opera di Foucault, della funzione simbolica della pena come discorso rivolto soprattutto in direzione della coscienza collettiva “degli onesti”.50 Come strumento, cioè, di rappresentazione sociale volta al fine di rafforzare la coesione, la solidarietà e la moralità di quella parte della società che non è direttamente oggetto delle istituzioni penali ma che del dispiego del potere di queste è testimone e spettatrice, nello stesso modo in cui oggi così tanta rappresentazione massmediatica è rappresentazione di storie, più o meno reali, più o meno fantastiche, del binomio crimine-pena. Questa doppia gestione, questo uso di una “società della paura” – come ci ha ben spiegato Alessandro Dal Lago51 nel contesto italiano riprendendo le analisi di Mike Davis su Los Angeles,52 un uso che è divenuto a mio avviso ancora più trasparente dopo l’11 settembre, quando è stato proiettato per così dire a livello internazionale – ha qualcosa di entrambi gli aspetti, è un complessivo governo delle popolazioni sia nel senso di gestione diretta di fasce amplissime delle popolazioni marginali sia di gestione indiretta della società degli onesti attraverso lo spettacolo della gestione delle prime (basti pensare ai cop shows televisivi, quando il criminale, in genere nero e spesso seminudo, viene arrestato e buttato a terra dal poliziotto superman: titillante spettacolo sadico per i couch potatoes di tutto il mondo – e giustamente la stampa americana ha fatto osservare, in merito alle torture nel carcere iracheno di Abu Ghraib, che esse ripete48. G. Rusche, O. Kirchheimer, Pena e struttura sociale (1939), il Mulino, Bologna 1978. 49. Nell’edizione originale – ridotto a un più modesto “importante testo” nella traduzione italiana (p. 27). 50. E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale (1893), Edizioni di Comunità, Milano 1999; Id., Le regole del metodo sociologico (1895), Edizioni di Comunità, Milano 1979. 51. A. Dal Lago, Non-persone, Feltrinelli, Milano 1999. 52. M. Davis, Geografie della paura (1998), Feltrinelli, Milano 1999, pp. 373-436.

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vano pratiche ben conosciute nelle “normali” carceri americane53). Ma se questo “governare attraverso la criminalità” – come l’ha chiamato Jonathan Simon54 – è probabilmente l’aspetto più manifesto, specie al di fuori del confine degli Stati Uniti (anche se vedremo tra poco il caso dei migranti in Europa), credo che anche il primo aspetto, quello leggibile attraverso le lenti di un’“economia politica della penalità”, non vada trascurato, perché in un certo senso l’incarcerazione di massa che si sviluppa negli Stati Uniti dalla metà degli anni settanta in poi è l’altra faccia di ciò che George Ritzer55 ha chiamato il processo di “macdonaldizzazione” del lavoro americano. Può anche essere, come sostengono alcuni teorici del postfordismo, che il cosiddetto lavoro “immateriale” segni la “tendenza” – questo ambiguo e dubbio termine – del nostro divenire, ma sta di fatto che la gran parte della ripresa economica finalmente sviluppatasi negli Stati Uniti negli anni di Clinton, sotto il gran battage della cosiddetta “nuova economia”, riguardò in gran parte lavori part time, non sindacalizzati, poveri di contenuto, spesso giovanili e/o femminili, assai scarsamente produttivi e soprattutto scarsamente remunerati, tant’è che all’inizio degli anni novanta dopo quasi vent’anni di strisciante crisi economica il salario medio per unità di tempo era di circa il 20% inferiore a quello dei primi anni settanta (dopo che si era anche verificata una repentina e ripida inversione nell’andamento decrescente di lungo periodo degli 53. Scrive Angela Davis (in Are Prisons Obsolete?, cit., p. 95), nel commentare il processo di privatizzazione delle carceri americane: “Un esempio drammatico riguarda Capital Corrections Resources, Inc., che gestisce il Centro di Detenzione di Brazoria, un’istituzione di proprietà del governo a circa quaranta miglia da Houston, in Texas. Brazoria emerse all’attenzione dell’opinione pubblica nell’agosto 1997 quando vennero trasmesse sulla televisione nazionale riprese video in cui si mostravano detenuti che venivano azzannati da canipoliziotto, selvaggiamente colpiti a calci nei genitali e calpestati dalle guardie. I detenuti, obbligati a strisciare per terra, venivano anche colpiti con colpi di pistola a stordimento elettrico [stun guns], mentre le guardie – che si rivolgevano a uno dei detenuti neri con il termine ‘ragazzo’ – gridavano, ‘strisciate più veloci!’”. La fonte citata da Angela Davis è l’articolo di Madeline Baro apparso sul “Philadelphia Daily News” del 20 agosto 1997 e intitolato Video Prompts Prison Probe. Cfr. anche l’editoriale del “New York Times” del 17 maggio 2004 intitolato The Dark Side of America. 54. J. Simon, “Governing through crime”, in L.M. Friedman, G. Fisher (a cura di), The Crime Conundrum, Westview Press, Boulder (Co.) 1997, pp. 171-189. 55. G. Ritzer, Il mondo alla McDonalds (1993), il Mulino, Bologna 1997.

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indici di disuguaglianza), e che ancora oggi, nonostante la tanto pubblicizzata prosperità degli anni di Clinton, è inferiore a quello di quando Reagan si insediò alla Casa Bianca, e nuovamente in caduta.56 Questi lavori “alla McDonald” sono stati quelli offerti alle fasce marginali della popolazione americana – la carota che è andata ad aggiungersi al bastone dell’incarcerazione di massa che era stato usato per vent’anni e che, in assenza della carota, non aveva prodotto alcun effetto –, tant’è che alcuni dei più avveduti criminologi americani, come Richard Rosenfeld,57 hanno infatti invocato la prosperità economica, questo tipo di prosperità economica degli anni clintoniani, per spiegare almeno in parte la diminuzione dei tassi di criminalità di quegli anni (ora stanno risalendo di nuovo!) attribuita, invece, dalla propaganda neoliberale ai vari programmi di tolleranza zero ecc.58 Alla combattività della classe operaia internazionale degli anni sessanta e dei primi anni settanta, si era risposto infatti con un’espulsione di massa dal lavoro fordista e con la creazione di un mercato del lavoro duale, in cui il settore largamente minoritario della produzione, quella del lavoro cosiddetto “immateriale” tanto per intenderci, ha risposto a certe aspettative che la contestazione del lavoro di fabbrica aveva creato, mentre invece per la gran parte dello sviluppo si è avuta una disciplinarizzazione di massa della forza-lavoro che ha in certo senso assecondato, suggerito e incoraggiato – anche attraverso la lotta al welfare state che si cerca di trasformare in un workfare state – l’espansione del settore macdonaldizzato all’interno del quale solo poteva entrare una classe operaia avvilita, sconfitta, demoralizzata, la quale si trovava in una posizione simile a quella del giovane Jack London nel lontano 1903, quando, resosi conto di essere “caduto dal proletariato in quello che i sociologi chiamano ‘il decimo sommerso’” vede “‘la fossa so56. B.M. Friedman, Bush and Kerry: A Big Divide, “The New York Review of Books”, 16, 2004, pp. 27-29. Juliet Schor, in The Overworked American, Basic Books, New York 1991, ha mostrato come il modo in cui il reddito delle famiglie è rimasto sostanzialmente uguale, fu attraverso un aumento impressionante del tempo di lavoro, soprattutto da parte delle donne americane. 57. R. Rosenfeld, Crime Decline in Context, “Contexts”, 1, 2002, pp. 25-34. 58. Su questo vedi anche A. De Giorgi, Zero tolleranza, DeriveApprodi, Roma 2000.

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ciale’ [the social pit] […] e al fondo della fossa li vedevo, e io sopra di loro, di poco, che mi aggrappavo alla parete scivolosa con tutta la mia forza e il mio sudore”.59 Questo scriveva London circa un secolo fa, in un periodo della storia della classe operaia che negli anni sessanta pensavamo non avremmo mai più veduto ma che è in parte di nuovo con noi. Intorno a quegli stessi anni, quando London scriveva quelle righe, in Italia i lavoratori delle campagne del reggiano avevano un motto che campeggiava sui loro striscioni e sui loro cartelli, “uniti siamo tutto, divisi siam canaglia”.60 Ridurre parte almeno della classe operaia, o almeno sezioni di questa, al ruolo di canaglia, è l’obiettivo dei processi di ristrutturazione capitalistica nel loro tentativo di sconfiggere una classe operaia quando essa sia divenuta troppo combattiva, troppo orgogliosa, “si sia fatta superba” e non accetti di star più “al posto che le compete”. Il ruolo svolto dai processi migratori è parte essenziale di tale tentativo. Abbiamo già visto alcuni episodi di questa storia, a partire da mendici, ladruncoli e prostitute costretti a entrare nei portoni della Rasphuis di Amsterdam all’inizio del XVII secolo. Ma tanti altri esempi posteriori si affollano alla mente: le “classi pericolose” del XIX secolo,61 gli hoboes e i più politicizzati wobblies delle grandi trasformazioni della classe operaia nordamericana nei primi decenni del secolo,62 le migrazioni di massa degli europei dell’Est e del Sud verso le Americhe all’incirca nello stesso periodo, e il panico rispetto alla loro criminalità, sia nel luogo di origine sia in quello di accoglienza – figli e nipoti di chi era stato rappresentato quale “brigante” i cui figli e nipoti sarebbero stati rappresentati quali gangsters.63 Viene alla men59. J. London, “How I became a socialist” (1903), in P.S. Foner (a cura di), Jack London: American Rebel, The Citadel Press, New York 1964, pp. 363-365. 60. Titolo della mostra organizzata nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della Camera del Lavoro di Reggio Emilia (inaugurata il 25 aprile 2001), titolo basato su di una parola d’ordine di fine Ottocento del proletariato reggiano. 61. L. Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale (1958), Laterza, Roma-Bari 1973. 62. N. Anderson, Il vagabondo. Sociologia dell’uomo senza dimora (1923), Donzelli, Roma 1994. 63. V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, manifestolibri, Roma 1993; R.D. Salvatore, C. Aguirre (a cura di), The Birth of the Penitentiary in Latin

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te l’altra grande migrazione di massa che a quella si sostituì una volta che negli anni venti si decretò la fine dell’afflusso dall’Europa, quella degli afroamericani dagli stati del Sud degli Stati Uniti verso le grandi metropoli prima dell’Est e del Midwest e poi verso l’Ovest, dando vita, nei loro discendenti, a una delle più grandi epopee della “pericolosità” contemporanea, dal Thomas Bigger del grande romanzo di Richard Wright Native Son,64 nella Chicago degli anni quaranta, sino alla costituzione delle gang che negli anni ottanta si disputavano il territorio per il mercato del crack, passando per i tentativi di democrazia radicale degli anni sessanta (Black Panthers). Vengono alla mente, nel secondo dopoguerra, le migrazioni di massa degli europei del sud verso il nord, che questo fosse il Nord Italia, la Svizzera, la Germania, o i paesi scandinavi, anche qui dando origine a un “panico” riguardo alla loro criminalità,65 e infine, storia attuale, l’“invasione” di nordafricani ed est-europei, e asiatici e latino-americani e altri africani, verso l’Europa – questa volta anche l’Europa meridionale –, un’“invasione” anch’essa segnata dallo stigma della “criminalità”.66 Come se, in certo senso, ai “margini” dello sviluppo, il processo di “accumulazione originaria” continuasse incessantemente nel suo processo di “colonizzazione” di “mondi” “altri”.67 Si consideri, per esempio, nel nostro piccolo mondo “italiano”, il modo in cui il fenomeno dell’immigrazione dai primi anni novanta in poi ha in certo senso fatto letteralmente rivivere l’istituzione carceraria, che nel centro-nord e rispetto a particolari “utenze” come i minori si sta letteralmente “specializzando” in direzione degli stranieri. AlAmerica: Essays on Criminology, Prison, Reform, and Social Control, 1830-1940, University of Texas Press, Austin 1996. 64. R. Wright, Native Son, Harper & Row, New York 1940 (trad. Paura, Bompiani, 1983). 65. F. Ferracuti, L’emigrazione europea e la criminalità (1968), “Rassegna di studi penitenziari”, 20, 1970. 66. M. Tonry (a cura di), Ethnicity, Crime, and Immigration. Comparative and Cross-National Perspectives, University of Chicago Press, Chicago 1997; I.H. Marshall (a cura di), Minorities, Migrants, and Crime, Sage, London 1997; M. Barbagli, Immigrazione e criminalità in Italia, il Mulino, Bologna 1988. 67. J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo (1981), il Mulino, Bologna 1986, vol. II, pp. 951-1088.

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lora si comprende come “la crisi del carcere” degli anni sessanta e settanta, la sua apparentemente palese obsolescenza e arcaicità, quella crisi che anche l’opera di Foucault aveva contribuito a mettere in luce, fosse collegata a un “pubblico” particolare che veniva concepito ormai come “oltre” il carcere. La situazione è drammaticamente cambiata dai primi anni novanta in poi con l’inizio di un processo di immigrazione non irrilevante che è andato a costituire, anche in Italia e più generalmente in Europa, fasce marginali che negli Stati Uniti erano già presenti internamente sotto forma di “minoranze etniche”. La situazione di subordinazione non solo socio-economica ma anche giuridica degli stranieri in Europa ha quindi reintrodotto all’interno di un sistema che credeva di averle dimenticate per sempre, sia la condizione della “canaglia”, sia quelle forme di subordinazione lavorativa quasi servile che l’enorme frammentazione operaia – cui i diversi status giuridici degli immigrati hanno notevolmente contribuito – rendeva nuovamente possibile.68 È comune destino di tali settori di “classe operaia in formazione”,69 essere usualmente descritti – dal risentimento delle “vecchie” fasce operaie, aiutate in ciò da vari tipi di mestatori, così come da commentatori “autorevoli” che si incaricano di razionalizzare questo punto di vista – come “feccia”, “classe pericolosa”, sottoproletariato, underclass per dirla con termine nordamericano recente o, appunto, canaglia. Naturalmente tali descrizioni si basano, anche, su “fatti” “reali”, poiché il processo di sviluppo capitalistico avviene generalmente in modo alquanto anarchico e irrazionale, e lo spostamento dei futuri operai dalle campagne alle città non è né automatico né indolore, provocando fenomeni sia di inserimento di alcuni tra i nuovi venuti all’interno dei mercati del cosiddetto “illecito” (che peraltro fa parte di quel mercato “effettuale” all’interno anche del quale si richiede manodopera, co68. In proposito vedi l’analisi recentissima di Kitty Calavita, studiosa nordamericana che ha analizzato insieme i casi italiano e spagnolo in Immigrants at the Margins: Law, Race, and Exclusion in Southern Europe, Cambridge University Press, New York 2005. 69. Sul caso italiano attuale si veda la mia “Introduzione”, in D. Melossi (a cura di), Multiculturalismo e sicurezza in Emilia-Romagna. Seconda parte, Quaderno n. 21 (in 2 voll.) del “Progetto Città sicure”, Regione Emilia-Romagna, Bologna 2000.

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me accade oggi in Italia per la droga e la prostituzione) sia di rigetto e ostilità da parte degli strati sociali, anche operai, precedenti. La feccia, la classe pericolosa, l’underclass verrà rinchiusa (e “coltivata”) quindi all’interno di un sistema carcerario che, ritrovando i propri ospiti preferiti di sempre – ex contadini che si dirigono in città, anche se il loro colore, la loro parlata o la loro religione sono ora diversi –, si sentirà rinascere, riconoscendo nei nuovi venuti i propri “eterni ospiti”, per così dire, la linfa vitale di cui il sistema si nutre (nonostante l’ingenuità occasionale di qualche magistrato che prendendo alla lettera la forma del diritto aveva provato a inviarci nel frattempo ospiti per così dire “inattesi”, ma mal gliene incolse!). Rispetto a tutto ciò, quindi, mi sembra non sia particolarmente utile leggere la penalità, al modo ottocentesco, come una “soprastruttura” dell’economia. Piuttosto, la penalità – come una forma di governo del comportamento umano, di “condotta della condotta”70 – forma parte integrante del progetto complessivo di un’“economia politica”. D’altro canto, tale ruolo fondamentale di tutto il complessivo settore della penalità e del welfare è affermato a chiare lettere, ancora e ancora, non solo nei pronunciamenti di scrittori e mercanti olandesi del XVII secolo, ma negli scritti a noi contemporanei di scienziati sociali come Lawrence Mead, per esempio, che in modo così sfacciato da essere quasi ammirabile, propone un “neo-paternalismo”: La discussione politica del concetto di libertà negli Stati Uniti la definisce comunemente come l’assenza di restrizioni. Ma coloro che vivono senza conoscere limiti presto sacrificano il loro stesso interesse a gratificazioni immediate. Al fine di vivere efficacemente, si devono praticare delle restrizioni personali per raggiungere obiettivi di lungo termine. In questo senso, gli obblighi sono il presupposto della libertà. Coloro che vogliono essere liberi dovranno essere dapprima legati. E se non si è stati le70. M. Foucault, “Afterword: The subject and power”, in H.L. Dreyfus, P. Rabinow (a cura di), Michel Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneutics, University of Chicago Press, Chicago 1982, pp. 220-221.

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gati efficacemente da famiglie e comunità funzionali nel corso degli anni formativi, dovrà essere il governo a cercare di imporre dei limiti in seguito, per quanto questi possano essere imperfetti.71 A parte quest’ultimo straordinario eufemismo, a mio avviso ancora oggi, nel pieno della cosiddetta “era postfordista”, non è difficile scorgere lo stretto nesso che lega il tipo di “disciplina del lavoro” che rende possibili i profitti, e quindi lo stesso capitalismo, alla più generale “disciplina sociale” che sembra essere articolata alla prima in modo così indissolubile. Se quindi la sfera della penalità si rivela particolarmente efficace nel far risaltare le regole della disciplina sociale – anche se ciò, come al solito, nella storia recente degli Stati Uniti, è apparso con particolare vigore più che in quella europea – allora la penalità può ben essere vista come uno strumento che, lungi dal seguire in forma “ancillare” una “struttura”, di fatto ne guida lo sviluppo, esprimendo in forma altamente pregnante e simbolica i contenuti morali e l’orientamento ai valori che sono tipici di una certa formazione economica e sociale in un particolare momento storico.72

71. L. Mead, The New Paternalism, Brookings Institute, Washington DC 1997, p. 23. 72. Uno degli aspetti più interessanti e originali del lavoro già citato di David Garland consiste proprio nel fatto che Garland cerca di mostrare come la sfera della penalità contribuisca a forgiare la complessiva atmosfera culturale di una società, oltre a essere al tempo stesso influenzata da essa (D. Garland, Pena e società moderna, cit., pp. 291-319).

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Esperienze del soggetto FABIO POLIDORI

orrei pensare che, al di là delle occasioni celebrative e degli anniversari, il bisogno o l’opportunità di tornare a Foucault, di tornare a riflettere sui suoi temi e sulle sue ricerche abbia a che fare con una sorta di urgenza, una urgenza costante e assidua. Una urgenza che non mi sembra destinata a diminuire per il solo fatto che alcune prospettive, rispetto alle quali le ricerche di Foucault contengono indicazioni importanti, si sono venute nel frattempo modificando. Non credo però nemmeno che il bisogno di tornare a Foucault sia contrassegnato da una urgenza destinata ad aumentare o a incrementarsi, magari per il semplice fatto che alcuni di quei temi – si pensi alla biopolitica o al biopotere, tanto per menzionare un paio di esempi – che egli aveva affrontato e messo in luce nel momento in cui facevano la loro prima comparsa, o che persino aveva anticipato, siano oggi temi di portata maggiore, o addirittura temi a dimensione universale. Quello che voglio indicare con l’espressione (invero alquanto autocontraddittoria) di “urgenza costante” quale modalità (certo non unica) di un ritornare a Foucault, è una sorta di bisogno o una sorta di necessità che riguardano più da vicino la dimensione della filosofia. Si tratta, per la filosofia e per il discorso filosofico, del bisogno e della necessità di ritrovare e di continuare a frequentare alcune delle istanze critiche di Foucault, alcuni di quegli elementi critici con i quali Foucault si è rivolto, in maniera forse più indiretta che diretta, ad alcuni “luoghi” che appartengono per tradizione a ciò che chiamiamo “filosofia”.

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E il soggetto è, appunto, uno di questi luoghi. In questo senso, mi sembra abbastanza scontato affermare che si tratta di uno dei luoghi maggiormente incrociati da Foucault, uno dei luoghi che Foucault ha visitato e ci ha fatto visitare con più assiduità e che ci ha fatto osservare da svariate angolature, riuscendo inoltre, credo, a modificare più in profondità il nostro sguardo su di esso; o, per meglio dire, modificando il modo in cui la filosofia ha rivolto o rivolge la sua attenzione al soggetto. Al punto che si può, credo, abbastanza agevolmente sostenere che con Foucault si è di fronte a una trasformazione, a una serie di trasformazioni della nozione di soggetto che non possono assolutamente essere considerate filosoficamente marginali, laterali o secondarie. Basti pensare, tanto per limitarci a un esempio per noi relativamente recente – quello fornitoci, intendo, dalla pubblicazione del corso sul potere psichiatrico1 – alle modalità attraverso le quali Foucault individua non solo una dimensione ben precisa del potere, la dimensione microfisica o “disciplinare”, ma anche e soprattutto l’investimento diretto, che in questa dimensione si verifica, del corpo di ciascun individuo, che viene “assoggettato” molto di più di quanto non accada attraverso quell’altra dimensione del potere, la dimensione macrofisica della “sovranità”. Ed è innegabile che questo tipo di sguardo sul soggetto ha prodotto, e continua a produrre, una trasformazione nelle modalità attraverso le quali pensare il soggetto di cui è e sarà difficile non tenere conto, anche per quanto riguarda analisi della dimensione soggettiva che si collochino su altri piani, su piani più “astratti” o “teorici” se vogliamo dire così. Oltre a ciò, va anche riconosciuto poi il fatto che proprio nelle trasformazioni dell’idea o della nozione di soggetto che le ricerche e i libri di Foucault hanno prodotto, è possibile riconoscere una sua piena appartenenza al secolo XX, al Novecento filosofico. Al secolo, cioè, che forse più di altri ha manifestato inquietudini e anche lacerazioni soprattutto a proposito della questione della soggettività. Basti solo pensare alla psicanalisi – senza neppure il bisogno di menziona1. Cfr. M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974) (2004), edizione stabilita da J. Lagrange, trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2004.

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re l’onda lunga del pensiero di Nietzsche o il neokantismo, la fenomenologia, sia quella di Husserl sia le sue varie derivazioni, o l’ermeneutica, o lo strutturalismo – basti pensare, dicevo, alla psicanalisi e al modo in cui ha (ri)aperto, e forse in maniera definitiva, la nozione di soggetto a tutti gli attraversamenti teorici cui è stata esposta nel corso degli ultimi cento anni. In tal senso, se siamo disposti a ritenere – anche in linea per ora ipotetica – che la questione del soggetto (espressione, mi rendo conto, alquanto vaga, per il momento, ma che per lo meno ci serve da indice) è la questione di Foucault, o è una delle questioni maggiori di Foucault, l’appartenenza del pensiero di Foucault al Novecento filosofico è fuori discussione. E nonostante il fatto che in più di una occasione lui stesso abbia alquanto decisamente escluso una sua appartenenza alla “filosofia”.2 E in effetti, se considerata in alcuni dei suoi tratti specifici, e sebbene grandissima parte dei temi di Foucault girino intorno al soggetto, quella di Foucault è una appartenenza che non fa quadro, non si inserisce cioè in maniera “armoniosa” accanto alle altre, chiamiamole così, modalità di pensiero che attraversano o affrontano il tema del soggetto nel pensiero novecentesco. E ciò perché – e sarebbe pure la tesi di quanto sto dicendo – anche nella massima differenziazione e varietà delle risposte che sono state date, mi sembra che il pensiero del Novecento si sia per lo più e principalmente interrogato a partire da un’unica prospettiva, da un unico modo di porre la questione circa cosa sia, in definitiva, il soggetto. Questo tema, cioè appunto il soggetto, è stato (ha continuato a essere) posto secondo una modalità di interrogazione abbastanza, se non del tutto, tradizionale; ovvero secondo la (implicita) domanda: “che cosa è il soggetto?”. Questo non significa, banalmente, che da più versanti la medesima domanda, la domanda circa cosa è il (un) soggetto, è stata posta nella medesima maniera; quello che voglio dire è che i vari momenti nei quali la questione del soggetto ha fatto una sua comparsa, hanno sempre fatto riferimento al sog2. Un esempio per tutti si trova in D. Trombadori, Colloqui con Foucault (1981), Castelvecchi, Roma 1999, p. 33: “Ma io non mi considero un filosofo. Ciò che faccio non è né un modo di fare della filosofia, né uno per suggerire ad altri di non farla”.

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getto come a qualcosa comunque di centrale, qualcosa che necessariamente dovesse stare al centro della scena; e perciò anche come qualcosa di analizzabile, di descrivibile, in certa misura di potenzialmente trasparente. Anche un caso come quello di Heidegger – che, detto di passaggio, è un autore senz’altro decisivo per Foucault3 –, sebbene affronti la questione del soggetto e della soggettività in filosofia con una intonazione profondamente critica, non ne mette in discussione la centralità; anzi, semmai proprio da lì muove i suoi primi passi, che sfoceranno poi in ripetuti e differenziati attacchi alle varie modalità del darsi della soggettività. E in definitiva inserendosi così nel quadro composto da tutte le indagini intorno al soggetto che in misura maggiore o minore si modulano sia a partire dalla questione di cosa sia un soggetto, sia a partire dalla sua centralità. Questione, domanda, questa, che – ripeto – mi sembra, nonostante le tantissime variazioni delle risposte, essere il punto a partire dal quale ha preso le mosse o verso il quale ha cercato di dirigersi gran parte del pensiero contemporaneo, al di là – forse vale la pena di ripeterlo – delle risposte anche talora contrapposte e conflittuali. Sotto questo profilo, per contro, mi sembra che in Foucault non si possano rintracciare le medesime istanze di partenza. Difficilmente cioè – mi sembra – si può ricondurre o tradurre l’interesse di Foucault per il soggetto in una domanda di quel tipo, nella domanda “che cosa è il soggetto?” oppure in una sorta di analitica della soggettività, insomma in un gesto che collochi il soggetto in una posizione centrale e privilegiata. Con il che non intendo suggerire che a Foucault il soggetto interessi meno; anzi, credo che il suo interesse a capire cosa possa essere o come possa funzionare il soggetto sia tanto maggiore quanto più le sue indagini, le sue ricerche, le sue considerazioni, il suo pensiero si sono mantenuti a una certa distanza dalla tentazione di rivolgere al soggetto una domanda (e di conseguenza ricavarne le relative risposte) in maniera diretta. In altri termini, se vogliamo accogliere l’ipotesi secondo cui la posi3. Cfr. M. Foucault, Archivio Foucault 3. 1978-1985, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 268-269.

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zione di Foucault sarebbe in certo qual modo particolare, se non proprio unica, tra tutte le modalità attraverso le quali è stata attraversata la questione della soggettività, ciò potrebbe derivare dal fatto che, con una sorta di determinazione quasi caparbia, Foucault non si sia mai chiesto, in maniera diretta o se vogliamo in maniera tradizionale – secondo cioè il modo in cui la filosofia si interroga – “cosa è il soggetto?”. E forse, va aggiunto, potremmo farci venire il dubbio che non lo abbia fatto neanche in maniera indiretta o mediata; in ogni caso ha evitato di collocare il soggetto in una posizione centrale o privilegiata. Proprio in questo modo però, gli sarebbe riuscito di aprirsi una serie di percorsi che, costeggiando in continuazione la soggettività, hanno preso un giro lungo, si sono tenuti discosti e sempre a una certa distanza dal “soggetto”, anche quando procedevano per luoghi vicinissimi o addirittura interni al “soggetto”, alle “soggettività”. E forse proprio questi percorsi lunghi e deviati ci hanno consentito alla fine di costruire una modalità di osservazione del soggetto, dei soggetti, che mette in primo piano anzitutto quelle pratiche concrete all’interno delle quali i soggetti non solo agiscono ma si strutturano; una modalità o una tecnica, anche, di osservazione in grado di trattenersi dall’uso di nozioni già pronte o già in certa misura pregiudicate da usi sostanzialistici. Insomma, e giusto per fare un esempio banale, in Foucault non ci imbattiamo e non ci potremo imbattere mai in un soggetto che prima si dà di per sé per suo conto, e soltanto in un momento successivo entra in rapporto con le cose, con altri soggetti e così via. L’ipotesi che allora vorrei formulare e seguire consiste nel fatto che i percorsi di Foucault, pur tentando di sbarazzarsi della nozione di soggetto o, per dirla in termini più cauti, pur tenendosi a distanza dalla tentazione filosofica di precipitarsi in una analitica della soggettività – di precipitarsi a dire insomma cosa è o come è fatto un soggetto –, pur introducendo quella che si potrebbe definire una sorta di “sospensione” o di “messa in sospensione” o “fuori gioco” del soggetto (o forse magari proprio per il fatto di avere introdotto questa sospensione?), i percorsi di Foucault intorno alla soggettività o alle soggettività ci hanno consentito di fare, di avere una certa “esperienza” del soggetto, di acquisire una 189


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serie di “saperi” o per lo meno di vedute proprio sul soggetto e sui soggetti che siamo. E sebbene attraverso queste “esperienze” o queste “vedute” non siamo forse in grado di rispondere in maniera più precisa alla domanda “cosa sono?”, “cosa è quel soggetto che sono?”, “chi sono?”, potremmo tuttavia ritrovarci in grado di rispondere ad altre domande, a domande di altro tipo, a domande forse altrettanto importanti e incalzanti, a domande quali: dove (o quando) sono vulnerabile? che cosa mi governa? in quale intreccio pratico/teorico mi ritrovo? come posso resistere? Oppure alla domanda che, da un punto di vista prevalentemente o quasi esclusivamente non teorico, mantiene sempre un certo carattere di urgenza: “come funziono?”. Insomma a quella che mi sembra essere una delle domande più persistenti e insistite dei testi di Foucault: “a che prezzo posso riconoscermi come quel soggetto che sono?”.4 Quello che i testi, le indagini, le ricerche di Foucault hanno prodotto mi sembra in definitiva allora consistere soprattutto in una serie di “esperienze” della soggettività. Per far capire meglio cosa intendo, riporto qui un breve passo dell’intervista già menzionata: Tutte le cose di cui mi sono occupato fino a oggi riguardano in fondo il modo in cui nelle società occidentali gli uomini hanno compiuto esperienze, tali da impegnarli in un processo di conoscenza di un determinato insieme oggettivo, costituendo al tempo stesso se stessi come soggetti dallo statuto fisso e determinato. Per esempio, conoscere la follia, costituendosi come soggetto razionale; o l’economia, costituendosi come soggetto che lavora; o il diritto, conoscendosi come soggetto che ha un rapporto con la legge, cioè suscettibile di commettere delitti ecc. Esiste sempre, dunque, questo impegno di sé dentro il proprio “sapere”. Partendo da questa consapevolezza, in particolare, io mi sono sforzato di comprendere come l’uomo avesse ridotto a oggetti di conoscenza, alcune sue “esperienze-limite”: la follia, la morte, il crimine.5 4. Sulla questione del “prezzo”, in riferimento alla verità, cfr. sotto, nota 7; cfr. anche M. Blanchot, Michel Foucault come io l’immagino (1986), Costa & Nolan, Genova 1997, p. 24. 5. D. Trombadori, Colloqui con Foucault, cit., p. 59.

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Si tratta dunque di esperienze molto diverse ed eterogenee, come possono esserlo la follia, la morte, il crimine, cui possiamo senz’altro aggiungere anche la sessualità; esperienze che oltretutto, credo, non sia nemmeno il caso di tentare di mettere insieme, magari allo scopo di comporre in un secondo momento una figura unitaria o un quadro coerente. Si tratta infatti di luoghi o di situazioni che stanno al limite della soggettività, che sono e che fanno “limite”, e che oltretutto sembrano guardare più verso l’esterno che verso l’interno, e che perciò potrebbero intersecarsi solo se forzate a farlo in un qualche punto fittizio o quanto meno astratto; si tratta di “esperienze” che potrebbero insomma dare figura a un soggetto, qualora volessimo costruirne una, che risulterebbe per certi versi ancora più astratta della figura di un soggetto supposto esistere o sussistere a priori o di per sé. Eppure le ricerche di Foucault sono state e sono tuttora in grado di indicarci, di mostrarci, di descriverci alcune di quelle situazioni-limite di cui forse nessuna domanda che interrogasse il soggetto dirigendosi direttamente a lui verrebbe a capo. Ed è soprattutto in questo senso che, credo, si possa parlare, in Foucault, di “esperienze” – al plurale e in forma per così dire mai conclusiva – della soggettività. Ma c’è anche un altro senso, oltre a questo, che può esserci suggerito dall’espressione “esperienze della soggettività”; un senso ancora più radicale, se vogliamo. In fondo, se siamo in linea di massima d’accordo con quello che è stato detto sinora, potremmo concludere nella maniera seguente: bene, Foucault, senza mai volerci dire direttamente cosa sia il soggetto, ci ha descritto una serie di luoghi nei quali il soggetto si trova in qualche misura posto in una situazione-limite, in una situazione critica, di trasformazione e passaggio, e ce ne ha fatto vedere le reazioni, i comportamenti, le modificazioni anche relativamente alle varie configurazioni culturali o epocali in cui questo si è verificato. Da ciò, come abbiamo visto, deriva che (1) ogni tentativo di interrogarsi sul soggetto a partire da una domanda per così dire diretta, “che cosa è soggetto?” – che in definitiva implica sempre un residuo minimo di teoria del soggetto – ci metterebbe inevitabilmente nelle condizioni di non vedere ciò che Foucault ci fa vedere, ossia il modo in cui il soggetto si costitui191


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sce e si rivela, soprattutto attraverso quelle che abbiamo (che Foucault ha) chiamato “esperienze-limite”; e, da ciò, deriva inoltre che, (2) scartando l’ipotesi di costruire una configurazione della soggettività anche “a posteriori” – che poi non sarebbe altro che una operazione forse non altrettanto “dogmatica” rispetto al postulare che un soggetto si dà di per sé, ma sicuramente altrettanto arbitraria e ingenua, in quanto implicherebbe la possibilità di costruire un soggetto attraverso i “pezzi” delle sue esperienze – mi ritrovo con la netta impressione che nel descrivere le varie esperienze della soggettività, Foucault implichi in maniera molto più determinata e radicale di quanto possa a prima vista sembrare, la opportuna (o necessaria?) irrilevanza, o addirittura la scomparsa, di una nozione come quella di “soggetto”. Ma con una sua contestuale ricomparsa. Una ricomparsa della dimensione soggettiva, una ricomparsa del soggetto, non più come elemento o nozione centrale, non più a “dare senso”, ma a fare da sfondo. Come se, in altri termini, Foucault ci dicesse – meglio: ci lasciasse vedere – che il soggetto non solo è tutt’altro che irrilevante, non solo è tutt’altro che qualcosa di cui ci possiamo anche al limite sbarazzare – al limite, al suo limite appunto – ma è anche quel qualcosa che non cessa o non può cessare di interrogare se stesso. E come se attraverso Foucault riuscisse a farsi strada l’idea che se noi vogliamo costruire uno sguardo da dirigere sul “soggetto”, dovremmo abbandonare o indebolire il tentativo di presa diretta su di esso, non dovremmo continuare a ritenerlo il luogo centrale di se stesso, ma tutt’al più un elemento, un pezzo della sua stessa scena. Il soggetto dovrebbe insomma evitare di comparire, di fronte a se stesso, al centro del proprio sguardo, in primo piano. Se infatti ci affidassimo a un modo di procedere che in primo luogo e per prima cosa assuma un soggetto che anzitutto sussiste e poi in un secondo momento si ritrova a modularsi, a modificarsi, ad “assoggettarsi” attraverso tutta una serie di rapporti e relazioni, di esperienze; oppure, e viceversa, se assumessimo che qualcosa come il soggetto lo possiamo conoscere e magari ricostruire dopo avere scoperto il segreto delle sue esperienze o delle sue “esperienze-limite”, ci ritroveremmo, nel primo caso, riportati a una nozio192


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ne di soggettività addirittura prekantiana, e nel secondo ci ritroveremmo di fronte a una sorta di vestito di Arlecchino a carattere socioantropologico. Il correlato indispensabile, allora, per intendere quale sia, in tutte le sue implicazioni, il gesto con cui Foucault affronta e non cessa di affrontare e di interrogare il soggetto, sta nel fatto che non solo egli ci parla, ci mostra, ci descrive una serie di esperienze (“limite” o meno) della soggettività, ma ci fornisce un quadro della soggettività stessa che può comporsi soltanto al prezzo di rimanere un risultato largamente incompleto, parziale, sempre – e necessariamente – in corso di modificazione. Un risultato cioè non solo tutt’altro che definitivo o afferrabile ma un risultato, soprattutto, che non è alla portata di nessuna teoria del soggetto; un risultato, quindi, sempre segnato e delimitato anche dalle stesse “esperienze-limite” da cui proviene. Il soggetto, insomma, mi sembra dire Foucault, non è interessante perché può fare o avere esperienze, ma perché è, esso stesso, sempre un’esperienza. A rigore, potremmo aggiungere, sempre anche una esperienza di sé. È una sorta di vicenda, è una sorta di evento, è anche – se vogliamo, e in questo potremmo riconoscere il rigore con cui Foucault accoglie la lezione nietzschiana – una sorta di effetto sempre illusorio, un effetto scambiato per una causa, qualcosa di “appiccicato dopo”, come scrive Nietzsche.6 Ed è una 6. A titolo di esempio, un paio di passi dai testi nietzschiani. Il primo è tratto da F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, trad. di S. Giametta, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 sgg., vol. VIII, t. 1, pp. 299-300: “‘Tutto è soggettivo’, dite voi; ma già questa è un’interpretazione, il ‘soggetto’ non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo. – È infine necessario mettere ancora l’interprete dietro l’interpretazione? Già questo è invenzione, ipotesi”; e il secondo da F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, trad. di S. Giametta, in Opere, cit., vol. VIII, t. 2, p. 55: “Il ‘soggetto’ non è altro che una finzione”. Sarebbe a questo punto il caso di riportare un passo dell’intervista di Trombadori a Foucault, in D. Trombadori, Colloqui con Foucault, cit., pp. 46-47: “Cosa si ritrovava […] in Nietzsche? Intanto, l’idea di discontinuità, l’annuncio di un ‘superuomo’ che avrebbe trasvalutato ‘l’uomo’. E poi in Bataille, il tema delle ‘esperienze-limite’ in cui il soggetto giunge alla decomposizione, esce da se stesso, ai limiti della propria impossibilità. Tutto ciò ha avuto per me un valore essenziale. È stata la via d’uscita, l’occasione per liberarmi di certe pastoie filosofiche tradizionali. […] Anche in una filosofia come quella di Sartre era in fondo il ‘soggetto’ che restituiva un senso al mondo. Questo punto non veniva messo in discussione. Era il ‘soggetto’ ad attribuire i significati. Ma qui sorgeva in me la domanda: si può dire che il ‘soggetto’ sia la sola forma di esistenza possibile? Non ci possono essere esperienze in cui il soggetto, nei suoi rapporti costi-

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esperienza che, pur nel suo costante trasformarsi e divenire eccetera, di quando in quando precipita, si coagula, si irrigidisce intorno a quelli che lo stesso Foucault ha indicato, ha definito come i suoi limiti: “la follia, la morte, il crimine”. È dunque in questo senso che il nostro ritorno a Foucault, più o meno continuo però sempre incalzante, assume la sua configurazione più particolare: quella di ritrovarci, di poterci ritrovare di fronte a una possibilità di captazione del soggetto, di che cosa il soggetto sia o possa essere – o forse soltanto di come il soggetto funzioni o possa funzionare – che non debba nulla ad alcuna nozione di soggetto, che poi non potrebbe che essere una nozione necessariamente precostituita; e ancor più, che non debba nulla ad alcuna teoria del soggetto. Si dà soggettività, in Foucault, o forse meglio ancora si danno soggettività, al plurale, si danno soggetti solo in quanto ciò accade senza che ci sia propriamente un “soggetto” teoricamente configurabile, si danno elementi di soggettività solo a partire da una mancanza, quasi da una irrilevanza teorica del soggetto. Si dà “esperienza” della soggettività solo a condizione, potremmo aggiungere per precisare meglio, di togliere d’intorno tutti gli apparati teorici, che forse per gli occhi nietzschiani di Foucault coincidono con altrettanti pregiudizi; solo a condizione di evitare quegli elementi di teoria che concorrono a costituire la nozione di soggetto di cui disponiamo, e prima fra tutti proprio questa nozione stessa. Questa nozione stessa, si deve aggiungere, così come si è venuta formando e stabilizzando a partire dal momento cartesiano.7 tutivi, in ciò che ha di identico a se stesso, non si dia più? E dunque non si darebbero esperienze in cui il soggetto possa dissociarsi, rompere il rapporto con se stesso, perdere la sua identità? Non è stata forse questa l’esperienza di Nietzsche con la metafora dell’‘eterno ritorno’?”. 7. Anche se non ci è possibile, qui e ora, rendere conto in maniera esauriente di che cosa questa nozione rappresenti già dalla sua prima comparsa, è forse sufficiente un esempio per farsi un’idea di come Foucault la considerasse; l’esempio è tratto da M. Foucault, “Sulla genealogia dell’etica: compendio di un work in progress” (1983), in H.L. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault (1983), Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 280: “… la cosa straordinaria nei testi di Descartes è che egli è riuscito a sostituire un soggetto come fondamento delle pratiche di conoscenza, a un soggetto costituito attraverso le pratiche di sé. Ciò è molto importante. Anche se è vero che la filosofia greca ha fondato la razionalità, essa ha sempre sostenuto che un soggetto non poteva avere accesso alla verità se prima non aveva operato su se stesso un certo lavoro che doveva consentirgli di conoscere la verità: un

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Sotto tale profilo, sotto il profilo di una presa in esame teorica del soggetto, il gesto di Foucault è totalmente esplicito (come confermano altre sue dichiarazioni),8 è sicuramente drastico tanto quanto (ma forse, per qualche aspetto, anche di più: non fosse che per una certa mancanza, in Foucault, di ironia o di sorriso) lo era stato il gesto di Nietzsche. Ma sul fatto che non ci sia o non ci debba essere “soggetto”, non ci debba essere insomma una tematizzazione della soggettività in chiave “cartesiana” occorrerebbe forse incalzare Foucault (e prima di lui anche Nietzsche e anche Bataille), chiedergli quanto meno come si possa rimanere del tutto privi di una nozione come quella di “soggetto”. E non mi riferisco qui soltanto alla nozione o al concetto di soggetto: mi riferisco a tutto ciò che attraverso di esso, attraverso questo concetto, è passato nel corso dei secoli, in filosofia e non, compresa la possibilità di (auto)tematizzare il soggetto stesso e di esercitare nei suoi confronti una critica radicale, come nel caso appunto di Nietzsche, di Bataille e dello stesso Foucault. Certo, possiamo essere d’accordo sul fatto che attraverso il “soggetto cartesiano” passino tutta una serie di operazioni di coprimento, di veli o velature che, in maniera solo in apparenza paradossale, sembrano più che altro ricoprire e nasconlavoro di purificazione, di conversione dell’anima per mezzo della contemplazione dell’anima stessa. Abbiamo anche il tema dell’esercizio stoico per mezzo del quale un soggetto in primo luogo istituisce la propria autonomia e indipendenza – e la fonda attraverso una relazione piuttosto complessa con la conoscenza del mondo, dal momento che è questa conoscenza a garantirgli la sua indipendenza, ed è solo una volta che l’abbia garantita che egli sarà capace di riconoscere l’ordine del mondo così come esso è. Nella cultura europea, fino al XVI secolo, il problema rimane: ‘Qual è il lavoro che devo effettuare su me stesso per diventare capace e degno di accedere alla verità?’. In altri termini, la verità ha sempre un prezzo; non è possibile nessun accesso alla verità senza ascesi. Nella cultura occidentale, fino al XVI secolo, l’ascetismo e l’accesso alla verità sono sempre rimasti più o meno oscuramente legati. Penso che Descartes abbia rotto con ciò allorché affermò che per accedere alla verità, è sufficiente essere un soggetto qualsiasi capace di vedere ciò che è evidente. L’evidenza è sostituita all’ascesi nel punto in cui la relazione con sé interseca la relazione con gli altri e con il mondo. La relazione con sé non ha più bisogno di essere ascetica per entrare in rapporto con la verità. È sufficiente che la relazione con sé riveli la verità manifesta di ciò che si può vedere da soli per apprendere in modo definitivo quella verità. Così, posso essere immorale e tuttavia conoscere la verità. Credo che questa sia un’idea che, più o meno esplicitamente, era rifiutata da tutta la cultura precedente. Prima di Descartes non era possibile essere impuri, immorali, e conoscere ugualmente la verità. Con Descartes, l’evidenza immediata è sufficiente. Dopo Descartes, abbiamo un soggetto di conoscenza non ascetico. Questa trasformazione rende possibile l’istituzionalizzazione della scienza moderna”. 8. Cfr. supra, nota 6.

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dere le dimensioni maggiormente rivelative della soggettività (e ciò, detto per inciso, andrebbe di pari passo poi con la questione della verità o del rapporto tra il soggetto e la verità, quando il gnothi seauton prende il sopravvento sull’epimeleia heautou),9 insomma quelle che Foucault chiama le “esperienze-limite”. Eppure credo che, pur mantenendoci all’interno delle strategie e dei percorsi foucaultiani, bisognerebbe continuare a non perdere di vista quanto meno il fatto che proprio da quelle velature, da quei veli con i quali una nozione come quella di soggetto cerca di proteggersi, cerca di proteggere la propria dimensione teorica da tutto ciò che ne incrina la sussistenza, da tutto che ne mette a rischio la trasparenza e la funzione di fondamento del sapere che da mezzo millennio almeno svolge, da quei veli dicevo e da quel coprimento, da quell’apparato di difesa e di offesa teoriche, qualcosa continua a lavorare, qualcosa di costantemente insoddisfatto di sé, qualcosa che costantemente – e magari sicuramente controvoglia – ritorna su di sé per volgersi anche contro di sé. E, da questo punto di vista, credo che si possa ritenere che lo stesso Foucault, alle prese con i propri saperi, abbia a un certo punto, insoddisfatto di essi, incominciato a fare piazza pulita di molte delle cose, delle nozioni che si trovava intorno, aprendosi la strada verso altri luoghi, altri saperi. I quali, se in qualche modo non avessero la possibilità di erodere o di scavare in continuazione un terreno in apparenza stabile e sicuro, che poi è pur sempre il nostro terreno, il luogo o la dimensione entro la quale ci identifichiamo in quanto soggetti, non avrebbero forse nemmeno la possibilità di riecheggiare e risuonare all’interno della nostra esperienza, all’interno di quella esperienza che noi stessi pur sempre siamo e in cui pur sempre ci riconosciamo. Se, come dicevo all’inizio, quel ritorno a Foucault, che personalmente mi riguarda, mi interessa e mi inquieta non poco, mi sembra in certa misura un gesto indefinitamente ripetuto e costantemente urgente, questo non deriva soltanto dalla urgenza – non costante ma eventuale e contingente – con la quale di quando in quando andiamo a constatare il riemergere di tematiche per le qua9. Cfr. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982) (2001), edizione stabilita da F. Gros, trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003.

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li Foucault ci ha dato strumenti preziosi che tutti noi ancora oggi continuiamo a utilizzare. Deriva, più ancora, da quella sorta di “mancanza” (di teoria) che, attraverso la descrizione delle pratiche della sessualità, della segregazione della follia, della punizione o della reclusione dei criminali, è riuscito a scavare. Che ha scavato proprio in quel soggetto che, per quanto illusorio e fittizio, tuttavia non ci abbandona mai. Col che non voglio nemmeno lontanamente intendere che le “esperienze-limite” che Foucault ci descrive siano meno illusorie, ovvero più illusorie, oppure che possano in qualche modo soppiantare una nozione di cui hanno contribuito a mostrare una volta di più la caducità. Voglio, vorrei piuttosto intendere che se qualcosa di noi, di ciascuno di noi, senz’altro si gioca nelle “esperienze-limite” della soggettività così come Foucault ce le descrive, qualche altra cosa – qualcosa magari di altro e di altrettanto importante – si gioca anche e sempre in quella dimensione di identità soggettiva (fittizia e illusoria finché si vuole) a partire dalla quale però anche qualcosa come una esperienza diventa possibile, a partire dalla quale anche qualcosa come una “esperienza-limite” diventa possibile e trova uno sfondo su cui collocarsi, proprio in quanto esperienza. Diventa insomma possibile grazie anche a quel luogo, cioè il “soggetto”, che mostrandosi sempre anche come una sorta di mancanza teorica radicale a contropartita di un fondamento che si pretende stabile e assoluto, che mostrando o manifestando sé a se stesso sempre anche come una mancanza, ha in qualche modo reso possibile quella stessa sospensione di sé – dei propri saperi, della propria certezza – dalla quale i percorsi stessi di Foucault (ma forse non solo) provengono. Come se, in tal senso, anche Foucault, però in maniera del tutto eccezionale, unica, avesse da lì ricavato a sua volta quella urgenza per volgersi ad altre dimensioni della soggettività, come se insomma anche Foucault avesse preso le mosse da un soggetto che, proprio per il fatto di non esserci, è in certo qual modo sempre una sorta di “esperienza-limite” di se stesso. Non credo insomma che, nonostante le apparenze, Foucault ci indichi solo la strada per disfarci definitivamente del soggetto della conoscenza, della identità, ma credo piuttosto che ci indichi alcuni percorsi o forse anche alcuni esercizi per non starci troppo 197


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dentro, per percorrere quei limiti e attraversare quelle esperienze senza però rinunciare alla possibilità di un ritorno, o alla necessità di un continuo e difficile equilibrio, nella continua urgenza appunto che certo non è l’urgenza di una conciliazione, ma piuttosto è l’urgenza di una disgiunzione.

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Fare scuola Diamogli ventisette ALESSANDRO DAL LAGO

aro mio, non è che il nostro mondo sia peggio di tanti altri. Anzi, come diceva sempre mia madre, quando all’inizio della carriera mi lamentavo dello stipendio basso o di qualcosa che mi succedeva in facoltà, non so, uno sgarbo o roba del genere, trovalo tu un altro lavoro che ti permette di alzarti tardi la mattina, se ti piace, e cavartela con un paio d’ore alla settimana di ricevimento degli studenti. Però, il punto non è questo, le dicevo, a parte la questione del carico di lavoro scarso – anche se, bisogna ammettere che con questa maledetta riforma adesso ci fanno sgobbare come somari, persino un ordinario vicino alla pensione come me, dico io. No, il punto non è questo. Voglio dire, in termini di rapporti umani, una facoltà non è mica diversa da un ufficio delle poste o da un’azienda, a parte che io in azienda non ci sarei mai andato – sai che quando mi sono laureato nel millenovecentosessantanove mi sono arrivate un casino di lettere dalle banche e persino dalla Pirelli, pensa un po’, mica come oggi. Comunque, meno male che non ho risposto. No, dicevo, il punto è che a parità di mobbing, di cattiveria tra colleghi, di carriere mediocri o fallite, la nostra piccola miseria è immersa in questo brodo nauseante, nella retorica della cultura e della scienza. Non ho mai conosciuto gente che se la tiri come all’università, so-

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Questo testo fa parte di una serie di piccole “storie” sulla vita universitaria e i suoi dintorni che Alessandro Dal Lago ha raccolto nel suo volume Racconti accademici, di prossima pubblicazione.

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prattutto i più fessi (e tu lo sai quanti ce ne sono!), quelli che se ne vanno in giro come se avessero un palo nel sedere, perché hanno scritto un paio di libri e hanno vinto un concorso di associato da qualche parte. Capisci, si sentono come dèi in terra, fanno gli spocchiosi con gli studenti – ma lasciamoli perdere, gli studenti, ce ne avrei da dire anche su quelli – e poi leccano il culo agli ordinari per una cattedra. Insomma, il nostro mondo sarà come tutti gli altri, d’accordo, però le stronzate forse sono peggiori perché c’è la retorica, hai capito. E così una piccolezza diventa una stronzata enorme, che tu l’abbia subita o che tu l’abbia fatta, te lo dico perché anch’io ne ho fatte, eh sì. Ma sai che queste cattiverie io non le sopporto più? Sarà l’età o magari la noia – perché sono quasi quarant’anni che sto in questo piccolo mondo asfissiante – e ora che ne ho più di sessanta mi sembra tutto un delirio. Sto esagerando? Tutti i posti di lavoro sono così? Ah sì? Allora, aspetta di sentire questa. Dunque, siamo nel millenovecentosettantotto o settantanove e io faccio il precario, allora si diceva contrattista, a Milano. C’era stato il rapimento Moro e tutte quelle cose lì, né con lo stato né con le Br, tu te le ricordi, perché allora eri studente. In una facoltà come la nostra, il casino si avvertiva, eccome, c’erano i collettivi autonomi, e qualcuno andava ancora con la pistola alle manifestazioni. Uno come me, un assistente di sinistra, era esposto, capisci, nel senso che parlavo con tutti. Mi ricordo che uno studente del mio seminario un giorno viene da me al ricevimento e mi dice seriamente: prof, ho intenzione di entrare in clandestinità nel tal gruppo, che ne pensa? Che cosa gli ho risposto? Che non ne volevo sentir parlare di queste cose, cazzo, magari era una spia. Insomma, i tempi erano quelli. C’era ancora la lotta armata, anche se lo stato ci andava giù duro, con le leggi antiterrorismo e gli speciali eccetera. Così capitava che c’era un sacco di gente in galera, e che molti erano studenti, eh sì, iscritti anche alla nostra facoltà. Ora, alcuni che magari erano in attesa di giudizio, a Trani o in qualche altro carcere del sud, chiedevano di fare gli esami e così potevano avvicinarsi a casa. Se il magi200


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strato dava l’autorizzazione, la direzione del carcere avvertiva il preside e questo, sentiti i professori, nominava una commissione regolare, di tre membri, che andava a fare l’esame a San Vittore. Succedevano delle cose comiche che non ti dico. Una volta, un vecchio professore di economia, un democristiano che tra l’altro era stato minacciato, mi pare, dagli autonomi – gli hanno anche dato la scorta – si chiuse in un cesso della facoltà per non essere trovato dal preside, perché aveva paura. Te la faccio breve, ci sono andato anch’io a fare un esame a San Vittore. Lo studente in questione era un ragazzino che aveva avuto una storia che conoscevamo tutti, anche perché i giornali l’avevano raccontata nei dettagli. Era stato preso mentre lasciava dei volantini di Prima linea nel mezzanino del metrò a Sesto San Giovanni. E quindi era finito in un carcere del sud per reati associativi, terrorismo e così via, una roba da vent’anni minimo, con le leggi che c’erano. Ora, in quel carcere la situazione era tremenda. C’erano i brigatisti, quelli degli altri gruppi armati, di sinistra e di destra, i mafiosi, i camorristi, che si spartivano il controllo. Si facevano e si disfacevano le alleanze, ogni tanto scoppiavano le rivolte e qualche guardia ci ha anche rimesso le penne. Sta di fatto che questo pischello, che al massimo si era fatto qualche scontro con la polizia, quando entra in collegio non conosce le regole e fa una cazzata. A quanto ne so, una guardia lo umilia e lui non reagisce, una cosa così. Ora, per un fatto del genere ti potevano anche tirare il collo. Aveva rotto l’unità dei carcerati, come si diceva. Sembra che ci sia stato un dibattito nella commissione interna, quella che governava i detenuti, alcuni lo volevano eliminare, altri no, ma alla fine hanno deciso di lasciar perdere. Lui comunque era bruciato. Pare che un camorrista gli avesse messo gli occhi addosso per farselo. Insomma, una mattina trovano il camorrista con la gola tagliata e accusano il ragazzino. Omicidio volontario. Era in attesa di processo, quando chiese l’avvicinamento per motivi di studio. Glielo hanno dato. Tu ti ricordi Corso, no, l’ordinario di Storia moderna? Era il professore più figo della facoltà. È morto dieci anni fa, si è beccato un tumore al cervello e se ne è andato in tre mesi. Comunque, all’e201


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poca, era la star. Pubblicava per Einaudi, scriveva sulla terza del Corriere. Ovviamente, si rese disponibile. Tutti sapevano che era contrario alle leggi speciali, ci ha scritto anche un capitolo di un saggio sul Pci e il terrorismo. Il suo guaio era Conti, l’assistente ordinario. A me, che ci lavoravo insieme, Conti non stava nemmeno troppo antipatico, anche se era un rompiballe. Pedante, precisino, capzioso, tutto l’opposto di Corso, che invece faceva il farfallone, l’intellettuale à la page. In fondo, Conti mi faceva pena. Il suo problema è che Corso l’ha sempre schiacciato. Mi sono sempre chiesto perché, da noi, i prof brillanti si prendono come allievi tipi come Conti. È ovvio, perché non gli facciano ombra. In ogni modo, Conti aveva pubblicato poco, a quarantacinque anni, e la sua carriera era finita. Tutti sapevamo che trincava di nascosto, e sai le volte che usciva dal cesso con il fiato che puzzava di whisky a dieci metri. Insomma la commissione per l’esame a San Vittore era fatta da Corso, da Conti e da me. Io non c’ero mai stato e appena sono entrato mi è venuto un fottone. Ti perquisiscono all’entrata e poi ti portano dal vicedirettore, che guarda i documenti, le autorizzazioni, i bolli e tutto il resto. Corso faceva quello superiore, Conti sembrava molto preso dalla parte. Caro dottore, sono il professor Conti, prego, ma le pare, diceva queste cose qui. Ti accompagnano in sezione. Cancelli, guardie, controlli. La puzza. Un misto di sudore, disinfettante e piscio. Il rumore. Un brusio di fondo, lo sbattere dei piatti da qualche parte, urla, comandi. Vabbé, puoi immaginare. Alla fine, ci hanno portato in una specie di parlatorio, con una finestrella, un tavolino con una sedia da una parte e tre dall’altra. Un capoguardia, un maresciallo o roba del genere, ci spiega che ci lascerà soli con il detenuto, ma che la porta resterà aperta e le guardie sono pronte dall’altra parte. Dopo un po’, sentiamo rumore di ferri e arriva il ragazzino, praticamente portato di peso da due guardie. Ha una catena alle caviglie e le manette. Lo fanno sedere ed escono. Devi sapere che una delle caratteristiche celebri di Corso era che aveva la erre moscia più portentosa che abbia mai sentito. – Guavdia, – dice imperiosamente. Dopo un attimo, spunta il capoguardia. 202


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– Mi vifiuto tassativamente di dav seguito all’esame del detenuto, se non gli savanno tolti i-m-m-e-d-i-a-t-a-m-e-n-t-e i fevvi. Il guardione è sconcertato dal tono perentorio di Corso. Dice che quelli sono gli ordini. – Esigo di pavlave con il divettove, – dice Corso. – Professore, ehm, si potrebbe anche…, – interviene Conti con la sua voce incerta. Corso non gli risponde nemmeno. Ora, non te la voglio menare. Ma per capire la situazione devi avere un’idea dei personaggi. Corso era un tipo alto, con i capelli argentati, sempre abbronzato, elegantissimo nel suo trench. Conti sembrava un impiegato di banca, piccoletto e vestito di grigio. Il capoguardia era il tipico sbirro di prigione. Le altre guardie, due marcantoni con l’aria di quelli che avrebbero potuto tirar fuori i manganelli e menarci all’istante. Brutta gente. Beh, io e Conti era come se non esistessimo. Corso con il suo vestito blu, il trench sul braccio e l’erre moscia sembrava il presidente dell’Onu in visita. Sono andati a chiamare il direttore al telefono. Alla fine, gli hanno tolto i ferri, al ragazzino, ma le due guardie rimasero nella stanza, accanto alla porta. – Nell’univevsità la pvoceduva di esame è pubblica, – commentò Corso, alzando le spalle. In seguito, ci ha spiegato che un mese prima il ragazzino aveva tentato il suicidio e che lo consideravano molto pericoloso, per sé e per gli altri. A me, mi si è stretto il cuore appena l’ho visto. Un biondino slavato, magro, che non riusciva a guardarci negli occhi. Si massaggiava i polsi dove le manette gli avevano sfregato la pelle. Il programma d’esame consisteva nella parte manualistica, un libro di testo degli ultimi due anni di liceo, e in due volumi sulla rivoluzione francese, mi pare il Lefebvre e il Godechot, più un libro sulla storiografia. Dopo cinque minuti che Conti ha cominciato con le domande sul manuale, lo odiavo. Il ragazzino non sapeva molto, e Conti, come se fosse in un’aula di università, gli stava addosso, insisteva su particolari che oggi non fregano più a nessuno, tipo le guerre dinastiche di Luigi XIV. – Ah, lei non ha le idee chiare sulla guerra di successione spagnola, – diceva Conti, – ma l’ha davvero studiato il 203


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manuale? – Il ragazzino disse qualcosa a bassa voce. – Non la sento, – disse Conti. – Può bastave, può bastave, – lo interruppe Corso. Si rivolse al ragazzino. – Vuole sceglieve lei un avgomento della pavte monogvafica? Il ragazzino ci pensò su un momento e poi scelse la fine del Terrore e la sconfitta di Robespierre. Lì ne sapeva un po’ di più, ma comunque parlava a frasi mozze. Era in ansia e onestamente dopo un po’ non ne potevo più, metteva ansia anche a me. Volevo uscir fuori all’aria aperta. Toccava anche a me fare una domanda. Gli chiesi di parlare della nuova storiografia francese, che all’epoca stava demolendo le interpretazioni classiche, quelle filogiacobine, per capirsi. Il ragazzino non aprì bocca. Dopo un minuto dissi, guardando gli altri due: – Ma forse questo non era in programma. – Va bene, – disse Corso, – passiamo a un altro argomento. – Ah no, – fece Conti, – la nuova storiografia è in programma. Risponda al collega, su. Io l’avrei strozzato. Il ragazzino aveva piegato la testa e si guardava i piedi. Alzò la testa e fissò negli occhi Conti. – Io questa parte non l’ho portata, ha capito? – Parlò per la prima volta scandendo le parole. Non so perché, sentii un brivido. Conti stava per ribattere, ma Corso gli mise una mano sul braccio e disse: – Molto bene, basta così, pev me l’esame è concluso. Ova, se il candidato ha la pazienza di attendeve un minuto, ci vitiviamo bvevemente pev la valutazione. – Si alzò, e noi due anche. Il ragazzino rimase seduto e le due guardie gli si misero accanto. Andammo alla finestra. – Allova, quanto gli diamo? – disse Corso. – Viste le circostanze, ehm, speciali, chiudiamo un occhio eh? Direi diciotto, ehm, o venti al massimo. – fece Conti, che aveva assunto un’aria seria, professorale. – E lei che dice? – mi chiese Corso. – Beh, la parte su Robespierre la sapeva, che ne direbbe di ventisette? – Professore, mi permetta di dissentire, ehm, dal collega, – in204


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tervenne Conti. – Il nostro giovane amico qui, – mi guardò di sbieco – magari, ehm, simpatizza sul piano umano, per non dire altro, ma per me quello lì, ehm, è uno studente come tutti gli altri. La sua preparazione è scarsa, anzi quasi nulla e se non fossimo in… ehm, in questo luogo, io l’avrei mandato via. Corso guardò fuori dalla finestra, che dava su un muro. – Eh, cavo Conti, lei è tvoppo sevevo, sa. Diamogli ventisette. Non aspettò nemmeno che Conti rispondesse, si avvicinò al tavolo e prese il libretto del ragazzino. Scrisse il voto e gli disse: – Buona fovtuna. – E a Conti e a me: – Il vevbale lo completiamo in facoltà. Il ragazzino guardò il voto, si alzò lentamente, tese la mano a Corso e gliela strinse. La diede anche a me, ma non a Conti. La mano era sudata. Mentre facevamo tutte le pratiche all’incontrario – dovemmo tornare dal vicedirettore per firmare non mi ricordo cosa – e ci avviavamo all’uscita, Conti non aprì più bocca. Era imbronciato. Fuori, sul marciapiede, stavamo per salutarci. Io avevo una sola idea in testa, scappare al Bar Magenta e farmi una bella birra. Volevo stare un po’ per conto mio. Corso si accese una sigaretta. – Anche questa è fatta, – disse, – tutto sommato è stata un’espevienza . Conti sorrise a bocca stretta e mi guardò. – Un’esperienza, sì, – disse. – Ma davvero non una prova di serietà didattica. Non gli risposi, non ne valeva la pena. Corso soffiò il fumo in alto, guardò Conti e disse, così, a mezz’aria, in tono allegro. – Ma lo sa, cavo Conti, che lei è pvopvio una mevda? Hai capito, ogni volta che il nostro piccolo mondo mi deprime, penso a questa frase e mi sento meglio. Quando Corso è morto, sono andato al suo funerale. Che fine ha fatto Conti? E chi se ne frega.

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la lingua che si parlerà tra cinquant’anni secondo il meglio della letteratura e dell’illustrazione americana contemporanea. Jonathan Safran Foer, Kurt Vonnegut, Rick Moody, Jonathan Franzen, Joyce Carol Oates,Stephen King, Paul Auster, Jeffrey Eugenides, Dave Eggers, Nicole Krauss, ZZ Packer, Michael Chabon, Jonathan Ames, Art Spiegelman

Isbn Edizioni


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Archivio Enzo Paci A trent’anni dalla morte di Enzo Paci, con il moltiplicarsi degli studi e delle iniziative legate alla sua opera, l’Archivio chiede a chi ha scritto e scriva su Enzo Paci di voler gentilmente inviare copia del proprio lavoro all’Archivio stesso. Lo scopo evidente è quello di riunire e fare conoscere lavori e ricerche, e i loro autori, per favorire altri studi. Nello stesso ternpo si intende garantire la presenza di una collezione completa di scritti di e su Enzo Paci nel luogo che ne conserva manoscritti e biblioteca. L’invito si rivolge anche a chi abbia scritto una tesi di laurea o una dissertazione di dottorato su Enzo Paci e/o sul contesto culturale in cui si è mossa la sua attività. Al momento la collezione è parziale e sembra utile completarla. Si potrà in questo modo compilare anche un elenco degli studiosi interessati. Inoltre si è avviata l’acquisizione e la catalogazione dell’epistolario. Chiediamo pertanto a chi sia in possesso di lettere di Enzo Paci di collaborare, inviandoci fotocopia delle lettere; se ne ha tenuto copia e non ha nulla in contrario, sono benvenute anche fotocopie delle lettere del corrispondente. L’indirizzo al quale inviare il materiale è: Archivio Enzo Paci via Beato Angelico 5 20133 Milano Ringraziamo tutti anticipatamente e raccomandiamo di accludere al materiale anche il proprio recapito.


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Per abbonarsi ad “aut aut” utilizzare il seguente modulo indicando la modalità di pagamento desiderata. Una volta compilato in tutte le sue parti, il coupon deve essere inviato: per fax al numero 02 76340836 (allegando la copia del bollettino di conto corrente postale si velocizza l’attivazione dell’abbonamento) per posta all’indirizzo aut aut c/o Picomax s.r.l. via Borghetto 1 - 20122 Milano con allegato bollettino di conto corrente postale (ccp n. 42128207 intestato a Picomax srl indicando come causale “abbonamento aut aut”) Per qualsiasi richiesta o chiarimento: Picomax srl - Ufficio abbonamenti via Borghetto 1 - 20122 Milano (dal lunedì al venerdì ore 9-13 14-18) telefono 02 77428040 fax 02 76340836 abbonamenti@picomax.it

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