Mondo Niovo n. 97 - Lorenza Mazzetti

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97 MONDO NIOVO Anno L – Novembre 2015

Le tante storie di Lorenza Mazzetti a cura di Caterina Taricano e Matteo Pollone

MAZZETTI

LORENZA MAZZETTI

18.24 ft/s

mondoniovo cover 97 luc_Layout 1 14/11/2015 10:17 Pagina 1

LORENZA Notiziario dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema realizzato con il sostegno di

REGIONE

PIEMONTE

50ANNI 1965-2015

di MONDO NIOVO


Indice Lo sguardo libero di Lorenza Mazzetti ............................................................. 2 di Caterina Taricano

Così vicini, così lontani ............................................................................................................. 20 L’angoscia dello spaesamento nel cinema di Lorenza Mazzetti di Micaela Veronesi

Editoriale ...................................................................................................................................................... 3 di Vittorio Sclaverani

Il mondo salvato dai bambini .................................................................................................. Il cinema degli outsider ................................................................................................................. Metamorfosi ................................................................................................................................................. La ferita che non si vede.............................................................................................................. Free Cinema .................................................................................................................................................

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Perchè sono un genio ................................................................................................................. 28

« Non sono una regista, ho fatto dei film. Non sono una scrittrice, ho fatto dei libri» Le tante vite di Lorenza Mazzetti ............................................................................... 5

di Steve Della Casa

di Francesco Frisari

Bibliofilmografia.................................................................................................................................. 29

18.24 ft/s

Anno L – n. 97

MONDO NIOVO Novembre 2015

Notiziario dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema realizzato grazie al sostegno di Regione Piemonte, Trattoria La via del sale, Nat Cafè Osteria, Ristorante-pizzeria TreDatre, Abici Coppe Targhe Trofei e Ristorante Kirkuk

Presidente Vittorio Sclaverani

Progetto grafico Studio R. Patrucco • Torino

Direttore responsabile Caterina Taricano

Stampa Gabo s.r.l. • Torino

Vice Direttore Matteo Pollone

Ringraziamenti • Paola Bortolaso • Francesco Frisari • David Grieco • Carolina Levi • Edoardo Salerno • Tangram Produzione • Staff del TFF

Coordinamento editoriale Marco Mastino, Claudio Di Minno, Emanuele Tealdi Fundraising Giovanna Mais

In copertina Lorenza Mazzetti fotografata da Vasari nel 1964. In quarta di copertina un autoritratto di Lorenza Mazzetti. I quadri presenti nel numero sono realizzati da Lorenza Mazzetti.

Ufficio Stampa Giulia Gaiato

ISSN 2280 - 8760 Autorizzazione del Tribunale di Torino n. 5749 del 16/12/2003

Segreteria di redazione Via Montebello 22 • 10124 Torino www.amnc.it • http://movieontheroad.com info@amnc.it • segreteria@amnc.it

50ANNI 1965-2015

di MONDO NIOVO

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Lo sguardo libero di Lorenza Mazzetti di Caterina Taricano

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orenza Mazzetti ha attraversato il XX secolo con il coraggio di un combattente e la fragile semplicità di una ragazzina. Quando abbiamo saputo che il nostro socio Steve Della Casa (assieme a Francesco Frisari) stava girando un documentario sulla vita di Lorenza Mazzetti, abbiamo subito capito che il premio Maria Adriana Prolo non poteva che essere assegnato quest’anno proprio a quella “ragazza” che Federico Fellini, per prenderla amichevolmente in giro, chiamava Giamburrasca. Lorenza Mazzetti ha fondato nel 1955 il Free Cinema, insieme a talenti come Karel Reisz, Lindsay Anderson, Tony Richardson. E il film Together, da lei realizzato nel 1956, ha vinto un premio importante al festival di Cannes. È un film che va visto con attenzione. Se il Free Cinema, soprattutto agli inizi, era molto imbevuto della militanza politica dei suoi fondatori, Together è tutt’altra cosa. È un film libero, spigliato, creativo, quasi onirico: di fatto, è un vero e proprio ponte tra la tensione morale del neorealismo e la grande stagione della rivoluzione linguistica che le Nouvelles Vagues di tutto il mondo imporranno al cinema rivoluzionando negli anni Sessanta la storia e la percezione della Settima Arte. Il cinema direttamente praticato, per Lorenza Mazzetti, finisce lì. Torna in Italia, lavora per un certo periodo con Cesare Zavattini, scrive uno straordinario romanzo pubblicato da Attilio Bertolucci, Il cielo cade, che nel 1961 vince il premio Viareggio. Lavorerà con Pier Paolo Pasolini a «Vie Nuove», ma soprattutto aprirà tante altre pagine della propria vita: l’attività di scrittrice, di giornalista, di

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pittrice, persino la costruzione di un teatro dei burattini che ha animato fino a pochi anni fa. Spesso si parla (e molto spesso a vanvera) di multimedialità. Ebbene, non conosco una persona che come Lorenza Mazzetti abbia veramente praticato quasi tutte le possibili discipline della creazione artistica. Proprio per questo abbiamo deciso di fare un numero della rivista che dia ampio spazio soprattutto al racconto in prima persona di Lorenza Mazzetti, che con occhi ancora da bambina racconta la storia di una vita che attraversa tutto il Novecento, le sue tensioni culturali e anche le sue atrocità. ■


Editoriale di Vittorio Sclaverani

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opo aver ricordato nel 2013 il sessantesimo anniversario, l’Associazione Museo Nazionale del Cinema raggiunge un altro importate traguardo ovvero il cinquantesimo anno di vita di «Mondo Niovo 18-24 ft/s» che celebriamo attraverso questo numero monografico dedicato a Lorenza Mazzetti, figura poliedrica ed estremamente affascinate, a cui siamo fieri di riconoscere il Premio Maria Adriana Prolo alla Carriera 2015 nell’ambito del 33° TFF. Sono trascorsi più di cinque anni da quando all’interno dell’Associazione è avvenuto un forte ricambio generazionale in cui l’Assemblea dei Soci nel maggio del 2010 ha deciso di dare fiducia a un giovane gruppo di studenti, organizzatori culturali e appassionati di cinema nel gestire l’Associazione fondata da Maria Adriana Prolo il 7 luglio del 1953. Probabilmente mai come in questo periodo il sistema culturale del nostro paese ha attraversato una così forte crisi di risorse e di prospettive, ma nonostante queste difficoltà che stanno vivendo tutti gli attori del nostro territorio, i progetti e le attività dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema continuano a crescere grazie alle idee, alle energie e soprattutto alle persone che ne fanno parte attivamente. Tutto ciò è reso possibile grazie al sostegno e alla collaborazione di oltre cento realtà pubbliche e private. L’Associazione in questi anni è stata capace di dialogare e creare partnership con i più importanti enti e istituzioni (Museo Nazionale del Cinema, Film Commission, Torino Film Festival, Torino Gay & Lesbian Film Festival, CinemAmbiente, Salone Internazionale del Libro di Torino, Torino Spiritualità, ecc..), ma anche di raggiungere e costruire nuove occasioni di incontro e di condivisione attraverso il cinema in spazi decentrati e non ufficiali

come le sedi della rete delle Case del Quartiere di Torino (in particolare al Cecchi Point, alla CdQ di San Salvario, alla Casa nel Parco e alla Cascina Roccafranca), le librerie indipendenti, Luoghi Comuni la residenza di Social Housing di Porta Palazzo, il centro diurno Momenti Familiari gestito dalla Cooperativa Frassati, il Castello di Roddi, l’Ecomuseo di Alpignano e le borgate dell’Alta Valle di Susa. Dal 2016 collaboreremo con lo spazio di via Ghedini dedicato all’emergenza abitativa, la sede dell’AISM con il laboratorio di Cinema Plurale e tanti altri spazi ancora dove l’Associazione sosterrà le iniziative per ricordare Luca Rastello, perché i luoghi dove far vedere i film sono molto importanti, come è stato recentemente ricordato all’Unione Culturale Franco Antonicelli, riproponendo un dialogo tra Jonas Mekas e Pier Paolo Pasolini. Pensando alle ricerche del sociologo Aldo Bonomi crediamo che la società creativa possa allearsi con la società di cura per arginare sempre di più la società rancorosa. I progetti dell’Associazione stanno continuando a crescere come cinemAutismo, nato come una scommessa nel 2009: ora è un modello citato e richiesto in tutta Italia grazie alle tappe in Valle d’Aosta, nelle Marche, a Biella, a Montezemolo per il Movie Seminario, a Roma grazie alla collaborazione con l’AS Film Festival e a Napoli con il Festival del Cinema dei Diritti Umani. Lavori in Corto nel 2012 era un piccolo concorso cinematografico a tematica sociale rivolto alla provincia di Torino, da due anni è diventato nazionale, con il primo premio dedicato ad Armando Ceste, e da quest’anno vanta la collaborazione con Rai Cinema che ha individuato in Lavori in Corto, sostenendolo, un modo per essere servizio pubblico. Un’Estate al Cinema e CINETICA sono altri due esempi chiari di come portiamo avanti il nostro lavoro, un lavoro di rete e di relazioni continue, con un’attenzione a un pubblico eterogeneo e uno sguardo agli autori indipendenti del territorio, ma anche globale grazie alla collaborazione con Mondovisioni, i documentari proposti dalla rivista «Internazionale». Tornando alla mission storica dell’Associazione, ovvero il valorizzare la memoria storica audiovisiva del nostro territorio, il portale di cineturismo Movie on the Road è in continuo sviluppo, mentre siamo orgogliosi di aver acquisito negli ultimi mesi l’Archivio dei Superottimisti un progetto di raccolta, recupero e valorizzazione di filmati familiari amatoriali in formato 8mm, super8, 9,5 mm e 16 mm; nei prossimi mesi saremo impegnati nel rilanciare in modo innovativo questo importante progetto di archivio regionale dei film di famiglia. ■

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Lorenza Mazzetti, Londra 1964

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«Non sono una regista, ho fatto dei film. Non sono una scrittrice, ho fatto dei libri»

Le tante vite di Lorenza Mazzetti di Francesco Frisari

Lorenza Mazzetti e John Fletcher sul set di Together

«Hai presente la favola del principe e il povero? La conosci? C’è questo principe, che era ancora un ragazzino, bello e ricco, e quest’altro ragazzino che è invece è molto povero ma molto simile all’altro, anche lui bello, ma bello davvero… e un giorno allora si incontrano il principe e il povero, fanno amicizia, e si dicono «Sai cos’è, facciamo un gioco», e si scambiano i ruoli. Dopo un po’ però il principe, che ora è povero, è dispiaciuto, è in difficoltà e non ce la fa più, allora va alla corte e dice «Guardate, io sono il principe, anzi il re, perché mio padre è appena morto e ho ereditato il trono, vi prego, fatemi entrare, sono io». Ma nessuno gli crede, nessuno lo riconosce, così, vestito di stracci e con la faccia sporca. Finché un giorno per la strada incontra uno scudiero e gli dice «Non mi riconosci? sono io, il principe, anzi il re», e quello lo guarda, lo guarda in faccia, e dice «Sì, mia maestà vi riconosco, siete voi, siete il re!». Il principe allora lo abbraccia e gli dice di inginocchiarsi, gli mette una mano sulla spalla e lo nomina suo duca, visto che lo ha riconosciuto. Ecco, io mi sono sentita così quando sono entrata alla Slade School of Arts a Londra, quando mi hanno preso e mi hanno riconosciuta, anche se ero lì, povera, non sapevo bene la lingua, non mi ero iscritta, ma mi hanno riconosciuta come principe, o principessa, hanno capito che ero “un genio”. Era come se già sapessero chi ero e così mi hanno fatta entrare. È importante essere riconosciuti».

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orenza Mazzetti è una signora anziana molto vivace. Ha una vita incredibile, piena di eventi drammatici e insieme favolosi: con la sua sorella gemella Paola, con cui ora vive, viene adottata da bambina dalla famiglia Einstein che si era trasferita in Toscana, e che sul finire della seconda guerra mondiale viene uccisa dalle truppe tedesche dinanzi ai suoi occhi. La zia e le sue due cugine Cicci e Luce vennero uccise brutalmente dai tedeschi mentre lei e sua sorella si salvarono solo perché non portavano il cognome Einstein, quello di un ebreo e per di più traditore del Reich. L’amato zio Robert, scampato all’eccidio grazie ai partigiani, non resiste dinanzi a tanto dolore e dopo poco tempo si toglie la vita. Per sfuggire al ricordo di quell’orrore parte per Londra nei primi anni ’50, e lì si ritrova povera, ma riesce comunque, in maniera rocambolesca, a entrare in una scuola d’arte prestigiosa, dove ruba delle cineprese, si inventa regista e gira da clandestina due film poetici e sperimentali con attori presi dalla strada, K e Together. Fonda così con alcuni tra i più importanti cineasti inglesi il movimento del Free Cinema, che porta ironia, rabbia e strada nel cinema britannico. Con il suo secondo film vince un premio a Cannes, poi torna in Italia e scrive Il cielo cade, un piccolo capolavoro, il diario divertente e tragico di una bambina che racconta in modo spiazzante il fascismo, la guerra, la vita con la famiglia ebrea e quanto poi sarebbe successo. Da allora gira altri film, collaborando con Zavattini nei suoi film a episodi, tiene sulla rivista «Vie Nuove» una rubrica di lettere a tema psicanalitico, e poi ancora dipinge, mette su un teatro di burattini e scrive altri romanzi autobiografici, fino all’ultimo Diario Londinese di due anni fa. Ma la sua vita straordinaria è ancora più interessante quando è lei a parlarne, ha un grande talento e freschezza

Lorenza Mazzetti e John Fletcher sul set di Together

nel raccontare ma soprattutto nel raccontarsi, e mi parla di questa fiaba del principe e il povero prima ancora di iniziare insieme un’intervista per un documentario su di lei a cui stiamo lavorando. Inizia col dirmi «Adesso mi farai solo domande noiosissime», e così inizia lei a raccontare dal punto che preferisce, che è proprio quello che le ha fatto venire in mente la storia del principe e il povero. Dai, iniziamo raccontando di come sono entrata all’Università, a Londra. Era il 1954, e sono andata a quest’università perché avevo deciso di non fare solo la cameriera, di non lavare solo tazzine, ma di continuare a dipingere. La segretaria diceva che non sapevo l’inglese, non avevo compilato documenti, non avevo i soldi… Io però, che ero disperata e psicotica, ho deciso che non mi sarei mossa da lì se non veniva la polizia a prendermi. Ho detto: «Guardi io non mi muovo di qui se non vedo il direttore». Allora lei ha detto: «Il direttore non c’è e non può venire, la preghiamo di andar via». Ho cominciato a urlare. A questo punto è uscito da una porta un inserviente, un uomo dimesso con bretelle che tenevano su i pantaloni, e in maniche di camicia, e mi ha detto: «Che cosa c’è?» «Voglio parlare col direttore!» «Mi segua, la porto da lui». Così l’ho seguito per corridoi e varie stanze, finalmente mi ha detto: «Perché vuole parlare col direttore?» «Perché voglio venire qua a dipingere, a lavorare». «Ma perché proprio qui?» Ho detto… «Perché sono un genio!», non sapevo cos’altro dire. Comunque mi dice: «Visto che è un genio va bene, le do questi moduli da riempire. Metta qui la sua firma, il suo indirizzo e basta e domani mattina si presenti alle 9.30 in punto». «E il direttore cosa dirà?» «Non si preoccupi il direttore son io». «Ma scusi il direttore in Italia non si presenta in maniche di camicia con le bretelle, si presenta in un altro modo». «Sì però in Italia un direttore di un’università non accetta di iscrivere una ragazza che viene qui, pretende di essere un genio, non ha soldi, non ha firmato nessun modulo». Ecco, non so se ti rendi conto che a questo punto la mia vita è completamente sterzata, da qua in poi diventa come una fiaba, perché avvengono una serie di cose che non sarebbero avvenute se io avessi obbedito alla segretaria e me ne fossi andata. E questo mi fa pensare molto di come noi viviamo la nostra vita, quanto siamo responsabili di ciò che ci succede. Vabbè poi filosoficamente ne parleremo un’altra volta. Ma raccontiamo allora perché eri a Londra senza un soldo, come ci eri finita, raccontiamola tutta la tua storia londinese, e non solo… Insomma devo raccontarti l’ultimo libro che ho scritto, Diario Londinese, tanto vale che te lo leggi… Anzi, io mi aspettavo che tu avendo letto il libro mi dicessi quale parte ti è piaciuta di più, ho i miei bisogni… Comunque dai, raccontiamo. Io vivevo a Firenze, ma volevo partire per andare a Londra, ma soprattutto inconsciamente per andar via dalla casa che mi ricordava quella tremenda morte. Mi capitava che mentre studiavo vedevo questa

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Guillaume Chpaltine, Lindsay Anderson, Lorenza Mazzetti e Richard Harris

Lorenza Mazzetti, Alberto Moravia e Leonida Repaci al Premio Viareggio nel 1961 fotografati da Pablo Volta

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scena spaventosa, e mi sentivo pietrificare fino al cuore, fino a fermarlo, al che arrivava mia sorella Paola a scuotermi e salvarmi… E allora dopo la maturità classica pensai di fare un viaggio. Il tutore ci dava ogni mese dei soldi, pensavo di essere miliardaria e volevo dimostrare di potermi guadagnare la vita, e così con altri studenti sono andata in un campo di lavoro in Inghilterra, ma lì dovevo trasportare sacchi di patate pesantissimi. Non ci riuscivo, e dopo qualche giorno sono andata via, mi han lasciato con le valigie sull’autostrada e mi han fatto fare l’autostop. Son andata in un alberghetto a Londra, anche se sapevo dire solo un po’ di parole in inglese. Non conoscevo nessuno nella pensione ed ero un po’ traumatizzata, andavo in giro per musei, andavo a cercare Londra, tutto buio, tutta nebbia, tornavo a casa che ero tutta nera. In realtà ero molto triste… ero andata là, lasciando la mia casa, i miei vestiti, il sole, la Toscana, speravo di dimenticare. Speravo di uscire dall’incubo, e quasi quasi ci sono riuscita, questa città era così nera, così scura che era impossibile paragonarla a Firenze… ma poi ogni minuto mi succedevano delle cose che mi scoraggiavano, man mano che andavo avanti, scoprivo che non ero adatta a fare la segretaria, non avevo i tacchi alti e la borsettina carina, allora ho messo un annuncio per insegnare l’italiano agli inglesi, ma loro desideravano solo abbracciarmi e baciarmi. Alla fine andavo disperata a rifugiarmi in un cinema ma non potevo sedermi che qualcuno allungava le mani come se fosse un fatto naturale… pensavo fossero gli inglesi. A un certo punto però il tutore smise di mandarmi dei soldi, ci aveva derubato di tutto, e così mi trovai da sola

Lorenza Mazzetti a Londra

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a Londra povera, senza più parenti ma piena di incubi, mentre mia sorella gemella era a Firenze con un fidanzato imbecille che diceva che le gemelle debbono stare separate. Iniziai allora a fare la cameriera in queste case inglesi, portavo l’uovo, aranciata, caffè al mattino per colazione, mi comportavo un po’ come Jeeves, avevo letto Wodehouse. Ma stavo male, ero in uno stato psicotico, e appena potevo mi rinchiudevo nella mia cameretta a disegnare. Prendevo un foglio, scrivevo “Io” in mezzo, poi facevo delle linee per sapere verso chi andavo, cos’ero, e mettevo il nome di Lorenzo Il Magnifico, perché mi chiamavo Lorenza, poi altre linee con Dostoevskij, Faulkner, Kafka, e mi costruivo questa specie di ragnatela di falsi parenti, perché anche se non conoscevo più nessuno almeno questi scrittori mi nutrivano. Però sono arrivata a un punto in cui non ce la facevo più, stavo impazzendo, ho preso allora i miei disegni e ho deciso di andare all’Università dove ho fatto la scena che ti ho detto, e mi hanno riconosciuto come il principe!» Era la Slade School of Fine Arts, una scuola con grandi insegnanti e artisti. Una volta dentro ho visto che giravano delle persone importantissime, tra cui Lucian Freud, il nipote di Freud. Non era ancora molto famoso. Era molto giovane, era biondo con gli occhi celesti, si dava molte arie. Poi c’era un altro signore, Francis Bacon, si diceva “è uno che farà strada”. Lui non è che fosse molto bello ma insomma… Io però mi annoiavo un po’ a dipingere, preferivo girovagare. E girovagando sono arrivata alla soffitta di un palazzo dove c’erano delle porticine su cui c’era scritto


Together

appunto quello che potevamo fare, iscriverci al tennis club, cricket club, swimming club, chess club ma l’unico che mi attirasse era il film club. Ho cercato di entrare, la porta si è aperta e ha fatto uno scricchiolio. Ho visto effettivamente che c’era la macchina da presa, i treppiedi, le luci, le pizze, tutto pronto per filmare le lauree degli studenti come si fa a Londra. Beh tu che avresti fatto? Saresti entrato no? Ti saresti iscritto? Io ho pensato un’unica cosa, rubo tutto, mi porto via tutto, e l’ho fatto con un amico che era un giovane pittore bellissimo al quale ho fatto fare la parte fondamentale del film. Ecco, arriviamo al tuo primo film. Come ti è venuto in mente di girarlo? Beh, avevo trovato le cineprese, che altro potevo fare? Sai io a Firenze avevo visto Les enfants du paradis di Marcel Carné, e anche L’Age d’Or di Buñuel… E poi avevo questa storia, anzi questa foto che avevo sempre nella mia camera, la foto di Kafka con quel suo visino così fragile, hai presente? E mi sentivo così vicina a lui che ho deciso di farci il mio film. C’era un mio compagno della scuola che era egiziano ed era operatore, sapeva usare la macchina. E poi ho chiesto a Michael Andrews, quello che mi aveva aiutato nel furto e che poi sarebbe diventato un grande pittore, di fare il protagonista. «Voglio fare La metamorfosi di Kafka e devi recitare per me». «E chi è Kafka?» «È un grande scrittore.» «Dammi il testo che me l’imparo a memoria». «No guarda non c’è testo, devi solo scendere dal letto ma ci devi mettere tre ore». Una ragazza della scuola molto carina faceva la sorella, per strada ho fermato un signore per fargli fare il datore di lavoro e lui mi ha permesso di girare nel suo ufficio, era un commerciante di stoffe. Mi continuava a chiedere quale fosse la storia, e io gli avevo detto che parlava di un ragazzo che non riesce ad andare a lavorare, non scende dal letto perché con quelle zampine…e quando dico zampine lui si preoccupa moltissimo. «Ma questa storia come

Paola e Lorenza Mazzetti

finisce?» «Benissimo» dico io, «si sposa e ha molti figli». Ho usato poi alcuni amici e altri alunni della scuola, non ho pagato nessuno, e mi son arrangiata così, e ho fatto l’intero film. Contentissima porto tutte le pizze al laboratorio dove si sviluppano tutte le cose della Slade e lì mi hanno detto: «Senta qui tra il sonoro, il parlato, il monologo e tutto è un bel lavoro e costa un bel po’, che fa paga?». «È l’University College che paga!» «E chi firma?» «Ma firmo io, mi manda l’università». Appena fatto sono andata a prendere il mio film senza pensare che tutti i soldi sarebbero andati a chiederli all’università, ma io non mi preoccupavo. Il direttore dell’università allora mi chiama e dice: «Ma sai che firmare il falso si va in prigione? E poi sono molti soldi, tu paghi?». «Ma io non ho una lira». «Lo sai come si chiama questo? Rubare, devi andare in prigione». Poi ci ripensa mi chiama indietro e mi dice: «no guarda prima di mandarti in prigione facci vedere che hai fatto. Se gli studenti applaudono paghiamo noi. Se gli studenti non applaudono vai in prigione». In poche parole hanno applaudito, tutti a farmi i complimenti, perfino Lucian Freud. Ma il mio caro direttore dell’università, di cui ero innamorata follemente, aveva già chiamato il direttore del British Film Institute per dirgli: «Guarda qui c’è una pazza, una ragazzina matta che ha fatto un film su Kafka rubando tutto, filmando il falso, non pagando e fa la cameriera, mi sembra un tipo strano». E qui un’altra svolta, un altro riconoscimento. Sì, perché è venuto da me il direttore del British Film Institute, un bellissimo uomo, tipo Kennedy, tant’è che anche di lui mi sono innamorata, e fa: «devo chiederle una cosa, vorrebbe fare un altro film senza andare in prigione?». «Sì, certo senz’altro!». «Allora domani mi porti un’idea, la scriva e ci vediamo alle 17». Io vado là, lo trovo che mi aspetta con il tè, due tazzine e i biscotti. Tiro fuori questa idea dalla tasca ma per tirarla fuori urto il tavolino

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e butto il tè bollente sul ginocchio del direttore. Il ginocchio fumava. «Cosa ho fatto?! I’m sorry, what can I do, what can I do?» E lui mi fa «Don’t worry my leg is wood», e mi fa sentire il rumore del legno. E qui poi una cosa da non crederci, mi dice: «Ho lasciato per te e tutti gli italiani la mia gamba a Cassino». Io prima l’ho abbracciato, poi gli ho dato l’idea. Lui ha letto il foglio e ha detto: «Benissimo, da domani con la tua equipe cioè con Michael e tutti quelli che avevano lavorato con Kafka puoi cominciare a fare il tuo film». L’idea in breve era questa e non mi domandare perché ho scritto questa storia, forse uno psicanalista potrebbe dirlo: erano due sordomuti che si aggiravano e lavoravano nell’East End. L’East End come posto erano le rovine che aveva lasciato Hitler e quindi campi di detriti, di edifici bombardati in balia dei bambini. Questo mi ricordava I ragazzi della via Paal che avevano occupato quel campo e che litigavano tra loro. Ho preso i due fratelli Pasztor del libro e li ho trasformati nei due sordomuti, ciò mi permetteva di vivere il film nei suoni e frastuoni che c’erano nei cantiere dell’East End e nel silenzio del loro mondo. Loro erano staccati dal mondo però erano anche presi in giro dal mondo, offesi, scherniti. Il perché me lo dirai tu. I bambini sono importanti, senza volerlo giocando e prendendolo in giro, con uno scherzo fanno che sì che uno dei due muoia alla fine perché casca giù dal ponticello nel fiume, nel Tamigi. Il sordomuto magro e alto è Michael, quello di Kafka, invece il sordomuto più grosso è Edoardo Paolozzi, che ho incontrato un giorno quando sono andata alla Hannover Gallery e lì mi sono fermata a guardare per la prima volta

Lindsay Anderson, Lorenza Mazzetti e Richard Harris a Roma fotografati da Bruno Grieco

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Bacon che presentava i suoi Papi. Non so se li conosci, mi pare siano 3 o 4 papi tutti sul lilla ma alcuni hanno solo la bocca, altri hanno solo gli occhi, altri non hanno quasi faccia, sono molto impressionanti. Soprattutto per una persona che viene da Roma dove c’è sempre il Papa di mezzo. E lì ho notato un uomo un po’ grosso che guardava questi quadri e ho pensato che era proprio il tipo che cercavo: «Mi scusi io devo fare un piccolo film. Mi piacerebbe che lei mi facesse da attore». «E che devo imparare?» «Non deve imparare niente, nessuna battuta, deve essere un sordomuto che cammina, va in giro». «Allora se non devo imparare niente vengo sicuro». Sarebbe poi diventato baronetto, ma all’epoca non era ancora un artista famoso, anche se già faceva parte di un gruppo di avanguardia di scultura. È un film anche questo molto fatto per strada, e mostra una Londra particolare e inedita, che sembra rappresentare ancora di più la desolazione della guerra e della povertà. Sì, la bellezza di questo film è anche nell’East End, in questo posto che non è mai stato ripreso dagli inglesi ed è straordinario. Ci sono delle strade che sembrano strade ma invece non c’è nessuno, sono tutti magazzini ed è tutto molto kafkiano perché c’è un’intera strada fatta di case con buchi, porte, eccetera ma tutto numerato. E queste case danno sul fiume, e sul fiume ci sono migliaia di gru che prendono le masserizie dalle chiatte e le tirano su… è un enorme porto. Londra era tutto un porto. Arrivava la roba sulle chiatte e le gru prendevano queste masserizie e le tiravano dentro le case, queste case che hanno tutti ponti tra una casa e l’altra, con un rumore pazzesco di navi che entrano, barche che escono. E in mezzo a questo frastuono c’è il rumore dei bambini per strada che cantano e fanno urli, sembrano uccellini. Quest’atmosfera mi ha molto colpita. Io ho solo voluto far vedere quest’atmosfera, l’amore tra questi due uomini sordomuti che si aiutano, la povertà dei loro pub e quindi la povertà di Londra e delle persone semplici, finché uno di loro muore. Si può anche pensare inconsciamente che io ho voluto suicidarmi e che questi due personaggi eravamo io e mia sorella, sole al mondo, ma questo solo una psicanalista lo potrebbe dire. In realtà io volevo fare proprio due esseri umani che portavano amore, che amavano in un mondo desolato e terribile, e l’ho trovato proprio lì perché più desolato di questo mondo dei rumori era difficile immaginarlo.

quello che loro cercavano, di certo prima di noi nessuno era andato in strada a filmare, e nessuno aveva parlato del popolo di Londra. Al massimo c’era un popolano che aspirava a diventare conte, a sposare la contessa, la moglie del Lord... non so se mi spiego. Oppure la moglie di un Lord che aspirava ad andare a letto con un popolano. Loro sono venuti a cercarmi perché sapevano che Denis Forman, il direttore del British Film Institute, il mio dio, il mio secondo angelo custode, mi aveva scelto e volevano capire chi fossi. Lindsay era un critico famoso e aveva questa rivista «Sequence» in cui aveva intervistato a lungo John Ford, il regista che più adorava perché trovava in lui tanta umanità e tanta arte. Mi raccontava che finì la sua intervista dicendogli «Grazie per avermi concesso quest’intervista, cosa posso fare per lei?» e Ford «Essermi amico». E questo non l’ha mai dimenticato, sì lui teneva all’amicizia, credeva in questo elemento poetico che in fondo è quello che cercava anche il neorealismo. Dopo tanti orrori anche De Sica, Zavattini, Visconti hanno cercato la poesia nella vita, hanno inventato una realtà poetica non una realtà da cinema-verità alla Jacopetti. Basta pensare ai temi. Hanno reinventato una realtà spaventosa che era rimasta dopo la guerra, hanno gettato lì il seme della poesia, della fratellanza, dell’amore e questo pochi lo capiscono, mentre Lindsay, che pure era diverso, era inglese, lo capiva bene. E così ho collaborato con lui per questo mio secondo film, anche perché lui era un personaggio straordinario, comandava tutti in un modo spiritoso e intelligente e tutti erano contenti di essere comandati. Mi aiutò per la sonorizzazione perché mentre giravo non avevo fonico, non avevo niente e non me ne preoccupavo nemmeno. Abbiamo registrato poi i suoni del Tamigi, i suoni dei bambini, i suoni di tutti. Per fortuna non avevamo i doveri del doppiaggio perché ho fatto un film basato esclusivamente sul silenzio e sul rumore. E quando io a Lindsay dicevo «Scusami Lindsay metteresti un altro suono qui?» lui «Shut up little girl!», e io «Yes my captain!». Sempre lui ha pensato di far venire dall’Italia il composi-

A capire la forza che c’era in questo tuo film fu Lindsay Anderson, all’epoca ancora critico importante e autore di cortometraggi ma che di lì a poco sarebbe diventato un regista acclamato. Come l’hai conosciuto? Non è che io frequentassi l’upper class, continuavo a fare la cameriera per mangiare, è successo che loro, lui e il suo “gruppo”, sono venuti a cercarmi. Hanno saputo di questo mio film e hanno voluto vederlo e hanno detto: questo film è bellissimo, questa ragazza la pensa come noi. Forse io venendo da Zavattini, da Rossellini, dall’Italia del neorealismo ho portato un tocco che era uguale a

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tore che mi aveva fatto la musica per Kafka. È arrivato su Daniele Paris che non è che sia un personaggio qualsiasi, ha fondato Nuova Consonanza in Italia, ha fondato il conservatorio di Frosinone e ha diretto tutti i più grandi musicisti moderni. Era talmente intelligente che aveva capito che per il mio film su Kafka valeva la pena che lui mi mandasse la sua musica! E fece così anche la musica di questo secondo film. Fu sempre Lindsay ad aiutarmi con il titolo, io ne avevo un altro in mente ma lui disse «C’è tanto amore qui, tiriamolo fuori, chiamiamolo Together, Insieme, che significa tante cose», perché Lindsay Anderson era molto romantico, puntava davvero su un messaggio d’amore tra gli uomini. Ma oltre a Lindsay hai incontrato altri grandi registi del cinema inglese, o meglio altri che stavano per diventare grandi, e tutti insieme avete deciso di fondare un movimento. Sì insieme a lui conobbi Tony Richardson e Karel Reisz, che avevano fatto fino a quel momento dei documentari, molto belli, sulla vita del popolo, anche loro girando e andando per strada, portando la gente comune nel cinema inglese. Loro insieme a Lindsay mi hanno trovata e mi hanno domandato se avevo piacere di mettere il mio film con i loro, di metterci insieme e formare un messaggio, un manifesto in cui dicevamo le nostre idee. C’è qualcosa infatti che unisce questi nostri film, c’è certamente la solidarietà umana, una visione poetica del mondo anche se tragica, ma soprattutto non è più una visione a caste, il mondo non era più diviso. L’Inghilterra stava iniziando a cambiare, e piano piano tutti hanno iniziato a capire che non era più la upper class che comandava ma era il popolo, che il popolo poteva parlare e uscire dalle cantine e venire fuori anche come musicista. E anche la musica di lì a poco fu molto importante. Quando i Beatles anni dopo hanno incontrato la regina hanno parlato in dialetto, cosa mai successa prima e impensabile, perché chi parlava con la regina parlava solo in puro accento Cambridge. Così una sera, nel pub dove lavoravo, son venuti tutti e tre, Richardson, Reisz e Lindsay, e lì abbiamo scritto il manifesto di quello che abbiamo chiamato il Free Cinema. Ce l’ho qui, te lo leggo.

Nessun film può essere troppo personale. L’immagine parla. Il suono amplifica e commenta. La dimensione è irrilevante. La perfezione non è nei nostri propositi. Un atteggiamento significa uno stile, uno stile significa un atteggiamento. Lindsay a quel punto è andato al British Film Institute e ha detto: «Noi vogliamo tutto il National Theater per una settimana e anche di più, vogliamo mostrare i nostri film e far venire tutti i giovani che sperimentano il cinema nel mondo: vogliamo fare un festival e unire tutte queste persone», e così nacque il primo programma del

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Free Cinema, che fu il primo festival del cinema indipendente. Sono venuti dall’America, dal Canada, dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia, dalla Francia e non sto qui a fare tutti i nomi dei registi. E fuori c’era una coda lunghissima ogni giorno, gente che aspettava per ore, un grande successo. Siamo finiti anche in televisione, alla BBC, e mi ricordo che parlavano di tutti i nostri film e io ho cercato di spiegare che il mio non era un documentario ma un film poetico. Dopo tutto questo successo inaspettato Lindsay mi dice: «Abbiamo scelto il tuo film per andare a Cannes per rappresentarci», io però mi vergognavo troppo per andare. Mi vergognavo anche perché loro era tutti distinti, venivano tutti dall’upper class, parlavano con un accento terrificante così Oxford o Cambridge, mentre io non avevo nemmeno un vestito elegante. Ma lì il mio capitano Lindsay risolve anche questo problema, mi dà una busta piena di soldi dicendo: «Questi sono i soldi che abbiamo raccolto per te con la vendita al pubblico del Manifesto del Free Cinema. Potrai comprarti un bel vestito!». E così siamo partiti con una bellissima macchina aperta, come in un sogno. E a Cannes la tua vita fa un’altra giravolta, o meglio da lì ritorni a quello che era il tuo passato. Cannes fu bellissima e incredibile, perché con Together vinco il premio dell’avanguardia del ’56, ed escono arti-


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Lorenza Mazzetti e John Fletcher sul set di Together

Lorenza Mazzetti e John Fletcher sul set di Together

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Lorenza Mazzetti negli anni '70 fotografata da Bruno Grieco

coli sui giornali e su riviste che parlano di me, in uno si diceva perfino: “Questo film è così poetico che lo dobbiamo amare come abbiamo amato L’Atalante di Jean Vigo”. E poi incontro Zavattini, l’artista e lo scrittore italiano di cui avevo divorato i libri e che ammiravo. Mi dice: «Lorenza, mi pare che il tuo film sia molto piaciuto, ma non dirlo a nessuno perché è un segreto». A quel punto torno a casa dalla mia sorellina Paola, che aveva lasciato il marito e stava con un’altra persona che finalmente le permetteva di vedermi. Mia sorella aveva avuto una bambina e non c’era più quel terribile fidanzato, che non voleva che ci parlassimo al telefono o nemmeno che ci scrivessimo. Lui diceva che era per il nostro bene. Diceva che le gemelle devono essere divise altrimenti è un guaio. Ma è stato un guaio essere divise in modo così brutale, senza darle le lettere, senza passarmela al telefono. Per fortuna lei l’aveva lasciato, e così io sono tornata da lei a Firenze dopo tanti anni. E tutta la storia che ho scritto in quest’ultimo libro, nel Diario Londinese, l’ho scritta per arrivare a questo punto, al mio ritorno. È stato scritto perché questa ragazzina, che ero io, era fuggita da Firenze e quindi era fuggita da qualcosa, e il ritorno, anche se ora è trionfante, fa sì che lei ripiombi nella stessa situazione di prima della sua fuga. Cioè torna a Firenze e prima c’è la gioia della mia sorellina, della gemella - voi non potete capire cos’è un gemello, voi siete disumani e noi siamo gli esseri umani, voi siete solo meccanici, dei robot, e noi gemelli siamo i veri esseri umani caduti sulla terra, tant’è che fin dall’antichità si diceva che i gemelli erano divini perché hanno premonizioni, intuizioni uniche… Fatto sta che la mia felicità nel ritrovarla quando sono arrivata era immensa. Ma già dopo poco cominciava la malattia del ritorno. Una volta io stavo così male da non riuscire a lavarmi o cambiarmi, non riuscivo a togliermi né gli stivali, né le calze, si erano appiccicati i vestiti su di me. Dopo avermi lavato, lavato la testa, lavato i piedi e dopo avermi messo a letto, mia sorella era molto preoccupata e ho avuto per giorni la febbre. Mi è ritornata la malattia e con questa l’atmosfera che c’era in quella casa prima della mia partenza per Londra: due ragazzine con una tata, un tutore e questi incubi, questi ricordi spaventosi che impedivano la vita. Certo, sembrerebbe che la rimozione di questi ricordi possa essere stata l’unico mezzo per farmi vivere. È stata necessaria per sopravvivere. Però una volta che si è sopravvissuti l’aver sepolto i propri genitori uccisi, la villa bruciata, diventa una colpa. Io non l’avevo capito questo. Dovevo rimuovere la rimozione, perché una volta tornata ho cominciato ad avere questi tremendi sintomi fisici a dirmi che qualcosa non andava. Per esempio mi dicevano di andare a tavola ma io non riuscivo a deglutire, se guardavo la forchetta mi sentivo infilzare, se guardavo un coltello mi sentivo accoltellare. E poi praticamente non dormivo, avevo sempre incubi, quindi il marito di Paola, il nuovo uomo della mia sorellina, che era psicanalista junghiano, mi disse che bisognava aiutarmi. E così vado da uno psicoterapeuta straniero, americano, un uomo grande e grosso coi capelli rossi e gli occhi celesti – sem-

brava Barbarossa. Io arrivò lì e suono alla porta. Lui parla inglese, ma ormai anche io lo sapevo un po’… Mi fa: «Scriva su questo foglio perché viene qui e che vuole da me», e io ho scritto «Mi aiuti a non suicidarmi». Allora lui fa: «Questo è molto semplice, se lei pensa che è bene suicidarsi qui c’è una finestra, io le do il permesso. Faccia pure». Questo per farti capire il tipo… E così è iniziato il tutto. Non so ancora descrivere il metodo che usava per dimostrare lentamente che io non riuscivo più a esprimere emozioni ma solo mentalmente dei pensieri, ero bloccata infatti, tenevo tutto dentro. Mi diceva: «Cosa prova se le dico che sta in riva al mare con i piedi nella rena e deve entrare in acqua?» e io «Io penso che…» e allora lui diceva «Ma non potrebbe dire io “sento”?». Fu un processo molto lungo, ma lo psicanalista capì che evidentemente rimuovevo qualcosa, perché normalmente chi arriva lì ha rimosso anche se non lo sa. I sintomi sono segno di cosa hai rimosso, e io avevo l’orrore della musica. Allora quando lui mise della musica gli chiesi di non metterla perché mi dava fastidio. «Dire che ti dà fastidio Mozart è un po’ strano». Un giorno mi fa trovare la musica abbastanza alta, lo prego di spegnere e allora lui capisce che è il caso di aumentare. Lui aumenta e io divento quasi isterica, quasi l’aggredisco. E qui succede una scena incredibile, io crollo completamente davanti all’emozione che mi provoca questa musica. Era la musica che suonavano la zia e lo zio a due mani al piano. Il ricordo di queste persone che avevo sepolto dentro di me per sopravvivere, adesso non mi faceva più vivere perché le avevo sepolte. Non potevo più vivere senza disseppellirle. Ma io non lo capivo, veramente non l’avrei mai capito, sarei morta così senza deglutire, invece grazie a lui e soprattutto alle lacrime che mi ha fatto venire c’è stata come una liberazione dalle difese contro l’allagamento. L’inconscio ha preso il sopravvento sulla volontà di reprimere. Gli ho fatto capire piangendo, lui mi ha abbracciato e ha fatto finta di essere lo zio. Quando sei in quello stato…

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Lorenza Mazzetti e John Fletcher sul set di Together

io ho detto allo zio tutto quello che non avevo detto. Mi ha fatto capire che adesso era venuto il momento di disseppellire loro, la loro vita, rivivere questa meravigliosa infanzia che avevo avuto con loro. Per questo ho scritto Il cielo cade, il mio primo libro. È un libro con un inizio fulminante, se non spiazzante: «Io mi domando se posso amare mia sorella Baby più del Duce. Ma io però amo Baby come Gesù. Proprio

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come Gesù, e amo Gesù un po’ più di Dio, e Dio come Mussolini, e l’Italia e la Patria meno di Dio, ma più del mio orso giallo». Sembra davvero un diario di una bambina scritto in quegli anni. Come ti è venuto in mente di raccontare tutto così, con questa prospettiva? A un certo punto ho capito che come diceva lo psicanalista che se tu affronti questo ricordo forse non ti impedirà più di vivere. Ho capito che potevo, anzi dovevo, raccontare quello che avevo visto. Sono partita per Sperlonga


Lorenza Mazzetti e Daniele Paris sul set di Together

per scrivere. Mi sono messa in un bar sul mare, dove mi ha accolto un mio amico francese che stava scrivendo anche lui un libro, Guillaume Chpaltine. Alla fine di ogni sera lui aveva scritto un sacco di pagine e io niente. Io non posso descrivere quelle scene, io mi riammalo, non ce la faccio. Lui vede che c’è un foglio a terra, ed è proprio l’inizio de Il cielo cade. Una bambina che parla a scuola e scrive “Mi domando se posso amare lo zio più del duce, perché il duce io lo amo meno di Gesù ma più dell’Italia”, quello che hai detto ora tu. Insomma questa bambina faceva la scala dei suoi valori, ma a me sembrava troppo infantile, o banale, frivolo. Questo mio amico francese aveva capito invece che se vedevo la mia infanzia attraverso gli occhi della bambina che l’aveva vissuta potevo descrivere un mondo solare e di felicità, rivivere loro non come vittime ma riportarli alla vita. Mentre se parlavo da adulta avrei parlato di vendetta, di rabbia, di mostruosità. Non so se afferri la differenza. E lui mi ha detto proprio «Scrivi così, fai parlare questa bambina e sarà un libro bellissimo». E così ho fatto, son riuscita a scrivere. A quel punto ho mandato il libro a tutti gli editori, ma tutti me lo rimandavano indietro. Dicevano che non si poteva parlare del fascismo in quella maniera, che sembrava leggera, era il ’59, o il ’60, e forse era troppo presto, non so. Mi sono scoraggiata quand’ecco che è arrivato Zavattini, io mi sono ricordata di lui a Cannes, quando gli ho mandato il libro mi ha detto addirittura che era un piccolo capolavoro. Zavattini allora lo dà a Bertolucci, ad Attilio, il grande poeta e padre di Bernardo, che lavorava alla Garzanti, e così l’hanno pubblicato. A Bertolucci era piaciuto così tanto che l’ha mandato al premio Viareggio, e lì ho vinto il premio per la migliore opera prima.

È un libro in cui racconti bene, con una disarmante ingenuità, come era vivere sotto l’indottrinamento fascista e in una famiglia ebrea… Io non ero ebrea, la mia famiglia era di origine valdese, mio nonno Lorenzo era stato un pastore protestante a Napoli, e aveva sedotto con la sua bellezza il popolo e anche le signore inglesi e tedesche, perché era veramente affascinante ed amava Gesù. È morto in una sola settimana a 34 anni, lasciando cinque figli di cui uno è morto e due sono stati presi da una famiglia tedesca, mio padre e sua sorella, e portati in Germania per aiutare mia nonna. Papà, che era molto colto e bello, è tornato in Italia con sua sorella Nina e parlavano perfettamente tedesco. Mia zia in Germania aveva conosciuto Robert Einstein, il cugino di Albert Einstein, e sono anche loro venuti a vivere in Italia, pensando che sarebbero stati più al sicuro. E io così poi mi sono ritrovata a vivere con la zia Nina e lo zio Robert. Da bambina, quando ho sentito dire che lo zio era ebreo e quindi sarebbe andato all’inferno sono stata malissimo. Facevo delle torture contro me stessa per mandare lo zio in paradiso. Stavo per esempio tutta la notta per terra al freddo per soffrire, perché il prete mi diceva che le sofferenze possono aiutare. Il prete mi diceva che con dei miei fioretti lo zio poteva anche non andare all’inferno. Allora convincevo Paola ad attraversare a gambe nude un campo di rovi, le gambe ci bruciavano e diventavano tutte piene di pallini rossi e sangue. Oppure stavo con le braccia aperte, a croce, e contavo fino a mille. Tutte cose che ho fatto davvero e che ho messo nel libro. E sì poi nel libro ho raccontato anche di come Mussolini fosse sempre nelle nostre vite di bambini, con la foto nel dietro dei quaderni, nei libri, perfino nella tavola pitagorica. Una volta appariva a torso nudo insieme a dei con-

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papà che tutte le sere era a cena. Quindi abbiamo passato fino ai cinque anni in casa dei Giannattasio, con Renatina che diceva alle sue figlie «Queste bambine non hanno la mamma e devono essere amate più di tutto» e allora noi dicevamo: «Per fortuna che non abbiamo la mamma così siamo tanto amate». Anche lo zio Robert Einstein abitava in una bellissima villa a Roma vicino a Villa Torlonia, in questa villa liberty aveva anche un ufficio e ogni tanto ci faceva delle feste per i bambini. Io ero piccola, tutto quello che sapevo era che lo zio aveva in Germania una ditta che fabbricava radio popolari, le Aron Radio, ma che la ditta era stata presa dai tedeschi. Allora lui era venuto in Italia continuando a produrre queste radio, finché un giorno la zia ha detto a suo fratello, a mio padre, «Corrado noi vendiamo tutto e ci traferiamo in campagna». Non avevo capito che l’avessero fatto perché impedivano di lavorare allo zio. Noi non le capivamo quelle cose. Noi non sapevamo nulla degli ebrei, niente. Così un giorno anche noi siamo state portate lì in campagna, la famiglia Giannattasio non ci poteva più tenere e ci portò dagli zii, per noi fu molto difficile, per noi è stato il distacco dalla prima vera madre che avessimo avuto. Piangevamo tutte le notti. Naturalmente dopo un po’ di tempo abbiamo amato loro come padre e madre, abbiamo vissuto con loro con molta felicità, ma poi tutto è finito come è finito. È arrivata la guerra, la nostra casa è stata base dei tedeschi, con noi, lo zio, la zia, le mie cugine. E poi… Ma io non vorrei parlare della scena della tragedia perché mi fa male.

Michael Andrews in K

tadini che mietono il grano, un’altra attorniato da tanti bambini vestiti da Figli della Lupa e da Piccole Italiane, come poi ero io. Eravamo presi, affascinati da quella figura, eravamo così piccoli. La traduttrice del mio libro in tedesco è la nipote del braccio destro di Hitler, e dice che il mio libro l’ha aiutata molto, l’ha voluto tradurre perché grazie a questi miei racconti ha capito non tanto il nonno ma il padre, che era bambino negli anni del nazismo, ha capito come funzionava l’indottrinamento. Ma tu come eri finita in quella famiglia? Abbiamo evocata la tua storia familiare ma non l’abbiamo ancora raccontata. Papà aveva sposato una bellissima donna, una ragazzina bionda con gli occhi celesti, lui era alto, magro e molto colto. Viveva a Roma, con mia madre che morì di parto, e così all’inizio io e Paola stavamo con lui che era rimasto vedovo, anche se da solo non riusciva a tenere due gemelle. Prima siamo state con le balie, una contadina meravigliosa che ci ha dato il nutrimento di un latte stupendo perché come vedi siamo ancora sane e salve, e forti. Papà a un certo punto si è accorto però che le persone a cui ci affidava non si occupavano veramente di noi. Stavamo per cadere dal terrazzo della nostra casa che dava su Piazza di Spagna. Allora mio padre ci ha portato da un suo caro amico, un pittore futurista, Ugo Giannattasio, che con la moglie ha detto «Ce le prendiamo noi queste due bambine». Noi così improvvisamente ci troviamo in una casa con una mamma, ma non sapevamo neanche che cosa voleva dire una mamma, e con altre bambine e

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Raccontami allora com’era la vita in Toscana della famiglia Einstein Erano due mondi: il mondo di Robert Einstein, dello zio, che era un uomo austero, molto colto ma molto severo, se doveva dirci qualcosa la diceva in tedesco alla zia e lei ce la traduceva. Avevamo il terrore di questo zio. Se facevamo qualcosa di terribile, e sembrava che ogni giorno ne facessimo una, dovevamo scrivere 50 volte «Non si rompono i bicchieri» «Non si gioca in salotto». Per un bambino è stancantissimo scrivere queste cose ma lui era inesorabile. Per questo scrivo così male adesso, perché ho riempito vari quaderni con frasi così: «Non devo dire bugie». «Non devo tirare le tazze in testa». «Non devo tagliare con le forbici i vestiti che non mi piacciono, «Non si parla a tavola con il boccone in bocca». «Non si guarda dai buchi delle serrature». «Non si fa lo sgambetto alle cameriere». «Non si cantano inni fascisti quando lo zio dorme»... E poi c’era anche il mondo di Maya, la sorella di Albert Einstein, che stava in una villa vicina dove andavamo spesso. Era una donna dolcissima, lei ci riempiva di pane, burro e marmellata, non diceva mai basta e neppure noi. C’era questa mancanza di una voce che diceva basta. Ti fa capire la dolcezza di questa donna. Suonava il piano benissimo, suonava delle canzoni per noi bambini. Era completamente hippy. Aveva un marito pittore, e mi ricordo benissimo che invece della cinta aveva uno spago e andava in giro scalzo anche a Firenze. Hai capito i tipi? Questa è un po’ la differenza. Però in entrambi i mondi arrivavano tanti amici, poeti, musicisti, c’era un


giro molto intellettuale, come il professor Paoli, che è stato uno dei primi traduttori in Italiano di Kafka e io proprio tramite lui l’ho conosciuto. E qualche volta veniva anche lo zio Albert, io ero piccola, ma mi ricordo che andavamo insieme in altalena. Quella con loro è stata un’infanzia fantastica, anche se poi ha avuto questa fine tragica. È da lì che viene poi tutto quello che sono riuscita a fare, anche se avevo rischiato di rimuovere tutto, di perdere quel mondo dopo che era stato distrutto dalla guerra, dopo che i tedeschi avevano ucciso la zia e le mie cugine, dopo che lo zio si era suicidato per il dolore. Ma questo è il mistero di noi sopravvissuti, prima c’è il bisogno di dimenticare per sopravvivere, poi col tempo arriva il senso di colpa per aver dimenticato e anche per non avere testimoniato l’orrore. Sai, quando scrissi Il cielo cade, che racconta proprio questa mia infanzia e poi la tragedia, avevo cambiato tutti i nomi, non avevo detto che fosse una storia vera. Solo quando l’ha ripubblicato Sellerio vent’anni fa ho messo una nota che spiegava che si trattava della famiglia Einstein, della mia famiglia. Perché in tutta la mia vita ho voluto raccontare proprio questo, questa difficoltà e insieme la necessità del ricordare. ■

Vittorio De Sica e Lorenza Mazzetti al Premio Viareggio nel 1961 fotografati da Pablo Volta

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Lorenza Mazzetti nel 1980 fotografata da Jerry Balier

Così vicini, così lontani L’angoscia dello spaesamento nel cinema di Lorenza Mazzetti di Micaela Veronesi

Il mondo salvato dai bambini

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el 1961, qualche anno dopo aver lasciato Londra e il Free Cinema, e poco prima di pubblicare il suo primo libro, Il cielo cade, Lorenza Mazzetti è coinvolta da Zavattini nel progetto di un film collettivo intitolato Le italiane e l’amore. «Zavattini fu l’unico che mi chiamò per girare un piccolo episodio di un film firmato da diversi registi. Poi ho iniziato a scrivere». Così ne parla la stessa Mazzetti nell’unica mono-

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grafia dedicata a lei e al suo lavoro di cineasta, realizzata da Giorgio Betti, il cui titolo significativo è L’italiana che inventò il free cinema inglese. L’amicizia tra Mazzetti e Zavattini era iniziata a Cannes nel 1956, quando Together vinse il primo premio della sezione dedicata al cinema sperimentale. Il cortometraggio realizzato da Mazzetti per Le italiane e l’amore si intitola I bambini. L’educazione sessuale dei figli. Si tratta di un piccolo lavoro, come lei stessa lo definisce, che non le diede soddisfazione per via dei vincoli produttivi, ma dentro c’è tutto il suo immagina-


Lorenza Mazzetti in un ritratto di Bruno Grieco

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Lorenza Mazzetti ritratta da Mario Dondero

rio, quello dei suoi film londinesi, e quello che metterà nei suoi libri. Per lei, il mondo dei bambini è più reale di quello degli adulti. In loro c’è voglia di sperimentare, c’è curiosità ma soprattutto c’è spontaneità. L’irruzione del mondo degli adulti causa confusione, traumi e a volte addirittura dolore. Nel film vediamo un gruppo di bambini giocare allegro e spensierato in un parco. Con semplicità, dopo avere visto una coppia di adulti che amoreggia decidono di giocare a baciarsi. La sequenza mostra maschi e femmine di ogni età che si scambiano baci sulla bocca con molta naturalezza. Giocano al dottore imitando il linguaggio degli adulti, oppure alla guerra fingendo di am-

Lorenza Mazzetti per le strade della East London

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mazzarsi l’un l’altro. L’intervento di una mamma scompagina questo equilibrio infantile. Di fronte alla domanda della bambina che le chiede se i bambini prima di nascere stanno nella pancia delle mamme, la madre reagisce duramente, schiaffeggiandola e asserendo che non è vero, che non si devono dire cose così vergognose e che i bambini “li porta la cicogna”. Il film finisce così, mentre la bimba (per altro interpretata dalla figlia di Paola Mazzetti, sorella di Lorenza), continua a piangere e la mamma pensa tra sé che i piccoli devono imparare subito quello che è peccato. Il sesso è un tabù e come tale deve essere rimosso. Il messaggio del film è chiaro: questa bambina dovrà scegliere fra un duplice destino: se crederà a sua madre, diventerà come lei, una borghese bigotta, irreggimentata nel sistema; altrimenti diventerà come Gregor Samsa (protagonista di La metamorfosi di Kafka), e sarà destinata all’emarginazione. La complessità del cinema, e di tutta l’opera artistica, di Lorenza Mazzetti sta nei diversi destini che la società riserva agli individui, ponendo gli uni a fianco agli altri ma spesso impedendo loro di comunicare e di capirsi. In più occasioni la regista ha affermato che il personaggio di Samsa l’affascinava in quanto le sembrava di sentirsi una outsider come lui. Per capire meglio la complessità di questo sentimento è però necessario ripartire dall’inizio, dai primi film, e non è possibile prescindere dalla biografia di Lorenza.

Il cinema degli outsider Lorenza Mazzetti è regista e scrittrice (e non solo) e non c’è una scala gerarchica fra le due attività artistiche, anzi tutti i suoi lavori sono in qualche modo collegati. Si diceva che non si può veramente comprendere la sua opera se non si conoscono alcuni episodi della sua biografia. Episodi che lei stessa ha raccontato nei suoi libri, il già citato Il cielo cade (1961) che vinse il premio Viareggio; Con rabbia (1963), in un certo modo la continuazione del primo racconto; Uccidi il padre e la madre (1969) un racconto più dichiaratamente psicanalitico, dove – a differenza dei primi due libri – il discorso autobiografico è completamente mascherato da quello inconscio; e Diario londinese (2014). Nel diario Mazzetti recupera la memoria del periodo londinese, del suo esordio alla regia e dell’incontro con i protagonisti della nascita del movimento di avanguardia del Free Cinema mescolandovi con piccole varianti alcuni episodi già raccontati in Con rabbia e in Uccidi il padre e la madre. L’inconscio è sempre attivo nella sua scrittura e funziona quasi sempre come filtro della realtà, per cui anche il ripetersi di certi temi non è strano se lo intendiamo in prospettiva onirica. In tutti i lavori di Mazzetti, inoltre, e soprattutto nei romanzi è molto importante distinguere fra contenuto latente e manifesto. La cronologia non pare interessarla, il quando il prima e il dopo non sono per lei importanti, ricordare è prima di tutto una pratica psicanalitica, un atto di recupero del sé, dove qualcosa resta latente, altro è spostato o modificato, e quello che conta è riconoscersi. È molto interessante, per capire questo processo della memoria, leg-


gere l’introduzione della stessa Mazzetti al suo libro Il teatro dell’io, in cui l’autrice, parlando del lavoro svolto con i bambini di alcune zone povere di Roma, descrive il processo di ricostruzione del sé in termini analitici e terapeutici. Non è possibile dunque raccontare filologicamente la biografia e il lavoro di Mazzetti, qualcosa sfugge o è volutamente tralasciato. Come per tutti i veri artisti, la comprensione della sua opera sarà sempre soggettiva e può basarsi solo su ciò che lei ci mostra e ci narra. Non dobbiamo dimenticare infatti che anche la narrazione autobiografica è per lei creazione artistica. Poco più che ventenne Lorenza lascia l’Italia e approda a Londra dove, dopo un periodo di vagabondaggi alla ricerca di un lavoro e di una collocazione esistenziale soddisfacente, si iscrive alla Slade School of Fine Arts, e dove – quasi per caso, con gli strumenti tecnici trovati nel laboratorio della scuola, l’aiuto di alcuni compagni e di persone incontrate per strada – realizza il suo primo film, K (1954). Dentro sé portava dei traumi e dei lutti mai elaborati. Lei e la sorella gemella Paola erano rimaste orfane da piccole (la madre morì partorendole e il padre qualche anno dopo in un incidente stradale), erano cresciute con gli zii (Nina sorella della madre e il marito Robert Einstein, cugino del famoso scienziato) e durante la guerra avevano perso tragicamente anche questa seconda famiglia, sterminata dalla violenza nazista in quanto ebrei. Lorenza adolescente vive il dopoguerra e il post trauma lottando inconsciamente fra il desiderio di rimuovere, il senso di colpa per essere sopravvissuta e il bisogno di giustizia. L’arte diventa per lei un modo per elaborare, una

pratica psicanalitica (non è un caso che negli anni ’60’70 si sia occupata anche di psicanalisi sia attraverso il progetto di drammatizzazione dei sogni dei bambini, il cui resoconto è pubblicato nel già citato Il teatro dell’io, sia con la rubrica di interpretazione dei sogni tenuta su «Vie Nuove»). Lorenza disegna tutte le volte che può, ma è con il cinema e poi con la scrittura che riuscirà a trasformare la rabbia e tutti i sentimenti contrastanti che la straziano in qualcosa di socialmente accettabile e a rielaborare i traumi infantili vedendosi dal di fuori. Quando gira i due film londinesi non ne è consapevole, agisce secondo un’urgenza creativa, ma a posteriori se ne rende conto: «Non capivo veramente che cosa volessi dire con questa storia – scrive parlando di Together – solo che mi emozionava la situazione di due persone immerse in un mondo che loro ignoravano e dal quale erano ignorate. Dopotutto io mi sentivo proprio una outsider» (Diario londinese).

Metamorfosi Quando Lorenza Mazzetti gira K, nessuno a Londra pare conoscere La metamorfosi e il suo autore, neppure Michael Andrews, il giovane compagno di studi e futuro pittore che interpreta la parte di Gregor Samsa. Kafka per Lorenza «è il più vicino», la giovane donna ha «messo il suo ritratto in capo al letto» e si sente «come lui» (Diario londinese). Per questo Mazzetti comprende Kafka meglio di chiunque altro: «L’autore – spiega la regista ad Andrews

Michael Andrews in K

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– non vuole dire ciò che dice, ma esattamente il contrario. Infatti l’effetto sul pubblico è quello che conta: Gregor, reietto per gli altri, con la sua morte diventa in realtà l’accusatore» (ivi). Le daranno ragione anche due filosofi come Deleuze e Guattari: «Kafka sopprime deliberatamente ogni metafora, ogni simbolismo, ogni significazione come ogni designazione. La metamorfosi è il contrario della metafora. Non c’è più né senso proprio né senso figurato ma distribuzione di stati nel ventaglio della parola». La metamorfosi di Mazzetti sta proprio in questa “distribuzione di stati”: non è necessario che Gregor si trasformi visivamente in insetto, la sua è una trasformazione dell’io, da uomo ordinario, esecutore scrupoloso ma già in qualche modo incompreso, a essere immondo perché non conforme al modello sociale. Si veda al proposito la sequenza in cui il protagonista segue il principale nel negozio di stoffe parlandogli del proprio lavoro e della sua famiglia: le frasi (si tratta tra l’altro dell’unico inserto parlato del film) sono ripetute ossessivamente, il tono è monotono, il discorso si riduce a un monologo inascoltato in quanto il principale non pare dargli retta e Samsa ripete con insistenza «Sir, do you hear me?». Il ventaglio della parola è per Mazzetti limitato dai confini dell’alienazione contemporanea, nella quale nessuno ascolta nessuno. In un interessante saggio su K, Marco Duse confronta il discorso di Mazzetti sugli outsider al testo di Colin Wilson dedicato all’argomento dell’alienazione e uscito nel 1956, proprio a ridosso dei film della regista:

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«Il destino dell’outsider è quello di contemplare e comprendere il mondo, restandone però escluso» scrive Duse, citando poi Wilson: «Ecco perché, nonostante sia l’unico a rendersi conto del male che affligge la società a lui contemporanea, l’outsider finisce col “rinchiudersi nella sua stanza, come un ragno in un antro oscuro”». La conformazione caotica della città moderna acuisce la tendenza all’isolamento. Parlando di Londra, la stessa Londra in cui viveva Lorenza Mazzetti, Wilson scrive: «La città in sé, la confusione creata dal traffico e dagli esseri umani in Regent Street, possono sopraffare una personalità debole e farla sentire insignificante»”. Non è un caso, che quel «Sir, do you hear me?» ripetuto compulsivamente dal Gregor di K ci ricordi un altro outsider, protagonista dell’opera rock Tommy realizzata dalla band The Who nel 1969, per il quale il ritornello, che dà titolo anche a un brano, «Tommy can you hear me?» ne è a tutti gli effetti specchio e prosecuzione. Gregor non è ascoltato, Tommy non può né sentire né parlare né vedere, Lorenza Mazzetti anticipa tutti. Le consonanze fra il personaggio mazzettiano e l’opera rock degli Who sono solo un esempio di come la trasformazione della società inglese, ed europea, tra gli anni ’50 e gli anni ’70 fu vista e vissuta da molti artisti che portarono in scena i temi dell’alienazione e della sofferenza esistenziale degli individui. Nel rock si possono citare anche i Pink Floyd, nella letteratura si pensi a Samuel Beckett e a quel John Osborne che sarà lanciato proprio da Tony


Richardson qualche tempo dopo la presentazione del movimento del Free Cinema.

La ferita che non si vede «A pensarci bene a me pare che questo scrittore Kafka la pensi proprio come me» scrive Lorenza ed enumera tutti i racconti e le opere dello scrittore praghese nel quale lei si identifica: come il giovane di Il medico condotto sente di avere una grande ferita sanguinante che nessuno però vede e perciò non è curata; come il signor K di Il processo sente di dover essere processata senza avere commesso nessun reato; come il protagonista di Il castello vorrebbe essere ammessa in una comunità per la quale risulta sempre una straniera; come Gregor Samsa di La metamorfosi si sente completamente diversa e alienata (Con rabbia). All’inizio di K, vediamo il protagonista sul bus e poi al mercato di Portobello. Lo scenario è Londra con le sue vie trafficate, i suoi mezzi pubblici, i volti connotati della sua gente, la folla per le strade; per mostrarci lo sguardo soggettivo di Gregor, Mazzetti riprende in diagonale verso il basso le gambe delle persone come tante miriadi di zampette che anticipano la trasformazione kafkiana. L’alienazione novecentesca nasce dal caos della massa cittadina: proprio dove non si è mai soli, l’individualità contemporanea tocca il senso di solitudine più profonda. La letteratura e la cinematografia ne sono impregnati, e Mazzetti assorbe a sua volta. Per essere la sua prima esperienza con la macchina da presa, e nonostante la scarsità di mezzi tecnici e la totale assenza di un budget, K è a tutti gli effetti un’opera completa, che dal personale tende all’universale, molto vicina per scelte stilistiche alle avanguardie degli anni Venti, ma completamente rivolta verso i temi delle neo-avanguardie di quegli anni. Per questo possiamo definire K un prototipo del film successivo, con il quale forma in un certo senso un unico testo. Anche le musiche originali realizzate da Daniele Paris contribuiscono a confermare questo legame tra i due film. Mazzetti ha conosciuto Paris a Roma tramite un amico e gli ha mostrato

K. Il musicista resta affascinato dal lavoro di Lorenza e accetta di comporre per lei delle musiche originali. L’incontro fra i due giovani artisti è a suo modo un incontro epocale, ben descritto da Maria Francesca Agresta nel libro dedicato proprio al rapporto fra il compositore e il cinema, rapporto avvenuto grazie a questa prima collaborazione con Mazzetti e poi continuato per molti anni, anche attraverso l’esperienza del Free Cinema. Quando Lindsay Anderson vede K per la prima volta resta impressionato anche dalle musiche e sarà lui a chiedere a Lorenza di coinvolgere nuovamente Paris per la colonna sonora di Together.

Free Cinema Le gambe della folla come le zampette di un enorme insetto, Samsa che saltella con la sua valigia sui tetti della città, il suo sguardo dall’alto mentre la gru con i suoi ingranaggi lo solleva, la sua soggettiva del tappeto mentre vi striscia sopra… in K ci sono frammenti di memoria cinematografica da Buñuel, Léger, Man Ray, Vertov fino a King Vidor, i quali ben si adattano all’esigenza di raccontare il dramma dello spaesamento in una società che tende a omologare gli individui. Mazzetti crea d’impulso, assecondando un suo bisogno creativo ed esistenziale; ha letto e visto molto fin da bambina, ed è perciò molto ispirata, plasmando la sua opera è capace di molte rielaborazioni, da brava anticipatrice interpreta il sentire del suo tempo, il mood dal quale di lì a poco nasceranno le nuove onde. «Quando stavo con i miei amici avevo l’impressione di stare con i tre moschettieri: Tony Aramis, Karel Athos, e Lindsay D’Artagnan. Tutti gridavano e parlavano, io capivo a malapena quel che succedeva. L’establishment comunque ebbe quel che si meritava» (Diario londinese, p. 60). Together nasce in un clima di fermento artistico e sociale. Grazie alla visibilità ottenuta con la proiezione pubblica di K alla Slade School, dove è intervenuto anche Denis Forman, direttore del British Film Institute, Lo-

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renza ha avuto un finanziamento per un nuovo film. L’idea si sviluppa durante i vagabondaggi della regista attraverso l’East End e in questa zona sarà girato. Come per il film precedente, Mazzetti trae molto materiale da ciò che vede e sente per strada, e anche se il suo film non ha nulla di documentario, le riprese in esterni di Londra sono documenti di eccezionale interesse. Tutti i personaggi, a parte i due protagonisti, sono “presi dalla strada”, soprattutto i bambini, gli stessi che tanto avevano colpito la regista durante le sue passeggiate nell’East End. E le strade di questa particolare zona di Londra, a quell’epoca ancora visibilmente segnate dalle tracce dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, sono a loro volta protagoniste del film. Location suggestive, caratterizzate da ampi spazi vuoti, viali deserti, mezzi meccanici in movimento che riportano alla memoria altre descrizioni di una Londra alienante e alienata, unreal city per T.S. Eliot, dove i due sordomuti vanno a zonzo pedinati dalla macchina da presa e dai nostri sguardi ma estranei a ciò che li circonda. In certe inquadrature vediamo le loro sagome

Lorenza Mazzetti oggi in occasione del Giorno della Memoria

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che si stagliano in controluce come pure ombre. Ma è soprattutto il sonoro a evidenziare lo spaesamento dei personaggi. Mazzetti infatti sceglie di diversificare la colonna sonora, escludendo l’audio quando sono in scena i sordomuti; in questo modo anche gli spettatori sono partecipi del distacco dalla realtà vissuto da chi, come loro, non sente e ha una percezione differente del mondo. I bambini seguono curiosi i due uomini e li prendono in giro senza che loro possano accorgersene. Questo tipo di location, lo stile della fotografia, la predilezione per una tipologia di outsider ingenuo e a suo modo innocente, avvicina Together a un altro film indipendente, praticamente coevo, Little Fugitive, realizzato negli Stati Uniti dal fotografo e videomaker Morris Engel, dalla fotografa e giornalista Ruth Orkin e dallo scrittore Raymond Abrashkin. Lorenza Mazzetti ci dimostra che «sentire equivale a vedere», come afferma Giampiero Frasca in un suo articolo dedicato al film, e in effetti la mancanza di udito provoca una costruzione simbolica del reale altra rispetto a quella di un udente, e un rapporto


con i fenomeni diverso. Questa alterità porta uno dei due protagonisti alla morte: nel finale uno dei ragazzini tocca per scherzo il sordomuto interpretato da Michael Andrews che sta seduto come suo solito sul parapetto di un ponte a osservare i lavori del porto. L’uomo, sorpreso dalla spinta inaspettata perché non ha potuto sentire i ragazzi avvicinarsi, cade in acqua, ma non può gridare per chiedere aiuto e non può così essere visto dal suo amico che nel frattempo è sopraggiunto e lo cerca. Essere degli outsider, ci dice Mazzetti, implica dei rischi enormi, e il prezzo da pagare è sempre troppo alto: sia Gregor Samsa sia i due sordomuti soccombono al loro non voler/poter essere integrati nel sistema. Anche la regista ha rischiato di soccombere e se non è avvenuto è stato anche grazie al valore catartico del suo lavoro, letterario e cinematografico. La vita di questa artista

è uno straordinario mosaico di trame. A soli ventotto anni aveva contribuito alla nascita di uno dei più importanti movimenti artistici inglesi del dopoguerra (firmando come è noto il manifesto del Free Cinema con Richardson, Reisz e Lindsay Anderson), vinto un premio al Festival di Cannes, e conosciuto alcuni degli artisti di spicco del Novecento. Il cinema di Lorenza Mazzetti è un cinema sottilmente drammatico, capace di denunciare le ingiustizie con tratti brevi ma profondi, attraverso la leggerezza del suo tocco e la spontaneità della sua parola, le sue storie alternano sempre l’ironia al dramma, e la ricerca della spensieratezza e della pacificazione è sempre stata il suo obiettivo. ■

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Perché sono un genio di Steve Della Casa

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erché sono un genio è il titolo che abbiamo scelto per il documentario nel quale racconteremo Lorenza Mazzetti. Lo abbiamo scelto insieme tutti noi: il sottoscritto, Francesco Frisari, Emanuela Del Monaco, Carolina Levi, Giulia Campagna, Francesca Levi. Non scrivo i ruoli che ci siamo assegnati anche se noi li abbiamo ben chiari, perché in realtà questo documentario nasce da un lavoro veramente collettivo. Abbiamo scelto un argomento e una persona davvero affascinanti, e proprio per questo ci troviamo di continuo per discutere, cambiare, modificare. Chissà se le dichiarazioni di intenti che qui esponiamo saranno poi completamente rispettate. Non è affatto sicuro. Ogni volta che ci parliamo, cambiamo qualcosa. L’universo Mazzetti è talmente ricco, frastagliato, sovrapposto che a volte ci sembra che la lettura che abbiamo previsto sia inadeguata. E qui si spiegano le riunioni che scandiscono il nostro lavoro. Abbiamo pensato di raccontare Lorenza Mazzetti come una bambina che attraversa con forza e con fragilità, con coraggio e con tenerezza tutti i momenti più importanti del Novecento. Lorenza Mazzetti ha vissuto la guerra, le persecuzioni naziste ma anche la Londra che negli anni

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Cinquanta si apprestava a diventare la capitale europea della cultura e del costume e la Roma che negli anni Sessanta era un vero crogiuolo di approcci diversi al racconto e allo spettacolo. Il racconto, poi, scandisce tutta la vita di Lorenza. Lorenza usa vari mezzi per raccontare: la scrittura, le parole, il cinema, la pittura, il teatro. Lo fa con grande intensità e con immensa leggerezza. Le interessa non raccontare un fatto storico, ma narrarci come lei lo ha vissuto, come ha saputo metabolizzare gli orrori più tremendi ma anche i non pochi momenti di gioia creativa. Ci affideremo molto alla sua voce. Lorenza Mazzetti è una grande e magnetica narratrice sia quando parla a un grande pubblico sia quando si rivolge a pochi amici. Il racconto di Lorenza scorrerà per tutto il documentario. Poi ci saranno le immagini: un po’ di repertorio, e anche un po’ di come lei vive la sua vita oggi, condividendo le sue giornate con la sorella gemella Paola. E ci saranno le animazioni, i suoi quadri così straordinariamente evocativi verranno fatti vivere. Ma soprattutto ci sarà Lorenza Mazzetti, portatrice di una storia straordinaria e di un modo straordinario per raccontarla. E portatrice per tutti noi di una grande fortuna, quella di averla conosciuta.


Bibliofilmografia Testi di Lorenza Mazzetti

Testi in italiano su Lorenza Mazzetti e il cinema

Il cielo cade, Garzanti, Milano, 1961. Ripubblicato da Sellerio, Palermo, 1993 Con Rabbia, Garzanti, Milano, 1963 Uccidi il padre e la madre, Garzanti, Milano, 1969

Giorgio Betti, L’italiana che inventò il free cinema inglese, Vicolo del pavone, Piacenza, 2002 Marco Duse, Metamorfosi di una metamorfosi, in «Cabiria. Studi di cinema», n. 168, 2011

Il lato oscuro, Tinaldo, Roma, 1969 Il teatro dell’io: l’onirodramma. I bambini drammatizzano i loro sogni, Guaraldi, Firenze, 1975 Album di famiglia: diario di una bambina sotto il fascismo. La tragedia della famiglia Einstein, Luca Sossella Editore, Roma, 2010. (Consultabile anche in rete: http://www.pbase.com/ribes/album_di_famiglia_testi _e_quadri_di_lorenza_mazzetti)

Giampiero Frasca, Cortocircuiti sonori: Together di Lorenza Mazzetti, in «Filmcritica», n. 587, luglio 2008 Ilaria Gatti, K di Lorenza Mazzetti, in «Filmcritica», n. 645/646, maggio-giugno 2014 Maria Francesca Agresta, Il suono dell’interiorità: Daniele Paris per il cinema di Liliana Cavani, Luigi di Gianni, Lorenza Mazzetti, Libreria musicale italiana, Lucca, 2010

Diario londinese, Sellerio, Palermo, 2014

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Filmografia K Regia: Lorenza Mazzetti; soggetto: Liberamente tratto da La metamorfosi di Franz Kafka; sceneggiatura: Lorenza Mazzetti; fotografia e riprese: Hamed Hadari; montaggio: Lorenza Mazzetti; suono: Jacopo Treves; musica: Daniele Paris. Interpreti: Michael Andrews (Gregor Samsa), Claude Rogers (il padre), Mary Rava (la madre), Hilary Morris (la sorella), Jacob Lowensberg (il principale), Walter Bloor (un ospite). Produzione: The Slade Scholl of Fine Art University College of London. Origine: Gran Bretagna; anno: 1954; durata: 20’. Gregor Samsa è uno zelante impiegato, tiene molto al suo lavoro di commesso viaggiatore e ha grande rispetto per il suo principale. Tuttavia una mattina non riesce in nessun modo ad alzarsi dal letto. La madre e la sorella lo implorano e disperate chiamano il padre, ma Gregor non apre la porta. Neppure l’arrivo del principale riesce a farlo uscire dalla stanza. Samsa non riesce più a camminare, e ha un comportamento anomalo e frequenti visioni oniriche. La sorella gli porta il cibo ma lui non lo consuma. Mentre in casa ci sono degli ospiti, Gregor riesce ad uscire strisciando dalla stanza, ma vedendolo il padre gli tira addosso delle mele. Gregor si rintana così nella sua stanza dove non potrà far altro che morire in solitudine.

Together

Together Regia e soggetto: Lorenza Mazzetti; sceneggiatura: Lorenza Mazzetti con la partecipazione di Denis Horne; fotografia: Hamed Hadari; assistenti alla fotografia: Geoffrey Simpson, Walter Lassally, John Fletcher; montaggio: Lorenza Mazzetti, John Fletcher; supervisione al montaggio: Lindsay Anderson; suono: John Fletcher; musica: Daniele Paris; eseguita da: Sinfonia of London. Interpreti: Michael Andrews, Edoardo Paolozzi, Valy, Denis Richardson, Cecilia May. Produzione: British film Institute; servizi di produzione: Leon Clore, Studio Twenty Two, National Film Theatre, Realist Films, Ealing Studios. Origine: Gran Bretagna; anno: 1956; durata: 50’. Londra, East End anni ‘50, i ragazzini giocano fra le macerie della città sventrata dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Il porto e le fabbriche sono in piena attività. Due sordomuti si aggirano in questo scenario: vanno a lavorare, si rilassano al pub, vivono presso una famiglia che affitta loro una stanza. Le semplici azioni quotidiane e il loro vagabondare sono caratterizzate dalla loro condizione di sordomuti, e il non sentire ne evidenzia l’estraneità a quello che li circonda rendendoli vulnerabili.

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Edoardo Paolozzi e Michael Andrews in Together


I cattivi vanno in paradiso Regia, soggetto e sceneggiatura: Dionisio [Denis] Horne, Lorenza Mazzetti; fotografia: Vittorugo Contino; musica: Daniele Paris. Interpreti: Piero Lulli (il sacerdote), Claudio Liberatore, Walter Moresi, Chianetta [Mara Marilli]. Produzione: Fondazione Opera per il Ragazzo della Strada; Città dei Ragazzi. Origine: Italia; anno: 1959; durata: 73’. Un ragazzo di strada abituato a vivere di espedienti e piccoli furti, ruba un taxi e si dirige verso Napoli assieme a un amico, un giovane fuggito dal riformatorio che subisce passivamente l’influenza del compagno. A causa di un guasto l’auto si ferma in prossimità della Città dei ragazzi di monsignor Carroll, dove i due vengono accolti. Il primo, rubati dei soldi, troverà la morte durante la fuga. Il secondo sceglierà di restare nella Città.

I bambini episodio del film Le italiane e l’amore Regia: Lorenza Mazzetti; soggetto: dal libro-inchiesta Le italiane si confessano di Gabriella Parca; supervisione: Cesare Zavattini, Giulio Questi, Baccio Bandini, Carlo Musso; sceneggiatura: Lorenza Mazzetti; fotografia: Victor Hugo [Vittorugo] Contino; montaggio: Eraldo Da Roma; musica: Gianni Ferrio. Intepreti: Anna Brignole, Ruggero Cappelli, Efi Kamper. Produzione: Maleno Malenotti per Magic Film e Consortium Pathé; ispettore di produzione: Manlio Dalla Pria. Origine: Italia/Francia; anno: 1961; durata: 5’. Giocando in un parco, due bambini si imbattono in una coppia che sta amoreggiando. Sorpresi, vengono allontanati a male parole. Raggiunti altri tre compagni di giochi, iniziano a farsi domande sul ‘fare l’amore’ e a mimare i gesti degli adulti, scambiandosi baci e iniziando poi a giocare al dottore. Poi iniziano a chiedersi come nascano i bambini, dimostrando di avere un’idea abbastanza chiara della gravidanza. Eppure, quando una di loro chiede dettagli alla madre, questa la schiaffeggia dicendole che i bambini li porta la cicogna.

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I misteri di Roma Supervisione alla regia: Cesare Zavattini; regia: Libero Bizzarri, Mario Carbone, Angelo D’Alessandro, Lino Del Fra, Luigi Di Gianni, Giuseppe Ferrara, Ansano Giannarelli, Giulio Macchi, Lori [Lorenza] Mazzetti, Enzo Muzii, Piero Nelli, Paolo Nuzzi, Dino B. Partesano, Massimo Mida, Giovanni Vento; coordinazione artistica: Marco Zavattini; soggetto: Cesare Zavattini; collaborazione al commento: Braccio Agnoletti, Mino Argentieri, Ivano Cipriani, Callisto Cosulich, Giorgio Krimer, Luigi De Marchi, Luciano Malaspina, Lino Micciché; fotografia: Mario Carbone, Giuseppe De Mitri, Aldo De Robertis, Antonio Piazza, Ugo Piccone, Giuseppe Pinori; montaggio: Eraldo Da Roma; musica: Piero Umiliani (diretta dall’autore); assistenti alla regia: Enzo Ragazzini, Nello Vanin, Andrea Frezza; assistente al montaggio: Marcella Benvenuti. Produzione: Achille Piazzi per SPA Cinematografica; direttore di produzione: Renato Jaboni; ispettore di produzione: Franco Lazzazzara; segretario di produzione: Everoe Stefani; amministratore cassiere: Paolo Macchina. Origine: Italia; anno: 1963; durata: 98’. Film-inchiesta su una giornata di Roma, lanciato con lo slogan: “Un manifesto contro il cinema dell’alienazione”.

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