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Vite a Parole...

di Giordano “Giò” Segatta

Il cielo dipinto di notte che li sovrasta è un brulicare scomposto di stelle, intente nel loro gioco di fingersi immobili non appena qualcuno le guarda. Le strade sono rami che l’inverno ha spogliato di ogni passante, ma stasera il silenzio scandito di passi lascia in bocca un sapore insolito, dolcezza amarognola, come l’unto delle patatine fritte che si comperano alle giostre. Il Martedì Grasso esige festa, per alcuni ogni anno più simile ad un dovere che un bisogno, per altri sempre più un giorno qualsiasi. Giò e Consuelo camminano come pedinassero il loro intrecciare di discorsi. Lui ha negli occhi la stanchezza del pomeriggio e nel cuore l’insonnia della notte passata, ma al ritmo di un passo per volta semina nelle orme la tristezza e si riempie i polmoni di aria e sorrisi. Lei è un ticchettio di passi leggeri simile a pioggia, nello stomaco qualche the di troppo che gioca ad impastale i pensieri e tra i capelli un vento capriccioso che nella sua carezza tutto abbraccia e travolge senza mai lasciarsi realmente afferrare. Il loro chiacchierare diventa serenità quasi immobile ed agile scalpitare di idee, come lancette dell’orologio i pensieri si rincorrono per incontrarsi ad ogni giro, nel gioco dell’illudersi di essere loro due a far scorre il tempo e non viceversa. L’ultima sera del carnevale è solo le promessa, più tardi, di una brioches calda. Ci sono serate in cui tutto ciò che vuoi è tuffarti in una festa qualsiasi annegare in un alveare di note, altre in cui ti basta immergerti nel silenzio e masticare il suono di ogni parola. Questi, i pensieri che si assopiscono negli occhi di Giò. I pensieri che danzano nella testa di Cons: “Non ci ho cazzi.”

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In teoria escono di casa con l’idea di andare a ficcanasare alla festa in costume che si tiene appena fuori dal centro, rubare alle maschere qualche idea per l’impaginazione della rivista e sputtanare in amicizia i tardi adolescenti che per una sera giocano a cucirsi addosso le miserie umane. In pratica escono di casa e le strade sono più deserte delle sue cosce dopo l’epilazione, e qui la voglia si ammoscia. Incontrano un suo vecchio amico vestito da Grillo Ubriaco in compagnia di un paio di Uomini-involtino al ripieno di superalcolici, e qui la voglia va a nascondersi. Passano nelle prossimità rombante metallico tamburellare di timpani infranti che prelude l’ingresso alla sfilata della depressione, e qui la voglia espatria e fino a domani non se ne saprà più nulla. Ma per scrupolo si può provare a cercarla nella pastosità invitante di un abbraccio di pastasfoglia dal cuore di cioccolato. In quattro parole: “Non ci ho cazzi.” Giò fruga nei ricordi fino all’ultima volta che le ha sentito in bocca quell’espressione da salotto, ovvero quello stesso giorno verso l’ora di pranzo, e con una certa paterna premura le chiede: “In questura ci sei andata, vero?” Cons fruga nei ricordi fino ad una serie di promemoria: 1) Ti serve la carta di identità per aprire il conto corrente che ti permetterà di ottenere il prossimo stipendio che dovrai investire in quell’altra cosa con Pino per eccetera eccetera; 2) Il prezioso documento si trovava nel tuo portafoglio al momento in cui questo è stato ignobilmente trafugato dalla tua borsetta; 3) Da qui la necessità di passare dalla questura per sporgere denuncia, ed effettivamente sarebbe anche ora visto che il furto risale ad un periodo antecedente allo scorso Natale. “Eh, no. Ho dovuto beccare Tizio per quella cosa.” “Allora andiamo adesso” annuncia Giò prendendola a braccetto, ed il suono dei suoi passi si colora di un tono rassicurante, amichevole ma con fermezza, abile modo di nascondere il suo non avere la più pallida idea di dove esattamente si trovi la questura, ma non importa, basterà alleggerire il tono della conversazione con qualche battuta brillante e sarà Cons che senza accorgersene farà da guida. “Quindi… in questo momento sei una donna senza identità. Posso rapirti e vendere i tuoi organi senza problemi.” “Sicuro che non ti scoccia?” “Figurati!” Ed è vero. Senza voler banalizzare il sentimento di affetto ed amicizia che lega i due ragazzi, alla base del gesto di Giò vi è innanzitutto un sentimento di esaltazione legato al concepire la propria esistenza come imprevedibile sequenza di follie, ovvero la ricerca di situazioni insolite su cui ricamare riflessioni per potervi intrecciarvi un racconto o un fumetto, o semplicemente da raccontare per fare lo sborone. Come non citare a tal proposito l’ultima cena organizzata con il vecchio gruppo di teatro, iniziata con il giovane che mostra a Rossella le sue ultime vignette su Gino Rutignani che palpeggia minorenni con la scusa di insegnare loro a cantare, e finita con lui che a tarda notte accompagna tre ragazze di origine sarda alla Guardia Medica per via di fastidiosi e sconosciuti puntini rossi, rispettivamente su un fianco, sotto un ascella e in un occhio. Di ogni novella basterebbe raccontare l’inizio e la fine, e lasciare che chi ascolta colleghi questi due punti secondo i capricci del momento, del proprio vissuto e della fantasia. Ecco, questo è il modo di Giò di raccontare storie, e da quella sera ne avrebbe avuta una che iniziava con una mancata festa di carnevale e finiva in questura. Cosa che lo esaltava e saziava i suoi pensieri di un gusto morbido, come la promessa sul palato della brioches di fine serata.

“Buonasera… io (risatina di imbarazzo) sono qui perché, tipo, devo (risatina smorzata) denunciare che ho perso il portafoglio (due risatine come un veloce singhiozzo)” “Perso o rubato?” “Tipo rubato.” “Si accomodi nella saletta.”

Sulle pareti un bianco impastato di sporco e dei segni del tempo, inesorabile sgretolarsi lasciato a se stesso, senso di sudore e pesantezza che schiaccia il respiro ed assorbe il silenzio. Pavimento solido, abituato a tacchi da uomo e battiti d’attenti. Senso di inquietudine e stanchezza, scolaretti in attesa che la maestra scelga chi interrogare, e Cons sa che presto sarà il suo turno e che per oggi non ha fatto i compiti, e in questo stato d’animo avere in corpo un’overdose di the e di stress del lavoro non aiuta di certo. “E se mi chiedono perché ci ho messo così tanto a venire a denunciarlo?” “Digli che non ci avevi cazzi.” La scolaretta fa uno sguardo da maestra cattiva. “Ti odio.” A riempire il vuoto della stanza un tavolino di legno spoglio della sua passata utilità, accatastati monitor di sorveglianza che dovevano essere all’avanguardia prima che il colore arrivasse alle televisioni, una finestra troppo alta e stretta per potersi realmente definire tale, e una fila scomposta di seggiole di plastica e ferro di quelle da sala conferenze, su cui oziano due sconosciute in attesa. La prima è una ragazza bionda dal sorriso largo, che forte della complicità dei compagni di sventura si intrufola nei discorsi di Giò e Cons con una loquacità troppo alla mano per risultare realmente invadente. Ha una parlata gustosa di dialetto, di risate da compagnia che vengono dallo stomaco, una cantilena che gioca coi toni delle sillabe tipica dei paesi che si trovano aggrappati a qualche valle. Si, insomma, una baccana. Racconta che, cioè, è li per dire che ha ritrovato la sua bici, quella che le hanno rubato qualche tempo fa, e che l’ha ritrovata ieri, ma così, per culo, gli è passata davanti e vedendo come era messa la canna ha detto “toh, ma questa qui è la mia” (“Toi, mona, sta chi l’è la mia!”) ed era la sua sul serio, cioè, che quei segni sulla canna li riconosceva, e allora se l’è ripresa. La cosa strana è che però mancava la sella. Cons pensa che doveva essere un cesso di bici, ma che probabilmente la sella era quasi decente e così i furfanti se la sono tenuta. Giò pensa che alla fine la tipa la troverà comoda e la terrà così, e i dettagli sono lasciati all’immaginazione di chi ascolterà la storia. Nessuno dei due ha il coraggio di commentare ad alta voce. La seconda sconosciuta è una donna dal corpo avvolto in un voluminoso cappotto e sul viso tracce di esperienze che stancano ed invecchiano troppo presto. Ha nella tranquillità della voce una forzaadulta e pensata, ma le parole sussurrate dal suo sguardo ed il piegarsi innaturale del collo le accompagnano un senso di inquietudine che mette sulla difensiva. Lascia sfuggire con naturalezza frasi diprotesta, più con orgoglio che come lamentele, e attraverso piccoli aneddoti trascina tutti nella rete della sua vita a parole, gioca col loro essere increduli senza il coraggio di dubitare, li lega alle proprie storie con la confidenza dei compagni di viaggio. Stupore, una lieve arrabbiatura, e una risalta, limpida, liberatoria, perché non si può rinunciare a ridere dei controsensi del vissuto, ed è ancora più facile ridere se questo folle vissuto appartiene a qualcun altro, ci fasentire un po’ meno unici ma molto meno soli, e per qualche secondo anche la sala d’attesa sembra meno vuota. Solo adesso che li ha affezionati a se, amicizia che rimarrà all’interno di quella stanza ma non meno sincera di quella che si costruisce giorno per giorno assieme alle persone a noi care, adesso che tutti stanno ancora ridendo del suo ultimo aneddoto, la donna racconta del suo bambino. Della vita che le hanno rubato a schiaffi quando ancora la aveva in pancia. Una storia di quelle che si riescono a raccontare solo ad amici sconosciuti, regalata come un castigo. Parole di tranquillità limpida da tagliare il fiato, oggettiva quasi appartenesse ormai ad altri, spolpata ad ogni ripeterla di pensieri e sentimenti, tanto non servono, certe volte alla verità basta essere nuda per farti ingoiare il respiro. Giò ammutolisce,masticare il silenzio è una tortura preferibile al dire qualcosa fuoriluogo, peggio ancora che gli si chieda cosa ne pensa, ha già vissuto questo tipo di situazioni e riscoprirne mentalmente le dinamiche lo salva dall’imbarazzo che arrossa il viso e contrae i muscoli della nuca. Anche Cons tace, ma con lo sguardo quasi colpevole di chi si lascia incantare soprattutto dalla tristezza. La ragazza bionda continua a ridere, ma dai, parli sul serio, ma no non ci credo, addirittura, ma l’hai denunciato almeno, mi spiace, che brutte cose. Con la serenità sincera delle persone semplici, attira su di se il discorso senza lasciarsi schiacciare, fino a riportarlo nei suoi binari.

Quando la ragazza bionda viene chiamata nell’ufficio, la stanza si gonfia di un silenzio umido che impregna i muri di pesantezza, ma negli sguardi che la donna scam- bia coi due raga- zzi c’è un dialogo più che eloquente. Il tempo si dilata come uno sbadiglio, scandito solo dal passare di una guardia che scorta di ufficio in ufficio un vetusto dischetto con i dati del ritrovamento di una bici senza sella. Giò tace, ma non abbassa gli occhi quando la donna cerca i suoi. Finché anche lei viene chiamata nell’ufficio, ed il processo ha termine. Cons riprende finalmente a respirare, sgonfiandosi come un palloncino. “A me comunque inquietava più la bionda.” Risatina, come un singhiozzo veloce. “Volevamo un’idea per la rivista? Eccola…” Già, la rivista, l’ancora di salvezza di Cons contro lo stress e l’imbarazzo. E Giò a cosa si aggrappa, per restare coi piedi per terra quando i pensieri rischiano di portarselo via? Ogni tanto ancora se lo chiede, e nella testa sbocciano risposte di cui si stupisce. Ma dopotutto, l’essere per se stesso una continua sorpresa gli lascia ancora la voglia, a 26 anni, di continuare a conoscersi e lasciarsi incantare. “Giò, voglio che mi fai una storia. Ho tante persone che scrivono, e che scrivono bene, e tutti abbiamo delle storie interessanti. Secondo me è quello che la gente vuole. Dobbiamo scrivere meno storie su di noi, ma più storie nostre.” Chiacchierare della rivista non accorcia i minuti di attesa, ma li rende meno invadenti.

Solo nella stanza, Giò si fa compagnia con i frammenti di conversazione che evadono attraverso la porta socchiusa dell’ufficio. Conta quanta volte Cons ride, quante si imbarazza, quante dice “Tizio” per indicare una persona qualsiasi, e deve ammettere che non se la cava male. Le chiedono dove pensa il portafoglio le sia stato rubato, ma non in che giorno per fortuna. Si scopre sereno, ma non ne è del tutto sorpreso, lo sa che Cons è di umore contagioso. Ci sono volte in cui è triste o stanca che gli sembra di sentirsela in bocca quella tristezza, sono le situazioni in cui capisce che è meglio che le stia lontano, che se solo avvicina la mano per provare a consolarla con una carezza lei gliela staccherà a morsi, che una parola gentile può avere l’effetto di un accendino su una tanica di benzina, ma sono anche i momenti in cui capisce di volerle più bene. Quelli, e quelli in cui è così affettuosa che non può fare a meno d’abbracciarla, anche se lo imbarazza sentirla addosso, così vicina, troppo vicina, e pur di spezzare il disagio e il silenzio dice cazzate a caso e lei si allontana, gli lancia uno sguardo severo che gli stampa in viso un’espressione da bambino sgridato, poi se ne pente, gli chiede scusa e lo abbraccia di nuovo. A volte Giò pensa che la odierebbe, se non le volesse così bene.

“Figo. Il Tizio mi ha dato un foglio che vale per tutti i documenti, finché non li rifaccio.” “Cosa ti han chiesto?” “Un po’ di robe, ma neanche tanto. Ho compilato un foglio con su delle domande su dove me l’hanno rubato, poi il Tizio mi ha chiesto se penso che sia stato qualcuno che conosco, ma alla fine era un tranquillone. L’unica cosa inquietante era come batteva a macchina, così con due dita, che sembrava stesse zappando la tastiera. E quell’altro Pino che andava avanti e indietro col dischetto. Alla fine ci ho messo più agitazione a menarmela che neanche a farlo.” “Brava. Brioches?” “Brioches!”

Attraversano nuovamente la città, e stavolta i loro passi sono due ritmi di un’unica melodia, una ninna nanna soffice, di stanchezza serena, che senza trascinare le suole accarezza con affetto l’asfalto. Discutono della serata mentre ripensano ai suoi incontri. Gli amici di Cons, che in quel momento stanno certo sboccando l’anima ma con indosso ancora il costume. La ragazza bionda, che scoprirà una nuova dimensione della sua sessualità mentre pedala verso le sue valli. Schiacciatasti e portadisco, nelle cui dita passano invitanti follie al ritmo di una persona per volta. Soprattutto la donna che sembrava volerli punire con la sua storia, quasi farli sentire in colpa. O forse spartire con loro il peso, anche solo nell’abbraccio di una sala d’attesa, dei fantasmi che porta sulla schiena. Sbattere il viso contro problemi veri ci ricorda che spesso i nostri piccoli drammi sono solo cazzate; il capriccio del litigio con una ragazza viziata che non capisce la differenza fra amicizia ed abitudine, l’esigente chiedersi e sentirsi chiedere di saper far bene qualcosa senza prima averlo imparato, il frustrante bisogno di dimostrare chi siamo attraverso ciò che facciamo, comprandoci l’affetto delle persone con una rivista o una tesi, il vergognarci a desiderare un abbraccio di troppo ed il sentirci in colpa per l’amaro masticato che al mattino ci fa alzare già stanchi. Ma sono le nostre cazzate, le sole che ci possono realmente togliere il fiato, quelle per cui sbattiamo la testa una volta di più, quelle che ci abituano a piccoli passi a prendere la rincorsa e darci il coraggio di saltare quando sarà necessario. Non accontentarsi mai è una spinta a lottare, e lottare un modo di crescere, o almeno di imparare a conoscere come siamo quando vinciamo e quando perdiamo. “Mi piacerebbe che riuscissi a scriverlo nella storia per la rivista.”

Il panificio oggi è chiuso.

La serata finisce quando la vettura rosso metallizzata di Giò, ovvero una panda 4x4, rallenta e si accosta all’uscio di Cons. A volte leserate finiscono così, che quasi non te ne accorgi, che quasi ci avevifatto l’abitudine a dimenticarti del lavoro che non sai fare, della tesi di cui non ti importa, della tettuta amica con cui hai nuovamente litigato, della rivista con troppe pagine ancora vuote, ma sono ancora tutti li, dietro la porta, ad aspettare che ti addormenti. Cons fruga nella borsetta in cerca delle chiavi. Di solito a questo punto si incazza per un motivo qualsiasi e se ne va sorridendo e sbattendo la portiera, ma oggi no. “Grazie per il passaggio, per la compagnia, per il sostegno morale e per le cazzate. Buonanotte.” “Prego e grazie a te. Peccato per la brioches!” “Già, peccato per la brioches!” Cons avvicina il viso a quello di Giò e gli appoggia sulla bocca un bacio soffice, così leggero che appena finito entrambi se ne saranno già dimenticati, morbidezza umida che chiude gli occhi e ruba ad entrambi la voce. Tra l’inizio e la fine di una storia ci sono infinite strade, e a volte si finisce per prenderne una che non ci si a s p e t t a . “Ti odio.” Ma non è quella la parola giusta. Una strizzata d’occhio e Cons sparisce oltre la portiera, la strada e la porta di casa. A volte il massimo che sappiamo dare di noi è di raccontare una storia. Non potendo offrire una parte di noi, ci accontentiamo di scambiarci pezzi del nostro vissuto, e di ricordo in ricordo lasciarci addomesticare. L’ultima volta che Giò ha raccontato questa storia è stato il 18 marzo. Cons non aveva ancora rifatto la carta d’identità.

THE END

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