Silenzio e solitudine

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Edoardo Giusti - Gilda Di Nardo



collana Psicoterapia & Counseling diretta da Edoardo Giusti PSICOTERAPIA�

COUNSELING�

58 Centro Europeo di Ricerche per lo Studio delle Psicoterapie Integrate e Comparate



Edoardo Giusti - Gilda Di Nardo

SILENZIO E SOLITUDINE L’integrazione della quiete nel trattamento terapeutico

OVERA EDITORE


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Sommario

PARTE PRIMA: QUANDO SORGE IL SILENZIO Capitolo I: L’espressione del silenzio 1.1 Silenzio e comunicazione 1.2 Dall’origine della vita all’origine del linguaggio 1.3 Breve intermezzo: un silenzio amorevole 1.4 Silenzio e comunicazione: come, quando e perché Ricapitolando

Capitolo II: Silenzio e attaccamento 2.1 Silenzio e attaccamento 2.2 Silenzio, attaccamento in età adulta e AAI Ricapitolando

Capitolo III: A spasso tra silenzi esemplificati 3.1 Parole sul silenzio 3.2 Immagini e colori del silenzio: alcune interviste 3.3 Silenzio senza parole 3.4 Silenzio e voce Ricapitolando

Capitolo IV: Percorsi terapeutici del silenzio 4.1 Silenzio e psicoanalisi 4.2 Silenzi del paziente e silenzi dell’analista 4.3 Colloquio clinico, silenzio ed empatia 4.4 Silenzio insano 4.5 Silenzio e terapia: la storia del paziente 4.6 Silenzio: percorsi possibili Ricapitolando

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PARTE SECONDA: IL VISSUTO DELLA SOLITUDINE Capitolo V: Quale solitudine? 5.1 Solitudine, silenzio e corpo 5.2 Il carattere della solitudine 5.3 Breve intermezzo: frammenti di una storia tra solitudine, silenzio e parole 5.4 Solitudine controcorrente 5.5 Solitudine guerra e pace Ricapitolando

Capitolo VI: Solitudine che cresce 6.1 Solitudine e regolazione delle emozioni: origini della vita e albori della relazione, tra bisogno d’attaccamento e bisogno di solitudine 6.2 Il bambino, il comportamento solitario e la capacità d’essere solo 6.3 L’età della solitudine 6.4 Educazione al silenzio ed alla solitudine Ricapitolando

Capitolo VII: Solitudine in presenza dell’altro 7.1 L’incontro della solitudine 7.2 Solitudine e psicoanalisi 7.3 La solitudine della fine e la fine della solitudine Ricapitolando

Capitolo VIII: Solitudine e professione 8.1 Una solitudine sconosciuta 8.2 La solitudine nelle relazioni d’aiuto 8.3 Silenzio, solitudine e fattori curativi in psicoterapia Ricapitolando

Capitolo IX: Silenzio e Solitudine: prigione e libertà 9.1 Silenzio: tra resistenza e possibilità di cambiamento 9.2 I disturbi del silenzio e della solitudine 9.3 Colloquio clinico, silenzio, solitudine e tempo Ricapitolando

Bibliografia

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PRIMA PARTE QUANDO SORGE IL SILENZIO

“Vada a cercare uno specchio qualsiasi, se lo ponga di fronte e assuma una posizione comoda. Respiri profondo. Chiuda gli occhi e ripeta tre volte: Sono ciò che sono; un poco ciò che posso essere. Lo specchio mostra ciò che sono, il cristallo ciò che posso essere. […] Tagliato dal lato inverso, uno specchio cessa di essere specchio e diventa cristallo. E gli specchi sono per vedere da questo lato, i cristalli sono per vedere che cosa c’è dall’altro lato. Gli specchi esistono per essere tagliati. I cristalli esistono per essere rotti… e passare al di là…” (da Don Durito della Lacandona, Subcomandante Marcos, 1998)



Capitolo I

L’espressione del silenzio

1.1 Silenzio e comunicazione Proviamo a pensare a ciò che facciamo spesso quando abbiamo bisogno di scrivere o di concentrarci: cerchiamo il silenzio. Prima cerchiamo, solitamente, il silenzio della nostra stanza, poi il nostro: ci ritiriamo, insomma, tra le nostre idee; ciò è proprio quello che abbiamo fatto noi per iniziare a scrivere le pagine di questo libro. Ci chiediamo: nel fare questo, abbiamo interrotto il nostro scambio relazionale e di comunicazione con il mondo esterno? Se guardiamo a silenzio e parola come stati di alternanza della relazione interpersonale e della comunicazione, la risposta è no. Mentre scriviamo, ci viene in mente l’immagine di un interruttore dotato di due posizioni, on/off (parola/silenzio), ed anche una domanda: in posizione off l’energia per cui “l’impianto umano” è predisposto, s’incanala ugualmente in un flusso di comunicazione? Poiché “una situazione tecnica semplice, consente di vedere una situazione nel suo complesso” (Semi A.A., 1989) “riavvolgiamo il nastro” e rivediamo le azioni che abbiamo compiuto: abbiamo spento la radio, abbassato la suoneria del telefono, spento il telefonino, chiuso la porta della stanza, abbiamo insomma cercato l’isolamento nel silenzio; tutto ciò conduce comunque ad un gesto di comunicazione con chi legge, la porta chiusa della nostra stanza ha comunicato alle persone, fuori da quella porta, che siamo in “posizione off ”, quindi ci chiediamo nuovamente: il flusso di comunicazione c’è? Se per comunicazione s’intende un processo finalizzato alla messa in comune, tra due o più interlocutori, di esperienze, informazioni, pensieri, emozioni, cosa ha a che fare il nostro isolato silenzio con la comunicazione? E, a questo punto compaiono, sotto i nostri occhi, le parole di Watzlawick: 9


“Non esiste un qualcosa che non sia un comportamento o, per dirla più semplicemente, non è possibile non avere un comportamento […] Comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio […]” (Watzlawick P., Beavin J.H., Jakson D.D., 1971).

Ripartiamo allora dall’assunto che è impossibile non comunicare, continuiamo a raccogliere le idee e a stare nel silenzio; inizia a farsi strada in noi l’idea che silenzio e comunicazione, apparentemente estranei, si conoscano in realtà da molto, molto tempo. Spostandoci da un piano sistemico-relazionale ad uno intrapsichico ricordiamo le parole di Freud sul fenomeno dell’induzione e della trasmissione del pensiero: i processi psichici in una persona (rappresentazioni, stati d’eccitamento, impulsi di volontà), possono “trasmettersi attraverso il libero spazio a un’altra persona, senza valersi delle vie conosciute di comunicazione fondate su parole e segni. […]. Nulla vieta di supporre che questo [trasmissione psichica diretta] sia il mezzo originario, arcaico, di comunicazione tra gli individui, e che nel corso dell’evoluzione filogenetica esso sia stato sopraffatto dal metodo migliore di comunicare che si avvale di quei segni che gli organi di senso sono in grado di captare […]” (Freud S., 1989).

Freud, quindi, definisce la parola ed il linguaggio come “metodo migliore” di comunicazione ed ipotizza al contempo che il pensiero (un canale non verbale) fosse il mezzo di comunicazione arcaico. Nel nostro processo evolutivo la comunicazione, originariamente immediata, sarebbe in seguito diventata mediata (dalla parole) e pertanto, oseremmo dire, quasi dimidiata. Spieghiamo meglio: da una comunicazione di cui si potevano valere più istanze psicobiologiche, si è passati ad una, la parola (almeno a darle maggior rilievo), di cui si può valere solo l’udito. Restiamo ancora un po’ con Freud e guardiamo meglio la traccia evolutiva cui egli è risalito: la sopraffazione del capo dell’orda, il grande silenzio e poi l’esplosione orgiastica di gioia (nasce la musica), accompagnata dal divoramento del padre. Nel passaggio dall’Es all’Io, la creatura umana ha introdotto la parola, si è accostata al linguaggio allontanandosi un po’ dall’inconscio (il silenzio, lo strumento di comunicazione arcaico era stato il veicolo dell’Es e aveva permesso con la sua efficienza l’uccisione del padre; sotto il peso del senso di colpa è 10


stato rimosso, si è gradualmente atrofizzato e infine è stato sostituito dalla parola). Riflettendo sull’origine del linguaggio, Freud esamina alcuni brani di un saggio (del filologo Abel) che lo conducono a soffermarsi sul significato antitetico delle parole primitive. Molte lingue primitive, ad esempio l’antico egizio, erano dotate di parole che avevano due significati opposti; l’uomo non poteva acquisire i suoi concetti più antichi e più semplici se non come contrari dei loro contrari e ha appreso solo per gradi a separare le due parti di un’antitesi e a pensare ad una senza fare un paragone conscio con l’altra (Freud S., 1992). Ecco perciò che una parola che originariamente aveva due significati si sarebbe divisa nella lingua successiva in due parole con significati singoli, in un processo per cui ciascuno dei due significati opposti succede ad una particolare ‘riduzione’(modificazione) della radice originale (Freud S., 1992). Questo, in qualche modo potrebbe essere avvenuto anche al nostro modo di comunicare, ha prevalso la parola, certo il metodo migliore, ma ci siamo allontanati dalla radice originaria, che affondava le sue diramazioni anche nel terreno del silenzio. Torniamo a ripetere, la parola è il “metodo migliore”; essa fa parte parte della nostra evoluzione e, pertanto, ha svolto la sua funzione adattiva, ma se è in qualche modo una modificazione della radice originaria, allora dobbiamo guardare al silenzio e alla parola come facenti parte, entrambi, del processo di comunicazione; il nostro “impianto è predisposto per due posizioni: on-off ”. A questo punto, ‘facendo visita’ a concetti di matrice più propriamente junghiana, ci viene da riflettere su silenzio, comunicazione e simbolo: il simbolo, nell’antica Grecia, era un oggetto che si spezzava in due e denotava un legame tra i contraenti. Ci viene da chiederci: perché, allora, non guardare al silenzio come ad un simbolo della comunicazione e, pertanto, considerare silenzio e parola come due parti di un oggetto spezzato, la comunicazione stessa? Secondo Jung (1980) la coscienza ‘avanzata’, col suo prevalere sull’inconscio, avrebbe reso l’uomo incapace, a volte, di integrare i propri istinti all’interno di una coerente struttura psichica; la scissione tra coscienza ed inconscio avrebbe cioè portato l’uomo a perdere la sua identità inconscia emotiva con i fenomeni naturali e a sentirsi pertanto isolato nel cosmo. A proposito di silenzio, parola, simbolo e comunicazione, ci viene allora da considerare che affidandoci (come spesso accade ed è accaduto) ad una logica disgiuntiva, che ci faccia ignorare 11


l’esistenza dell’antico ed originario legame tra silenzio e parola e rimuovendo così una parte del simbolo si rischia, anche in questo caso, di attuare una scissione che, come tutte le scissioni, ha il suo prezzo da pagare. Perciò: vogliamo renderci schiavi di una scissione oppure, in una visione più ampia, come pazienti, come studiosi, come terapeuti, vogliamo invece considerare il processo della comunicazione nella sua totalità, senza affidare alcuna verità solo al silenzio o solo alla parola, ma ad un tutto più grande? Possiamo, allora, nell’accostarci al processo di comunicazione, tener presente l’oggetto nella sua interezza, pur discernendone le parti, e tenere a mente che l’ambivalenza del simbolo, il suo essere richiamo di una presenza e al contempo di un’assenza, rimanda ad una comunicazione che sta nel linguaggio e altrove rispetto allo stesso, discorso intelligibile ma intraducibile che riporta sulle “tracce del corpo e degli affetti nella mente”(Gaita D., 1992). Riassumendo: possiamo considerare silenzio e parola come stati di alternanza della comunicazione, una parte rinvia a qualcosa di non noto, l’altra è portatrice di un messaggio parziale. Ed allora: silenzio/parola, attività/inattività, on/off, flusso di energia, tutto ciò è nella comunicazione, quel processo per cui ‘l’impianto umano’ è naturalmente predisposto; il silenzio ci appartiene tanto quanto la parola, rappresenta ‘l’altro lato’ della parola, ‘l’altro lato’ della comunicazione: “la relatività essenziale della conoscenza, del pensiero, o della coscienza non può mostrarsi nel linguaggio. Se ogni cosa che possiamo conoscere è vista come una transizione da qualcos’altro, ogni esperienza deve avere due lati” (Freud S., 1992).

Ogni esperienza deve avere due lati, crediamo sia utile tenerlo presente.

1.2 Dall’origine della vita all’origine del linguaggio L’inizio della vita, è qui che ora vogliamo recarci per metterci sulle tracce di silenzio e comunicazione. Moltissimi studi hanno dimostrato che il feto percepisce suoni costanti, come il battito cardiaco della madre, ed altri irregolari ed episodici e vive così un’esperienza sonoro-ritmica-motoria che funge da: 12


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precognizione di quella post-natale; attivatrice di una competenza riconoscitrice; modulatrice tra pre e post-natale; facilitatrice dell’adattamento all’ambiente esterno (attraverso una funzione anticipatrice); – organizzazione di modalità (e livelli) comportamentali interattivo-relazionali. In una condizione di sospensione, il feto sperimenta, quindi, una forma di vita animata da suoni, ritmi, movimenti, inizia a danzare la vita e tale danza diviene preparatoria per una successiva (post-natale) danza relazionale e comunicazionale. Ogni aspetto dell’esperienza pre-natale ha due lati, ad esempio: silenzio/suoni, movimento/staticità. Ancora immerso nel biologico, il feto si prepara al suo passaggio al bio-psichico in un continuo scambio tra interno ed esterno in cui le interazioni sensoriali-emozionali e la relazione innescata attraverso il motorio-ritmico-sonoro (pensiamo anche e solo come lo scalciare del feto spesso induca la madre a parlargli), fungono da stimolatori che attivano processi maturativi e la stessa competenza a nascere, a vivere, ad adattarsi, a comunicare, attraverso l’incontro integrante/integratore dell’altro da sé. Possiamo dire che esiste una prima forma di dialogo di cui siamo capaci alla nascita che è fondamentalmente un dialogo motorio; secondo Milani Comparetti (1982) l’essere che si muove in utero sembra avere rappresentazioni del mondo esterno, organizzate dal feed-back esterocettivo e propriocettivo. L’osservazione della motricità spontanea ha portato i frutti più significativi per l’interpretazione neurologica dei dati, nel senso di configurarla come una struttura interattiva con competenze organizzative intra ed intersistemiche ed ha permesso di annullare l’immagine riduttiva del SNC come struttura solo reattiva; grazie alle prove che ci porta la neurofisiologia sulla competenza propositiva del SNC, ci sembra allora possibile guardare al fisiologico silenzio del feto come ad uno stato di recettività e propositività che forma, prepara e, al contempo, avvia la sua capacità di comunicare. Silenzio, quindi, come ascolto recettivo, propositivo e preparatorio all’acquisizione di nuove competenze comunicazionali. Ma cosa avviene alla nascita? Secondo Stern (1979), le prime influenze dell’ambiente umano a cui il bambino è sottoposto sono costituite soprattutto da ciò che la figura materna compie col suo viso, la sua voce, le sue mani, il suo corpo. La madre pertanto attraverso i suoi 13


comportamenti offre al bambino la possibilità di nuove esperienze con tutto ciò che ha a che fare con la comunicazione umana. Per un lungo periodo la comunicazione del bambino passa attraverso canali non verbali quali espressioni facciali, movimenti della testa, sorriso, sguardo e vocalizzazioni (solo un primo accenno di linguaggio). Nella danza relazionale col suo bambino, la madre solitamente mostra espressioni facciali marcate nella loro entità sia temporale che spaziale e sono tutte volte ad iniziare, mantenere e modulare, concludere ed evitare un’interazione sociale. Si pensi alla finta sorpresa per iniziare, al sorriso per modulare, ad allontanare la testa e deviare lo sguardo per concludere, al volto inespressivo e allo sguardo ostile per evitare; tutte le espressioni emozionali sono costituite da costellazioni derivanti da diverse combinazioni di separati movimenti di ciascuna delle parti facciali (occhi, bocca, sopracciglia e così via). Per ciò che concerne lo sguardo, il reciproco fissarsi madre-bambino può durare anche più di trenta secondi, e in generale, nell’interazione, la madre fissa il bambino nel momento stesso in cui gli parla e impiega più del 70% del tempo a guardarlo: molto di più di quanto avviene tra adulti. Di solito in una conversazione chi ascolta guarda in faccia il parlante per la maggior parte del tempo; chi parla, a sua volta, guarda generalmente chi ascolta per alcuni istanti quando incomincia a parlare, poi distoglie lo sguardo per posarlo di nuovo sull’ascoltatore con sporadiche occhiate come per averne delle informazioni di ritorno (feedback); verso la fine del discorso guarda ancora una volta chi lo ascolta come per avvertirlo che sta per concludere e per cedergli il posto.Tra madre e bambino ci sono tempi e modi diversi; a differenza che tra adulti, la madre fissa infatti il bambino come se si trovasse nella situazione di chi ascolta, mentre di fatto è l’unica a parlare, nell’allattamento invece fissa lo sguardo come se parlasse, anche se non lo fa. Uno sguardo che parla nutrendo, quindi. Anche le presentazioni del volto da parte della madre al bambino differiscono dalle interazioni adulto-adulto: hanno infatti demarcazioni più discontinue, sospensioni o silenzi comportamentali più marcati e vengono eseguiti lentamente e in maniera alterata, cosicché ogni singola presentazione viene ad acquistare per il bambino un maggior rilievo. Per ciò che riguarda la prossemica, nell’interazione madre-bambino sono poco rispettate le convenzioni esistenti tra adulti. Se infatti tra adulti è condivisa una distanza interpersonale non inferiore ai sessanta 14


centimetri (oltre la quale si entra in uno spazio di intimità), nei confronti del bambino questo spazio interpersonale viene invaso con molta frequenza dalla madre. Questa forma di comunicazione che passa per il corpo ha un’importanza fondamentale per preparare il bambino a tollerare l’intrusione e ancor più a dare valore sociale alla formazione del suo spazio privato. Un altro aspetto affascinante della comunicazione madre-bambino è certamente il dialogo dei primi mesi di vita: “un fatto esclusivo, originale, ed è essenzialmente un monologo della madre sotto forma di dialogo immaginario, per la semplice ragione che, nonostante la rarità delle vocalizzazioni di risposta del bambino, la madre si comporta come se invece ne ricevesse sempre” (Stern D., 1979).

Anche in questo caso esistono alcune differenze rispetto al dialogo adulto; quando la madre si rivolge al bambino, abbrevia l’articolazione vocale e prolunga le pause: attraverso le osservazioni si è visto che, mediamente, la madre fa una pausa corrispondente al tempo medio del dialogo fra adulti (0,60 sec.); rimane in silenzio per il tempo di un’immaginaria risposta del bambino (0,43 sec.) e ripete di nuovo la pausa tipica del dialogo tra adulti (0,60 sec.); sommando le tre pause si ha la durata (1,63 sec.) delle pause prolungate che la madre inserisce nel suo dialogo in risposta alle vocalizzazioni del bambino. Il bambino è comunque esposto ad un modello temporale di pause vocali quando la madre esprime più brevi raggruppamenti vocali da elaborare, quando questa consente un più lungo periodo di elaborazione di questi stessi raggruppamenti e quando espone in definitiva il bambino a quel più maturo schema temporale al quale dovranno attenersi le sue future abilità dialogiche. Il bambino, attraverso tali ‘giochi vocali’ apprende come controllare i suoi interventi vocali e poi verbali in vista di quelle che saranno, più tardi, le regole di una normale conversazione. Ma la comunicazione, anche nei primi mesi di vita, non procede solo da madre a bambino ma anche dal bambino alla madre e, anche in questo caso, lo sguardo è uno dei vettori fondamentali. Intorno alla sedicesima settimana di vita, l’apparato visivo-motorio del bambino raggiunge un obiettivo evolutivo che spinge l’interazione sociale con la madre verso un nuovo livello. Alla fine del terzo mese, l’apparato visivo-motorio del bambino si presenta ormai maturo, la distanza focale è la stessa di cui dispone l’adulto, così da poter osservare la madre quando si avvicina, si allontana o si muove intorno; la rete co15


municativa, in questo periodo, viene così ad essere molto estesa. L’interazione diadica dello sguardo bambino-madre implica una relazione tra due individui umani che fanno uso delle stesse modalità e dello stesso controllo (visivo), nonostante uno dei due abbia solo tre o quattro mesi. Il controllo motorio della testa matura di pari passo con la precoce maturazione dell’apparato visivo-motorio; i movimenti della testa e gli spostamenti dello sguardo sono solitamente coordinati, ma gli uni e gli altri apportano un diverso e distinto impatto comunicativo alle congiunte manifestazioni comportamentali. “Cominciando dal bambino, vi sono almeno tre principali posizioni della testa e direzioni dello sguardo rivolte al volto materno” (Beebe B. & Stern D., 1977): una posizione centrale (faccia a faccia), una periferica (il bambino non guarda direttamente la madre ma può vederla con gli “angoli” degli occhi) ed una in cui viene del tutto a mancare il contatto visivo. È interessante osservare come a seconda del momento, la madre interpreti questi movimenti come fuga, evitamento, ricerca, ecc… Un altro segnale comunicativo del bambino è sicuramente il sorriso; tra le sei settimane ed i tre mesi, il sorriso diviene esogeno. Dal terzo mese diventa un comportamento strumentale e intorno al quarto mese viene espresso in maniera coordinata ed articolata. Le espressioni facciali seguono un percorso evolutivo simile al sorriso: sono presenti alla nascita come attività riflesse, divengono poi esogene e stimolate da eventi esterni e – secondo alcuni – il loro uso strumentale è presente già dal primo mese. Entro il terzo mese, comunque, l’intera gamma delle espressioni facciali è pronta per essere usata dal bambino come comportamento strumentale e sociale che lo aiuta a condurre e regolare la sua interazione con la madre. Attraverso lo sguardo, i movimenti della testa, le espressioni facciali si avviano anche i momenti ludici tra bambino e madre che, fissandosi reciprocamente, si segnalano l’un l’altro la disponibilità per l’avvio di un’interazione; se lo sguardo viene distolto, il momento ludico ha esito negativo. In Stern, troviamo la seguente distinzione tra fase attiva e fase passiva dei momenti ludici: – fase attiva: è una sequenza di comportamenti sociali di varia durata, intercalati da pause; prende avvio da un comportamento di saluto della madre (solitamente). Questa esprime una serie di 16


comportamenti, verbali e non, con cadenze regolari, cosicché ogni fase attiva viene ad avere un proprio ritmo; – fase passiva: è caratterizzata dal silenzio e dall’interruzione di qualsiasi movimento; le pause sono più lunghe che nella fase attiva e c’è anche un’interruzione dell’attenzione visiva. Si può guardare alla fase attiva e conseguente fase passiva come unità alternative nella regolazione dell’interazione; secondo Stern (1979) nel corso di ogni fase attiva sia la madre che il bambino cercano di mantenersi entro margini ottimali di eccitamento e di responsività affettiva, e le fasi attive tendono ad esaurirsi quando tali margini vengono oltrepassati per eccesso o per difetto. Spesso, è il bambino stesso che segnala alla madre il verificarsi di una tale circostanza. Ogni fase attiva permette di riadattare l’interazione al diverso andamento del rapporto. Le pause delle fasi passive sono quindi momenti alternativi o riadattativi particolarmente importanti (si pensi a come le madri ricorrano a queste momentanee interruzioni dell’interazione per riportare a più adeguati livelli l’intensità dell’interazione stessa). Riassumendo, durante il primo anno di vita si verifica tra madre e bambino un’ampia gamma di sequenze interazionali (chi fa una richiesta e chi la soddisfa, chi cerca e chi trova, chi indica e chi recepisce, chi inizia un compito e chi lo termina, e così via) attraverso le quali il bambino sperimenta una serie di relazioni che intercorrono tra emittente e ricevente ed una notevole intercambiabilità di ruolo. Grazie a ciò, quando sarà in grado di utilizzare il linguaggio verbale, il bambino possiederà una certa competenza circa la natura dei contesti e delle convenzioni che ne governano l’uso. Lo sviluppo della comunicazione verbale, che inizia nel secondo anno di vita, è perciò strettamente dipendente dalla capacità del bambino di partecipare a sequenze di comportamento ben sviluppate nel corso del primo anno; indubbiamente madre e bambino arrivano a condividere un codice di condotta ben prima di un codice linguistico. Molte ricerche permettono di constatare che nel passaggio dalla comunicazione prelinguistica al linguaggio esistono sia elementi di continuità che di discontinuità. Come troviamo in Attili G. e Ricci Bitti P.E. (1984), le intenzioni comunicative espresse – ad esempio, la richiesta di un oggetto – possono essere le medesime nei due casi (continuità), ma gli strumenti utilizzati – gesto e parola – sono diversi e non necessariamente dipendenti l’uno dall’altro. In altre parole, se comu17


nicazione preverbale e linguaggio assolvono a funzioni in parte simili, non è del tutto dimostrato che le competenze grammaticali abbiano origine dalle prestazioni della fase prelinguistica. Bisogna considerare che la competenza comunicativa, essendo situata nell’interfaccia di sviluppo linguistico, cognitivo e sociale, è determinata da una molteplicità di fattori; pertanto non tutte le capacità di comprensione necessarie per una comunicazione efficace e reciproca, sono pienamente sviluppate nel periodo in cui compare il linguaggio verbale e la padronanza del linguaggio di per sé non spiega i progressi nella capacità comunicativa, successivi all’uso delle prime parole. Per Piaget, il linguaggio ha origine dallo sviluppo cognitivo del periodo senso-motorio; i primi schemi verbali sono degli schemi sensorio-motori in via di concettualizzazione che conservano l’essenziale dello schema sensorio-motorio puro, ma presentano anche uno stato del concetto; inoltre del concetto essi preannunciano l’elemento caratteristico della comunicazione poiché sono designati da fonemi verbali che li mettono in relazione con l’azione di un altro soggetto. A poco a poco, la parola comincia allora a funzionare come segno, vale a dire non solo come parte dell’atto, ma come evocazione di questo. Nel tempo, lo schema verbale giunge a staccarsi dallo schema sensoriomotorio per acquistare la funzione di rappresentazione, vale a dire di ripresentazione. Se l’imitazione non può che riprodurre l’atto tale e quale (mimandolo esteriormente col gesto o interiormente con l’immagine), il racconto aggiunge a ciò una specie particolare di oggettivazione che gli è propria e che è legata alla comunicazione, o socializzazione del pensiero stesso (Piaget J., 1972). Non solo gli studi di Piaget, ma la maggior parte delle ricerche sembrano comunque dimostrare che le abilità linguistiche continuano a svilupparsi anche dopo i cinque anni, fino all’adolescenza; per il bambino, infatti, non si tratta solo di raggiungere una competenza lessicale e sintattica, ma anche di capire e produrre discorsi coerenti, trarre inferenze, produrre un linguaggio adatto ad un ascoltatore specifico e ad una situazione particolare, ecc… Per concludere, riassumendo, un lungo periodo di silenzio, che non corrisponde ad assenza di comunicazione, è necessario al bambino per arrivare ad acquisire anche competenze linguistiche; in questo lungo periodo il bambino sperimenta e specializza tutto il suo patrimonio non verbale, che non scompare al comparire della parola, ma quest’ultima, il “metodo migliore”, prevale. 18


Entrambi i linguaggi, verbale e non verbale, possono avviare un processo di comunicazione con l’altro; il terreno della comunicazione, allora, è il terreno di incontro con l’altro, e silenzio e parola intervengono entrambi nel regolare e stabilizzare la relazione. Non riteniamo opportuno, in questa sede, approfondire tematiche che richiederebbero una trattazione ben più estesa; desideriamo però affidarvi una riflessione che è sorta spontanea dall’osservare in che modo abbiamo deciso di strutturare i paragrafi di questo capitolo: bisogna partire dalle origini, dal bambino; e in fin dei conti, non è proprio questo che avviene in terapia? La relazione terapeutica prevede un incontro con l’altro, un entrare in sintonia attraverso vari canali, essa è un accostarsi al bambino (ferito, maltrattato, denutrito o viziato), un nutrirlo e farlo crescere, ‘tenendo d’occhio’ anche il ‘genitore e l’adulto’, come ci insegna l’analisi transazionale. Al di là dell’approccio, comunque, la relazione terapeutica è un processo di crescita ed una regolazione della relazione stessa. Secondo noi, è comunque utile tener presente il ‘bambino’ e considerare che un periodo di silenzio è per questi fisiologico; a volte, infatti, il bambino “mette il muso”, non vuol parlare; altre volte parla molto ma senza senso (un senso adulto almeno). Bisogna tenerlo per mano, allora, ed ascoltarlo; in un modo o nell’altro sta comunicando, si tratta solo di facilitarlo nel processo di crescita.

1.3 Breve intermezzo: un silenzio amorevole Ora, vogliamo raccontarvi della vecchia Anna. C’erano una volta una serie di studi (iniziati intorno al 1915) sul clima emotivo dei brefotrofi e sull’alto tasso di mortalità dei bambini istituzionalizzati; in quegli stessi anni il dottor Chapin introdusse il sistema di affidare i bambini a famiglie private, ma scusate, questa è un’altra storia, o quasi. Il nostro personaggio è infatti il dottor Fritz Talbot di Boston, che un giorno iniziò a parlare di una “cura amorosa” di cui, egli diceva, aveva tanto sentito parlare in Germania. Durante il suo viaggio in Germania, “il dottor Talbot aveva visitato la clinica pediatrica di Düsseldorf, dove il direttore, dottor Arthur Schlossman, lo aveva accompagnato nelle corsie. Queste erano molto pulite e ordinate, ma ciò che più stimolò la curio19


sità del dottor Talbot fu la vista di una donna vecchia e grassa che teneva in braccio un bambino. ‘Chi è quella’ – chiese il dottor Talbot – Oh quella – rispose Schlossman – è la vecchia Anna. Quando per un bambino si è fatto tutto il possibile da un punto di vista medico, ed egli ancora non si riprende, allora ricorriamo alla vecchia Anna, e lei ce la fa sempre” (Montagu A., Matson F., 1981).

Tenere in braccio un bambino e coccolarlo, aiuta il bambino a crescere; straordinario, pensò Fritz Talbot. Da quel giorno, il dottor Talbot iniziò a sostenere l’importanza di una tenera e amorosa cura, in molti ospedali pediatrici si inserì un regime regolare di assistenza materna nei reparti; il dottor J. Brenneman stabilì nel suo ospedale che ogni bambino doveva essere preso in braccio, portato in giro e “assistito maternamente” più volte al giorno. Certo non vissero tutti felici e contenti; sicuramente, però, molti progressi sono stati fatti e si è ben compresa l’importanza di un nutrimento (fatto anche di contatto) anche e soprattutto emotivo. Conoscete anche la storia di Bowlby, Spitz, Harlow, vero? Ma no, non si tratta solo di anatroccoli, bambini e scimmiette! Non abbiamo tempo qui per raccontarvi meglio, ma essi hanno scritto tanto, ed è appassionante leggere i loro “racconti”. Pensando a questi magnifici personaggi, vogliamo solo dirvi che il contatto e l’amore rappresentano una delle più alte forme di comunicazione umana (e non solo per i neonati). Vi sono ormai prove inconfutabili che tutti gli animali, esseri umani inclusi, deprivati emotivamente, sono meno resistenti agli effetti dello stress e alla malattia degli animali emotivamente soddisfatti; inoltre, gli individui deprivati soffrono tipicamente di un’incapacità di comunicare con gli altri a tutti i livelli: sociale, sessuale e non-verbale. Per crescere, svilupparsi e sviluppare adeguate capacità comunicative, non basta il semplice soddisfacimento di bisogni fisiologici; è necessaria la stimolazione dell’affetto attraverso i sensi perché il cervello trasmetta alla ghiandola pituitaria i segnali che consentono un adeguato processo di crescita. Un percorso, questo, fisiologico, ma non solo: è molto di più! Ora riuscite a pensare ad una parola d’amore? Ad un gesto d’amore?Ad un silenzio per amore? E riuscite a capire quanto ognuna di queste esperienze possa essere fondamentale nella vita di ognuno? Parola, gesto, silenzio: questi tre vocaboli richiamano alla nostra mente vari modelli terapeutici (psicoanalisi, cognitivismo, gestalt, terapia centrata sulla persona, ecc…), e questo ci porta a considerare che 20


i modelli terapeutici optano per tecniche d’intervento che privilegiano nella relazione ora la parola, ora il silenzio, ora l’azione; tentano cioè di avvalersi, a seconda dei casi, di una parte del processo di comunicazione che sicuramente può avviare un processo di crescita, comunicazione e regolazione della relazione. Tuttavia, poiché consideriamo la comunicazione un processo molto più complesso delle sue singole parti, ci sentiamo più vicini ad un modello di terapia integrato. Ci fermiamo qui, per ora.

1.4 Silenzio e comunicazione: come, quando e perché Come si manifesta la comunicazione che potremmo chiamare “silenziosa”? Uno sguardo, un movimento, l’orientamento del nostro corpo nello spazio: tutto ciò è comunicazione. La comunicazione umana è infatti un insieme complesso di simboli e segni. Essa è composta da molto di più che mezzi e messaggi, informazione e persuasione, perché va incontro a un bisogno molto più profondo e serve ad uno scopo ben più alto; infatti la comunicazione, chiara o confusa, rumorosa o silenziosa, deliberatamente o fatalmente disattenta, è in breve ‘la modalità essenziale di collegamento tra gli uomini’. Le ricerche sulla comunicazione hanno aperto nuovi orizzonti e si è ormai divenuti consapevoli che: “il campo verbale è solo la punta dell’iceberg dell’esperienza comunicazionale, e che nel dialogo umano c’è di più, molto di più, di quanto percepisce il nostro orecchio.Il discorso e il linguaggio non sono certo diminuiti di importanza, ma sono stati inseriti in un contesto più ampio” (Montagu A., Matson F., 1981).

Per passare velocemente in rassegna gli elementi costitutivi del linguaggio silenzioso, e senza dimenticare ciò che sosteneva Freud (ne abbiamo parlato nel primo paragrafo), ci piace qui riportare la classificazione di Jurgen Ruesch e Wendell Kees, nel libro Non-verbal Comunication: Notes on the Visual Perception of Human Relations: – linguaggio dei segni: parole, numeri e punteggiatura vengono sostituiti da gesti (ad esempio il gesto monosillabico di un autostoppista o il linguaggio dei sordomuti); 21


– linguaggio dell’azione: atti come camminare, bere, da una parte servono a bisogni personali, dall’altra costituiscono “frasi” per chi li percepisce; – linguaggio degli oggetti: consiste nell’esibizione, intenzionale o meno, di oggetti materiali, è un linguaggio oggettuale rappresentato dal corpo umano e tutto ciò che lo veste o lo copre. Solo per fare alcuni esempi: l’atto del camminare non è spesso investito di una ricchezza e complessità simbolica? E stare in piedi e camminare non significa non essere fermi, riuscire a procedere? Ed ancora, quando guardiamo qualcuno camminare non associamo il suo modo di farlo a rigidità o ad altre caratteristiche di personalità e attribuiamo magari anche ostentazione o inibizione di sessualità? E non abbiamo mai temuto che un nostro abito possa risultare inadeguato per qualcuno, che gli invii un messaggio sbagliato? Tutto ciò che noi agiamo, anche nell’immobilità e nel silenzio, comunica. Nessuna posizione, espressione o movimento o atto ha un significato di per sé, ma comunica qualcosa di chi lo esegue, nel momento in cui lo esegue: comunica qualcosa della sua cultura, della sua natura, della sua storia. Immaginiamo una situazione semplicissima: incontriamo una persona che conosciamo, accenniamo un movimento col capo, la guardiamo negli occhi, le sorridiamo e solleviamo la mano all’altezza del busto. Abbiamo attuato una serie di comportamenti che non hanno un significato di per sé, ma in quel contesto sostituiscono una comunicazione verbale. Questa situazione potrebbe avere vari significati: abbiamo avuto un incidente, portiamo un collare ortopedico ed un busto che ci impediscono movimenti ampi (oggetti che ricoprono il corpo e comunicano la nostra situazione), riusciamo a malapena a parlare e comunichiamo col nostro sorriso e con lo sguardo la nostra disponibilità verso l’altro, accennando col capo e la mano al saluto. Oppure, più semplicemente, abbiamo solo scelto di attuare tali comportamenti al posto di una parola: ciao. Vi rimandiamo agli studi di Harris, Ekman, Argyle e a quelli del “padre” della prossemica Hall e del “padre” della cinesica Birdwhistell, per approfondire gli elementi costituitivi della comunicazione silenziosa. Questi studi, oltre a consentire un approfondimento, sottolineano come il non verbale che gestiamo con competenza (ma non sempre con consapevolezza) da adulti sia la “specializzazione” di quello 22


stesso non verbale che sperimentiamo nei primi mesi di vita; gli studi si rivolgono infatti allo sguardo, al volto, al corpo nell’espressione delle emozioni e nell’interazione con l’altro proprio come quelli dell’infant research. E in qualche modo, anche qui, ci sembra di tornare al bambino per capirne di più! Dopo aver trattato brevemente il come della comunicazione silenziosa, vediamo il quando e perché, partendo da alcune domande. Esistono dei canali sensoriali e dei comportamenti attraverso i quali passa la comunicazione silenziosa, ma quando e perché l’attiviamo ? Nell’esempio precedente, l’incontro con un conoscente, cosa ci porta ad attuare dei comportamenti e non a pronunciare il ciao? Ed in una situazione diversa con un arco temporale più ampio, o magari in terapia, cosa ci porta a praticare il silenzio per comunicare? Possiamo avanzare delle ipotesi; quello che sentiamo di poter dire è che il silenzio ci appartiene, fa parte, come si è visto, della regolazione della relazione ed entra in gioco in questo ruolo nel processo di comunicazione. La scelta, il bisogno, il vincolo, ecc. stanno nella pratica del silenzio tanto quanto in quella della parola. Bisogna allora entrare nella relazione per osservare il quando e cercare nella propria storia per capire il perché. Ed in terapia si fa proprio questo, si entra nella relazione e si cerca nella propria storia. Proponendoci di affrontare la questione silenzio/attaccamento/comunicazione in un altro capitolo, ora, per dare l’unica risposta che sentiamo di poter dare sul quando ed il perché del silenzio, citiamo le parole di Papousek e collaboratori (1986) su comunicazione e attaccamento: comunicare è sia una motivazione che una capacità funzionale di grande forza nella formazione dell’attaccamento nel periodo preverbale dell’infanzia, e anche successivamente. Parafrasando possiamo allora dire: silenzio e parola, nella comunicazione, sono sia una motivazione che una capacità funzionale di grande forza nella formazione e nel mantenimento della relazione; per rispondere ad un quando o ad un perché del silenzio nella relazione bisogna guardare a questi due aspetti. Proprio pensando a tali aspetti del silenzio, la motivazione e la capacità funzionale, ne riportiamo qui di seguito solo alcuni esempi. Silenzio come:

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scelta vincolo fisiologico/disturbo relazionale-comunicazionale atto d’amore trauma spazio di riflessione spazio d’ascolto regressione linguaggio del bambino vincolo psicologico (non so parlare, non voglio, non posso) cultura mafiosa dell’omertà cultura della meditazione assenza presenza bisogno possibilità

Potremmo continuare, ma preferiamo che il nostro silenzio lasci spazio alla vostra immaginazione, alle vostre parole o al vostro silenzio.

Ricapitolando: • abbiamo rintracciato le ‘origini’ del silenzio e mostrato in che modo nasciamo predisposti alla comunicazione, verbale e non, silenziosa e non. La comunicazione rappresenta un processo continuo che, sin dalla nascita, fa uso di tutte le modalità sensoriali: non solo il canale audio-acustico, ma anche un canale cinesico-visivo, olfattivo e tattile; • solo e semplicemente per scelta, abbiamo evitato di sottolineare l’influenza che la cultura ha sul processo di comunicazione, pur nella consapevolezza dell’importanza di questo fattore; • abbiamo cercato di mostrare l’importanza del fatto che ogni comunicazione passi attraverso un contatto ed un gesto d’amore, in un continuo scambio con l’altro; abbiamo visto come tutto ciò possa avvenire sia attraverso il silenzio che attraverso la parola.

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SCHEDA 1 Domande e considerazioni possibili: • Sto considerando il silenzio del cliente come una forma di comunicazione? • Che senso ha per il cliente il silenzio? Come è abituato ad usarlo nel contesto da cui proviene? • Sto ascoltando ciò che il mio cliente dice e sto osservando cosa fa, senza focalizzarmi solo su ciò che egli non dice? • Sto incontrando il paziente nel suo personale silenzio? • Mi sto interrogando sul modo in cui io stesso sto usando il silenzio nei riguardi del paziente? A volte è necessario chiedersi se si sta utilizzando il silenzio come strumento tecnico e forma di comunicazione, o se ci si sta barricando dietro di esso per evitare di comunicare al paziente sentimenti che mettono in difficoltà (amore, odio, noia, ecc.).

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Altri libri della collana

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NELLA STESSA COLLANA

Benson J., Gruppi. Organizzazione e conduzione per lo sviluppo personale e la psicoterapia, 20001, pp. 272 Beutler L.E. - Harwood T.M., Psicoterapia prescrittiva elettiva. La scelta del trattamento sistematico fondata sull’evidenza, 2002, pp. 224 Bozarth J.D., La terapia centrata sulla persona. Un paradigma rivoluzionario, 2001, pp. 240 Campanella V. - Fiori M. - Santoriello D., Disturbi mentali gravi. Modelli d’intervento pluralistico integrato dall’autismo alle psicosi, 2003, pp. 272 Chambon O. - Marie-Cardine M., Le basi della psicoterapia eclettica e integrata, 2002, pp. 288 Clarkson P., Gestalt - Counseling, 1999 II ediz., pp. 192 Clarkson P., La Relazione Psicoterapeutica integrata, 1996, pp. 392 Delisle G., I disturbi della personalità, 20001, pp. 224 Feltham C. - Dryden W. (a cura di E. Giusti), Dizionario di counseling, 1995, pp. 320 Fontana D., Stress Counseling. Come gestire gli stati personali di tensione, 1996, pp. 160 Frisch M.B., Psicoterapia integrata della qualità della vita, 2001, pp. 352 Giannella E., Palumbo M., Vigliar G., Mediazione familiare e affido condiviso. Come separarsi insieme, 2007, pp. 240 Giusti E. - Calzone T., Promozione e visibilità clinica. Motivare i pazienti ai trattamenti psicologici, 2006, pp. 288 Giusti E. - Carolei F., Terapie transpersonali. L’integrazione della spiritualità e della meditazione nei trattamenti pluralistici, 2005, pp. 336 Giusti E. - Chiacchio A., Ossessioni e compulsioni. Valutazione e trattamento della Psicoterapia Pluralistica Integrata, 2002, pp. 176 Giusti E. - Ciotta A., Metafore nella relazione d’aiuto e nei settori formativi, 2005, pp. 256 Giusti E. - Corte B., La terapia del per-dono, 2008, pp. 304 Giusti E. - Di Fazio T., Psicoterapia integrata dello stress. Il burn-out professionale, 2005, pp. 256 Giusti E. - Di Francesco G., L’autoerotismo. L’alba del piacere sessuale: dall’identità verso la relazione, 2006, pp. 208 Giusti E. - Di Nardo G., Silenzio e solitudine. L’integrazione della quiete nel trattamento terapeutico, 2006, pp. 240 Giusti E. - Frandina M., Terapia della gelosia e dell’invidia. Trattamenti psicologici integrati, 2007, pp. 224 Giusti E. - Fusco L., Uomini. Psicologia e psicoterapia della maschilità, 2002, pp. 464

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Nella stessa collana Giusti E. - Germano F., Etica del con-tatto fisico in psicoterapia e nel counseling, 2003, pp. 160 Giusti E. - Germano F., Terapia della rabbia. Capire e trattare emozioni violente d’ira, collera e furia, 2003, pp. 224 Giusti E. - Giordani B. Il formatore di successo, 2002, pp. 224 Giusti E. - Harman R. (a cura di), La psicoterapia della Gestalt, 1996, pp. 224 Giusti E. - La Fata S., Quando il mio terapeuta è un cane, 2004, pp. 448 Giusti E. - Lazzari A., Psicoterapia Interpersonale Integrata, 2003, pp. 160 Giusti E. - Lazzari A., Narrazione e autosvelamento nella clinica. La rivelazione del Sé reciproco nella relazione di sostegno, 2005, pp. 160 Giusti E. - Locatelli M., L’empatia integrata, 2007 (Nuova edizione), pp. 320 Giusti E. - Mancinelli L., Il counseling domiciliare, 2008, pp. 160 Giusti E. - Minonne G., L’interpretazione dei significati nelle varie fasi evolutive dei trattamenti psicologici, 2004, pp. 396 Giusti E. - Minonne G., Ricerca scientifica e tesi di specializzazione in psicoterapia, 2005, pp. 368 Giusti E. - Montanari C., Trattamenti psicologici in emergenza con EMDR per profughi, rifugiati e vittime di traumi, 2000, pp. 192 Giusti E. - Montanari C., La CoPsicoterapia. Due è meglio e più di uno in efficacia ed efficienza, 2005, pp. 320 Giusti E. - Nardini M.C., Gruppi pluralistici. Guida transteorica alle terapie collettive integrate, 2004, pp. 304 Giusti E. - Ornelli C., Role play. Teoria e pratica nella Clinica e nella Formazione, 1999, pp. 144 Giusti E. - Palomba M., L’attività psicoterapeutica. Etica ed estetica promozionale del libero professionista, 1993, pp. 128 Giusti E. - Perfetti E., Ricerche sulla felicità. Come accrescere il benEssere psicologico per una vita più soddisfacente, 2004, pp. 192 Giusti E. - Pitrone A., Essere insieme. Terapia integrata della coppia amorosa, 2004, pp. 240 Giusti E. - Pizzo M., La selezione professionale. Intervista e valutazione delle risorse umane con il modello pluralistico integrato, 2003, pp. 208 Giusti E. - Proietti M.C., La delega direzionale, 1996, pp. 112 Giusti E. - Proietti M.C., Qualità e formazione. Manuale per operatori sanitari e psicosociali, 1999, pp. 184 Giusti E. - Rapanà L., Narcisismo. Valutazione pluralistica e trattamento clinico integrato del Disturbo Narcisistico di Personalità, 2002, pp. 176 Giusti E. - Romero R., L’accoglienza. I primi momenti di una relazione psicoterapeutica, 2005, pp. 176 Giusti E. - Sica A., L’epilogo della cura terapeutica. I colloqui conclusivi dei trattamenti psicologici, 2005, pp. 160 Giusti E. - Surdo V., Affezione da Alzheimer. Il trattamento psicologico complementare per le demenze, 2004, pp. 144 Giusti E. - Taranto R., Super Coaching tra Counseling e Mentoring, 2004, pp. 352

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Nella stessa collana Giusti E. - Testi A., L’Autostima. Vincere quasi sempre con le 3 A, 2006, pp. 224 Giusti E. - Testi A., L’Assertività. Vincere quasi sempre con le 3 A, 2006, pp. 224 Giusti E. - Testi A., L’Autoefficacia. Vincere quasi sempre con le 3 A, 2006, pp. 96 Giusti E., Essere in divenendo. Integrazione pluralistica dell’identità del Sé, 2001, pp. 144 Giusti E., Autostima, psicologia della sicurezza in Sé, 20055, pp. 200 Giusti E., Videoterapia. Un ausilio al Counseling e alle Arti-Terapie, 1999, pp. 176 Giusti E., Tecniche immaginative. Il teatro interiore nelle relazioni d’aiuto, 2007, pp. 272 Gold J.R., Concetti chiave in psicoterapia integrata, 2000, pp. 268 Goldfried M.R., Dalla terapia cognitivo-comportamentale all’integrazione delle psicoterapie, 2000, pp. 288 Greenberg L.S. (et al.), Manuale di psicoterapia esperienziale integrata, 2000, pp. 576 Greenberg L.S. - Paivio S.C., Lavorare con le emozioni in psicoterapia integrata, 2000, pp. 368 Manucci C. - Di Matteo L., Come gestire un caso clinico, 2004 Murgatroyd S., Il Counseling nella relazione d’aiuto, 20001, pp. 192 Perls F., Qui & ora. Psicoterapia autobiografica, 1991, pp. 256 Persons J.B. - Davidson J. - Tompkins M.A., Depressione. Terapia cognitivo-comportamentale. Componenti essenziali, 2002, pp. 288 Preston J., Psicoterapia breve integrata, 2001, pp. 256 Reddy M., Il Counseling aziendale. Il Manager come Counselor, 1994, pp. 176 Santostefano S., Psicoterapia integrata. Per bambini e adolescenti. Vol. I: “Metateoria pluralistica”, 2002, pp. 400 Santostefano S., Psicoterapia integrata. Per bambini e adolescenti. Vol. II: “Tecnologia applicativa”, 2003, pp. 384 Spalletta E. - Quaranta C., Counseling scolastico integrato, 2002, pp. 352

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Nella stessa collana

EDIZIONE SOVERA STRUMENTI Elliott R. - Watson J.C. - Goldman R.N. - Greenberg L.S., Apprendere la terapia focalizzata sulle emozioni. L’approccio esperienziale orientato al processo per il cambiamento, in corso di stampa, pp. 368 Giusti E., Montanari C., Iannazzo A., Psicodiagnosi integrata. Valutazione transitiva e progressiva del processo qualitativo e degli esiti nella psicoterapia pluralistica fondata sull’evidenza obiettiva, 2006, pp. 580 Giusti E., Bonessi A., Garda V., Salute e malattia psicosomatica. Significato, diagnosi e cura, 2006, pp. 240 Giusti E., Germano F.., Psicoterapeuti generalisti. Competenze essenziali di base: dall’adeguatezza verso l’eccellenza, 2006, pp. 256 Giusti E., Pacifico M., Staffa T., L’intelligenza multidimensionale per le psicoterapie innovative, 2007, pp. 400 Giusti E. - Tridici D., Smoking. Basta davvero, 2009, pp. 224 Goodheart C.D. - Kazdin A.E. - Sternberg R.J., Psicoterapia a prova di evidenza. Dove la pratica e la ricerca si incontrano, in corso di stampa Norcross J.C., Beutler L.E., Levant R.F., Salute mentale: trattamenti basati sull’evidenza. Dibattiti e dialoghi sulle questioni fondamentali, 2006, pp. 464 Spalletta E., Germano F., MicroCounseling e MicroCoaching. Manuale operativo di strategie brevi per la motivazione al cambiamento, 2006, pp. 480 Wolfe B.E., Trattamenti integrati per disturbi d’ansia. La cura del Sé ferito, 2007, pp. 304

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