Artintime n.4 - Aprile

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ART

IN TIME n.4 - Aprile 2014

ARTE | CINEMA | MUSICA | TEATRO | LETTERATURA | INTERVISTE | EVENTI | LONDON NEWS


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ARTINTIME L’EDITORIALE Capita, parlando a braccio davanti a un microfono, di fare strani cocktail linguistici senza nemmeno accorgersene, ma che poi, in chi ci ascolta, attivano interpretazioni e prospettive inaspettate, spesso molto distanti da ciò che in realtà avevamo in mente di dire. Ci è successo di recente definendo Artintime un progetto “giovanile”. Una parola all’“apparenza” (altro termine coinvolto nella vicenda, non sottovalutatelo!) innocente, ma che ha aperto un imprevisto spazio di critica nei confronti di ciò che ci proponiamo di fare, e di essere. Artintime si pone infatti al suo pubblico come un progetto giovane, fresco, ben fatto, completo, supportato da competenze solide che non lesinano su critica costruttiva e qualità, concetti sui quali vorremmo da sempre fondare la nostra differenza rispetto alla concorrenza, e il nostro punto di forza. Da una parte siamo giovani e ci dedichiamo agli esordienti, con tutte le sfere di significato che questo implica, come l’entusiasmo, la voglia di fare, la leggerezza e freschezza legate forse a un po’ di ingenuità e alla forza dei sogni che l’età alimenta. Ma dall’altra parte, pur restando tali, siamo un team maturo e consapevole delle proprie azioni e scelte, e in questa direzione lavoriamo, cercando sempre di proporvi il meglio. Dov’è allora che “giovanile” risulta un aggettivo compromettente, e attira critiche? Il dizionario online Garzanti spiega che “giovanile” significa “della giovinezza, fatto da e per i giovani”, ma poi aggiunge un altro significato: “che, nonostante, l’età, sembra ancora quello di un giovane”. Un’aggiunta semantica che porta con sé il bagaglio dell’apparenza e del sembrare, e così quello dell’inganno, del trucco, di una superficie dall’aspetto giovane che nasconde un interno vecchio. Paradossalmente, il nostro pubblico è stato toccato negativamente da questa accezione di un aggettivo che voleva riferirsi solamente alla sfera della freschezza e dell’entusiasmo. Se anche abbiamo usato un termine ambivalente ci piacerebbe chiarire, con l’aiuto questa volta del dizionario Treccani online, che “giovanile” si riferisce ed è caratteristica dei giovani, della giovane età. Ed è un significato che solo in contesti specifici diventa schiavo delle apparenze: “che appare giovane nel fisico o nello spirito, con riferimento a persona già anziana, o comunque non più tanto giovane”. Se il riferimento all’anzianità ci scredita un po’, facendoci “apparire” come una costruzione ingannevole e forse amaramente triste (ricordate la “vecchia imbellettata” Pirandelliana de “L’umorismo”?), ed è oltretutto lontano dalle nostre intenzioni, è però anche vero che il voler sembrare giovani fa parte dei nostri propositi, ma è un’apparenza di superficie supportata da un lavoro tutt’altro che ingannevole (e vecchio)! Il nostro è un lavoro autenticamente giovane e per i giovani, ma che vuole essere anche adulto, maturo, consapevole, senza che questo possa nuocere a un’immagine che si promuove come emergente ed entusiasta. E poi, la voglia di fare e appassionarsi sono prerogativa esclusiva di chi è giovane e senza esperienza, destinato a essere fagocitato dal mercato, dalle altre voci, dall’avanzare degli “altri”? Forse sì, ma abolendo il cinismo dal nostro orizzonte vogliamo pensare che sia necessario - e sufficiente - restare noi stessi e lasciare spazio alle nostre competenze, fatiche, sogni, amicizie. Artintime funziona così, ed è andato a controllare i significati della parola “giovanile” per capire dov’era l’inganno, l’intoppo, prenderne coscienza e ricalcolare la rotta. Perché mai come in questo caso, per un progetto a stampo giornalistico-editoriale le parole si fanno vive, e importanti. A questa riflessione sull’aggettivo “giovanile”, sul nostro profilo, sulle idee della nostra redazione e il target dei nostri lettori dedichiamo allora con convinzione la frizzante copertina di aprile, che apre le porte a un numero pieno zeppo di belle cose. La simpaticissima nonnina in vespa, che sbeffeggia ogni tipo di giovanilismo strappandoci un sorriso complice, è opera, come di consueto per questo 2014, di una matita d’arte: Bice Gadda, alias Bina, artista svizzera diplomata allo IED di Milano. Con le belle giornate in arrivo e le tante, tantissime mostre ed eventi in partenza per la bella stagione, non vi resta allora che montare in sella e dare gas: iniziate a esplorare il mondo dalle nostre pagine, e buon viaggio sia! Alessandra Chiappori

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ARTINTIME SOMMARIO 6 .BANDA FRATELLI by Angelica Magliocchetti

8 . I SEGRETI DI OSAGE COUNTY by Francesca Cerutti

10 . PAO by SQUARE 23

12 . TRA GENIO E APPARENTE DESTINO PERFETTO by Alessandra Chiappori

14 . INTERVISTANDO : ZIBBA E ALMALIBRE by Alessandra Chiappori e Angelica Magliocchetti

18 . STACCHI E STRAPPI IN MOSTRA A RAVENNA: L’INCANTO DELL’AFFRESCO by Roberta Colasanto

20 . DALLE MARCHE ALL’EUROPA PER LA NUOVA SCENA DEL CONTEMPORANEO by Barbara Mastria

22 . INTERVISTANDO : CRISTIANO CARRIERO by Francesca Cerutti

26 . THE TROUBLE NOTES by Angelica Magliocchetti

28 . STEFANO PERRONE by Spazio San Giorgio

30 . IL ROMANZO DEL DRAMMA UMANO by Alessandra Chiappori

32 . FALLIN’ FLOYD by Francesca Cerutti

34 . EVENTS by Anna Moschietto

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ARTINTIME music@artintime.it

BANDA FRATELLI Il sound vagamente retrò e una valanga di storie da raccontare, se possibile, con ironia. Questa la firma d’autore della Banda Fratelli, quartetto di Cuneo che non potrà che stupirvi. Andrea Bertolotti (chitarra e voce), Matteo Bonavia (basso) e Carlo Banchio (cajon), (a cui solo in seguito si aggiungerà Enrico Gallo alle tastiere) danno il via alla loro avventura musicale nell’estate del 2006; strumenti in spalla cominciano una gavetta che li porterà tre anni dopo a produrre il loro primo EP “Caramelle & Rock’n’roll (nel salotto della zia)”. Questa prima prova viene notata fin da subito anche dal circuito mediatico, portando i singoli “Topolino” e “La mostarda ci godeva” nelle trasmissioni di Radio Uno Rai e su Radio 105. È il 2011 quando esce il loro album di debutto “Buongiorno, disse il metronotte”, prodotto nel TR Recording Studios di Manta da Luca “Tex” Testolin e nel Transeuropa Studio di Torino da Fabrizio “Cit” Chiapello. Conquistate anche Radio Deejay e Radio Due, la formazione piemontese viene inserita a pieno titolo nel roster nazionale Arci Real, contenente alcune tra le più interessanti proposte emergenti italiane. Il vero habitat, però, della Banda Fratelli resta il palco; pro-

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dotto questo primo lavoro, infatti, la band si trova a esibirsi live in giro per tutto il Paese suonando spesso a fianco di nomi importanti come Giuliano Palma & The Bluebeaters, gli Africa Unite, i Perturbazione, i Meganoidi, Mr. T-Bone & The Young Lions e molti altri. Nel 2013 inizia, sempre presso il Transeuropa Studio, la registrazione del nuovo album, uscito a marzo 2014: “L’amore è un frigo pieno”. Già dal primo ascolto si nota come le numerose esperienze live abbiano giovato alla band, che ci consegna un lavoro conciso, fresco e diretto; nelle otto tracce c’è tutta la genuinità di un’esibizione dal vivo. E le storie, tante tantissime storie, della vita quotidiana, banale, ma unica. Una serie di piccoli frammenti di vita e numerosi personaggi originali, delineati in pochi semplici dettagli. “Quello che è venuto fuori è il meglio della nostra produzione, che cristallizza la Banda Fratelli del 2014 in una foto che non poteva essere più fedele.” queste le parole della band, e questa, davvero, la sensazione che trasmette l’album. Una sequenza di brani scelti con cura, realizzati con immediatezza e accuratezza. Si trova quindi l’amore che rende allo stesso tempo

affamati e sazi, “L’amore è un frigo pieno” appunto, che ci regala ne “Il piatto forte del menù” delle citazioni tra il colto e il beffardo, sempre in bilico tra la risata e l’intelligenza: “E mi è dolce naufragare in quest’amaro/ al sapore di caffè”. Ma non è finita, in questa carrellata che ci conduce per mano nella bellezza e bruttezza della vita, incappiamo nel carcerato che scappa dalla prigione, malinconica e grigia, per poter fare un pupazzo di neve con la sua amata (“Aspettami alzata”), o inciampiamo in quel che resta di un amore, in questo caso un fazzoletto con un sorriso, “due lacrime e qualche goccia di Chanel” (“Gocce di Chanel”), per finire a scoprire di esser, non si sa come, finiti “dalla parte sbagliata del muro” e di dover fuggire, magari legati a un mazzo di palloncini colorati (“In bocca al lupo, Margherita!”). Un universo intero, insomma, quello racchiuso nel nuovo album della Banda Fratelli. Per ora quindi, mentre il tour della band prende il via e alle radio potete sentir passare il singolo “La rivoluzione sessuale”, non vi resta che scoprirli (e chissà, scoprirvi) traccia dopo traccia! Enjoy!

Angelica Magliocchetti


MUSIC

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ARTINTIME movies@artintime.it

I SEGRETI DI OSAGE COUNTY Un dramma di famiglia, ecco la definizione giusta de “I segreti di Osage County”, diretto da un esordiente sui generis: John Welles. Noto per essere principalmente un produttore hollywoodiano, John Welles non inaugura la sua carriera registica con “I segreti di Osage County”: il vero esordio avviene nel 2010 con “The Company Men”. “I segreti di Osage County” è il secondo passo nel ruolo di regista di un uomo nato nel 1956. Esordire da adulti è quindi chiaramente possibile e lo è ancora di più quando si fa parte del magico mondo hollywoodiano e se si è noti per aver prodotto serie tv come “ER-Medici in prima linea”. John Welles gioca bene le sue carte di produttore, presentandosi sul grande schermo con un cast di grandi nomi e premi Oscar, come Julia Roberts e Meryl Streep, scegliendo di trasformare in film un’opera teatrale di un premio Pulitzter: “August: Osage County” di Tracy Letts. La storia raccontata in “I segreti di Osage County” è quella di una madre alquanto singolare, Violet Weston (Meryl Streep), che dopo l’ennesima fuga del marito, Beverly Weston (Sam Shepard) terminata con un suicidio, si ritrova a stretto contatto con le figlie: Ivy (Ju-

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lianne Nicholson), quella che vede più spesso perché abita vicino a lei, la figlia “di mezzo”, Caren (Juliette Lewis) e la maggiore, Barbara (Julia Roberts). In questo palcoscenico che è la casa dei Weston, si narra la storia di una donna malata di cancro, e dalla psciche fragile, una donna che vive l’avanzare dell’età verso la vecchiaia come qualcosa di opprimente e aberrante per il sesso femminile, e che sopravvive grazie alle pasticche che la portano a non avere inibizioni e a pronunciarsi liberamente su qualsiasi argomento. Si permette di comandare le figlie, chiaramente ribelli e ormai intenzionate a lasciarla sola per costruirsi una propria vita altrove. Sono numerosi i nodi che vengono slegati, le verità nascoste che la famiglia scopre attorno al tavolo, appena dopo il funerale di Beverly. Il passato riemerge come un vento letale che distrugge i legami e ferisce profondamente i personaggi. Il rapporto tra Violet e Barbara è complesso: Barbara non accetta il comportamento della madre, prende il ruolo del padre e cerca di tenerla lontano dalle pillole, svuota ogni angolo della casa, accusa il medico di avergliene prescritte troppe. I suoi modi sono burberi, è un personaggio poco in linea con quelli solitamente

interpretati dalla “Fidanzatina d’america”, Julia Roberts, la quale dimostra una grande abilità attoriale nel dare vita e volto a Barbara. Nella famiglia Weston, prendendo anche in considerazione il fidanzato di Caren, il defunto Beverly e la famiglia della sorella di Violet, è difficile trovare un personaggio che sia completamente positivo. La stessa Jean, la figlia di Barbara è una quattordicenne scontrosa, che si concede alle avance del fidanzato ultra quarantenne della zia. A riscattare questa serie di personaggi infernali c’è il personaggio di Johnna Monevata (Misty Upham) che è la domestica assunta da Beverly prima di morire. Il film comincia proprio con il colloquio di assunzione di questa donna, che ascolta attentamente tutte le richieste di Beverly, come in un passaggio di consegne: Beverly sa che vuole suicidarsi, ma per amore verso la moglie cerca qualcuno in grado di sostituirlo. È cosciente dei pessimi rapporti che intercorrono tra Violet e le figlie, sa che non accorreranno mai in soccorso di una madre degenere e fondamentalmente drogata. Violet non accetta Johnna eppure non fa niente per licenziarla, accetta quell’imposizione del marito, di quella donna nativa americana, indiana. Johnna nel


MOVIES

suo ruolo di cameriera rassetta la casa e cucina per tutta la famiglia e salva la giovane Jean dalle avance dello zio. Sembra quasi un angelo in mezzo a questo branco di diavoli scatenati, troppo intenti a coltivare i propri interessi, troppo concentrati su se stessi per accorgersi di quello che sta accadendo intorno a loro. Un angelo autoctono, realmente americano, più civile dei bianchi che sembrano essere i veri barbari dell’intera vicenda. I segreti di Osage County è un film denso di dialoghi, di scene di forte violenza verbale e anche fisica che colpiscono lo spettatore e lo collocano in una posizione di profondo distacco nei confronti dei personaggi. La maggior parte delle scene si svolge al chiuso, all’esterno il caldo tremendo del mese di agosto non permette ai personaggi di poter trascorrere

qualche ora in giardino e all’aperto. Le sorelle Weston quando si ritrovano per parlare della madre si siedono in un gazebo chiuso di fronte alla casa, come se fosse una fredda serata d’autunno. Non c’è spazio per i luoghi aperti e per il mondo, Violet ha fatto incollare le tende alle finestre, ama il buio, vive nel buio, si confida con le figlie al buio e per la prima volta all’aperto, ma quando esce di casa di giorno indossa degli occhiali da diva e una parrucca. I suoi capelli sono corti e grigi, stanno ricrescendo dopo le cure per il tumore in bocca, ma lei non può accettarli. È la donna delle maschere, della finzione, è difficile comprendere con quale tono esprima le sue posizioni: dice quello che pensa e non si pone il problema se le sue parole saranno affilate come lame e quindi faranno del male alle

persone che l’ascoltano.“I segreti di Osage County” è un film davvero interessante e il cast scelto da John Wells è sicuramente un valore aggiunto a questa storia già di per sé brillante e ricca di colpi di scena. Impossibile non ricordare che sia Julia Roberts che Meryl Streep hanno ricevuto una nomination agli Oscar per la loro performance, rispettivamente come Migliore attrice non protagonista e Migliore attrice protagonista.

Francesca Cerutti

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ARTINTIME

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STREET-ART popart@artintime.it

PAO Pinguini, polpi, conigli, creature fantastiche, anomale e surreali, invadono le strade trasformando la “materia” in qualcosa di ironico e animato. Nulla è come sembra. Da un grigio paracarro nasce un pinguino, dal palo della luce una margherita, da una pallina da golf un armadillo. Nel mondo di Pao l’oggetto prende vita: l’artista, con la bomboletta spray, utilizza e re-interpreta in maniera creativa ciò che il contesto urbano gli offre. Nato a Milano nel 1977 Pao si forma in teatro come macchinista, fonico e tecnico di palcoscenico per la compagnia di Franca Rame e Dario Fo. Studia e lavora presso i laboratori del Teatro alla Scala di Milano e nel 2000 realizza tra i pri-

mi interventi urbani di street art in Italia intraprendendo una carriera artistica che lo porta ad esporre in spazi pubblici, musei e gallerie private. Nel passaggio dalla tela alla strada usa tecniche e linguaggi diversi: sulla tela dà molta importanza alla forma, indagando percorsi più complessi e discorsi più profondi; in strada dialoga molto con il contesto e attribuisce maggiore importanza al messaggio che vuole comunicare. Attraverso sperimentazioni sui materiali, ricerche prospettiche, distorsioni visive, e utilizzo di geometrie curve, Pao cerca di superare la bidimensionalità della tela e, in parallelo, la tridimensionalità del nostro mondo.

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ARTINTIME books@artintime.it

TRA GENIO E APPARENTE DESTINO PERFETTO Non è una vita facile quella di William, detto Billy, enfant prodige figlio di uno stimato psichiatra ebreo ucraino fuggito negli Stati Uniti ai primi del Novecento. Fin da neonato William viene allevato dai genitori allo scopo di dimostrare quanto le potenzialità della mente umana possano sprigionarsi già dalla più tenera età, e in modi sorprendenti. Ma al lettore sarà molto presto chiaro quanto la genialità del piccolo, che, appena decenne, fagocita manuali di matematica e traduce senza problemi dal latino e dal greco, mista all’ambizione dei genitori, sia un fatto più unico che raro, poco dipendente dall’educazione domestica, quanto da misteriosi fenomeni del cervello umano. E quanto questo dono – ma è poi proprio un dono? - possa creare aberrazioni di immenso dolore. Tratto da e ispirato alla vera storia del piccolo genio William Sidis, conosciuto in tutti gli Stati Uniti per la sua sorprendente precocità e intelligenza, che lo portò a soli dodici anni a tenere una conferenza niente di meno che ad Harvard, per spiegare a un pubblico di eruditi professori la sua personale e fondatissima teoria sulla quarta dimensione, questo romanzo miscela dati reali a finzione letteraria per un risultato appassionante. Il merito non è certo solo quello di far luce su una vicenda poco nota

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al giorno d’oggi, che a ben indagare (basta qualche superficiale click su Wikipedia) rivela che Sidis fu uno dei bambini, poi adulti, più intelligenti d’America, con il quoziente intellettivo tra i più alti mai registrati. Merito della forma romanzo, scelta e gestita con consapevolezza dall’autore, è rendere questa storia ammantata di dati ed eccezionalità da giornalismo di prima pagina una storia semplicemente e potentemente umana. Nelle parole di Brask William prende vita, ci offre il suo sguardo sulle cose e, seppure la sua mente eccezionale lo porti a traguardi e successi fuori misura per la sua età, possiamo scorgere in lui il bambino, ragazzo e adulto autentico, schiavo di un’intelligenza fuori dal comune e di genitori che mai lo hanno trattato nel più banale dei modi: quello riservato a un figlio prima bambino e poi ragazzo, bisognoso di affetti, non di esibizionismi e rivalse. Come è immaginabile, infatti, le doti di William attirano giornalisti, flash e notizie in massa, tanto che presto – troppo presto – il piccolo viene additato come fenomeno, reazione che genera in lui un distacco, un’emarginazione che crescerà, allargando una ferita intera ed esterna, quella di William dalla “normalità” e dal mondo. Niente rapporti con altri bambini, niente gioco, ma compagni di scuola, se così si possono chiamare gli

studenti universitari di dieci anni più grandi di lui che il piccolo è costretto a frequentare, senza condividerne l’età, le abitudini, i pensieri. William non è solo super intelligente ma fondamentalmente buono: scopertosi da ragazzo socialista, coltiva un suo ideale di utopistico pacifismo, per il quale viene deriso e isolato ancora di più. La vita sembra sorridergli quando si innamora di Martha, ma ancora una volta il giogo oppressivo della famiglia e la sua mente troppo avanzata gli impediranno di vivere un percorso regolare, che pure lui sente giusto e vorrebbe con forza. Il destino perfetto pronosticato dai luminari universitari che ruotano intorno alla sua famiglia si sfalda davanti alla ribellione di William verso i genitori, al crollo del sogno socialista e del legame con Martha, alla sua fine, solo e dimenticato, per uno scherzo beffardo del destino che proprio quella sua mente geniale gli tende, quasi a tradimento, nel finale. Tre piani temporali si intrecciano e avvolgono la storia raccontata mano a mano a pezzettini da tre differenti epoche: l’infanzia di William, con la scoperta delle sue doti, la giovinezza, che lo vede impegnato nella battaglia politica al fianco di Martha, e l’età adulta, che ce lo descrive esiliato dal mondo, solo, in un perpetuo cambiare lavori alla ricerca di un anonimato impossibile visti i suoi


BOOKS talenti e il ricorrere del suo nome nelle cronache giornalistiche d’America. È una storia, questa, tragica e delicata al contempo, la storia di una tenerezza mai donata e incompresa, di un’infanzia rubata a discapito di una tensione verso l’alto, il superiore, il perfetto, che infine sfocia in un ripiegamento su una vita immaterialmente costituita di soli potenziali e non di attimi passeggeri che ne sarebbero invece stati ossatura forte e, sì, per una volta, veramente e necessariamente imperfetti, ma mai così volutamente e ostinatamente normali.

A lessandra Chiappori

“Nat, se posso aiutarti in qualche modo...” Sharfman alza la mano per scartare l’idea. “Grazie Billy, devo trovare la mia strada da solo. La strada perfetta per la vita perfetta, ah-ah! Whiteahead non ne sa nulla della vita perfetta, nessuno sa nulla della vita perfetta.” “Non c’è una vita migliore di un’altra”, risponde William. “Devi cercare di scegliere il cammino che tu ritieni più giusto. Così raggiungi una sorta di perfezione nella tua vita. Anche se agli altri non sembrerà tale.” Morten Brask, “La vita perfetta di William Sidis”, Iperborea, 2014

Morten Brask Al suo esordio italiano con la storia di William Sidis, Morten Brask, danese, classe 1970 e una laurea in cinema, è giornalista per alcune famose testate del suo Paese, ma anche autore di saggi e reportage di viaggio che, dopo il suo felice esordio in narrativa, lo hanno reso noto e amato dal pubblico danese: con questo suo primo curioso lavoro arrivato in Italia grazie a Iperborea conquisterà di sicuro anche i lettori dello Stivale.

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ZIBBA E ALMALIBRE:

TRA MUSICA E MAGIA DELLE PAROLE Lo abbiamo visto calcare il palco di Sanremo nella sezione giovani con “Senza di te”, brano intenso e orecchiabile che ha conquistato il podio dei finalisti ma soprattutto l’ambito premio della critica Mia Martini e quello della sala stampa Lucio Dalla. Un successo di pubblico che ha consacrato Zibba e il suo storico gruppo di supporto, gli Almalibre, come una delle novità più interessanti della scena musicale italiana del momento. Anche se, a ben guardare, Zibba non è affatto nuovo al mondo delle sette note. ArtInTime lo ha intervistato per scoprire di più sulla sua carriera, sul suo rapporto con la musica e sul suo nuovo album da poco uscito “Senza pensare all’estate”. Il gruppo Zibba e Almalibre nasce nel 1998: cos’è successo – e cosa è cambiato – da allora? Non è cambiato nulla nonostante sia successo di tutto. Siamo un gruppo di amici che credono nel potere della musica, nella bellezza

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del vivere dei propri sogni. Siamo gli stessi di un tempo con qualche capello bianco e qualche migliaio di chilometri sulla schiena e nelle mani. Tra me e Andrea, l’unico superstite della prima formazione Almalibre, c’è lo stesso bellissimo rapporto di sempre e la stessa voglia di crederci. Goran Bregovic, Africa Unite, Vinicio Capossela, Gino Paoli… Avete calcato i palchi con molti grandi della musica, quali sono state le esperienze più significative per la vostra carriera? Ogni palco, ogni parola, ogni gesto, tutto lascia qualcosa di importante da ricordare. Abbiamo avuto la grande fortuna di poterci permettere di fare questo lavoro, che è il migliore che si possa immaginare. Non sono i grandi palchi a decidere che persona sei. Ci vuole impegno giornaliero e passione. Ogni esperienza ci ha permesso di crescere e ogni volta ci sembra una magia.

Nel 2013 esce “E sottolineo se”, un omaggio a Giorgio Calabrese, paroliere genovese: come nasce questo progetto e cosa rappresenta per voi? Nasce dall’idea di voler omaggiare un autore, categoria della quale faccio parte anche io, e la grande musica Italiana di un tempo. Giorgio è per me un faro, una persona che ha scritto grandi parole e che insieme a Sergio Bardotti e pochi altri grandi autori ha cambiato il modo di scrivere e di ascoltare di intere generazioni. Inoltre fare un omaggio ad un autore in vita è come fargli un regalo e questo volevo fosse per lui. Si fanno sempre tributi ad artisti scomparsi che difficilmente nell’aldilà hanno supporti per ascoltare ciò che gli si dedica... Sanremo 2014: per un gruppo come voi che porta avanti più di 100 concerti l’anno, cos’è stato il Festival e come avete vissuto quel palco? Con grande serenità. Un passaggio


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importante in un anno in cui la direzione artistica ha volto uno sguardo al nostro mondo cantautorale e indipendente e per questo l’anno migliore, per noi, per fare questa esperienza. Ci siamo sentiti a casa, e questo è molto importante. Collaborazioni: se poteste, con chi? E tra i partecipanti a Sanremo 2014, con chi vi trovereste più affini musicalmente per una collaborazione? Vorrei bere un caffè con Tom Waits, mi aiutate? Tra i Sanremesi di quest’anno mi piacerebbe scrivere per Noemi, ha una voce strepitosa e un bellissimo modo di interpretare. Al Festival avete conquistato il Premio Mia Martini e il premio della sala stampa Lucio Dalla: come ci si sente? Come prima ma con due bellissimi

premi luccicanti sulla mensola di casa. Ogni volta che mi viene dato un premio mi chiedo se davvero non si siano sbagliati. Mi sento un privilegiato. Ringrazio enormemente tutto ciò che è entrato in gioco per far si che portassimo a casa questa grande vittoria. Il 19 febbraio è uscito “Senza pensare all’estate” che contiene il brano sanremese e alcuni inediti. Ci raccontate qualcosa di questo album? Un album di fotografie scattate con un sorriso tra le mani e un’emozione appesa alla gola. È quella sensazione che ci accompagna sempre, quella sottile malinconia che sta dietro ad ogni gioia, la voglia di estate nascosta in ogni inverno che lentamente scolpisce le giornate e disegna i sogni. È la storia di

una band che crede nell’amicizia, nell’essere famiglia. La storia di un cantautore. A novembre 2013 esce “Me lo ha detto Frank Zappa”, primo esperimento letterario di Zibba: cosa racconta questo libro? Come convivono musica e parole? Una raccolta di dialoghi surreali. Situazioni improbabili vissute da personaggi altrettanto improbabili. Un esperimento che non ha quasi nulla di poetico e che racconta il lato oscuro, se vogliamo definirlo così, del mio modo di scrivere e quindi di pensare la vita. Tutto ciò che mi dà stimoli positivi lo prendo in considerazione. Non mi faccio troppe domande perché a volte le risposte sono troppo nel profondo e non sempre ho voglia di scavare.

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INTERVISTANDO...

Varazze, Genova, Sanremo: dalla Liguria partite e alla Liguria spesso fate riferimento: cosa rappresenta questa regione per voi e per la vostra musica? È il posto dove siamo nati, dove abbiamo vissuto le nostre esperienze che hanno fatto nascere le nostre canzoni. Forse è un caso che le due più grandi manifestazioni musicali del nostro paese, Tenco e Sanremo, si svolgano nella stessa regione / città / palco? No di certo. Ma di certo la Liguria spesso dimentica gli artisti e la quantità di cultura che si genera e che cresce tra i suoi vicoli. Amiamo questa regione e speriamo cresca culturalmente quanto più possibile perché le nuove generazioni possano avere qualcos’altro

oltre al mare e alla buonissima focaccia calda al mattino. E adesso? Cosa c’è in vista per Zibba e Almalibre? Un tour e un nuovo disco tra un anno. Come sempre. Sappiamo fare questo e questo amiamo fare. Ora sentiamo davvero la voglia di andare ad abbracciare, seppur metaforicamente, tutte quelle persone che negli anni ci hanno sostenuto andando a suonare per loro.

nelle piccole cose quotidiane. Siate buoni amici e figli, siate sereni. Abbiamo spesso troppa paura del giudizio degli altri e non siamo abbastanza severi con noi stessi. Imparare a riconoscere i propri errori è un ottimo punto di partenza perché le cose vadano come sogniamo. Si costruisce, sbagliando, giorno per giorno.

A lessandra Chiappori Angelica Magliocchetti

Cosa consigliereste ai giovani musicisti esordienti? Siate voi stessi. Non inseguite il successo tra frustrazione e delusioni perché non arriverà. Impegnatevi ad aver successo nei vostri giorni,

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STACCHI E STRAPPI IN MOSTRA

A RAVENNA: L’INCANTO DELL’AFFRESCO Tempi di grandi mostre disseminate per tutta la penisola, le cosiddette mostre-evento che muovono grandi masse di visitatori e creano interminabili code all’entrata dei musei. Dopo il successo di “Renoir” a Torino la più celebrata del momento è sicuramente quella che vede protagonista la “Ragazza con l’orecchino di perla” di Vermeer insieme ad altri indiscussi capolavori dell’arte olandese, esposti a Bologna. Non bisogna andare troppo lontano per trovare un’altra importante mostra, questa volta su un tema tutto italiano, in scena al Museo d’Arte della città di Ravenna. “L’incanto dell’affresco”, questo il titolo significativo per una esposizione di più di 100 affreschi distaccati dalle loro sedi originarie a partire dal XVI secolo fino al secondo Novecento. La mostra, la cui preparazione ha richiesto circa tre anni, presenta opere di diverse epoche e artisti: dagli affreschi di Pompei a quelli di Tiepolo, per intenderci. Ma il vero soggetto dell’esposizione è in effetti il procedimento stesso dell’estrazione degli affreschi, con la sua storia e le sue tecniche. Facciamo un passo indietro. Un affresco, a differenza di altre forme d’arte, è sempre pensato da chi lo realizza per restare lì dov’è. In effetti la tecnica dell’affresco si sviluppa nel tempo come una prassi piuttosto articolata: sul muro si stendeva l’intonaco costituito da due strati, uno più grezzo, chiamato arriccio, coperto da uno strato più

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sottile, l’intonachino, sul quale veniva poi stesa la pittura. Sull’intonaco l’artista poteva tracciare un disegno preparatorio (sinopia) realizzato con una terra rossa chiamata terra di Sinope. Quando fu chiaro che le parti di affresco realizzate sull’intonaco ancora umido resistevano nel tempo, mentre i pigmenti delle parti dipinte su intonaco asciutto cadevano lasciando delle lacune, si incominciò a organizzare il lavoro (e quindi lo spazio di muro da affrescare) in “giornate”. Ogni giorno si intonacava e si dipingeva solo una circoscritta porzione di parete, mentre l’intonaco era ancora fresco - a fresco appunto. Ne risultavano opere d’arte divenute tutt’uno con il loro supporto murario, apparentemente inseparabili dagli edifici che decoravano. Tuttavia nei secoli, per motivi nobili –per salvaguardare da disastri naturali e distruzioni belliche- o meno nobili –per assecondare spregiudicate brame collezionistiche- si misero a punto anche le tecniche per estrarre gli affreschi dai loro siti originari. Queste si riassumono nel numero di tre: distaccare l’affresco con un pezzo di muro (l’antica tecnica del massello), asportare la pellicola pittorica con il suo intonachino (lo stacco) o asportare esclusivamente lo strato pittorico (strappo). Quest’ultima tecnica, la più recente, è particolarmente rischiosa: strappare un affresco vuol dire in poche parole sovrapporre alla parete dipinta una tela impregnata di un

collante reversibile e poi tirare via la pittura, con il rischio di indebolire lo strato pittorico. Per non parlare della pratica illecita di eseguire più strappi di uno stesso affresco per ricavare diversi esemplari da poter immettere sul mercato antiquario. Dal secondo dopoguerra agli anni Settanta l’Italia visse una vera e propria “stagione degli stacchi”. Lo spettro delle distruzioni della guerra, le calamità (terremoti e alluvioni) convinsero studiosi e Soprintendenze che staccare affreschi per conservarli nei musei fosse l’unica misura per garantirne la sopravvivenza. Il ritrovamento delle sinopie sottostanti divenne un ulteriore incentivo allo stacco: al di sotto del grande pittore si voleva scoprire il grande disegnatore. A lungo andare i limiti di questa operazione divennero palesi: magazzini stracolmi di opere staccate per mancanza di spazi espositivi, opere decontestualizzate, private del loro significato originario. La pratica estrattista è considerata oggi come ultima spiaggia per la conservazione di un affresco. Pur nella sua parabola, quella degli affreschi staccati rimane una storia avvincente di salvataggi, furti, scoperte, ma soprattutto una storia vera e forse un po’ dimenticata, ripercorsa nuovamente da questa mostra bella e istruttiva. “L’incanto dell’affresco, capolavori strappati da Pompei a Giotto, da Correggio a Tiepolo”, a Ravenna fino al 15 giugno.

Roberta Colasanto


UNCLASSICART

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TEATRO teatro@artintime.it

DALLE MARCHE ALL’EUROPA PER LA NUOVA SCENA DEL CONTEMPORANEO È il titolo che subito affascina: quel “Ci sarò quando muori” trapassa il cuore anche se con la morte hai avuto poco o niente a che fare. Con circospezione ci si avvicina ad Alessandro Sciarroni, per entrare nel circuito del teatro e della danza contemporanea che parte dal Teatro Stabile delle Marche, dove dal 2009 è docente della Scuola di Teatro e apre il varco verso l’Europa. Dal 2007 a oggi Alessandro Sciarroni colleziona premi e collaborazioni in Italia e all’estero, segno che la sua preparazione di coreografo, performer e regista con alle spalle anni di preparazione nell’ambito delle arti visive e della pratica teatrale è solida e importante per tutta la scena contemporanea del nostro Paese. Un percorso affascinante al quale Alessandro Sciarroni sta lavorando è quello sul tempo, indagato sotto diversi punti di vista: in un progetto che ha chiamato “Will you still love me tomorrow?” analizza e riflette sul trascorrere del tempo, relazionandovi sia il performer che lo spettatore. Con Folk-s, Sciarroni studia i fenomeni di danza popolare antica,

sopravvissuti alla contemporaneità. Ispirandosi alla danza folk bavarese e tirolese e ponendo l’accento sui movimenti continui, in cui le mani battono sulle scarpe e sulle gambe, sottolinea l’esistenza di una forma primitiva di pensiero in cui la danza è regola e forma, in assenza di contenuto. Una volta decontestualizzata la danza, i performer si ritrovano a vivere solo quel momento presente in cui i loro gesti si materializzano dinnanzi allo spettatore. È una ripetizione semi infinita, in cui al popolare non rimane che scontrarsi con il contemporaneo lottando per la sopravvivenza, per non morire. In “Untitled” il coreografo ripercorre di nuovo il tema del tempo che scorre attraverso l’uso della giocoleria, dell’incontro tra acrobati e disegni quasi infiniti che quest’arte ricrea. Il lancio degli oggetti evoca la fragilità umana: la possibilità che l’oggetto cada a terra, improvvisamente, è metafora dell’imprevedibilità dell’esistenza. Qualcuno sarà sempre presente a testimoniare una perdita, qualcun’altro, invece, continuerà a vivere. Il performer anche in que-

sto contesto sta nell’oggi, nel contingente contemporaneo, spogliando ciò che è antico dal suo tratto scontato e stereotipato e rimodellandolo per l’uomo di oggi. Sciarroni non dimentica la dimensione mistica dell’uomo: è consapevole della sua solitudine e lo mette in rapporto con l’anima e con l’essenza del proprio essere. In Joseph - quell’uomo che ha assunto la paternità del verbo incarnato - un uomo solo è messo in relazione con il sé più profondo. Con le spalle al pubblico e lo sguardo all’orizzonte cerca se stesso, sottraendosi pian piano alla propria solitudine e divenendo emblema della ricerca dell’uomo di ogni angolo del pianeta.“Ci sarò quando muori e ti amerò ancora domani”.

Barbara Mastria

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CRISTIANO CARRIERO :

TRA ROMANZI E SOCIAL NETWORK Cristiano Carriero è autore del libro “Domani No” (Gelsorosso, 2013), ma chiamarlo scrittore è troppo riduttivo. Noi lo abbiamo incontrato per qualche chiacchiera sul suo libro, sulla Puglia, sua regione nativa, e soprattutto sulle nuove forme di comunicazione, scrittura e lettura inaugurate dai social networks. Boavida, il protagonista di “Domani no”, è un personaggio molto interessante: è un musicista, fa anche il critico musicale, un uomo, potremmo dire, che ha la “fortuna” di nascere due volte. A chi ti sei ispirato per creare questo personaggio? Per scrivere la vicenda di Boavida mi sono ispirato a Caparezza e a Fabri Fibra: un pugliese e un marchigiano. Rispettivamente la regione dove sono nato e quella dove vivo. Ho scelto questi due personaggi

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perché entrambi dopo aver provato a fare i cantanti sono stati massacrati, sono andati a fare altri lavori come lo speaker in radio o il grafico pubblicitario e sono tornati con una nuova identità, più forte, perché era quella più vicina a loro. Ammetto che la loro storia mi affascina molto di più di quella di chi ha trovato un percorso in discesa. La storia di Boavida è quella di un ragazzo che cerca di inseguire il proprio sogno: non vogliamo svelare se riesca o meno, vorremmo invece domandarti: è ancora possibile oggi nel 2014 per noi giovani realizzare i nostri sogni? Ma soprattutto c’è ancora chi ha il coraggio di sognare oggi? Il coraggio di sognare c’è sempre e soprattutto sognare è gratis! Trovo sia molto più difficile inseguire

un obiettivo, Boavida rincorre un obiettivo, non credendo davvero mai nei propri mezzi, nelle proprie capacità. Questo è il vero problema suo e di molti di noi: non siamo coscienti dei nostri mezzi, spesso nemmeno dei nostri limiti. Il tuo libro, “Domani No”, è stato spesso definito un libro con colonna sonora. Come è nata questa transmedialità? Ho un’idea che sto cercando di approfondire: la gente non legge più. Compra libri, ma non li legge. Inizia a parlare un altro linguaggio e allora ho cercato di sperimentare: mischiare parole, musica, utilizzare i social, fare networking. “Domani no” è un progetto transmediale a tutti gli effetti. E credo che i frutti si vedranno a medio lungo termine. “Domani No” è uscito nel 2013


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ed è stato presentato al Salone del libro di Torino. A un anno di distanza, come ti ha cambiato questa esperienza? Cosa rimarrà dentro di te di questo anno? Purtroppo non è stato un bel periodo per me quello del Salone, per vicende personali. Non mi sono goduto la festa e sarebbe bello, e credo meritato, tornarci quest’anno. Il libro è cresciuto, inizia a essere conosciuto non solo in Puglia e nelle Marche, e ha ricevuto anche delle referenze importanti. Ammetto che abituati come siamo oggi al mordi e fuggi, al tutto e subito, non credevo fosse un processo così lungo. Oggi però sono sicuro di poter dire che il meglio deve ancora venire. Cristiano Carriero non è solo uno scrittore, ma anche un copywriter, storyteller, un esperto di social writing. Il

mondo dei social ha avuto un ruolo fondamentale per farti raggiungere Torino e quindi il Salone del libro per presentare “Domani no”. I tuoi fan ti hanno fatto guadagnare dei chilometri condividendo un tuo stato su Twitter e Facebook. Cosa pensi di queste nuove e, per alcuni, diaboliche forme di comunicazione? Credo sia lampante: queste nuove forme di comunicazione sono necessarie. Soprattutto non sono gratis, hanno un costo. Mi spiego: la viralità ha un costo in termini di tempo, energie e poi ci sono i costi veri, quelli che paghi con i soldi. Un video per fare una campagna costa, questo lo dico proprio per chiarire che non è vero, come dice qualcuno, che una campagna social è gratis, cosa che molti credono. Allo stesso tempo permette però alle persone

vere di parlare ad altre persone, in luoghi distanti. A me piace parlare con le persone che leggono il mio libro, glielo devo. Sono lieto di parlare con loro a tutte le ore, adoro confrontarmi con i miei lettori è proprio per questo che amo i social network. Riflettendo sempre sui social, secondo te potrebbero aiutare il mondo della letteratura, dei romanzi come valore aggiunto oppure rischiano soltanto di impoverire il livello culturale delle persone? Con moderazione aiutano. Un libro è senza ombra di dubbio un’altra cosa. I cenacoli letterari sono più belli dal vivo e sono certo che la letteratura non ha bisogno dei social, ha semplicemente bisogno dei libri, prima di tutto che siano letti questi libri. Come trovare il

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tempo per farlo? Semplice, bisogna avere il coraggio di spegnere i social, altrimenti tempo per leggere non ce ne sarà mai. Tornando al tuo libro: “Domani No” è stato pubblicato dalla casa editrice pugliese Gelsorosso. La Puglia è una terra meravigliosa, affascinante che si sta rivalutando e riscoprendo molto in questi anni. In un periodo economicamente difficile come questo è fondamentale dare valore alle nostre perle italiane. Cosa ne pensi? Il mio compito non è quello di rivalutare il turismo. La Puglia è bella, non ha bisogno che lo dica Cristiano. Io cerco di raccontarla con i miei occhi evidenziando le cose belle e anche quelle brutte. E chi viene in Puglia deve sapere che non c’è solo una faccia della medaglia. Dobbia-

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mo abituarci a prendere il bello e il brutto delle cose, senza farli diventare valori assoluti. Sta a noi pugliesi lavorare affinché la nostra regione diventi un posto migliore. Oltre ad aver scritto “Domani no” e altri due libri, recentemente è uscito un tuo racconto: “Ma tutto questo Alice non lo sa”. Ci parli di come è nato questo progetto? Questo progetto nasce perché di fatto non so stare fermo. Ho deciso di scrivere dei racconti brevi e di provare l’esperienza del self publishing. Ho pensato ad un marchio ed è venuto fuori Nanitocu, 10 pagine sotto il cuscino; “Ma tutto questo Alice non lo sa” è il primo. Volevo provare a vendere un racconto a meno di un euro, solo in ebook, e la risposta, devo ammettere, è stata positiva. Mi sembra un buon modo per farsi

conoscere e iniziare a prendere confidenza con le piattaforme online come Amazon, Mondadori e Apple Store. L’unico problema riscontrato è che non tutti leggono ebook, in Italia la penetrazione del reader è ancora molto bassa. Ma è sempre un bene muoversi per primi! In futuro sentiremo ancora parlare di Cristiano Carriero scrittore? Quali sono i tuoi sogni e progetti nel cassetto? Quest’anno continuerò con i racconti e scriverò un saggio, niente romanzi. In compenso una grossa casa editrice italiana mi ha chiesto di scrivere un libro su Facebook, ho accettato perché mi piace parlare del mio lavoro e mi affascina l’idea di mutare linguaggio. Mi troverete in libreria verso ottobre, ma per ora non posso dire di più!

Francesca Cerutti


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ARTINTIME music@artintime.it

THE TROUBLE NOTES Vi è mai capitato di esser in giro per città straniere e rimanere folgorati da una melodia che si propaga per tutti gli edifici e riecheggia negli spazi delle piazze? Ebbene questo è quello che è capitato a noi con i “The Trouble Notes”: letteralmente folgorati dal trio di buskers girovaghi sempre alla conquista degli angoli più belli delle città del mondo. IIl loro viaggio insieme comincia nel 2012 a New York, quando il chitarrista B-zy Brain assiste durante una festa ad un’esibizione del violinista Bennet Cerven, a cui d’istinto, spontaneamente, decide di unirsi dando vita ad una vera e propria jam session. A loro,si aggiungerà quasi subito la parte ritmica, con il percussionista londinese Oliver Maguire. Da qui parte il percorso musicale del trio, sempre tra la gente, sempre errante, contagiato da diverse culture e stili musicali. “C’è qualcosa di molto interessante nel suonare per strada. È un modo organico di scrivere musica e tutte le nostre canzoni, tranne una o due, sono scritte in strada. Son tutte state modellate da culture diverse: una

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canzone che è stata suonata per mesi a Londra e Dublino cambia quando la suoniamo a Praga, in un certo istante, in una certa via. Non sappiamo come, ma acquista vita nuova e in quel momento ci rendiamo conto che è quella giusta!” questo, il modo un po’ gypsy, con cui vivono la loro musica. Professionisti, quindi, che hanno deciso di non farsi fagocitare dalla grande distribuzione, evitando così di perdere il controllo del loro lavoro e di farlo arrivare anche a chi non vuole ascoltarlo, “there is no dictation regarding the music, there is no problem”. Nonostante questa filosofia, se volete ascoltarli e non avete la fortuna di incrociarli per le strade del mondo, un EP c’è: “Court the Storm”. Uscito nell’agosto del 2013, contiene quattro tracce, complesse ed immediatamente affascinanti. Tutta la sintonia e la coordinazione di suonare (e improvvisare) quotidianamente insieme emerge potente, lasciando il dubbio di trovarsi davvero davanti ad una jam session, per puro caso finita incisa in un EP. In attesa, dunque del secondo lavoro, registrato a Berlino e previsto in uscita per maggio

2014, fatevi trascinare per i tortuosi intrecci musicali del trio di buskers, passando per delle fughe musicali sempre più vertiginose e improvvisi cambi di rotta, celtici, gitani, punk, non importa, fino a esser interrotti dal ritmo incalzante, primitivo, delle percussioni. Un viaggio vorticoso, dunque, quello che incontrerete nell’omonimo singolo “Court the Storm”, sinuoso, quasi orientale in “Across the Biome”, assolutamente trascinante nel crescendo di “Gypsy Train”, per approdare al ritmo cadenzato di “Riverside Jazz”. Se volete evadere dalla realtà, quindi, The Trouble Notes sono quello che fa per voi: enjoy!

Angelica Magliocchetti


MUSIC

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ARTINTIME popart@artintime.it

STEFANO PERRONE Nato nel 1985 a Monza, laureato in industrial design al Politecnico di Milano e con una specializzazione in art direction allo IED, Stefano Perrone lavora a Milano come art director. Inizia a dipingere per passione nel tempo libero, producendo tele astratte e materiche, ma si accorge presto di essere insoddisfatto dei suoi lavori. Si dedica così a collage manuali e digitali, realizzando ritratti e soggettive che mescolano fotografie d’epoca, scatti personali, figure geometriche e vettoriali, tonali-

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tà contrastanti, patterns materici e tutto ciò che può funzionare per la composizione finale. I suoi soggetti sono sempre senza volto, qualcosa o qualcuno gli ha fatto perdere la propria identità. Nonostante la digital art, continua a dipingere per piacere personale soggetti e ritratti di ispirazione cubista. Nel 2013 ha realizzato il progetto “Mi suishido”, una collezione di 20 illustrazioni fine art in cui dei bocconcini di sushi cercano di farla finita in modi creativi, idea che si è rivelata un progetto molto virale sui social media.


POP-ART

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ARTINTIME books@artintime.it

IL ROMANZO DEL DRAMMA UMANO Non è la prima volta che ci soffermiamo su libri “scomodi”, letture che non hanno tanto la funzione di riempire ore e appassionare con l’ironia, l’intreccio narrativo, la suspense. Ci sono alcuni libri che, al di là del ruolo di intrattenimento, assumono una personalità precisa, e scagliano pugni emotivi nello stomaco, restando profondamente, e a lungo, impressi nei pensieri, aprendo riflessioni nuove che ci riallacciano alla nostra natura di uomini davanti ad altre vite, e davanti alla Storia. “Come fossi solo” è un folgorante esordio letterario che agisce proprio così: colpisce dentro, scava nell’umano, nel più tragico pozzo remoto dove sono stipate le peggiori atrocità e le dilanianti dinamiche delle scelte, e le mette nero su bianco, con lampante talento e una voce potente. Il tema, innanzitutto. Questo romanzo colpisce già dalla scelta dell’argomento da trattare: il massacro di Srebrenica, tra gli stermini di massa più crudeli della storia recente, come si sottolinea spesso tra le pagine del libro, l’episodio di violenza razziale più devastante del Novecento, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Guerra Mondiale: una definizione lontana dal nostro presente, che evoca scenari bellici in bianco e nero, fossilizzati sulle pagine dei manuali scolastici. Cosa ha a che fare una violenza così passata, così storicizzata, con la guerra di Jugoslavia, un conflit-

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to di sangue e odio razziale che ha letteralmente lacerato gli anni Novanta del secolo scorso nel cuore di un’Europa così vicina anche alla nostra Italia? C’è una linea di violenza, odio e sangue che unisce quelle – e tutte – le guerre, ed è su questo orizzonte che Marco Magini indaga, prendendo spunto da fatti reali per scrivere una storia che non solo riporta l’attenzione su una tragedia umana recente, dimenticata troppo presto, ma che ha la devastante forza di rintracciare fili, vite di singole persone, e porle a confronto con situazioni che, per scelte collettive e spesso astratte, vanno oltre l’umano, scardinando ordini, leggi, coscienze, dignità. Questo è il valore deflagrante di una storia che, ispirata a fatti reali dell’immediato passato e nata da una penna classe 1985, colpisce non solo per i contenuti, ma per quel suo reggersi sull’impianto classico di un dramma greco, e generare così pensiero, riflessione dell’uomo su se stesso e sul mondo. L’uomo, c’è lui davanti al dramma irrisolvibile della scelta personale, solo, in situazioni che esulano dalle sue possibilità di decisione, dalle sue capacità di stabilire giudizi, immischiato suo malgrado in dinamiche che con il singolo non hanno nulla a che fare. Saltano in aria vite umane, e con loro valori, percorsi, rette tracciate a delineare il giusto e il non giusto: la macchina spietata della guerra genera una Storia che

finirà sui libri, senza lasciare spazio a quegli atti, a quei gesti individuali il cui peso materiale, psicologico, etico e fondamentalmente umano è in realtà al centro di una guerra, e di uno spietato e folle massacro di vite innocenti. Sul piano strettamente narrativo, questa potente storia è raccontata grazie a un abile intreccio di tre voci, che lavorano su tre piani temporali differenti, solo occasionalmente paralleli. Dražen Erdemović soldato serbo-croato, è il personaggio ispirato a una vicenda giudiziaria reale, cui l’autore ha fatto riferimento, come documentato dalla nutrita bibliografia sui fatti di Srebrenica e le successive vicende giudiziarie collocata a fondo romanzo. Dirk, casco blu olandese del contingente Onu, è la seconda prospettiva sui fatti, una voce esterna alle etnie in conflitto ma colpevole di un’omissione irreparabile, quella di non aver agito per impedire che migliaia di civili bosniaci venissero catturati e mandati al massacro dai soldati serbi. Infine, il terzo punto di vista, il giudice del Tribunale Penale Internazionale, il magistrato spagnolo Romeo Gonzàles, nel quale si figurativizza l’essenza della vicenda: la possibilità di giudizio, l’effettiva utilità dell’istituzione di un tribunale davanti a vicende che sono incommensurabilmente oltre le possibilità di valutazione umana, laddove l’accusa al singolo non interverrà sulle responsabilità ben più fondate delle menti criminali a capo degli eserciti.


BOOKS Un romanzo che sfonda le coscienze e le mette a confronto con parole e situazioni lontane dai nostri pensieri, dai nostri vissuti, eppure così devastanti da non impedirci di condividere quel dramma, di considerarlo e confrontarci con la sua tragicità. Voci e pensieri, paure e istinti che forse proveremmo anche noi, di fronte a fatti epocali, la cui sanzione è chiara se visualizzata da una cornice esterna, ma sfuma in mille rivoli e inceppamenti se applicata a singoli personaggi, impotenti davanti ai fatti, agenti di una storia anonima, imputati di colpe incise sulla propria vita, come fossero, davvero, soli al mondo.

A lessandra Chiappori

“Non c’è più niente per me di familiare in quello che è la Bosnia oggi, un vuoto paese silente, popolato da pochi passanti eternamente all’erta. Sono passati quattro anni dall’inizio della guerra, un sacco di tempo per me, un’eternità per il paese. Il luogo dove sono nato ormai non esiste più. Quando transita una camionetta serba nessuno la guarda, i civili cercano di diventare invisibili, ostentando la più falsa naturalezza nei loro gesti. È la loro paura a farmi male, è la loro paura a farmi sentire sbagliato” Marco Magini, “Come fossi solo”, Giunti, 2014.

Marco Magini Classe 1985 ma esperienze importanti alle spalle, Marco Magini si è laureato alla London School of Economics in Politica Economica Internazionale. Studiando e lavorando ha vissuto in diverse città del mondo tra Canada, Stati Uniti, Belgio, Turchia e India, attualmente vive a Zurigo e si occupa di grandi temi dell’attualità come cambiamento climatico ed economia sostenibile. Con il suo esordio letterario è stato finalista nel 2013 per il prestigioso Premio Calvino di Torino ed è attualmente in lista tra i papabili per il Premio Strega.

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ARTINTIME movies@artintime.it

FALLIN’ FLOYD “Fallin’ Floyd”, cortometraggio animato diretto da Albert’T Hooft e Paco Vink, registi olandesi fondatori di Anikey Studios, racconta la vicenda di Floyd, un musicista, un uomo che si innamora di una donna, le chiede di sposarlo ma scopre che lei ama un altro, e così, fortemente deluso dalla vita, abbandona la musica e si ritrova in compagnia di un personaggio scomodo, il terribile demone della depressione. Non ci sono dialoghi e parole ad accompagnare le immagini, le scene si susseguono, vediamo l’evoluzione della depressione attraverso tutti i suoi tratti tipici, dal rinnegare le proprie passioni, all’abbruttimento dell’individuo che non valorizza più il suo aspetto fisico, si fossilizza nei pensieri e costantemente guarda quell’anello di fidanzamento che avrebbe tanto voluto donare all’amata. Il demone della depressione accompagna Floyd in tutte queste sue esperienze, compare proprio nel momento in cui l’uomo getta la sua tromba nel fiume, quello strumento musicale che gli aveva permesso di racimolare i soldi necessari ad acquistare l’anello. Il demone diventa un compagno di vita di Floyd: nero, i suoi due grandi occhi inizialmente inespressivi iniziano a prendere vita mano a mano, con la crescita della creatura, che diventerà a un certo

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punto un gigantesco mostro. I due registi riescono a rappresentare brillantemente e in modo estremamente efficace il percorso di Floyd, le sue cadute psicologiche, rese attraverso delle vere cadute fisiche, rappresentazioni fantasiose ma che parlano chiaramente allo spettatore. Impressionate è il demone, in un primo momento un esserino simpatico simile ai celebri daimon della Bussola d’oro. Brevemente ci rendiamo però conto che il colore scelto dal disegnatore è alquanto simbolico: nero. Nero è il colore che tinge le giornate di chi è depresso, di chi non è più in grado di vedere i colori della vita, la luce che ogni giorno ci abbraccia e ci avvolge, nero è il colore di chi non riesce più a guardare oltre se stesso e i propri problemi, chi non riesce a dare una svolta alla propria esistenza. Floyd prova tutte le esperienze legate alla depressione, dal lettino dello psicanalista al bancone del bar dove ad accoglierlo trova altre persone fagocitate dai loro demoni. Il suo percorso drammatico lo porta a toccare il fondo, sia in senso simbolico che in senso materiale. Durante l’inseguimento dell’anello di fidanzamento, che sembra voler scappare da lui, a un certo punto per recuperarlo è costretto a gettarsi nel fiume, si ritrova così in quel punto dove il demone è comparso per la prima

volta. Nel suo viaggio verso il fondo del fiume, dove probabilmente si è depositato l’anello, ecco riemergere l’oggetto che gli permetteva di essere felice e fiero di se stesso: la sua tromba. Ecco che la sua passione torna a salvarlo, riaffiora dalle acque un Floyd nuovo e pian piano, nota dopo nota, il demone svanisce e proprio in questo momento Floyd riesce a vedere oltre se stesso, l’inquadratura si allarga e capiamo che non sarà più costretto a condividere un cono gelato con l’esserino nero, accanto a lui infatti, seduta sulla panchina vicina, c’è una ragazza. Realizzato in 14 mesi, affiancando tecniche tipiche del 2D e del 3D, “Fallin’ Floyd” è un cortometraggio che richiede di essere visto e rivisto per essere apprezzato a pieno: il disegno è molto lineare, essenziale, non ci sono troppi fronzoli. Ogni fotogramma è stato studiato per offrire allo spettatore forme e soggetti chiari e facilmente riconoscibili, una scelta sicuramente intelligente che fa apprezzare l’intero prodotto che altrimenti rischierebbe di diventare troppo denso vista e considerata anche la tematica complessa che si propone di raccontare.

Francesca Cerutti


MOVIES

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ARTINTIME events@artintime.it

FUTURE FILM FESTIVAL

FIERA DEL LIBRO DELLA ROMAGNA

VITTORIO VENETO FILM FESTIVAL

A Bologna dal 1 al 6 aprile si svolgerà la sedicesima edizione del “Future Film Festival”, evento dedicato al cinema, all’animazione e agli effetti speciali. Tra gli ospiti che prenderanno parte alla rassegna i maggiori registi, direttori artistici e creativi del settore, con cui il pubblico potrà interagire attraverso retrospettive, incontri e approfondimenti. Un programma ricco in cui non mancheranno anteprime e immagini esclusive, che andranno a raccontare e indagare le novità della settima arte. Per informazioni visitate www.futurefilmfestival.org.

Seconda edizione per la “Fiera del libro della Romagna” in programma il 5 e 6 aprile a Cesena presso il Palazzo del Capitano. L’evento, dedicato all’editoria indipendente, accoglierà case editrici e autori provenienti dalla Romagna e dal territorio italiano, con cui il pubblico potrà confrontarsi direttamente anche attraverso incontri, presentazioni e laboratori. Un appuntamento in cui appassionati di libri e cultura potranno scovare e apprezzare opere poco note e di ottima qualità. Maggiori informazioni sono disponibili sul sito www.fieralibroromagna.it.

Dall’8 al 13 aprile si svolgerà la quinta edizione della rassegna cinematografica “Vittorio Veneto Film Festival”, l’evento internazionale dedicato al cinema per ragazzi di Vittorio Veneto, in provincia di Treviso. Un nuovo appuntamento che quest’anno sarà dedicato al tema dell’”Impossibile” e che vedrà protagonista l’attore italiano più apprezzato all’estero, Marcello Mastroianni, a cui sarà riservata una mostra fotografica e filmica inaugurata il primo giorno di festival con la proiezione del film “Oci ciornie” di Nikita Sergeevic Michalkov. Info: www. vittoriofilmfestival.com.

TORINO COMICS

FORUM DELLA COMUNICAZIONE

FI-PI-LI HORROR FESTIVAL

Dal 11 al 13 aprile, presso il padiglione 3 del Lingotto Fiere di Torino, si svolgerà la ventesima edizione di “Torino Comics”, il salone e mostra mercato del fumetto della città di Torino. La manifestazione accoglierà fumettisti, autori, editori ed esperti del settore, che racconteranno al pubblico il mondo del fumetto con workshop, incontri e presentazioni. Un’occasione per appassionati e curiosi per apprezzare ed acquistare pezzi da collezione, partecipare a games e approfondire le proprie curiosità. Maggiori informazioni sul sito www.torinocomics.com.

Presso il Palazzo Lombardia di Milano il 15 aprile si svolgerà il consueto appuntamento con il “Forum della Comunicazione”, il principale evento nazionale dedicato alla comunicazione d’impresa e istituzionale. Il forum riunirà manager, innovatori, rappresentanti delle Istituzioni e i principali player e opinion leader della comunicazione e dell’innovazione digitale, che si confronteranno su questioni e problematiche legate ai temi dell’innovazione e del digital engagement. Per maggiori informazioni: www.forumcomunicazione.it.

Terza edizione per la rassegna internazionale “Fi-Pi-Li Horror Festival”, manifestazione che attraverso cinema, letteratura e teatro esplora le nuove forme dell’horror contemporaneo. L’evento, organizzato dall’Associazione culturale “Il Teatro della Cipolla”, si svolgerà a Livorno dal 24 al 27 aprile e affronterà il tema della paura in tutte le sue declinazioni, dall’horror al giallo, dal thriller alla fantascienza, dal noir alla commedia, attraverso proiezioni, incontri, anteprime, readings e concorsi. Maggiori informazioni: www.ilteatrodellacipolla.it e FI PI LI Horror Festival.

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EVENTS A cura di Anna Moschietto

TORINO JAZZ FESTIVAL

FAR EAST FILM FESTIVAL

TRENTO FILM FESTIVAL

Dal 25 aprile al 1° maggio si svolerà la terza edizione del “Torino Jazz Festival”, l’evento musicale dedicato alla musica jazz italiana e internazionale che annualmente raduna nel capoluogo piemontese importanti musicisti di genere. Tra questi Diane Schuur, il chitarrista Al Di Meola, Daniele Sepe, Ibrahim Maalouf, Alain Caron, e molti altri ancora. Un programma ricco di appuntamenti in cui non mancheranno incontri, mostre, conferenze, presentazioni, performance teatrali. Maggiori informazioni sul programma della rassegna su www.torinojazzfestival.it.

Sedicesimo appuntamento con il “Far East Film Festival”, la rassegna cinematografica internazionale dedicata al cinema asiatico della città di Udine che dal 25 aprile al 3 maggio presenterà al pubblico un calendario ricco di proiezioni ed eventi, con l’obiettivo di diffondere e promuovere il cinema popolare asiatico. Tra le attività previste durante i nove giorni di kermesse: retrospettive, proiezioni, workshop, presentazioni e incontri con ospiti internazionali. Per informazioni sul programma del festival visitate www. fareastfilm.com.

Torna il consueto appuntamento con il “Trento Film Festival”, la rassegna cinematografica internazionale dedicata al cinema di montagna, all’arte e alla letteratura, che dal 24 aprile al 7 maggio presenterà una sessantaduesima edizione ricca di novità ed eventi, tra cui la proiezione del documentario del 1924 “The Epic of Everest”. Inoltre non mancheranno i consueti appuntamenti con proiezioni, presentazioni ed anteprime che verranno in parte dedicate al Paese ospite d’onore dell’edizione, il Messico. Per informazioni visitate www.trentofestival.it.

FESTIVAL DEL CINEMA EUROPEO

TUBE XTREME FESTIVAL

Presso il Multisala Massimo di Lecce, dal 28 aprile al 3 maggio, si svolgerà la quindicesima edizione del “Festival del cinema europeo”. La rassegna presenterà lungometraggi, corti e documentari provenienti da tutta Europa articolati sul tema “Dialoghi” e darà spazio a proiezioni, approfondimenti, incontri ed eventi speciali, in cui interverranno registi, attori, produttori e distributori di fama internazionale. Sei giorni dedicati alla promozione del cinema come strumento di intermediazione tra culture e linguaggi. Per maggiori informazioni: festivaldelcinemaeuropeo.it.

Prima edizione per il festival di musica elettronica “Tube Xtreme Festival”. L’evento si svolgerà il 30 aprile presso la Galleria Lambioi di Belluno e accoglierà noti dj internazionali. Primo appuntamento al mondo a svolgersi in una location solitamente aperta al traffico, la rassegna presenterà performer di diversa estrazione artistica che intratterranno il pubblico con esibizioni musicali e mostre d’arte contemporanea. Una serata da non perdere per gli appassionati del genere. Per informazioni: www.thextremefestival.it.

FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL GIORNALISMO

Dal 30 aprile al 4 maggio a Perugia si terrà l’ottava edizione del “Festival Internazionale del Giornalismo”, evento che raduna ogni anno autori, giornalisti e protagonisti del mondo culturale e imprenditoriale. Tra le attività in programma workshop, presentazioni, dibattiti e interviste ad alcune personalità intellettuali del panorama nazionale, tra cui Corrado Augias, Fulvio Abbate, Pietrangelo Buttafuoco, Enrico Mentana. Non mancheranno inoltre spazi dedicati all’intrattenimento teatrale, letterario e cinematografico. Info: www. festivaldelgiornalismo.com.

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