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SERGIO MANGIAVILLANO

Il capitolo è la testimonianza della versatilità e della freschezza della vena poetica del Tansillo quando essa più procede alacre secondo un’ispirazione genuina e contribuisce a delinearne più marcatamente i contorni, isolandolo dall’uniformità dei rimatori del suo tempo e avvicinandolo al Berni, che del genere giocoso fu maestro e fu autore anche un capitolo in lode della Primiera, col quale questo di Tansillo può degnamente competere. Con questa composizione Tansillo non ha voluto fare le lodi della Primiera, ma rinnovare la propria devozione al vicerè Toledo, gran giocatore e, soprattutto, restauratore della giustizia e saggio amministratore. Il poeta ha dipinto un affresco colorato, multiforme della società napoletana del tempo, delle donne e dei cavallier il cui passatempo preferito era rappresentato dal gioco della Primiera, dal quale evapora l’ideale di raffinatezza da cui il Venosino, a contatto quotidiano con la vita di corte, fu certamente affascinato, anche se non del tutto conquistato. E, per contrasto, si manifesta il disprezzo per il volgo ignorante e rude, espresso dalla paura della Primiera, una volta abbandonata dalla nobiltà, di finire tra le mani di gente di basso rango, figura che, nel vissuto del poeta, è soprattutto aspirazione a un’elevatezza spirituale trasmessagli dagli studi e dall’amicizia con raffinati personaggi. In questo capitolo il poeta ha momentaneamente abbandonato il consueto stile discorsivo, il trito tema del fastidio per la vita avventurosa e si è concessa una pausa per esercitarsi nella composizione di rime giocose che avvertiva assai congeniali alla sua ispirazione. Ne guadagna anche lo spessore della sua poesia, più sciolta, sicura, limpida. Il settimo capitolo è intitolato Capriccio del Tansillo in laude di coloro che si tingono la barba e il capo ed è diretto a Simone Porzio, nobiluomo napoletano, medico e professore di filosofia prima a Napoli e poi a Pisa. Più volte il poeta lo ha invitato a tingersi i capelli e la barba diventati bianchi prima del tempo, se vuole avere consorzio con le giovani belle. Tansillo è di tutt’altro avviso di coloro che considerano tale espediente un atto poco degno; del resto, se tutto il belletto bianco e rosso che le dame usano quotidianamente si cangiasse in negro inchiostro, egli a scriver de la tinta saria scarso. Chiede alle donne che sono solite tingersi d’oro i capelli di fargli da muse e di ispirarlo degnamente. Tingere di nero, di rosso o di biondo il pelo bianco è cosa buona e non c’è da meravigliarsi se perfino i santi l’hanno fatto. Il poeta non condivide l’affermazione secondo la quale coloro i quali sono soliti mascherare il fisico correrebbero il rischio dsi acquisire un costume morale ipocrita: perciò passa in rassegna casi di galantuomini che, sebbene usassero tingersi la barba, continuavano a essere irreprensibili e integerrimi nei costumi. Ma, allora, perchè il vicerè ha sì bianca e barba e testa? Non è il caso di andare troppo per il sottile: Plutone e Nettuno non avevano forse la barba bianca? Nel caso del Toledo questo accade perchè in un che regna si loda qualche cosa che in noi è da biasimarsi. Lo spettacolo delle continue metamorfosi ce lo danno anche le divinità come Giove, che ha colorito capelli e barba di ogni tinta e la natura stessa con 174


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