Archivio Nisseno - Anno V, n°8

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LUIGI TANSILLO AL CENTRO LETTERARIO DEL RINASCIMENTO ITALIANO

mor se ne va lento. Infine, nomina alcuni signori, suoi amici, per ciascuno dei quali ha qualche consiglio da dare al Fontanarosa, al quale promette che verrà a trovarlo entro l’autunno se qualche beffa non ne fa Nettuno. Scritto nel 1540, è coevo del IV e del V capitolo e delle Stanze al Martirano. Più pacato e discorsivo del precedente, è anche più dimesso nel tono, restringendo la sua validità a una testimonianza sulla vita del poeta, la quale, in questo momento, attraversa uno dei periodi di maggiore disagio fisico e morale. Tansillo è al seguito del suo signore don Garcia, sballottato per terra e per mare, con qualche rara sosta durante la quale indirizza lettere agli amici con nostalgia e, soprattutto, - lo si avverte in questi versi – con una gran voglia di smetterla con i viaggi e le avventure, del tutto antitetici al suo ideale di vita semplice e tranquilla, dedita agli ozi letterari che invece alcuni suoi amici, come il Martirano, hanno la fortuna di vivere. Nel capitolo emerge anche il profondo legame con gli spagnoli, che a quel tempo avevano un ruolo di primo piano nella vita culturale meridionale. Il resto ha scarso rilievo: vi si elencano i nomi di parecchi personaggi, amici del Venosino, ma non si intravede alcun motivo ispiratore. Del resto anche sul piano artistico esso non ha alcun valore: qua e là si incontrano iperboli e figurazioni artistiche raramente efficaci. Il tema del disagio delle continue navigazioni ritorna nel terzo capitolo al punto che il poeta sarebbe disposto a riprendere l’ufficio di paggio, condizione servile che pure detesta. La vita di mare è piena di insidie - da un momento all’altro si rischia di cadere prigionieri – ed è iniqua perchè si assiste a ogni genere di crudeltà. Egli non ama la vita del corsaro, non è marinaro o manigoldo, non sa tendere agguati come il resto dei suoi compagni di viaggi, sebbene il suo Toledo, don Garcia, si adoperi per frenare la brama di bottino e di ogni sorta di iniquità dei corsari, dimostrando magnanimità con i vinti. Ma ch’io mi parta dal più bel paese che sieda sotto il cerchio de la luna, per offender chi mai me non offese, è una bestia sciocca la fortuna a non mi fare il peggio che sa fare. Faccialo pur, s’io scamperò quest’una.

A che giova combattere, fare strage di vite umane? E’ giusto che ci si debba incrudelire contro il Turco e il Moro in quanto tali? Non hanno una natura identica alla nostra, non sono essi stessi creature di Dio? Perchè essere costretto a partire in agosto da Napoli per uccidere e fare prigionieri uomini che non hai mai visto e che non ti hanno fatto nulla di male? E’ giusto difendersi quando si è aggrediti, ma rendersi responsabili, senza alcuna ragione, di delitti, razzie, stupri e altre cose crude ed empie gli sembra una vergogna. Il nobiluomo Girolamo Albertino, a cui il capitolo è indirizzato, come 169


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