Archivio Nisseno - Anno IV, n°6

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ANNA MOSCA PILATO

scono ogni intendimento didascalico, per cui “pinsera ca figlianu pinsera, vuci di chiazza e canti d’aceddi e linzola stinnuti a lu suli” (“Pensieri che figliano pensieri, voci di piazza e canti d’uccelli e lenzuola stese al sole”), tutto questo è per il poeta la libertà. E ancora la libertà è “scjatu di celu... E’ silenziu / c’ascunta la storia... E’ amuri / ca sparti lu civu / comu passara a lu nidu...” (“fiato del cielo... E’ silenzio che ascolta la storia...E’ amore che divide il cibo come passera al nido”). “Si avissi / ‘na spata giganti / spaccassi li celi / pi fari chioviri amuri”. (“Se avessi una spada gigantesca spaccherei i cieli per fare piovere amore”); “avemu lu suli e addumammu cannili” (“abbiamo il sole e accendiamo candele”). Sono espressioni come queste che vivificano ed alleggeriscono il testo. Ma è soprattutto l’ignoranza, conclude il poeta, che ammazza la libertà (come in ‘Na casa senza libra). Il testo è ricco di metafore, di sinestesie e di anafore. La piccola raccolta di liriche, appena sei, trascritte in dialetto ed in lingua, intitolata Canti a Decano, è stata pubblicata nel 2002, dunque tre anni dopo la morte dell’autore; essa, che si arricchisce della dotta prefazione di Aurelio Rigoli, raggruppa le ultime fatiche letterarie di questo poeta singolare, la cui cifra stilistica qui rimane l’indagine e la meditazione sulla natura, nelle sue varie forme, e sulle sfaccettature dell’animo umano. Decano è il nome della contrada di campagna dove, nella casa a lungo vagheggiata e cantata, il poeta trascorre gli ultimi anni della sua vita. In queste liriche troviamo, in versi sempre più smozzicati, molto spesso composti da una sola parola, un Giuliana più intimo e segreto, quello che canta gli affetti familiari, che è in continua ricerca di Dio, che riafferma il suo forte attaccamento alla vita. Ma anche quello che ripropone paesaggi come simboli del vivere umano e come specchio dell’anima, e che non dimentica del tutto i temi sociali a lui cari. Talvolta egli ci appare preda di un insormontabile pessimismo, come nel canto che si intitola La notti cummoggia culura (“La notte copre i colori”), laddove il mondo non trova “abbentu”, cioè pace, e dove persino quel Cristo più volte cercato ed invocato, qui “..pari / talijari scantatu / ‘lla terra ca scura.” (“...sembra guardare spaventato la terra che si fa buia”). La notte ed il buio sono ovviamente metafora di un male che avanza e che sembra sommergere tutti, sicché pure la speranza, vestita di nero, aspetta il sole. La stessa pessimistica visione la ritroviamo in Arsura, dove l’animo del poeta contempla desolato l’accanimento di una natura feroce contro tutti gli

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