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GIUSEPPE LO VETERE

guerra civile. A nord erano state le armi francesi a imporre le novità liberali stroncando la prevedibile reazione dei privilegiati; l’invasione francese portò la guerra esterna ma risparmiò all’interno la fase virulenta della transizione. A sud invece l’operazione di uscita dal feudalesimo era ancora in fase di contrasto aperto e violento, e sfociò in guerra civile. 2. L’esproprio. La prima forma di esproprio fu l’usurpazione dei meriti politico-militari del Risorgimento, e il metodo fu quello della retorica e della diffamazione. Non c’è dubbio che l’unità si conseguì sul nucleo piemontese, che costituì il centro di riferimento e di convergenza dei movimenti regionali. Fu la monarchia piemontese ad annodare le fila, a rimuovere gli indugi (che sicuramente sarebbero stati lunghissimi dato il numero e la disparità di posizioni), ad accentrare e concludere l’azione, e soprattutto ad offrire il prezioso supporto della diplomazia cavouriana e la rete (molto meno preziosa) della amministrazione piemontese. L’unità però non si conseguì per espansione da un nucleo ma per convergenza degli elementi. Lombardia (“passata” dai Francesi), Emilia, Toscana e le Sicilie, si offrirono; e il Piemonte le accettò. Accettarle significò salvarle dal prevedibile caos di indirizzi, ma ciò non autorizzava ad arraffarle a discrezione. Come fecero i piemontesi: senza grazia, senza rispetto, e, cosa più grave, senza discernimento. La morte di Cavour fu una grave perdita. Sicuramente egli non aveva un progetto per l’Italia, forse perché realisticamente sapeva quanto fosse impresa sproporzionata rispetto alle forze e alle possibilità piemontesi; i suoi progetti non andavano oltre uno staterello traspadano. Fu sorpreso e preoccupato dall’azzardo garibaldino e ancor più dalle possibili reazioni a un intervento in terra pontificia. Sicuramente un uomo di cultura francese, come lui era, non aveva idee chiare sulle situazioni delle regioni al di sotto degli Appennini. Ma si adeguò alle circostanze con l’accortezza e la spregiudicatezza che gli erano abituali. Non era un patriota “italiano” se non in forma generica e vaga. Era, per cultura per interessi e per orizzonti, soltanto piemontese, e dell’occasione che gli si offriva oltre ogni aspettativa, approfittò con i pregiudizi e secondo gli interessi dei piemontesi. Ma era intelligente. Invece gli sciacalli che seguirono si gettarono sulla preda senza ritegno, ma soprattutto senza intelligenza. Fu delitto ed errore; e in politica l’errore può avere conseguenze più gravi del delitto. Gli inadeguati eredi dello Statista occuparono lo Stato e se ne proclamarono “Padri”: abbiamo fatto (noi?!) l’Italia, e ora faremo (noi!!) gli Italiani. Il ceto più emblematico dell’operazione di esproprio fu quello militare. L’esercito piemontese era un esercito da postazione, benemerito della difesa delle sue valli ma incerto in manovra oltre i confini. L’ufficialità era di formazione napoleonica, ma di napoleonico aveva quasi solo l’educazione formale come percepita da subalterni negli eserciti francesi: generali da manuale e da parata, ferocemente elitari, formalisti, carrieranti, boriosi nei proclami e annaspanti nella 188


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