Carlo Scarpa al Museo di Castelvecchio 1964-2014

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GUIDO PIETROPOLI

A Verona le mattine d’estate conservano la frescura e le pietre hanno la lucentezza abbagliante dei selciati appena lavati; grandi lastre di Prun mandano riflessi rosa giallo che contrastano con la grana degli intonaci e le decorazioni di portali in Orsera. Entrai a Castelvecchio cinquant’anni fa una mattina d’estate con il cortile in ombra e il sole da est. Solo ora riconosco il legame che tiene Castelvecchio e l’Alhambra: il patio dei mirti e la lunga siepe di bosso, il Quarto Dorado, le vasche d’acqua e le pietre luminose. Licisco Magagnato mi disse “è molto preso dall’architettura islamica” e parlava di Carlo Scarpa che stava lavorando per lui. Ma io non capivo, perché cercavo le forme e non lo spirito del luogo; non avevo contezza dell’origine del gotico: delle finestre che si aprono come tende, del miracolo dell’acqua, della luce ipetrale, dell’ombra, della decorazione geometrica che coglie l’essenza della forma... eppure era tutto lì davanti a me. Quanti doni fino dall’inizio: la corsia d’ingresso, calma, maestosa, accompagnata dalle fontane e dal ricco broccato del sacello sul fondo, il corno d’oro del torello e la frescura dei muschi sulla parete ad est, la vasca nella vasca e, nel profondo, i pesci rossi di Paul Klee. Come resistere ad una bellezza così serena?

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