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LP La toponimia di tradizione orale e la percezione dello spazio Matteo Rivoira Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Studi Umanistici A sfogliare le pagine di una delle cinquantaquattro monografie pubblicate dall’Atlante toponomastico del Piemonte montano1, si nota immediatamente la ricchezza di informazioni veicolata dai nomi dei luoghi in uso presso una data comunità (o almeno vivi nella memoria), rispetto a quelle etichette che siamo soliti leggere sui cartelli stradali o sulle mappe geografiche, spesso rese vuote di significato da improbabili trascrizioni di voci dialettali mal comprese. All’interno di questo repertorio, che ammonta a diverse decine di migliaia di toponimi (ognuno corredato di informazioni circa il significato dei termini che lo costituisce, la descrizione del luogo che indica e informazioni varie che caricano di significato e di valori simbolici lo spazio), un numero preponderante riguarda la geomorfologia del territorio, com’è peraltro lecito attendersi in ambito montano, dove le forme del paesaggio e le caratteristiche pedologiche di un terreno sono particolarmente salienti. Di alcuni termini, molto ricorrenti, il valore è probabilmente noto a chi frequenta abitualmente le montagne piemontesi: bèc «becco, spuntone», bric e truc «cima» ecc. (tra i tanti, il Bec Baral di Vernante CN, il Gran Truc di Pramollo TO, il Briccas a monte di Borgo di Crissolo CN, ma sul comune di Ostana, dov’è noto come Truquet). Di altri lo è forse meno: un moular è anch’esso un’altura (i vari Moular o Moulé della Val di Susa e delle Valli di Lanzo), un sère invece è un «ripiano lungo un costone» (il Serre di Oncino, CN), mentre clot (o quiot) vale «pianoro» (Clot delle Selle a Exilles TO, nell’occitano locale Clo ’d lâ Sélla, e Quiot ’d la Sèlla ad Angrogna TO, in entrambi i casi con riferimento a una sella che è una cella, vale a dire una casera). Importanti sono poi i termini adreit, con le diverse varianti locali, o sourìa e abrig più a sud, opposti a envers o con ubac, definendo una delle opposizioni fondamentali dell’ambito montano: quella tra il versante a solatìo, quello “al diritto”, “al sole” o “all’aprico”, e quello a bacìo, “all’inverso” o “all’opaco”: così la

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borgata Indiritti di Prali e all’opposto Inverso Pinasca (localmente l’Ënvèrs). Non sarà la stessa cosa costruire o coltivare da un lato o dall’altra della valle e, in qualche modo, i nomi ce lo ricordano. Gli esempi potrebbero essere ovviamente numerosissimi. Tra quelli di particolare interesse, anche in considerazione dei recenti eventi alluvionali, vi sono quei toponimi che informano sulla natura pedologica del terreno. Soffermandosi su questi ultimi è possibile apprezzare uno degli elementi di maggior interesse e rilevanza che contraddistingue il patrimonio toponimico tradizionale. I luoghi, sono infatti generalmente nominati a partire da quello che è uno degli elementi di maggior rilevanza dal punto di vista della vita quotidiana di chi li abita. Successivamente possono venire socializzati e in certa misura fissati nella memoria collettiva nella misura in cui la comunità riconosce la validità della classificazione. In questo processo, che si svolge attraverso le generazioni, trovano spazio i tempi lunghi dell’osservazione e della comprensione del territorio da parte di una comunità che vive lentamente e tramanda il frutto delle sue “osservazioni” attraverso il tempo. È questo il caso dei numerosi toponimi dove possiamo riconoscere uno dei continuatori del latino ruina, da cui anche l’italiano «rovina», ma qui nell’accezione specifica di frana (runa, rouina, ruina, arvina ecc.): lâ Runa «le zone alluvionate» (Exilles, Salbertrand TO), lou Runas dë Pira Rousa «la frana di Pira Rousa» (Crissolo CN), lâ Rouìna (Pramollo TO), lâ Ruìna (Massello TO, Demonte CN), l’Arvina «la frana» (San Giorio di Susa, Rorà TO) ecc. Accanto a questo tipo più diffuso, ve ne sono altri come savel (lou Savèl Roû «lo smottamento rosso»,

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