L’uomo tra scienza, fede, filosofia

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RAPPORTI TRA SCIENZA lLOSOlA E FEDE SONO OGGETTO DI UN INTERESSE SEMPRE VIVO NON SOLO PER GLI ADDETTI AI LAVORI MA ANCHE PER CHI PUR NON ESSENDO UNO SPECIALISTA VUOLE CAPIRE SE I PROGRESSI DELLA SCIENZA E LE APERTURE lLOSOlCHE ALLA FEDE RIVELATA POSSANO CONCILIARSI 5NA CONDIZIONE FONDAMENTALE PER PERMETTERE UN DIALOGO AUTENTICO TRA QUESTE TRE AREE DEL SAPERE Ò L IMPEGNO DEL RICERCATORE SINCERO E ONESTO DELLA VERITÌ A RISOLVERE I PROBLEMI NEL LORO ORDINE PROPRIO GUARDANDO LA REALTÌ IN UNA DIMENSIONE SPECIlCA SECONDO IL PUNTO DI VISTA PARTICOLARE DELLA SCIENZA CHIAMATA IN CAUSA PER INDAGARLA 3TUDIANDO IL NESSO TRA SCIENZA E FEDE CON L INTERESSE CHE AD ESSO PUÛ PORTARE LA lSICA TEORICA

EMERGE GIÌ UNA POSSIBILE VIA CHE CONDUCE ALLA CONOSCENZA DELLO iSPIRITO UMANOw 5NA RImESSIONE lLOSOlCO PEDAGOGICA SULL ESPERIENZA DEI iVISSUTI PERSONALIw CHE VOGLIA FAR LUCE SUL NESSO ESISTENTE TRA FEDE E lLOSOlA Ò UN ALTRA FONTE PREZIOSA PER LA RICERCA DI SENSO SULL ESSERE DELLA iPERSONAw ,A CONOSCENZA DELL UOMO E DEL MONDO CHE LA SCIENZA ELABORA Ò ESSENZIALMENTE E METODOLOGICAMENTE DIVERSA DA QUELLA PROPRIA DELLA lLOSOlA ,A SCIENZA

INFATTI INDAGA I FENOMENI DELLA NATURA E LE DISTINTE DIMENSIONI DELL UOMO CON UNA LOGICA ADEGUATA AD OGNI ASPETTO SPECIlCO -ENTRE LA lLOSOlA COL METODO DELLA RAGIONE MIRA ALL ESSENZA DELLE COSE E DELL UOMO L ANIMA )L MONDO E IN ESSO L UOMO IN DElNITIVA HANNO UNA LORO INTELLIGIBILITÌ PER INTENDERE LA QUALE Ò NECESSARIO FAR RICORSO AD UNA LOGICA ULTERIORE A QUELLA SCIENTIlCA


Quaderni ARCES

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Diego Molteni, Antonio Bellingreri, Luciano Sesta

L’uomo tra scienza, fede, filosofia Per un dialogo con le nuove generazioni

a cura di Alessandro Di Vita

Palumbo


Quaderni ARCES

COLLANA DEL COLLEGIO UNIVERSITARIO ARCES

Via Lombardia, 6 – 90144 Palermo tel. +39 091 346629 – fax +39 091 346377 info@arces.it – www.arces.it

PROGETTO GRAFICO COMPOSIZIONE STAMPA

Vincenzo Marineo

Fotocomp - Palermo

Luxograph s.r.l. - Palermo

© 2005 by G. B. Palumbo & C. Editore S.P.A. Proprietà letteraria dell’Editore Stampato in Italia


INDICE

Presentazione Alessandro Di Vita 1

Scienza e fede: considerazioni per un percorso di ricerca personale Diego Molteni Premessa

2

Scienza e fede in breve Scienza

2.2

Qual è, dunque, il grado di veridicità della scienza

2.3

Gödel

15

16

18

Appendice

3

14

14

2.1

Fede

13

13

1

3

2

1

21

Una dimostrazione pedagogica dell’esistenza della persona Antonio Bellingreri

23

23

1

La vita come totalità di Edith Stein

2

L’esistenza personale come Bildung

3

Il problema dell’empatia

4

Idee per una pedagogia fenomenologica

5

L’approche chrétien

6

L’idea di Bildung

7

Idee per una pedagogia ermeneutica

27

37 41

44 47 51

L’uomo tra scienza e filosofia: macchina o persona? Luciano Sesta 1

L’attuale primato della scienza nei confronti della filosofia

55 55

V


VI

2

La dualità originaria: l’uomo come anima e corpo

3

Materialismo ed evoluzionismo: l’uomo è solo corpo

4

Ritornare all’uomo come persona

5

Conclusioni

67

62

57 59


Presentazione Alessandro Di Vita*

La cosa più incomprensibile dell’universo è il fatto che esso sia comprensibile (Albert Einstein)

Questa pubblicazione nasce da un’iniziativa promossa dal Centro Culturale Monte Grifone del Collegio Universitario ARCES di Palermo. Fondato nel 1983 da alcuni docenti e professionisti, il Centro Monte Grifone si occupa in modo globale della formazione dei giovani, investendo energie sulle loro doti creative. Le sue attività sono rivolte a studenti, tecnici, artigiani, giovani alle prime esperienze di lavoro. Il Centro offre loro l’opportunità di completare la propria formazione professionale, umana e culturale in un ambiente di studio e di lavoro. I ragazzi sono seguiti da tutor che li aiutano a orientarsi nelle scelte scolastiche e occupazionali. Le centinaia di ragazzi che hanno frequentato il Centro dalla sua nascita provengono dalla città di Palermo e da varie località della provincia di Palermo (Trabia, Bagheria, Ficarazzi, Misilmeri, Altofonte, Carini, ecc.). Il Centro promuove, inoltre, incontri di metodologia dello studio, storia, filosofia, musica, informatica e telematica; e anche corsi di fotografia, chitarra, oltre ad alcune visite guidate ai monumenti di Palermo. I rapporti tra scienza, filosofia e fede sono oggetto di un interesse sempre vivo non solo per gli addetti ai lavori, ma anche per chi, pur non essendo uno specialista, vuole capire * Alessandro Di Vita è dottorando di ricerca in Pedagogia presso il Dipartimento di Pedagogia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Navarra (Pamplona).

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se i progressi della scienza e le aperture filosofiche alla fede rivelata possano conciliarsi. Le tre relazioni qui pubblicate sono il risultato di tre incontri organizzati dal Centro Monte Grifone e rivolti soprattutto a studenti dell’ultimo biennio dei licei e a giovani universitari. Con la loro presentazione, si intende offrire qualche risposta qualificata all’esigenza dei giovani d’oggi di approfondire in modo sistematico la conoscenza dei fondamenti del sapere scientifico. I temi oggetto di riflessione sono stati affrontati da alcuni rappresentanti dell’ambiente accademico palermitano, professionisti che si dedicano con passione alla ricerca scientifica nei campi della fisica, della pedagogia, della bioetica e della filosofia. I tre studiosi hanno incontrato gli studenti nei mesi di marzo e aprile del 2005 presso i locali della libreria “Kalós” di Palermo, in tre diverse occasioni in cui hanno avuto modo di esporre i loro temi e suscitare negli adolescenti, attraverso il dialogo, linee di ricerca personali. La prima relazione, Scienza e fede: considerazioni per un percorso di ricerca personale, è presentata con uno stile colloquiale e in modo sintetico, tale da facilitare la riflessione personale. L’autore, Diego Molteni, un fisico di professione, sulla base di alcuni principi che già la coscienza comune può intuire nella quotidianità, affronta il tema del rapporto esistente tra scienza e fede. La «limitatezza» dell’uomo, la sua «reale capacità» conoscitiva e il suo esser stato «voluto» da un Altro sono il filo conduttore del suo discorso. Sulla base di queste acquisizioni, egli cerca di far luce sull’identità (sullo statuto epistemologico) e sui compiti conoscitivi della scienza contemporanea, sul suo aspetto «quantitativo» e sul rigore della sua logica matematica. Queste considerazioni avviano già il dibattito sulla presunta e assoluta certezza della conoscenza scientifica, ma anche sulla provvisorietà delle sue ipotesi, ancorché possa scoprire, e abbia scoperto, delle «verità», conosciute universalmente. La scienza, infatti, nel suo processo conoscitivo, non può non tener conto di alcune «opzioni metafisiche implicite» comprendenti quegli elementi della realtà non immediatamente evidenti o verificabili, perché di natura 2

L’uomo tra scienza, fede, filosofia


qualitativa. Tali opzioni permettono di conoscere la realtà a livelli più profondi di quelli dell’esperienza empirica, smentendo la pretesa che la conoscenza scientifica sia l’unica conoscenza certa del reale. L’alternativa metodologica non è, però, già la conoscenza che ci deriva dalla fede rivelata (l’insieme delle verità rivelate nelle Sacre Scritture), poiché, non assumendo più come criterio di verità i procedimenti e le operazioni del metodo matematico, si può comunque conoscere la realtà per vie a noi ancora accessibili: queste sono le vie della ragione filosofica. In definitiva, ammettendo che la ragione umana non può essere ridotta a mente «algoritmica», il professor Molteni giunge quasi a dimostrare la spiritualità dell’uomo (gli altri due saggi qui presentati, del professor Bellingreri e del dottor Sesta, ne daranno una dimostrazione più ragionata ed esaustiva). Nell’ultima parte del suo breve saggio entra, difatti, in merito all’oggetto di conoscenza della fede rivelata. Esso non è il «miracolo» o solo un insieme di dottrine sulla base delle quali regolare la propria vita. Esso è, innanzitutto, una persona in cui credere e da conoscere: Gesù Cristo, l’unico Figlio di Dio che può dare ragione della creazione e dell’alta dignità della persona umana. Seguendo l’esempio e le parole di Gesù – certo – si può scoprire il senso autentico della libertà umana e della sua destinazione ultima, ma l’atteggiamento di ricezione della fede non è mera accettazione, accoglienza passiva di una verità cui abbandonarsi ciecamente. Esso è piuttosto conseguenza di una disposizione interiore alla ricerca razionale di una verità divina che ci spinge, innanzitutto, a credere per capire (credo ut intelligam) il dono ricevuto. Cercare di capire con la ragione le connessioni delle “operazioni mentali di Dio” avvenute nella storia dell’umanità, in specie negli ultimi duemila anni, nella misura che ci è data, non è questione impossibile o troppo pretenziosa. Fede e ragione cooperano insieme alla ricerca della verità. Ma la scienza non impedirà di credere se la volontà umana non opporrà il suo rifiuto, e se l’intelletto umilmente riconoscerà l’esistenza di una Verità che lo trascende. Il mondo, per l’uomo, non è un limite alla conoscenPresentazione

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za di Dio (neppure le violenti forze della natura e il male morale lo sono): è piuttosto il tramite per giungere a lui. Il limite sta invece in noi, nelle nostre capacità conoscitive e nei condizionamenti cui siamo continuamente sottoposti. È per questo che l’umiltà – a questa il professor Molteni ha fatto spesso riferimento durante il primo incontro con i giovani – risulta come disposizione fondamentale del vero ricercatore. La seconda relazione, Una dimostrazione pedagogica dell’esistenza della persona, presenta un argomento più specifico: l’autore individua il legame esistente tra fede e filosofia, attraverso una descrizione dell’esperienza personale di Edith Stein, donna e filosofa (allieva di Edmund Husserl, fondatore del metodo fenomenologico),1 ebrea che si converte al cattolicesimo, ricercatrice di verità che entra nel Carmelo e offre la sua vita morendo martire ad Auschwitz e diviene santa della Chiesa (canonizzata da Giovanni Paolo II nel 1998 e successivamente proclamata copatrona d’Europa). L’itinerario intellettuale della Stein – caratterizzato da una perfetta unità tra pensiero ed esistenza vissuta – è scandito da alcune tappe, per la precisione tre (la conversione alla psicologia scientifica, quella alla filosofia come conoscenza vitale e formatrice e quella alla fede cattolica), che la indussero a maturare l’idea di una Bildung cristiana (educazione cristiana) qualificata in senso proprio come categoria filosofico-pedagogica. Ella volle chiaramente pensare questa categoria nell’orizzonte di una metafisica cristiana. I tratti fortemente autobiografici del suo sistema teoretico denotano l’impegno di voler pervenire a una conoscenza oggettiva del suo vissuto soggettivo. A ben vedere, l’autore sembra voler porre in rilievo la verità 1 È bene ricordare che il metodo fenomenologico, inteso come analisi della struttura oggettiva dei vissuti personali (Erlebnisse), fu fondato da Edmund Husserl (18591938), filosofo tedesco che funse da stella polare per un gruppo di discepoli che avrebbero fatto la storia della fenomenologia contemporanea. Tra questi si possono menzionare: M. Scheler, R. Ingarden, D. Von Hildebrand, E. Stein, M. Merleau-Ponty. Ognuno di questi pensatori diede vita a un sistema filosofico originale. Tra le opere di Husserl che meglio spiegano le funzioni del metodo fenomenologico si possono ricordare: le Ricerche logiche, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale.

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L’uomo tra scienza, fede, filosofia


secondo cui – come E. Stein dimostra – i problemi vanno pensati nel loro ordine proprio. L’ordine pedagogico in cui si colloca l’esistenza della Stein è, infatti, lo stesso ordine in cui va “interpretata” la Bildung cristiana. Prima di ogni interpretazione (Auslegung) di ordine teologico, essa va vista nella situazione originaria in cui è sorta. Essa trova la sua origine nell’ontologia dello spirito umano (pneuma), irriducibile a meccanismi psichici (psyché). E. Stein scopre l’esistenza dello spirito prima di abbracciare la fede cattolica e per mezzo di una filosofia fenomenologica liberata da ogni indebita interpretazione idealistica; questa prospettiva filosofica è presentata nell’opera Psicologia e scienze dello spirito. Il progetto di una «filosofia cristiana» ideato dalla Stein si presenta come risposta esistenziale e «“vocazione originaria” del filosofare, che è la ricerca della verità tutta intera, la tensione a un senso e un senso assoluto per l’esistenza». La filosofia, così intesa, ha una destinazione nella pratica della vita quotidiana che mostra la sua educabilità proprio nell’accettare il «soccorso» del logos e della persuasione che contribuiscono a soddisfare, insieme all’impegno della volontà, il bisogno metafisico che segna l’animo umano. L’idea di Bildung proposta da E. Stein apporta anche uno specifico contributo teorico alla pedagogia scientifica: l’analisi fenomenologica dell’empatia proposta in Il problema dell’empatia, difatti, mostra la possibilità che la relazione educativa possa essere interpretata come relazione empatica, cioè come un certo modo di abitare il mondo personale degli uomini, un modo che presenti condizioni adeguate per costruire il proprio sé autentico come esito di un lavoro formativo che si attesta sulle istanze veritativa, etica e spirituale.2 Queste sono le conseguenze sul piano educativo di una lettura “pedagogico-scientifica” delle opere di E. Stein, in particolare della sua tesi dottorale (Il problema dell’empatia), che contiene dei prodigiosi “fermenti pedagogici” latenti, anche se l’autrice non li ha mai intenzionalmente indicati 2 Cfr. A. Bellingreri, Per una pedagogia dell’empatia, Vita e Pensiero, Milano 2005, pp. 191-206.

Presentazione

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come tali. Per questo, la dimostrazione della spiritualità dell’uomo o dell’esistenza della persona operata qui dal professor Bellingreri attraverso una lettura fenomenologico-ermeneutica della vita e del pensiero di E. Stein, appare un buon preambolo per una pedagogia dell’empatia che voglia istituire questa, mediante una riflessione razionale stringente, come categoria pedagogica – quindi non già o non solo una Bildung che si configura nell’orizzonte di una metafisica cristiana –, presentandola quale forma di conoscenza autentica e adeguata dell’altro (comprensione empatica), e, insieme, vedere in essa l’essenza educativa, cioè ciò che definisce essenzialmente l’educazione. Sotto questo aspetto, l’autore è molto più vicino alla Stein non ancora convertita alla fede cattolica, quella che perviene al senso di un’ontologia dello spirito attraverso una reinterpretazione dei concetti fondamentali della psicologia sperimentale. Il metodo fenomenologico messo in atto da E. Stein – con cui ella si mantenne fedele al primo Husserl3 – per pervenire all’ontologia dello spirito si caratterizza per tre aspetti fondamentali: il primo consiste «in una messa tra parentesi di ciò che noi, in modo spontaneo, sappiamo, per potere affermare solo ciò che si mostra con un’evidenza tale da non poter essere smentito. L’evidenza […] è il criterio della verità». Il secondo è l’aspetto che permette alla filosofia fenomenologica di definirsi «intuizione dell’essenza» (Wesensschau), intuizione di ciò che è essenziale in una realtà (umana o no): esso permette di conoscere una realtà non in superficie o negli aspetti accidentali, ma in quegli elementi profondi che sono in quella permanenti. Per ultimo, la coscienza che è come vuotata di tutti i suoi giudizi con l’epoché (la messa tra parenteIl maestro di E. Stein, Edmund Husserl, difatti, con la prospettiva complessiva presentata nell’opera intitolata Idee, si era allontanato dal significato originario che egli stesso aveva associato al metodo fenomenologico, interpretandolo idealisticamente: la conoscenza conseguita col metodo fenomenologico non è una forma di allucinazione che nasce e rimane nella coscienza del soggetto, ma è il risultato di una “verità” che la coscienza ha ricevuto direttamente dall’esperienza reale, una verità “incontrata” di cui la coscienza si è resa edotta. Di questo E. Stien era perfettamente convinta, come gli altri allievi del maestro. 3

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L’uomo tra scienza, fede, filosofia


si del nostro sapere), avendo di fronte solo il mondo coi suoi significati, può adesso riconoscere la sua essenza, cioè riscoprirsi come donatrice di senso, «capacità reale dell’io di cogliere ed esprimere il senso di ogni realtà, che si rivela allo spirito che vuole conoscerlo». Questi tre aspetti del metodo fenomenologico sono gli stessi che restano presenti come «elementi vitali» nella prospettiva ermeneutica: questi elementi che hanno caratterizzato la ricerca di senso di E. Stein costituiscono come la base per poter proporre lo studio di una pedagogia scientifica e, in particolare, di una ontologia pedagogica di stile ermeneutico. Le due prospettive (la fenomenologica e la ermeneutica) si fondono nello stile proprio di una pedagogia fondamentale che studia «l’educazione in quanto tale, nel suo intero o nella sua verità». La pedagogia fondamentale di stile fenomenologico-ermeneutico, in definitiva, studia i problemi fondamentali dell’educazione mantenendosi in una zona di confine tra la filosofia e tutte le altre scienze, in particolare quelle umane, e privilegiando, da un lato, il confronto dialettico in senso ermeneutico con queste scienze, e dall’altro, la razionalità pedagogica come criterio adeguato per guardare la realtà educativa come orientata al compimento dell’uomo (homo) in quanto uomo (vir). La Bildung cristiana prospettata da E. Stein costituisce, rispetto a questo tipo di pedagogia fondamentale, una filosofia tout court che è audacemente proiettata verso la contemplazione del Mistero, attestante l’avvento di un nuovo paradigma pedagogico aperto a una «antropologia soprannaturale» che ha come Archetipo l’«Immagine visibile dell’Invisibile»: Gesù. Questo è il senso in cui va intesa la Bildung della Stein negli scritti sull’educazione religiosa raccolti ne La vita come totalità. Nel terzo e ultimo saggio, il dottor Sesta presenta una descrizione chiara del modo in cui l’uomo concepisce la conoscenza di sé e del mondo attraverso gli strumenti e i metodi propri della scienza e della filosofia; egli dà, inoltre, utilizzando l’unico metodo della metafisica, la confutazione (elenchos) o metodo dialettico in senso socratico, una dimostraPresentazione

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zione dell’esistenza della persona contro ogni riduzionismo scientista. La coscienza comune accredita una fiducia maggiore alla scienza piuttosto che alla filosofia, poiché si pensa che, nella ricerca della verità scientifica, lo scienziato abbia a che fare con “dati di fatto”, mentre il filosofo con idee che esistono solo nella sua mente: per questo, il primo possiederebbe più prestigio e credibilità del secondo. In realtà, come è spiegato bene dal dottor Sesta anche con esempi concreti, la scienza e la filosofia possono studiare i medesimi problemi e assumere gli stessi oggetti, ma utilizzando metodi e linguaggi diversi: se la scienza spiega gli oggetti che indaga secondo il paradigma fisico-chimico-matematico, la filosofia li comprende secondo i principi propri della ragione che costituisce, a ben vedere, il suo stesso metodo.4 Questo tipo di comprensione filosofica del mondo e dell’uomo, a differenza delle spiegazioni della scienza, è, nondimeno, vera conoscenza, cioè conoscenza adeguata della realtà che vediamo con gli occhi del nostro corpo. «Con la nascita delle scienze sperimentali, sarà chiaro che, mentre le spiegazioni della scienza fanno riferimento a ciò che può essere sperimentato sensibilmente, dunque al mondo della materia, la filosofia attinge il mondo dell’anima, dei principi immateriali e invisibili. Questi principi non sono meno reali per il fatto che non si vedono. Anche la vista non si vede, eppure è il principio che spiega tutto ciò che si vede». La natura umana è una realtà molto complessa, costituita da distinte dimensioni di ordine materiale e spirituale: per questo, è giusto e legittimo – e potremmo dire anche “doveroso” – risolvere i problemi nel loro ordine proprio, guardando la realtà in una dimensione specifica secondo il punto di vista particolare della scienza chiamata in causa per indagarla. Se non si segue questo criterio, si corre il serio rischio di esaurire la conoscenza dell’intera natura umana nei risultati conseguiti da un’unica scienza particolare che, avendo licenza d’indagare una particolare sezione del reale o dimensione umana, 4

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Cfr. E. Berti, Introduzione alla metafisica, UTET, Torino 1993, pp. 111-113.

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indebitamente, si esprimerebbe su problemi che essa non è chiamata a risolvere e risponderebbe a domande che esigerebbero un diverso tipo di razionalità e un approccio disciplinare distinto. Ciò che la scienza non può fare, e non è chiamata a fare, è pronunciarsi circa l’essenza delle cose e dell’uomo, poiché essa non ha gli strumenti per farlo: questo proposito, da parte della scienza, coinciderebbe – come affermò una volta Galilei – con «l’impresa vana di tentar le essenze». D’altro canto, la filosofia non è chiamata a far luce su quelle dimensioni del reale che sono indagate con i criteri di oggettività intesi dalle scienze positive. Come è noto, nella scienza contemporanea, il concetto di oggettività ha assunto una funzione vicaria, sostituendo il requisito stesso di verità. Oggettivo, in tal senso, significa “vero” o ciò che può essere “verificato” sperimentalmente attraverso le note metodologiche della ripetibilità e controllabilità di un fenomeno o di un fatto. I parametri di scientificità di un sapere vanno individuati nei concetti di «rigore» e di «oggettività». Il rigore è la caratteristica di quel discorso scientifico in cui le singole affermazioni devono risultare giustificate e logicamente correlate; la giustificazione di tali affermazioni può essere sostenuta in quanto direttamente fondata su criteri di accertamento dei dati fenomenici, dato che ogni scienza ha poi un modo tutto suo di concretizzare i requisiti del rigore. Nell’accezione più diffusa, l’oggettività scientifica, nella cui definizione rientrano i criteri fondamentali attraverso cui si precisa il concetto stesso di rigore, è qualificata come intersoggettività e, insieme, come indipendenza dal soggetto. Questi due concetti appaiono, di primo acchito, contraddittori, poiché ci si può obiettare: come si può concepire una conoscenza valida per molti soggetti, sia pure per una comunità scientifica, un conoscere indipendente dal soggetto, se l’attività conoscitiva è, per sua natura, personale, cioè propria di un soggetto? A questa domanda si può rispondere ammettendo la possibilità che tra i membri di una comunità scientifica si possa trovare un accordo sui significati specifici e sui modi di utilizzare le stesse nozioni Presentazione

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nell’ambito di una scienza. «In altri termini, l’accordo intersoggettivo a proposito di una certa nozione, sia essa concreta o astratta, risulta dal fatto che i soggetti interessati dispongono di un certo numero di operazioni, già comunemente condivise, le quali permettono di verificare l’uso uniforme che essi fanno di questa: ciò può già risultare a livello di esperienza quotidiana, ma risulta ancora più evidente nel caso dell’intersoggettività scientifica, che è sempre legata all’uso di procedimenti standardizzati, accettati e condivisi da una comunità di scienziati in una data epoca storica».5 La filosofia ci dice il perché delle cose: tale perché “ha a che vedere” con le convinzioni e i valori morali che una persona interiorizza come ideali di vita: Socrate stava in prigione negli ultimi giorni della sua vita non perché le sue gambe lo portarono lì, ma perché le sue convinzioni morali erano tali che egli preferì la prigione alla trasgressione delle leggi di Atene, la morte ai rimorsi di coscienza. In tal senso, la filosofia studia l’anima, la scienza il corpo: questa dualità umana è ineludibile. Il dottor Sesta mette in evidenza l’alta dignità dell’uomo e la sua superiorità di natura rispetto a tutti gli altri esseri. In tal senso, contro l’evoluzionismo darwiniano che opera una riduzione ontologica dell’uomo all’animale non razionale e la teoria freudiana che individua negli istinti sessuali l’origine di ogni azione umana «sublimata», propugna un ritorno alla «persona» superando ogni forma di equiparazione indebita dell’uomo con le altre forme viventi: l’anima è il principio di unità della persona umana in cui si attestano le sue istanze spirituali e morali. Le scienze fisico-chimico-matematiche non ne possono dimostrare l’esistenza, ma neppure possono ammetterne semplicisticamente l’inesistenza; la filosofia, invece, ha gli strumenti metodologici e concettuali atti a darne ragione. Partendo dai vissuti della nostra vita quotidiana, essa può dimostrare che noi siamo più che agglomerato di atomi, più che 5 E. Agazzi, Il bene, il male e la scienza. Le dimensioni etiche dell’impresa scientifico-tecnologica, Rusconi, Milano 1992, p. 30.

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L’uomo tra scienza, fede, filosofia


corpo, più che sistema psico-fisico: siamo un’unità di corpo e spirito. Ciascuno di noi è una “persona”. «L’origine da una materia comune, quale può essere la vita organica, non cancella dunque le differenze qualitative tra le varie forme di vita». I tre relatori hanno seguito nella loro esposizione il filo conduttore della ricerca della persona: la certezza della sua esistenza, in definitiva, è il risultato cui pervengono – assumendo punti vista disciplinari, metodi e linguaggi diversi – la scienza, la fede e la filosofia quando sono impegnate insieme nella ricerca della verità sull’uomo e sul mondo. La conclusione, allora, è questa: il mondo, e in esso l’uomo con i suoi problemi, i suoi travagli e i suoi interrogativi, pur nel mistero che li vela, hanno una loro intellegibilità. Il Centro Culturale Monte Grifone ringrazia sentitamente i tre relatori intervenuti, augurandosi che in futuro possano ripetersi – come è auspicabile – incontri culturali qualificati come questi, all’insegna del dialogo con le nuove generazioni e a beneficio della loro formazione integrale.

Presentazione

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1

Scienza e fede: considerazioni per un percorso di ricerca personale Diego Molteni*

1

Premessa

Da un incontro con studenti liceali, tenutosi il 9 marzo 2005, ho avuto lo spunto per scrivere queste brevi considerazioni sul rapporto tra fede e scienza. Mi sia consentita una esposizione disinvolta, colloquiale, lasciando al lettore la possibilità di sviluppare autonomamente queste idee e di approfondire con la ricerca personale il loro valore di verità. Inquadriamo le nostre considerazioni nella cornice di questo quadro di fondo: “L’uomo è un essere limitato”. • Limitato in tantissimi sensi: fisici, intellettuali, morali… • L’uomo non è il padrone assoluto della sua esistenza. • Certamente possiamo suicidarci (e non è neppure detto che riusciamo veramente ad annullarci, ad annichilirci; al dire di alcuni qualcosa di noi è eterno!), ma certamente non siamo stati noi a darci l’esistenza. La nostra esistenza è frutto di una grandissima varietà di circostanze fisiche, intellettuali, morali. Siamo esseri limitati, dati, con la nostra natura, la nostra struttura (se non ti piace la parola natura). * Diego Molteni è Professore Associato di Teoria della Relatività presso la Facoltà di Scienze dell’Università degli Studi di Palermo.

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«La nostra esistenza è stata voluta». Così Paul Davies chiude il suo libro La mente di Dio: «La nostra esistenza è stata voluta». Ma proprio perché siamo stati “voluti”, ne segue che ciò che siamo non è in modo totale e pieno solo nostro, così da poterci comportare da padroni, arbitri insindacabili. E così anche il nostro rapporto col mondo è segnato dalla nostra finitezza. Il mondo non è dipendente da me, non è totalmente mio. Va bene, sono “finito”, sono limitato … e allora? Accettare la nostra finitezza ci deve portare a essere umili, a non essere così sicuri di noi stessi, a guardare i fatti, ad ascoltare le esperienze degli altri, a essere aperti, a non prendere come metro di giudizio il mio interiore sentire, a rispettare il dato della nostra natura, a cercare di capire e rispettare il progetto che non è stato ideato da noi. La mia ira o il mio compiacimento mi possono accecare. La sincera ricerca della verità e l’impegno di conformarsi a essa è il miglior modo per risolvere qualsiasi conflitto. 2

Scienza e fede in breve

In “soldoni” il problema del rapporto fede-scienza, in fin dei conti, è riassunto banalmente in: • Gli antichi uomini adoravano dei e attribuivano a essi fatti che la scienza moderna ha spiegato. • La scienza spiegherà ogni miracolo… • Galileo, la Scienza, aveva ragione; la Chiesa, la Fede lo ha condannato. I soldoni, però, molto spesso, sono falsi, sono patacche! Ma andiamo al dettaglio dell’analisi che vi propongo. 2.1

Scienza

La scienza (fisico-chimico-matematica) attuale è basata sulla lettura dell’aspetto quantitativo di ogni fenomeno reale. Pone 14

L’uomo tra scienza, fede, filosofia


il filtro della quantità ai suoi occhi. Collega numeri, cerca di scoprire ricorrenze, regolarità, che una volta che sono ampiamente confermate, essa chiama “leggi”. Cerca di costruire dei modelli semplici alla base della molteplicità dei fenomeni. Recependo del reale il solo aspetto numerico, si affida alla matematica, al rigore della sua logica. Qui nasce la sua forza. E la natura, interpellata, risponde. Risponde sì o no alle previsioni dei modelli. È evidente che essa è anche scritta more matematico, come diceva Galileo, cioè in termini quantitativi, numerici, matematici. La forza della scienza è nel riscontro che la natura offre alle sue ipotesi. Tuttavia la conoscenza scientifica, a rigore, racchiude sempre un certo grado di provvisorietà. Ogni teoria, ogni modello è valido finché non venga contraddetto da qualche risultato sperimentale. Per avere una conoscenza scientifica certa, anche restando nell’ambito del suo stesso metodo, si dovrebbe, prima di trarre conclusioni definitive, sperimentare tutto lo sperimentabile e per un tempo infinito! Si capisce subito che la conoscenza scientifica ha delle opzioni metafisiche implicite nel suo agire: la reale, oggettiva, consistenza del mondo; il criterio di semplicità; la fiducia nella comprensibilità; la possibilità di individuare entità qualitativamente differenti. In questa ultima opzione si parla del tempo, dello spazio, dell’inerzia, si danno criteri operativi per misurarli. Non si risponde alla domanda “che cos’è il tempo?”. Anzi, possiamo dire che questa domanda non può essere posta nell’ambito della scienza, poiché per la scienza questa domanda non ha senso. 2.2

Qual è, dunque, il grado di veridicità della scienza?

Oggidì grazie alla tecnica, ispirata dalla scienza, e grazie al suo dominio (per altro non assoluto) sulla natura si è indotti a vedere nella scienza l’unica forma di conoscenza certa, sicura, indiscutibile, paradigma della verità. Ma a questo punto possiamo porci la domanda in termini stringenti: “La conoscenza scientifica è l’unica conoscenza certa del reale?”. Un no1. Scienza e fede: considerazioni per un percorso di ricerca personale

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stro giovane amico entusiasta della scienza ci risponderebbe: “sì!”. Sì? Ma perché? In base a quale criterio tu dai questa risposta? Se vuoi giudicare la veridicità del metodo, non puoi usare il metodo stesso. D’altra parte la domanda stessa è, mi pare, difficilmente inquadrabile come domanda scientifica, empiricamente verificabile con un esperimento. Dire “sì” mi sembra un’assunzione molto forte sul piano della ricerca della verità delle cose, della conoscenza del reale. Direi che è molto più di un atto di fede nella scienza, è un atto di volontà di esclusione di ogni forma di conoscenza che non sia riducibile in forma empirica. Questo non significa che la fede sia l’alternativa alla conoscenza scientifica. Significa dare spazio alla ragione non formalizzata nella matematica, dare spazio alla filosofia. Resta la possibilità di dire “questa domanda non ha senso (scientifico)” e, pertanto, la rifiuto. Ma non sarebbe questo un forte dogmatismo scientista? La situazione diventa maggiormente complessa se teniamo conto delle acquisizioni della logica della dimostrazione matematica. Vale la pena almeno sfiorare questo argomento, perché è anche ricco di aspetti meta-fisici. Gödel

2.3

Kurt Gödel nel 1931 ci dimostra in termini rigorosi, assoluti, matematici che, nell’ambito di un linguaggio formale sufficientemente ricco, esistono sempre delle proposizioni, non banali, sicuramente vere o false, ma che non sono dimostrabili attraverso procedure algoritmiche di dimostrazione. Non esiste alcuna procedura algoritmica, meccanica, che conduca a dimostrare la verità o la falsità di quelle proposizioni. Mi pare che abbiamo una visione riduttiva della dimostrazione matematica: essa sarebbe un puro processo “meccanico” di logica che parte da determinate premesse. Ma Gödel ci mostra che non è così.1 1

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Si veda l’appendice per capire come opera la prova di Gödel.

L’uomo tra scienza, fede, filosofia


L’uomo, anche un matematico al lavoro, non è un calcolatore, non è un agglomerato molecolare che operi meccanicamente. Chi ha sentito parlare della meccanica quantistica mi dirà che questo è ovvio, già assodato dalla fisica moderna. Ma, in tal caso, mi pare che la situazione non migliori. Mi domando: come fa un sistema non deterministico a produrre risultati assolutamente univoci, certi, senza la minima possibilità di incertezza? Personalmente sono convinto che la capacità di astrazione dell’uomo non è riproducibile attraverso processi algoritmici, meccanici, né quanto-meccanici. Nel momento stesso in cui diciamo “il pensiero è un processo descrivibile esaustivamente in termini deterministici”, ammettiamo che il pensiero è algoritmico. Se ciò fosse vero, avremmo sempre delle aree di indecidibilità nella nostra conoscenza. Quali siano queste aree non lo so, ma mi azzardo a dire che – dato che qui trattiamo del pensiero di fronte al reale in generale – molte questioni metafisiche sono indecidibili alla mente algoritmica. Se ciò è vero, allora la nostra mente non è algoritmica. E noi siamo molto più ricchi, più liberi, più irriducibili a meccanismo di quanto non possiamo pensare. Direi quasi che siamo vicini alla dimostrazione della spiritualità dell’uomo. Anche se certamente qualche bravo filosofo mi dirà: c’era bisogno di complicarsi tanto la vita? Hai mai incontrato il problema degli universali? Come è possibile che una struttura materiale, per quanto complessa, possa accogliere in se stessa nozioni astratte, generalissime, non riscontrabili nell’empirico? Chi ha mai toccato con mano lo “zero” o anche il povero “due”? E qui siamo proprio agli albori dell’astrazione. Chi ha misurato il peso, la sezione d’urto della “parola”, dell’“idea”? Hai mai toccato con mano un’idea? Eppure tutti ne parliamo come di una cosa quotidiana, anche quando non ne abbiamo una buona per risolvere i nostri problemi. Già… i “problemi”… Fermiamoci qui, poiché ci rendiamo conto che tutto il nostro parlare è basato su enti astratti. 1. Scienza e fede: considerazioni per un percorso di ricerca personale

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Fede

3

Che intendiamo con fede? Credere, ritenere vero, senza dimostrazione, che Dio esiste? Credere che Gesù Cristo è Uomo e Dio nello stesso tempo? Tante religioni sono ricche di fatti “soprannaturali”. Ma purtroppo esistono anche uomini imbroglioni, che nella loro ignorante furbizia mentale ingannano se stessi e gli altri, fanatici, che si sentono inviati da Dio per una speciale missione, e anche esistono uomini sprovveduti e ingenui che scambiano lucciole per lanterne. Mi permetto questa considerazione: l’unica persona che ci ponga un serio problema di fede è Gesù Cristo. Infatti, Adam Smith, Maometto, Budda, Mosè, Abramo, ecc. hanno detto di sé di essere, al massimo, degli illuminati, degli inviati per manifestare la volontà di Dio. Nessuno ha rivendicato per sé uno status speciale. Solo Gesù si propone come Figlio di Dio in un senso non metaforico: «Filippo, chi vede me vede il Padre» (Gv 14, 9). Direi che il problema della fede è questo: Gesù Cristo è veramente quello che lui dice di essere? In altre parole, egli e i discepoli, che lo hanno seguito e hanno dato origine al cristianesimo, erano dei pazzi? Tutto il resto sono dettagli. Certamente le istanze della fede e della scienza sono incarnate in uomini concreti che possono sbagliare. Certamente sbaglia il teologo “a trasporre nel campo della dottrina della fede una questione di fatto appartenente alla ricerca scientifica” e quindi a condannare Galileo. Certamente sbaglia Steven Hawking dicendo che il mondo si è auto-creato a partire da una fluttuazione quantistica del vuoto, e molto più gravemente sbaglia Sartori2 a non riconoscere la dignità della persona umana in colui che non è tuttora cosciente di essere auto-cosciente. Ma i contenuti delle affermazioni della fede e della scienza vanno esaminati, compresi alla luce della verità. Mi/Vi ricordo che Gesù Cristo stesso ci propone di credere alle opere che egli ha compiuto: «se non credete a me, alme2

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Si veda il Corriere della Sera, 27 febbraio 2005.

L’uomo tra scienza, fede, filosofia


no credete alle opere che io compio» (Gv 10, 38), operibus credite, e «la verità vi farà liberi» (Gv 8, 32). Per illustrare la qualità raziocinante della fede cristiana confrontiamola con questo fatto: non esiste alcuna prova storica che Maometto sia mai stato a Gerusalemme. Da quanto ne so, egli stesso non afferma di esservi stato, ma di aver sognato di essere stato assunto in cielo da Gerusalemme. I musulmani credono che ciò sia avvenuto realmente. La moschea di Omar si dice che custodisca il luogo sacro da cui Maometto avrebbe spiccato il volo per il cielo. I cristiani non chiedono la rinunzia all’uso della ragione. La verità è anche scientifica. Se Gesù Cristo non fosse realmente esistito e morto e risorto, la fede cristiana non avrebbe senso (cfr. 1 Cor 15, 14). Ma la scienza fisico-chimico-matematica ha gli strumenti per validare tale fatto? Per validarlo ora, adesso? Che vorresti perché fosse validato? Una serie di foto? La registrazione dei segnali fisici emessi dal masso che rotola via? La ripresa televisiva di un Gesù sfolgorante che sfreccia verso il cielo? Forse, possiamo riprodurre una “risurrezione” in laboratorio? Ci convincerebbe la testimonianza unanime di almeno una dozzina, no!, meglio dire di un centinaio di notai (di nazionalità diversa, di credo religioso diverso, ecc.) convocati appositamente per l’occasione? Oppure, più semplicemente, il sinedrio al gran completo e magari una certa folla stupefatta, così che il cristianesimo possa dimostrare di possedere il crisma della scientificità e della irrefutabilità? Non mancano i miracoli nel corso della storia. A Fatima il sole ha roteato nel cielo di fronte a migliaia di persone. Ne hanno scritto pure i giornali dell’epoca. Eppure gli scettici di ieri e di oggi non ne fanno gran ché: «sarà passato un micro black hole – dicono –, come escluderlo?». A Siracusa una banale immagine di ceramica della Madonna ha lacrimato anche di fronte ai giornalisti vere lacrime umane, «ma si sa, l’umidità fa brutti scherzi». A Lourdes gli occhi increduli di Alexis Carrel, al tempo medico scettico e futuro premio Nobel per la medicina, videro tornare alla normalità il ventre gonfio di una malata di tubercolosi intestinale. Resterà 1. Scienza e fede: considerazioni per un percorso di ricerca personale

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testimone autorevole e interdetto della forza misteriosa, trascendente, ma realissima, della fede. La Risurrezione, come tutta la vicenda di Gesù Cristo, si situa sul piano dell’iniziativa di Dio e della libera risposta dell’uomo e si trasmette attraverso la dimensione della fedefiducia. Questa dimensione non richiede l’abbandono della ragione, anzi, «la fiducia è una cosa seria!», diceva quella pubblicità. Ma il rigore assoluto, formale, non è esigibile alla realtà concreta dei rapporti umani, degli eventi storici. “Ahimé! Sarà sempre possibile la frode…, ma allora come faccio a decidere?”. Usa la ragione, valuta, indaga, verifica l’attendibilità dei testimoni, le premesse, l’ambiente… Alla fine nulla potrà costringerti a “credere”, ma la scienza non ti impedirà di credere. Per ultimo, voglio affermare che tra scienza e fede non vi è alcun problema. Il problema c’è tra scienziati presuntuosi ed ecclesiastici imprudenti. Al massimo il problema potrebbe porsi nel confronto ragione e fede. Non a caso il papa Giovanni Paolo II ha scritto la Fides et Ratio (1998). Comunque, la scienza, con le strettoie del suo metodo quantitativo, non ha poi molto da obiettare, anche se certamente essa è da ascoltare quale portatrice di notizie, aspetti, fatti della realtà, del mondo. Se, quindi, accetta con umiltà il suo ruolo di cooperazione alla ricerca della verità, essa sarà un efficace strumento per la comprensione e la costruzione di un mondo migliore, una finestra sul mondo che porterà anche alla contemplazione. Giovanni Paolo II ci disse che fides et ratio «sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità».3 Noi sappiamo perché il mondo è comprensibile: «Coeli narrant gloriam Dei» (Sal 18, 1).

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Giovanni Paolo II, Fides et ratio, San Paolo, Milano 1998, p. 3.

L’uomo tra scienza, fede, filosofia


Appendice Come opera la prova di Gödel (dal sito internet: http://www.shef.ac.uk/~puremath) Per avere un’idea di come opera la prova di Gödel ecco un teorema semplice: Teorema: Esiste una funzione f che assegna un intero positivo, a partire da un intero positivo, che non può essere calcolata da nessun computer. Nemmeno in linea di principio. Non è una questione di potenza! Che vuol dire “f che assegna un intero positivo, a partire da un intero positivo”? Ad esempio: La funzione aggiungi uno: n ---> n+1 La funzione aggiungi due: n ---> n+2 La funzione quadrato: n ---> n*n La funzione potenza di potenza: n ---> nn … ecc., ecc. Prova: Scrivere una lista P1, P2, P3, di tutti i possibili programmi che accettano un intero positivo come input e forniscono un intero positivo come output. Come si può fare? Scrivi tutte le possibili sequenze di simboli (“strings”, liste ovvero – orribilmente – stringhe) e scegli quelle che sono dei programmi di computer sintatticamente corretti. La stringa n. 1 sia “a” (che non è un programma), la n. 2 sia “b” (che non è un programma), la n. 3 sia “c”, la n. 21 sia “z”, la n. 22 sia “aa”, e così via. Avremo una sequenza che recita “la vispa Teresa…” (che non è un programma). Avremo la Divina Commedia (che non è un programma). Avremo un sacco di “strings” inutili, ma avremo anche tutti i possibili programmi (costruibili con un qualunque linguaggio di programmazione) che poi andiamo ri-numerando progressivamente. Così alla fine avremo P1, P2, P3, ecc. Se diamo, in input, un numero “n” al programma Pk, ne otteniamo il numero pk(n); così chiamiamo pk la funzione calcolata da Pk. Il teorema afferma che esiste sempre una funzione “f” che non è eguale ad alcun pk qualunque sia k. Facciamo attenzione al programma da Pn e diamogli in pasto “n” stesso, che cosa otteniamo? Otteniamo il numero pn(n). Ora definiamo proprio così la nostra “f”: essa aggiunge un “uno” al valore calcolato dalla funzione pn che agisce sul 1. Scienza e fede: considerazioni per un percorso di ricerca personale

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numero n. Cioè, f(n) = pn(n)+1. Vediamo che cosa fa questa funzione: Allora f(1) = p1(1)+1 che ovviamente è ≠ p1(1), quindi la nostra f è ≠ p1. Similmente f(2) = p2(2)+1 ≠ p2(2), e quindi f ≠ p2. Continuando allo stesso modo, vediamo che f ≠ pk per qualsiasi k. Ma scorrendo tutti gli indici “k” abbiamo preso in considerazione tutti programmi definiti inizialmente. La “f”, quindi, è ben definita e “calcolabile”, ma non è includibile nella serie delle P che abbiamo identificato prima. Essa opera un “salto di classe”. Il teorema di Gödel fa un uso esteso dell’idea che i programmi possono essere rappresentati da numeri e che essi possono operare su se stessi.

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L’uomo tra scienza, fede, filosofia


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Una dimostrazione pedagogica dell’esistenza della persona Antonio Bellingreri*

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La vita come totalità di Edith Stein

Agli inizi del triste gennaio 1933, Edith Stein tenne una conferenza sul tema «Formare la gioventù alla luce della fede cattolica», nell’ambito delle giornate di lavoro del Congresso dell’Istituto Germanico di Pedagogia Scientifica di Münster, svoltosi nella Frauenbundhaus di Berlino-Charlottenburg. Da pochi mesi aveva ricevuto presso questo Istituto l’incarico di tenere corsi di discipline filosofiche e pedagogiche. Il testo di questa conferenza fu pubblicato per la prima volta nel 1990 dai curatori dell’opera omnia, nel volume La vita come totalità che raccoglie, come dice il sottotitolo, gli Scritti sulla educazione [Bildung] religiosa.1 Alcune pagine appaiono, a una * Antonio Bellingreri è Professore Ordinario di Pedagogia generale e sociale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Palermo. 1 E. Stein, La vita come totalità: Scritti sull’educazione religiosa (trad. dal tedesco), Città Nuova, Roma 1994. L’«Archivum Carmelitanum Edith Stein» di Bruxelles iniziò, a partire dal 1950, la pubblicazione di tutte le opere, Edith Steins Werke. Sono stati curatori L. Gelber e M. Linssen, presso la Herder Verlag (Freiburg i.B. - Basel Wien; ma, nel caso di alcuni volumi, è indicata, come sede dell’editore, Louvain Freiburg i.B.); a tutt’oggi di questa edizione sono comparsi diciotto volumi (l’ultimo è uscito nel 1998). Dopo la canonizzazione (11 ottobre 1998), l’«Internazionale Edith Stein Institut» di Würzburg ha avviato, sotto la direzione di M. Linssen e con la collaborazione di H.-B. Gerl-Falkovitz, una nuova edizione critica, Edith Stein Gesamtausgabe in 24 Bänden, sempre per i tipi della Herder Verlag (Freiburg i.B. - Basel Wien). L’editore prevede di portare a termine il progetto nel 2008; nel caso di alcuni volumi, si tratta di semplice ripubblicazione. Per la stesura del mio saggio ho potuto consultare le Edith Steins Werke. Cito tale edizione tedesca con la sigla W, seguita

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prima lettura, una sorta di commento filosofico-pedagogico dell’enciclica di Pio XI, Divini illius magistri, diffusa, come è noto, il 31-12-1929 e dedicata al tema dell’educazione cristiana.2 Si può considerare questo testo come punto di riferimento per un’analisi della prospettiva di E. Stein sull’educativo, a motivo del suo carattere sintetico, che lo rende una sorta di breviario; ma anche a motivo della circostanza storica in cui venne scritto: quel tragico inizio del ’33, così gravido di conseguenze funeste per la Germania e l’Europa. Con esso sono raccolti altri testi e tutti ruotano attorno all’idea di Bildung cristiana; formano perciò una silloge che, rispetto alle altre opere dell’Autrice, si deve qualificare in senso proprio pedagogica o filosofico-pedagogica, come è preferibile esprimersi. Certo, quando accettò l’incarico a Münster, E. Stein dichiarò che era sua esplicita intenzione assumere il compito di una ricerca e «giustificazione dei fondamenti della pedagogia». Non si può però dire che col termine pedagogia Ella intendesse una scienza distinta, quanto al suo oggetto formale, da una filosofia dell’uomo e della sua educazione; l’esame dei suoi scritti mostra in modo sin troppo evidente, che per lei non c’è distinzione reale tra la pedagogia e l’antropologia filosofica dell’educazione. Si deve pertanto affermare che, con quella sua dichiarazione d’intenti, ella volesse piuttosto pensare la categoria di Bildung nell’orizzonte di una metafisica cristiana, tentativo che, poi, viene messo in opera, attraverso la dialettica di una posizione di principio antitetica alla sua: quella che pensa la formazione e i suoi problemi in primo luogo ed essenzialmente in un orizzonte psicologico; oppure, riconducibili a una concezione empiristica dell’esperienza, alda una cifra romana che indica il numero del volume, mentre viene indicato tra parentesi l’anno di edizione. La vita come totalità porta, nell’originale, il significativo (forse intraducibile) titolo, Ganzheitliches Leben; è stata pubblicata come W XII (1989). Il testo della conferenza «Formare la gioventù alla luce della fede cattolica» è, nella traduzione italiana, alle pp. 209-231 (W XII, pp. 209-230). 2 L’enciclica, precisamente, reca la data del 31.12.1929. Sul suo significato e sul contesto storico in cui va inserita, cfr. N. Galli (a cura di), L’educazione cristiana negli insegnamenti degli ultimi pontefici. Da Pio XI a Giovanni Paolo II, Vita e Pensiero, Milano 1992.

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l’interno di un paradigma positivistico, che nega per principio ogni ulteriorità rispetto al dato «puramente naturale».3 La Bildung è quindi vero contenuto fondamentale e metodo insieme per la riflessione condotta ne La vita come totalità. Di che si tratta? Reputo, in primo luogo, che la categoria di Bildung sia quella che interpreta nel modo più adeguato l’itinerario esistenziale di E. Stein. In particolare, la sua Bildung personale avviene attraverso successive conversioni, che costituiscono un approfondimento, un pervenire per tappe a riconoscere e a scegliere la propria forma personale. Noteremo che già prima dell’adesione piena alla fede cattolica, Ella ha vissuto una prima conversione alla psicologia scientifica, da lei intesa in una caratteristica accezione esistenziale; e una seconda conversione alla filosofia, da lei esperita come conoscenza vitale e formatrice. Vista in questa prospettiva, che non separa l’investigazione intellettuale e «gli stadi nel cammino dell’esistenza», tutta la sua costruzione teoretica presenta (anche quando il linguaggio appare molto tecnico) un forte carattere autobiografico; quasi che sempre si trattasse di dover pervenire a una conoscenza oggettiva del suo vissuto soggettivo. L’intera sua esistenza – la sua sete inesausta di verità, la tensione al compimento – si rappresenta allora come esistenza pedagogica: quasi un testo di pedagogia che ci offre un originale contributo nello stile della verità testimoniale. L’idea di Bildung però porta anche, in secondo luogo, un contributo di natura teorica, più specifico nel senso di una pedagogia scientifica. Per comprenderne la portata, si rende necessario analizzare, prima degli Scritti sull’educazione religiosa, le due opere anteriori alla conversione, Il problema dell’empatia e Psicologia e scienze dello spirito.4 L’analisi fenomenologiCfr. E. Stein, «I tipi della psicologia e il loro significato per la pedagogia» (1929), in Id., La vita come totalità: Scritti sull’educazione religiosa, pp. 44-49 (W XII, 47-51). 4 E. Stein, Il problema dell’empatia (trad. dal tedesco), Studium, Roma 1998 (è l’edizione che qui citerò; esiste infatti un’altra traduzione italiana, a cura di M. Nicoletti, col titolo L’empatia, Franco Angeli, Milano, 1986. L’opera è del 1917; non è stata pubblicata nelle Werke, ma a Halle, Bruckdruckerei des Waisenhauses); Id., Psicologia e scienze dello spirito. Contributi per una fondazione filosofica (trad. dal tedesco), Città Nuova, Roma 1996 (non è stata pubblicata nelle Werke, ma a Tubinga, Niemeyer, 1970). 3

2. Una dimostrazione pedagogica dell’esistenza della persona

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ca dell’empatia conduce E. Stein a pensare la struttura di una comunicazione autentica che apra per il soggetto la possibilità di esperire con altri soggetti un mondo comune e di abitare una comunità di persone. Come mostreremo, è possibile, a partire da questa analisi, interpretare la relazione educativa come relazione empatica e di riconoscimento reciproco, nella quale ciascuno, in virtù dello sguardo e del giudizio dell’altro, è aiutato nella costituzione del suo sé autentico. Il secondo testo contiene invece in abbozzo un’ontologia dello spirito, una sorta di dimostrazione filosofica e pedagogica dell’esistenza dell’uomo: la dimostrazione che lo spirito nell’uomo (pneuma) è irriducibile ai vissuti psichici (psyché) e vive di vita propria. È un aspetto di grande importanza sotto il profilo critico: in primo luogo, perché risulta con ciò chiaro che la scoperta dello spirito avviene per E. Stein in un tempo che precede la sua conversione e grazie alla filosofia fenomenologica; in secondo luogo, perché è proprio una tale ontologia dello spirito il presupposto primo per istituire il senso originario della Bildung. Ma quella di E. Stein è una Bildung cristiana, l’«Archetipo» di ogni uomo, Forma perfecta dell’esistenza, è per lei Gesù Cristo. Siamo di fronte a un’antropologia teologica? E che ne è della pedagogia, se – come appare a una prima lettura – il fine del cristiano, il fine dell’uomo e quello dell’educazione vengono a coincidere nell’«uomo delle Beatitudini»? Un esame attento dei testi, a nostro parere, non consente di sostenere fondatamente questa coincidenza dei fini. Soprattutto però «il senso e la possibilità di una filosofia cristiana» vanno analizzati in tutta la loro complessità; si tratta, a mio giudizio, di un’originale e articolata «situazione ermeneutica». Vedremo allora che la filosofia cristiana – coincidente per E. Stein con la filosofia tout court – è un modo possibile di concepire il pensare filosofico, in sé valido e legittimo. È lo stile filosofico proprio di chi decide di permanere nella frequentazione del Mistero; di mantenersi in un atteggiamento di ricerca «orante ed adorante» del Vero e ricevere come un dono offerto «la luce che viene dall’alto», senza tradire mai 26

L’uomo tra scienza, fede, filosofia


la convinzione che i problemi vanno però pensati nel loro ordine proprio. Del resto, ciò che l’Autrice intende per «filosofia cristiana» risponde per lei pienamente alla «vocazione originaria» del filosofare, che è la ricerca della verità tutta intera, la tensione a un senso e un senso assoluto per l’esistenza. Si tratta di una concezione per la quale la filosofia ha in quanto tale una destinazione in ultima istanza pratica – o poietico-pratica. E sarebbe meglio dire che si tratta di una concezione paidetica della filosofia, pensata ed elaborata come quella forma di sapere intesa, nel mondo della vita, a «portare soccorso», con il logos e con la persuasione, al bisogno metafisico del bene costitutivo di ogni uomo. L’esito è una posizione che contiene contributi utili per pensare oggi un’ontologia pedagogica, intesa – con e oltre Husserl – come ontologia regionale. Con e oltre Husserl, perché il metodo fenomenologico messo in atto da E. Stein è frutto di una sua personale rielaborazione critica. È la fenomenologia come metodo liberato dall’«interpretazione idealistica del metodo stesso», operata – a parere della Stein – dallo stesso Husserl già con il secondo volume delle Idee e che ne tradirebbe il senso originario. La fenomenologia, come cercherò di mostrare, conserva proprio quegli elementi sui quali utilmente si innesterà l’ermeneutica.5

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L’esistenza personale come Bildung

Il tempo dell’esistenza di E. Stein può essere considerato come una costante ricerca e progressiva conquista della forma personale, grazie alla quale Ella ha raggiunto la sua attuazione. Ora, questa consiste, a ben vedere, in un itinerario di approfondimento: un andare dalla superficie delle cose, da ciò che della realtà immediatamente ci si manifesta, alla profondità del reale, che è la profondità della superficie e che per lei coin5 Secondo il senso che a tale «innesto» è dato da P. Ricoeur, «De l’interprétation», in Id., Du texte à l’action. Essais d’herméneutique II, Seuil, Paris 1986, pp. 11-35.

2. Una dimostrazione pedagogica dell’esistenza della persona

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cide con la scoperta del nesso grazie al quale ogni ente determinato è legato all’Assoluto. Accostando con questa idea le tappe della sua esistenza e le opere del suo pensiero, reputo perciò che sia meglio parlare di successive conversioni di E. Stein: sono appunto i momenti della sua personale conquista di realtà, la progressiva conformazione alla sua essenza personale.6 All’origine di tutto è posta – così in fondo accade, diversamente, a ogni uomo – una determinata intuizione di sé, del mondo e del proprio rapporto col mondo. Questa comprensione globale del senso dell’essere si presenta, al soggetto che la vive o a chi in modo simpatetico la esperisce con lui, come un insieme di tensioni indefinite, un indefinito aspirare, che è desiderio d’essere in pienezza: un «ethos» originario – così lo chiama E. Stein – che si dà solo per adombramenti, tra i quali di tanto in tanto penetra, come in uno squarcio, un fascio di luce piena.7 La vita può diventare allora, così pensata e così vissuta, il tempo di una rivelazione sempre più adeguata (sempre meno inadeguata) di sé a sé, fino ad arrivare – se mai ciò possa accadere – a vedersi come in uno specchio perfettamente trasparente. È una rivelazione, lo vedremo, che secondo E. Stein non avviene in modo saltuario e che accade sempre in un’opera d’interpretazione critica dell’immagine (delle maschere) che ci costruiamo di noi stessi. Conosciamo alcuni aspetti della biografia di E. Stein, della sua infanzia e della sua giovinezza, attraverso il testo Storia di una famiglia ebrea. Lineamenti autobiografici; e della sua prima e piena età adulta, grazie ai due volumi dell’Autoritratto epistolare.8 Il primo fatto evidente è che, nonostante un 2.1

6 Cfr. M. J. Dubois, «L’itinéraire philosophique et spirituel d’Edith Stein», Revue Thomiste, 1973, 73, pp. 111-118; A. Bellingreri, «Una vita come ricerca: le conversioni di Edith Stein», Nova et Vetera (edizione italiana), 1999, 3-4, pp. 165-174. 7 Cfr. E. Stein, «Ethos della professione femminile» (1930), in Id., La donna. Il suo compito secondo la natura e la grazia (trad. dal tedesco), Città Nuova, Roma 1987, pp. 49-66; pubblicato come W V (1959). 8 E. Stein, Storia di una famiglia ebrea. Lineamenti autobiografici: l’infanzia e gli anni giovanili (trad. dal tedesco), Città Nuova, Roma 1992; opera scritta nel 1933-1934 e 1937 e pubblicato come W VII (1965). Id., Selbstbildnis in Briefen. I Teil: 1916-1934

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po’ di formalismo nell’ambiente familiare, grazie alla madre, donna forte e intera, Edith resta una figlia d’Israele. Porterà perciò – ecco un particolare da non trascurare – nel suo bagaglio culturale, anche la «valigia biblica». Colpisce comunque più di ogni altra cosa, la sua inquietudine che la porta, durante i primi anni di liceo, a definirsi «atea» e insieme sempre «assetata di verità».9 In che senso? Viene in chiaro qui un primo aspetto di quell’intuizione originaria, cui si è sopra fatto cenno, e il senso di ciò che possiamo chiamare la prima conversione di E. Stein, la conversione alla psicologia scientifica. Questa giovane donna ha sentito, sin dall’adolescenza, bruciarle dentro quasi fossero delle ferite, quelle domande che ogni uomo che viene a questo mondo sente urgere, prima o poi, nel proprio cuore: chi sono? Qual è l’impronta che mi definisce? Oppure, sinteticamente: qual è il segreto del mio cuore? Ora, è chiaro che non si può rispondere a questi interrogativi, se non si intuisce qualcosa della nostra origine (il donde) e del nostro destino (il dove); ciò solamente può farci comprendere se siamo fatti secondo un modello; se tale modello sia una sorta di dono gratuito, anche solo determinato dal caso; o se in qualche modo sia in nostro potere crearlo, dando una forma a ciò che è solo pura potenzialità. La prima conversione di Edith, che aiuta a capire qualcosa del suo «ateismo», è alla psicologia che a molti, in quei primi anni del secolo, sembrò potesse portare una risposta esauriente sul cuore umano. La psicologia sperimentale si presentava allora come una «scienza nuova», in possesso delle chiavi dell’anima, capace di conoscere i meccanismi secondo cui siamo fatti e la cui risultante è ciò che chiamiamo l’io. Trattandosi di meccanismi, è possibile perciò, conoscendoli, pae Id., Selbstbildnis in Briefen. II Teil: 1934-1942, pubblicati come W VIII (1976) e W IX (1977). Questi due volumi non sono ancora tradotti in italiano, mentre esiste una traduzione spagnola, in unico volume: Autorretrato espiritual (1916-1942), a cura di J. M. Garcìa Rojo, Ed. de Spiritualidad, Madrid 1996. È solo un florilegio invece il testo Id., La scelta di Dio. Lettere dal 1917 al 1942, Mondadori, Milano 1998. 9 E. Stein, «Gli anni di studio a Breslavia», in Id., Storia di una famiglia ebrea. Lineamenti autobiografici: l’infanzia e gli anni giovanili, pp. 168 ss.

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droneggiarli e svelare infine ciò che, solo per ignoranza, denominiamo segreto, ma che per la psicologia tale non è. È necessario solo il coraggio di accettarsi così come siamo, facendo morire il nostro orgoglio di fronte alle furberie e alla nascosta complicità con le tante tensioni che non esprimono la nostra «coscienza migliore», che si presentano anzi in evidente contraddizione con esse, ma che pure costituiscono il tessuto connettivo della nostra psiche.10 La seconda conversione avviene grazie all’incontro con Husserl, che E. Stein considererà sempre suo maestro, e con il Circolo fenomenologico di Gottinga.11 Da Husserl ella riceve la conferma della necessità di considerare, oltre il valore, anche i limiti della psicologia. E il primo limite è costituito dal fatto che non è possibile, come alcuni autori pretendevano, considerare le leggi della nostra conoscenza solo come leggi psicologiche. Se così fosse, ognuno resterebbe chiuso nell’ordine dei suoi pensieri e «vittima» in qualche modo del funzionamento della propria psiche. Se così fosse, soprattutto non sarebbe possibile parlare di una conoscenza oggettiva in sé valida, indipendentemente dai processi psicologici attraverso cui, quanto alla sua genesi, si forma in noi. Le leggi della conoscenza oggettiva sono invece razionali perché posti dalla ragione. Così come parlando in generale della «coscienza trascendentale», i vissuti personali del soggetto, nella misura in cui formano un’unità di senso intelligibile (trovata o posta che sia dal soggetto stesso), appartengono a un ordine razionale e fanno del soggetto un individuo di natura razionale.12 Da Husserl però E. Stein apprende in primo luogo un metodo nuovo di pensare, la fenomenologia, presentato dal maestro come quello che permette di considerare la filosofa una 2.2

10 Cfr. R. Cerri Musso, La pedagogia dell’Einfühlung: Saggio su Edith Stein, La Scuola, Brescia 1995, p. 29. 11 Ibi, pp. 17-21. Ma anche, cfr. L. Vigone, Introduzione al pensiero filosofico di Edith Stein, Città Nuova, Roma 1992, pp. 16-33. 12 Cfr. E. Husserl, Ricerche logiche (trad. dal tedesco), Il Saggiatore, Milano 1968, p. 72.

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«scienza rigorosa» e insieme una «scelta di vita», capace di conferire un orientamento libero e razionale alla nostra esistenza.13 E. Stein è attratta in special modo da questo ultimo aspetto e l’approfondisce con originalità, convincendosi che la ricerca filosofica è investigazione intellettuale e insieme (essenzialmente) coinvolgimento di tutta l’esistenza; e che perciò la formazione personale si attua soprattutto attraverso la conoscenza filosofica. Questa può divenire una conoscenza vitale, che coinvolge sin nelle sfere intime del nostro cuore e della sua apertura all’essere; e una conoscenza formatrice, che mentre lo rivela, dà insieme forma al sé personale. Ci forma infatti ciò che, così come l’intelletto l’interpreta e il volere lo ama, penetra nella nostra intimità e dona luce (senso) e forza (energia) a quel desiderio d’essere che già da sempre ci costituisce. Per questo l’esito di una tale Bildung filosofica adeguatamente intesa è una personale Weltanschauung che esprime e rivela la propria cifra ontologica: il modo unico di esercitare l’esistenza o di abitare il mondo, che ciascuno di noi è e che declina l’universale essenza umana in uno stile irripetibile.14 E. Stein assimila il metodo di Husserl e, come risulta già evidente da quanto appena detto, in qualche modo lo ripensa, applicandolo con originalità nelle sue prime opere propriamente filosofiche pensate e scritte prima della sua conversione cristiana, Il problema dell’empatia e Psicologia e scienze dello spirito. Contributi per una fondazione filosofica.15 In un paragrafo seguente prenderemo in esame lo scritto sull’empatia (che è del 1917); il suo contenuto e il metodo presentano infatti un nesso non estrinseco con l’idea di Bildung e un interesse diretto per la pedagogia che rende opportuno un esa13 Id., La filosofia come scienza rigorosa (trad. dal tedesco), Paravia, Torino 1958, pp. 38 ss; Id., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (trad. dal tedesco), Il Saggiatore, Milano 1961, p. 37. 14 Nel senso messo in evidenza da A. Kaiser, «Introduzione. La struttura storicocritica dell’ebraismo tedesco tra Ottocento e Novecento: pedagogie della Bildung», in Id. (a cura di), La Bildung ebraico-tedesca del Novecento, Bompiani, Milano 1999, p. 3; ma già da M. Gennari, Storia della Bildung. Formazione dell’uomo e storia della cultura in Germania e nella Mitteleuropa, La Scuola, Brescia 1995, pp. 9-10. 15 Opere citate prima nella nota 4.

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me più analitico. Nel secondo libro (che viene pubblicato nel 1922, anno in cui l’Autrice riceve il battesimo, ma che è stato interamente concepito negli anni precedenti), E. Stein dimostra l’incapacità della psicologia empirica a dirci che cosa sia veramente la realtà psichica nella sua globalità. Essa si limita infatti – questo è il suo assunto – a descrivere gli aspetti di superficie, quelli osservabili empiricamente e descrivibili con obiettività. Si tratta però, con essa, dello studio dell’«anima del corpo», la psiche, e non dell’«anima dell’anima», lo spirito. La psicologia sperimentale, in breve, non riesce a penetrare veramente, oltre e attraverso gli aspetti di superficie, la profondità dell’io.16 Per rispondere allora a quelle domande: che cos’è l’io? che cos’è la psiche e il suo segreto? è necessario integrare la psicologia scientifica con una riflessione filosofica, un’ontologia dello spirito. Ora, secondo E. Stein, una filosofia fenomenologica in proposito ci dice, fondamentalmente, tre cose. In primo luogo, la psiche è irriducibile agli oggetti (naturali) e alle cose (artefatte); non è un «oggetto» o una «cosa».17 In secondo luogo, essa è sì unita intimamente al corpo, per il suo stesso esercizio o modo di essere; ma le forze psichiche (i pensieri, gli affetti, i comportamenti, ecc.) non sono lo stesso delle forze vitali (il sangue, i nervi, ecc.).18 In terzo luogo, nella nostra vita psichica si manifestano fenomeni reali che non sono spiegabili con i meccanismi descritti dalla psicologia, semplicemente perché li neutralizzano, mettendoli fuori causa; si pongono infatti su di un piano che, mentre li attraversa, li trascende: quasi vivessero di vita autonoma rispetto ad essi. In effetti, già solo «mettere tra parentesi», come amava esprimersi Husserl, le nostre convinzioni «naturali» o le nostre tendenze spontanee implica un atto di libertà e una volontà di verità, manifestanti in noi una realtà che non è solo psichica, così come non è solo corporale. Gli atti di li16 E. Stein, Psicologia e scienze dello spirito. Contributi per una fondazione filosofica, pp. 65-71. 17 Ibi, p. 42. 18 Ibi, pp. 56 ss.

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bertà e la volontà di verità manifestano in noi una realtà, più profonda rispetto alla superficie perché fondamentalmente d’altro genere, che la tradizione culturale dell’Occidente, filosofica, teologica e artistica, ha denominato appunto col termine spirito.19 Ma, di nuovo, che cos’è lo spirito? e qual è la sua ontologia?20 È nella risposta a questa domanda che E. Stein compie una terza conversione, quella che si manifesta come un approfondimento e insieme come un «mutamento d’altro genere». È noto l’episodio: leggendo, in una notte intensissima, l’autobiografia di Teresa d’Avila, è costretta alla fine a cedere a un’evidenza che le si manifesta: «È qui tutta la verità!».21 Se cerchiamo di svolgere un’analisi fenomenologica del suo vissuto, comprendiamo tutta la singolarità di questo evento. Si tratta però di svolgerla riportandola a ciò che il linguaggio della teologia cattolica chiama «l’evidenza della fede» e la cui chiave interpretativa è nelle parole di Gesù, quando afferma che possono riconoscere il Mistero solo coloro che, accettando di abbandonarsi ad Esso, ricevono da Dio la luce e gli occhi per poter vedere.22 Come è possibile? È stato scritto che ci si trova qui di fronte a un «salto enigmatico», che accentua la complessità di questa filosofa – ebrea, cattolica, carmelitana, martire… – e che rende tutt’altro che semplice comprenderne il destino personale: il senso, la radicalità e una certa «ostinazione» nelle sue scelte.23 Bisogna riconoscere con chi ha formulato questo giudizio che 2.3

Ibi, p. 72. Oppure Lo statuto antropologico dell’essere spirituale, come si esprime, nel sottotitolo, A. Kaiser, Gnoseologia dell’educazione, La Scuola, Brescia 1998. 21 Cfr. Renata De Spiritu Sancto, Edith Stein (trad. dal tedesco), Morcelliana, Brescia 1952, p. 113. 22 Gv 1, 12-13: «Quotquot autem acceperunt eum, dedit eis potestatem filios Dei fieri, his, qui credunt in nomine eius, qui non ex sanguinibus neque ex voluntate carnis neque ex voluntate viri, sed ex Deo nati sunt» (Nova Vulgata Bibliorum Sacrorum Editio, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, p. 1586; sottolineature mie). 23 L. Boella-A. Buttarelli, Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, Raffaello Cortina, Milano 2000, p. 13. 19 20

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molta letteratura agiografica, fiorita soprattutto negli ultimi anni, affronta la questione con troppa fretta e conclude riconducendo tutto alla «pura fede» di una donna eccezionalmente assetata di Assoluto. Bisogna però anche riconoscere che sia il parlare di «pura fede» sia il riferimento al «salto enigmatico», entrambi i giudizi quindi, non giovano a intendere che cosa sia questa conversione così carica di mistero e a comprendere quale sia stato veramente il vissuto personale di E. Stein. E infatti: un salto c’è stato; ma, preparato dalle precedenti conversioni, è un salto verso la luce più piena. Così come c’è stata la fede, ma è una fides oculata, una fede che vuole tenere gli occhi aperti, per così dire. Di quale luce, però, e di quali occhi, qui si tratta? Quale singolare paradosso vive questa fenomenologa che è pervenuta, con Husserl, a porre come criterio di verità proprio l’evidenza? Come E. Stein stessa racconta, è l’evidenza della fede, una virtù soprannaturale che ella riceve nell’ora della conversione e che non annienta, ma porta a pienezza le altre virtù naturali.24 Di fronte al testo di Teresa, ella riconosce ciò che, con evidenza, le appare, perché si manifesta da sé e perché, proprio nel manifestarsi, dona agli occhi una luce che la rende capace di vedere una realtà che, altrimenti, i suoi occhi da soli non sarebbero stati in grado di percepire. Possiamo anche dire, più brevemente, che ella riceve il dono della luce, una grazia che viene dall’alto e per questo ha occhi capaci di riconoscere con libertà consapevole e vigile ciò che le si offre allo sguardo. Non può essere diversamente: E. Stein vede e perciò sa che è proprio il buon Dio – la stessa Trinità Santa, che è la «Verità tutta intera» – a rivelarsi a lei. Ma sarebbe spropositato, irragionevole, nel modo di vedere della filosofia fenomenologica, pensare che ciò possa accadere solo in ragione della sua sete di Assoluto. È piuttosto un’Iniziativa divina, Libertà amorosa, quella di mostrarsi e di scegliere la forma stessa del mostrarsi: donando alla mente e al cuore la 24 Cfr. Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae: I. De Veritate, q. 14, a. 2, Respondeo; dove viene citato Gv 6, 4: «Qui videt Filium et credit in Eum, habet vitam aeternam» (Editio leonina, Marietti, Roma-Torino 1964, p. 283).

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luce che rende la «piccola Ester povera e impotente» realmente e veramente atta a entrare in rapporto personale col Mistero stesso intradivino.25 Fedele a se stessa, al suo «ethos» e al suo itinerario di approfondimento che porta già da sempre una sorta di premonizione in tal senso, E. Stein pertanto riconosce e sceglie quel che le accade, decidendo, in quel momento, come lei stessa testimoniò, per Dio per Cristo per la Chiesa per il Carmelo, quasi si trattasse di una sola medesima realtà.26 Comprendiamo allora quale inaudita verità le si è aperta, in quel momento, a proposito dello spirito umano, la cui ontologia lei ha già indagato grazie alla filosofia. La domanda originaria che sempre l’ha accompagnata trova ora una risposta a tutta prima impensabile, comunque sorprendente. Lo spirito umano, così apprende a esprimersi E. Stein grazie alla frequentazione di Tommaso d’Aquino, è definito dal «desiderio naturale di vedere Dio».27 Si tratta di un seme deposto nel nostro essere e che col nostro stesso essere riceviamo; un ethos originario che è insieme energia e forma, disposizione e tensione reale a un compimento secondo una natura personale che è in sé determinata. È desiderium essendi, istanza a essere in pienezza; forza che muove ogni uomo sin dal suo ingresso in questo mondo alla ricerca, inesausta ancorché spesso confusa, perché, fedele a se stesso, possa «attuarsi». Ogni incontro, fugace o duraturo, contiene una profezia di tutto questo: l’altro, il suo volto, ci interpella; e avviene, attraverso gli incontri, che il desiderio si vada rivelando, sia pure per tracce, a se stesso. Se un uomo non si mantenesse disponibile all’appello e all’incontro, quel 25 E. Stein, Lettera 31.10.1938, «A una superiora», in Id., La scelta di Dio. Lettere dal 1917 al 1942, p. 107. Cfr., inoltre, H. U. Von Balthasar, Una estetica teologica. 1: La percezione della forma (trad. dal tedesco), Jaca Book, Milano 1975, pp. 115 ss. e 403 ss. 26 A. Sicari, «Edth Stein», in Id., Ritratti di santi, Jaca Book, Milano 1988 p. 150. 27 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 2, art. 8 (Editio Leonina, Marietti, Roma-Torino 1962, vol. I, p. 15). Frutto dell’intenso lavoro di conversione della mente è la traduzione tedesca del De Veritate: E. Stein, Des hl. Thomas von Aquino Untersuchungen über die Wahrheit; opera degli anni 1929-1931, pubblicata come W III (1952) e IV (1955).

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desiderio costitutivo resterebbe per lui sempre e solo il suo altro dentro di sé, un tesoro nascosto e un bene destinato a deperire.28 L’Incontro singolare però di cui E. Stein ha fatto esperienza vissuta e di cui ci parla reinterpreta completamente questa dialettica del desiderio. Infatti, è vero, da un canto, che il desiderio d’essere in pienezza si rivela proprio come desiderio naturale «di vedere Dio», solo incontrando Dio. D’altro canto, però, Dio «nessuno lo ha mai visto»; pertanto, questo desiderio, pur essendo naturale, resterebbe da ultimo inefficace, oscuro e inerte, se Dio stesso non prendesse l’iniziativa di farsi «vedere», manifestandosi all’uomo in qualche modo e in qualche forma che deve essere comunque pur sempre umana. Accade solo allora che il desiderio innato dello spirito umano sia aiutato a trovare il senso del suo possibile compimento. Ma per E. Stein, discepola di Teresa d’Avila, accade anche qualcosa di più: a ogni uomo che accetta la completa spoliazione di sé, per lasciar esser e accogliere lietamente ciò che si manifesta, si apre la possibilità di un sovra-compimento. Infatti, il Dio che si fa incontro all’uomo chiede di dimorare nel Cuore del suo cuore, in una dimora che Egli stesso ha riservato per sé nello spirito umano.29 In due brevi opere, Il castello interiore e Natura e sovranatura nel “Faust” di Goethe, E. Stein medita, in sede di ermeneutica dei testi di Teresa d’Avila e di Goethe, su questa verità spirituale che lei ha intuito, in modo così imprevedibile eppure così definitivo, nell’estate del 1921.30 Si tratta di una sorta di fenomenologia dell’infinità dell’anima umana, un’analisi delle capacità inaudite e, per la maggior parte degli uomini, inespresse, che definiscono la reale sostanza dell’uomo, 28 E. Stein, Essere finito ed essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere (trad. dal tedesco), Città Nuova, Roma 1988, pp. 445-448 e 450-458; opera completata nel 1936 e pubblicata come W II (1952). 29 Ibi, pp. 461 ss. e 470-472. Inoltre, cfr. H. De Lubac, Il mistero del soprannaturale (trad. dal francese), Jaca Book, Milano 1978. 30 E. Stein, «Il castello interiore. Esposizione di S. Teresa di Gesù» (trad. dal tedesco), in Id., Natura persona e mistica, Città Nuova, Roma 1997, pp. 115-148; testo scritto nel 1936 e pubblicato in W VI (1962). Id., «Natura e soprannatura nel “Faust” di Goethe», ibi, pp. 29-48; testo probabilmente composto nel 1932.

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la sua verità. E. Stein ha riconosciuto e scelto questa verità e ha deciso di impegnare per essa tutto, sino alla offerta estrema di sé ad Auschwitz. 3

Il problema dell’empatia

Il problema dell’empatia è l’argomento scelto per la sua tesi di dottorato. La prima idea le venne riflettendo su alcune brevi considerazioni svolte da Husserl nelle sue lezioni su «Natura e spirito». Per il suo maestro la conoscenza oggettiva non è soltanto una conoscenza inerente agli oggetti così come si presentano alla coscienza; essa è tale anche in quanto «intersoggettiva». La nozione stessa di «esperienza di un mondo esterno di oggetti» implica infatti una pluralità di soggetti che, da diversi punti di vista e con interessi diversificati, percepiscono una stessa realtà e possono così comunicare tra loro. Proprio questa possibilità di comunicazione reciproca viene denotata da Husserl col termine Einfühlung (che noi traduciamo abitualmente con “empatia” perché originariamente significa “intuizione per simpatia”, “immedesimazione”). Husserl cita a proposito i testi di Th. Lipps, dove trova questo concetto; ma si limita a respingere la prospettiva «sperimentalista» dell’Autore, senza presentare argomentazioni specifiche.31 E. Stein intuisce che il tema è carico di significato, ben di là dal problema della conoscenza oggettiva come intersoggettività. Vede, in sostanza, che non si tratta solamente di un problema di gnoseologia, ma interessa il più vasto mondo della comunicazione umana, la costituzione di senso della persona e della comunità. Decide perciò di studiarlo, approfondendo le riflessioni del maestro nel senso di ciò che, già allora, nel periodo precedente la conversione cristiana, chiama un’ontologia dello spirito.

31 Cfr. S. Vanni Rovighi, La fenomenologia di Husserl, Celuc, Milano 1973, pp. 4042 e 90.

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Ma non solo a proposito del contenuto scelto noi troviamo un approfondimento personale della posizione di Husserl; E. Stein mette in atto, nel suo studio sull’empatia, una personale interpretazione di tipo realistica (nel senso in cui questo termine si oppone a idealistica). Semplificando, per brevità, possiamo presentare la cosa osservando che la fenomenologia che ella ha in mente è piuttosto quella delle Ricerche logiche, forse di alcuni punti del primo volume delle Idee, ma non della prospettiva complessiva di quest’opera. E. Stein percepisce infatti che con quest’opera Husserl perviene a un’interpretazione idealistica del suo metodo, ciò che, a suo giudizio, porta a stravolgere il senso originario del metodo stesso.32 L’empatia, come tutti i vissuti della coscienza, non è un sentimento vitale, ma un atto psichico; come tale viene studiato dalla psicologia sperimentale. La prospettiva della fenomenologia va però oltre: essa studia gli atti in quanto intenzionali; gli atti che, per essere segnati o posti in essere dalla libertà e dalla conoscenza riflessa, non sono psichici, ma spirituali; in breve, l’analisi fenomenologica è analisi di struttura degli atti intenzionali. Ora, come si legge anche nel testo Psicologia e scienze dello spirito, struttura degli atti intenzionali è la motivazione; si tratta, infatti, di atti che l’io compie con un perché, e per questo sono razionali e liberi. Mentre gli impulsi sensibili sono atti non motivati, sottoposti a una causazione quasi fisica, gli atti razionali sono atti compiuti perché se ne riconosce e afferma il senso, prendendo le distanze dagli atteggiamenti definiti «spontanei» (o naturali e ovvii), nella misura in cui (perché, ancora) non sono ritenuti veri.33 Tra gli atti intenzionali, l’empatia è atto originario in primo luogo perché è atto di costituzione dell’altro da me come 32 E. Stein, «La fenomenologia di Husserl e la filosofia di San Tommaso d’Aquino. Tentativo di un confronto», in Id., La ricerca della verità. Dalla fenomenologia alla filosofia cristiana (trad. dal tedesco), Città Nuova, Roma 1993, pp. 61-90; testo del 1929 non pubblicato nelle Werke. Cfr. su questo punto, A. Ales Bello, Edith Stein. La passione per la verità, Messaggero, Padova 1998, pp. 20-1. 33 E. Stein, Il problema dell’empatia, p. 202; Id., Psicologia e scienze dello spirito. Contributi per una fondazione filosofica, p. 72.

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soggetto che ha parte al mio stesso mondo; ma soprattutto perché la costituzione dell’altro io è la condizione di possibilità per la costituzione del proprio io. Costituzione, in questo contesto, è quasi sinonimo di «donazione di senso» (Sinn-Gebung) o, più semplicemente, atto di significazione. Si tratta di un termine chiave per la fenomenologia e la semantizzazione fa qui la differenza: solo intendendo, infatti, la donazione di senso come offerta e riconoscimento di senso, si evita quell’interpretazione idealistica del metodo rimproverata da E. Stein al maestro; e che induce a parlare piuttosto di conferimento di senso.34 Nell’atto empatico l’altro si offre originariamente ed è riconosciuto come «corpo vivente» (Leib), e non solo corpo materiale (Körper), perché l’altro si presenta come soggetto. Io vedo che un mondo di cose e di oggetti, ma anche un mondo di altri soggetti si dispone attorno al suo sguardo. Tutto acquista un orientamento a partire dalla prospettiva che tale sguardo apre e che per ogni oggetto inteso costituisce una sorta di asse, un nucleo originante. Ora, per il soggetto che percepisce empaticamente l’altro, per l’io, il tu non viene conosciuto per «associazione» o per «analogia d’inferenza», né per imitazione o per «unipatia», ci dice E. Stein, passando in rassegna la letteratura critica – prevalentemente, quasi esclusivamente psicologica – sull’argomento. Ciò che l’altro vive o «esperisce» (erlebt) è il suo proprio vissuto e come tale non coincide con il mio proprio vissuto. Veramente originario per me – questo ci rivela l’analisi di struttura dell’empatia – è il mio sentire che l’altro sta vivendo un suo sentire. Io, pertanto, non posso vivere la gioia e il dolore dell’altro, che è e resta il vissuto dell’altro; posso però percepire simpateticamente tale gioia o tale dolore, nella mia esperienza vissuta che intende, per immedesimazione, ciò che l’altro sta esperendo.35 34 Id., Il problema dell’empatia, pp. 204-217 e 217-218. Cfr. su questo, P. Ricoeur, A l’ecole de la phénoménologie, Vrin, Paris 1986, pp. 227-249. 35 E. Stein, Il problema dell’empatia, pp. 148-163.

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Accade allora che due soggetti vivano una stessa esperienza; ma poiché questa ha risonanze differenti nel vissuto personale di ognuno, è solo analogicamente la stessa esperienza. Solo così però nasce la possibilità di co-esperire il mondo, ovvero la possibilità di avere un mondo comune: grazie alla comunicazione empatica, idonea a integrare le personali esperienze del mondo in una prospettiva che vede il differente come differente modo d’intendere l’identico. In altri termini, per l’analisi fenomenologica, ciò che del reale ci si offre viene da ciascuno percepito secondo una prospettiva singolare ed espresso con un linguaggio che è segnato dallo stile originale che ciascun soggetto è. Ogni personale conoscenza (o interpretazione) del mondo è però insieme soggettiva (relativa alla prospettiva del soggetto e perciò differente) e oggettiva (inerente a una stessa realtà intesa e perciò in qualche modo identica): in breve, è una percezione differente dell’identico e chiede per questo d’essere integrata.36 L’empatia non fonda però solo per E. Stein un mondo comune; essa apre la possibilità di vivere il noi, una comunità di soggetti. L’altro, infatti, è inteso come tu-per-un-altro-tu; oppure, un tu-con-me o tu-presso-di-me. È allora, grazie a questa nuova possibilità, che l’empatia si rivela essenziale per la costituzione di senso del mio proprio io. Se io fossi come una monade chiusa in sé, casa senza porte e senza finestre, a parte l’insuperabile opacità che resta in seno al mio vedermi, io non uscirei mai da me stesso: non riuscirei soprattutto a mettere in discussione le certezze che ho di me, del reale e del mio rapporto con il reale, per vedere argomentando se ciò di cui sono certo sia anche vero. L’empatia, la conoscenza che l’altro ha di me, il suo vivere con me le mie esperienze vissute, può essere invece la vera porta di accesso alla realtà del mio sé, consentendomi di passare dalla certezza alla verità.37 36 Ibi, pp. 227-228. Su questo punto, cfr. V. Melchiorre, Corpo e persona, Marietti, Genova 1987, pp. 53-91. 37 E. Stein, Il problema dell’empatia, p. 228. Cfr. V. Melchiorre, Metacritica dell’eros, Vita e Pensiero, Milano 1977, pp. 54-60.

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Idee per una pedagogia fenomenologica

È evidente che E. Stein non aveva in animo di offrire, col suo studio sull’empatia, un contributo pedagogico in senso proprio. È però altrettanto evidente che queste analisi fenomenologiche costituiscono, tra le sue opere, quelle che di più si prestano a essere svolte nel senso di una pedagogia scientifica. L’intenzionalità pedagogica è piuttosto implicita e il compito del pedagogista che legge questa autrice potrebbe essere di rendere esplicito ciò che il suo testo suggerisce per riflettere sulla realtà educativa: per pensare l’empatia come categoria pedagogica. Del resto, come già detto in precedenza, senza tener presente quanto viene detto da E. Stein sull’empatia, non è possibile comprendere pienamente l’idea di Bildung. Ora, nella prospettiva pedagogica, l’analisi di struttura condotta da E. Stein è significativa innanzitutto perché consente di pensare la relazione educativa come relazione empatica. E. Stein perviene a una definizione meta-psicologica di questo vissuto, perché è visualizzato in quanto atto intenzionale;38 l’azione educativa è atto intenzionale per eccellenza, segnato dalla conoscenza riflessa e libero. Concepirla pertanto come relazione empatica significa intenderla come relazione di reciprocità, meglio di riconoscimento reciproco. Ciò che l’educatore offre come proposta educativa è la rappresentazione di un mondo di valori che l’educando può percepire come forma per la sua persona, possibilità propria e sorgente di senso per la sua esistenza. Ma nel riconoscimento reciproco l’attenzione non è tanto per la persona stessa dell’educatore, è rivolta bensì a quel mondo che egli, nel modo di una causazione esemplare, apre per l’educando: un mondo che può essere comune e nel quale entrambi, educatore ed educando, lietamente possono abitare.39 38 Cfr. G. Corallo, Pedagogia: I. L’educazione. Problemi di pedagogia generale, SEI, Torino 1960, pp. 247 e 346. 39 Cfr. A. Bellingreri, «Parentele elettive. Una definizione pedagogica dell’insegnamento», Studium Educationis, 1999, 1, pp. 71-80.

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Approfondendo con un’interpretazione critica e creativa il testo di E. Stein, emerge un’altra suggestione per la pedagogia. Il tempo dell’esistenza può essere considerato come tempo di un graduale pervenire a riconoscere e a scegliere la forma propria del desiderio d’essere che ci costituisce. Ora, la relazione empatica, per la sua struttura e per la sua dinamica, offre contenuto e metodo per affrontare questo difficile compito. Lo sguardo dell’altro che co-esperisce il mio vissuto può infatti esser d’aiuto a vedermi, reinterpretare le immagini che io mi sono fatto di me e delle quali confesso di esser certo, traguardando una verità più ampia che può nascere dall’integrazione di una prospettiva su di me diversa dalla mia.40 A una condizione però, che è, a ben vedere, quella universale e necessaria, ancorché per se sola non sufficiente, di ogni relazione educativa: che l’altro sia costituito da un atteggiamento etico di «rispetto» e mosso dalla volontà di prendersi cura di me, in uno sguardo non espropriante e in un atteggiamento di oblatività responsabile. Venendo meno tutto ciò, ogni relazione con l’altro (non solo quella educativa) sarebbe piuttosto misconoscimento e alienazione; gli altri, sarebbero davvero «l’inferno», per ricordare Sartre.41 Quanto qui esposto va oltre la lettera, non certo oltre lo spirito dell’opera di E. Stein. Tale spirito, esplicato, può rendere Il problema dell’empatia opera attuale e interessante nella prospettiva pedagogica. Credo però che possa risultare ancor più interessante per una pedagogia che voglia costituirsi come scienza distinta, il metodo stesso, quella reinterpretazione non-idealistica del metodo fenomenologico messo in atto da E. Stein. Sono rilevanti per l’elaborazione del problema pedagogico per eccellenza, che è la costituzione del senso originario dell’educare, in special modo tre aspetti di tale metodo fenomenologico. Sono quelli stessi che poi – lo ha evidenziato P. Ricoeur – restano presenti come «elementi vita40 Id., «Idee per una nuova paideia filosofica», Studium Educationis, 1999, 3, pp. 482-490. 41 J. P. Sartre, L’essere e il nulla (trad. dal francese), Il Saggiatore, Milano 1962, pp. 447 ss. e 464 ss.

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li» nella prospettiva ermeneutica: questa, «innestandosi» sul tronco della fenomenologia, ne ha svolto potenzialità che altrimenti sarebbero rimaste latenti.42 Secondo la fenomenologia, noi siamo determinati, nella nostra esistenza di ogni giorno, da conoscenze e giudizi che continuiamo a ripetere senza mai chiederci se tali conoscenze siano vere e i giudizi ben fondati. Per questo, il primo momento del metodo consiste in una messa tra parentesi di ciò che noi, in modo spontaneo, sappiamo, per potere affermare solo ciò che si mostra con un’evidenza tale da non poter essere smentito. L’evidenza, infine, è il criterio della verità.43 Ma c’è dell’altro. È vero che ogni nostra conoscenza parte dall’esperienza, che è la realtà immediatamente conosciuta; ma è vero anche che l’esperienza, i suoi dati o fatti constatabili, non offrono tutta la realtà. Ciò che della realtà appare immediatamente è solo la superficie del mondo, oltre la quale esiste una profondità, che si manifesta solo secondo alcuni aspetti nella superficie. Ora, andando oltre ciò che immediatamente si manifesta di una realtà (ad esempio, di questo uomo che ho qui di fronte a me), è possibile cogliere ciò che è essenziale di quella realtà (ad esempio, l’essenza o vera sostanza di questo stesso uomo, oltre i suoi atteggiamenti e i suoi modi determinati di comportarsi). In breve, è compito della filosofia fenomenologica definirsi «intuizione dell’essenza» (Wesensschau), di ciò che permane e non è accidentale di una realtà.44 C’è da ultimo un altro aspetto. Husserl afferma che, dopo aver «messo fuori uso» (filosofico) le nostre conoscenze dell’atteggiamento naturale, resta solo il mondo e ne ricerca il Cfr. le opere di P. Ricoeur, prima citate alle note 5 e 34. Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologia (trad. dal tedesco), Einaudi, Torino 1965, pp. 59-64. Cfr. E. Stein, «Che cos’è la fenomenologia», in Id., La ricerca della verità. Dalla fenomenologia alla filosofia cristiana pp. 58-59; testo del 1924, non ancora pubblicato nelle Werke. 44 E. Husserl, Ricerche logiche, p. 108 (si tratta della II Ricerca, cap. 1). E. Stein, «Significato della fenomenologia come visione del mondo», in Id., La ricerca della verità. Dalla fenomenologia alla filosofia cristiana, p. 99; scritto presumibilmente nel 1932, pubblicato in W VI (1962). 42 43

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senso. È questa elementare evidenza che permette di ritrovare l’essenza della coscienza come «donatrice di senso», capacità reale dell’io di cogliere ed esprimere il senso di ogni realtà, che si rivela allo spirito che vuole conoscerlo.45 L’approche chrétien

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Dopo la conversione, E. Stein sente il bisogno d’incontrare i maestri del pensiero cristiano, i padri della Chiesa, i dottori della Scolastica e i santi della mistica «oggettiva», non solo carmelitana. È un’esperienza di rinnovamento dell’esistenza e della mente; ma, a ben vedere, è soprattutto un lavoro di approfondimento perché «le cose antiche» (vetera) non sono «tolte», ma ritrovate a un più alto livello (pertanto, nova). Ciò va detto, innanzitutto (e per quanto attiene al presente saggio) in riferimento alla riflessione che Ella ha condotto sull’empatia: al senso nuovo che le sue vedute acquistano ripensate nell’orizzonte di una Bildung cristiana. Entrando, in particolare, nella «cattedrale della Scolastica», E. Stein matura una prospettiva di pensiero che, con espressioni diverse, Ella qualifica come «metafisica cristiana» o «filosofia soprannaturale» o, semplicemente (con una dizione più in uso negli anni Trenta, soprattutto in Francia) «filosofia cristiana».46 È la ragione che accetta di «lavorare insieme» (Zusammenarbeit) con la fede cattolica e che non è – così accade per altri autori, ad esempio per J. Maritain – concezione di un settore specifico della filosofia, una filosofia pratica «adeguatamente intesa»; è piuttosto la definizione della filosofia tout court.47 Per non banalizzare e da ultimo rendere sterile il contributo che per il pensiero, filosofico ma anche pedagogico, può Id., Essere finito ed essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere, pp. 324-325. Ibi, pp. 48-67. Su questo, X. Tilliette, «La filosofia cristiana secondo Edith Stein», Aquinas, 1994, 37, pp. 389-394. 47 E. Stein, Essere finito ed essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere, p. 63. Il riferimento nel testo è a J. Maritain, De la philosophie chrétienne, Paris, Desclée, 1933. Su questa problematica, cfr. Ph. Secretan (a cura di), Phénoménologie et Philosophie chrétienne, Cerf, Paris 1987, passim. 45

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venire da questa posizione, si rende necessario innanzitutto presentare in modo adeguato «Senso e possibilità di una filosofia cristiana», come si esprime l’autrice stessa in un paragrafo del capitolo introduttivo di quello che resta il suo capolavoro, Essere finito ed essere eterno.48 Una cosa risulta subito evidente: più che una formuletta che ridesti dal lungo letargo la «bella addormentata nel bosco», la filosofia cristiana esprime per lei uno stile di vita che, interpretandosi, si traduce in un metodo per il pensiero. Ed è da Tommaso d’Aquino che Ella dice di apprendere a tenere insieme e coniugare il pensiero metafisico e le verità rivelate, a concepire una filosofia cristiana. Ora, è noto, la stessa dizione «filosofia cristiana» è stata giudicata problematica da molti autori, che la ritengono semplicemente contraddittoria (come, viene detto, è un non-senso parlare di «geometria cristiana» e simili). Del resto, si è sostenuto, una «filosofia cristiana» tradirebbe la convinzione propria di Tommaso d’Aquino, secondo la quale la filosofia debba essere «opera compiuta della ragione», tale da poter essere, grazie all’autonomia dalla teologia, proposta e discussa con ogni uomo, a prescindere dalla sua fede religiosa.49 E. Stein procede, nel suo capolavoro, diversamente. Ella parla, senz’altro, di autonomia della filosofia e di universalità, nel senso di una proposta razionale per ogni uomo. Solo che, aggiunge, è proprio la ragione filosofica a riconoscere i suoi limiti insuperabili: e la sua incapacità a pervenire alla conoscenza della verità, soprattutto di quella relativa al nostro destino ultimo. È pertanto ragionevole, per ogni uomo che voglia esser davvero senza pregiudizi e fedele alla ragione, accostarsi alle verità rivelate e cercare in esse un aiuto per inMa anche cfr. E. Stein, Vie della conoscenza di Dio (trad. dal tedesco, in omonima antologia curata da C. Bettinelli), Messaggero, Padova 1983, pp. 125-186 (testo presumibilmente scritto nel 1941). 49 Cfr., tra le tante opere, Aa.Vv., La pedagogia cristiana: Atti del I Convegno di Scholé, La Scuola, Brescia 1955; e Aa.Vv., Il senso della filosofia cristiana oggi, Morcelliana, Brescia 1978. L’espressione di Tommaso d’Aquino «perfectum opus rationis», citata da E. Stein, è inesatta; infatti, in Summa Theologiae, II-II, q. 45, art. 2, Respondeo, si trova la dizione «perfectum usus rationis». 48

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terpretare il mistero della nostra esistenza, del destino personale e del mondo. Tale resta, peraltro, il fondo di ogni realtà: un mistero sovrabbondante di significato e sempre più ineffabile, a mano a mano che a esso ci si accosti e nonostante la luce che pure esso offre.50 Personalmente ritengo interessante e fruttuosa questa impostazione. Il cristiano che filosofa, ci dice in sostanza E. Stein, vive nella prossimità del Mistero, avendo egli scelto sovra ogn’altra cosa d’esser definito dalla partecipazione vitale alla forma dell’esistenza di Cristo; in tale prossimità egli si tiene e permane, quando va ricercando il senso dei problemi filosofici o pedagogici. Esiste, è ovvio, un senso di questi problemi, che è indipendente dal Mistero cristiano e ogni uomo, credente e non credente, può ritrovarlo; tale è, ad esempio, il senso di un’ontologia dello spirito, cui E. Stein perviene reinterpretando i concetti fondamentali della psicologia sperimentale. Esiste però anche – è meno ovvio, ma è esattamente questo che viene inteso, con l’espressione filosofia cristiana, da E. Stein – un approfondimento dei problemi filosofici o pedagogici, che è reso possibile dallo sguardo aperto per l’intelligenza dal senso dell’essere e/o del destino dell’uomo, che il Mistero cristiano contiene. Tale approfondimento, quando venga condotto criticamente, può costituire un arricchimento per l’intelligenza che articola, ermeneuticamente, la precomprensione della fede e dei suoi Symbola: il senso dell’essere che il Mistero cristiano porta, apre per l’intelligenza filosofica o pedagogica uno sguardo che offre la possibilità di un approfondimento nell’ordine proprio dell’intelligenza filosofica o pedagogica, formalmente distinto dalla teologia (del resto, tale approfondimento rende possibile, nello stesso tempo, un’intelligenza teologica rinnovata del Mistero, secondo vedute inedite).51 Vediamo allora come questo approfondimento viene condotto dall’autrice, relativamente all’idea di Bildung. 50 51

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E. Stein, Essere finito ed essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere, p. 62. Ibi, p. 67.

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L’idea di Bildung

Tra gli scritti raccolti ne La vita come totalità, sono più significativi per l’antropologia pedagogica della Bildung quelli che, nella silloge, gli editori hanno posto come il primo, Sull’idea di formazione (che è del 1930) e l’ultimo, Formare la gioventù alla luce della fede cattolica (prima già citato).52 Ciò che colpisce innanzitutto in questi testi è la coscienza lucida espressa dall’autrice, di «vivere in tempi difficili di non breve durata». È questa situazione a esigere un’«intensa vita spirituale» e un pensare integrale, rivolto alla realtà tutta intera e a ciò che è decisivo per il destino di ogni uomo. Ed è questa convinzione che porta E. Stein ad affermare la necessità di un nuovo paradigma pedagogico, che vada oltre l’orizzonte «naturalistico» e che si mantenga aperto al contributo di un’«antropologia soprannaturale». La psicologia sperimentale, dice Ella riprendendo pensieri già presenti nelle opere precedenti, non è in grado di raggiungere l’essenziale di una persona perché le questioni esistenziali non sono di natura tecnica; né le statistiche sono in grado di «misurare i beni e i mali morali e spirituali di una persona».53 Una visione realistica della natura umana, ci dice E. Stein nel suo testo del gennaio 1933, implica il ragionevole riconoscimento dello status naturae lapsae, di una ferita che segna la condizione umana. Non è possibile svolgere in modo adeguato alcun lavoro educativo, se si prescinde da questa dimensione, che è insieme antropologica e cosmologica. Ciò porta a dialettizzare due posizioni contrarie, tra loro antinomiche: quella della bontà originaria (Rousseau) e quella della corruzione radicale dell’uomo (Lutero). Ora, è ragionevole riconoscere, in primo luogo, che una natura ferita esige di essere salvata: l’intelligenza ha bisogno d’essere illuminata e la libertà d’essere essa stessa liberata. Così come è ragionevole pensare, in secondo luogo, che la guarigione e la salute non 52 E. Stein, La vita come totalità. Per una elevazione al senso dell’essere, pp. 21-36 e 209-231 (W XII, pp. 25-38 e 209-230). 53 Ibi, pp. 76 (W XII, p. 77).

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può darsele da sé l’uomo stesso. A un uomo resta piuttosto, ragionevolmente, di disporsi ad accogliere l’«aiuto che viene dall’alto» e a saperlo riconoscere qualora gli si manifesti.54 L’aiuto a pensare questo compimento della speranza umana di redenzione può venire pertanto dalla rivelazione cristiana, così come l’energia per averlo può essere opera della Grazia. La metafisica elaborata da E. Stein è innanzitutto un’ontologia trinitaria ed eucaristica dell’essere come donare. Essa è insieme un’antropologia della vocazione personale (una analitica esistenziale della formatività) e un’etica della libertà come responsabilità e impegno (un’etica del desiderio costitutivo che perviene a se stesso). È questo l’orizzonte di senso che consente di pensare innanzitutto il fine reale dell’uomo. Diventare, scrive E. Stein, «il sé nella mente di Dio» è la vocazione unica e irripetibile, aderendo alla quale ogni uomo trova la sua libertà originaria e si rivela per la sua esistenza un significato eterno. La consapevolezza di questo destino, poi, permette di definire il fine proprio dell’educazione. E. Stein ha in mente un’opera educativa che aiuti un uomo a diventare capace di rispondere all’originaria chiamata divina. E poiché condizione di ciò è la libertà, il possesso di sé per il dono di sé al compito conosciuto e amato, il fine dell’educazione è la conquista della libertà. La libertà, pertanto, che rende possibile l’educazione, la rende insieme necessaria.55 Forse ciò che è più originale in questa pedagogia filosofica è il plesso lessicale e semantico che concorre a istituire l’idea di Bildung: una rosa di concetti, la cui semantizzazione concorre alla sua definizione eidetica. Il «sé nella mente di Dio» è una «forma» personale «compiuta» (das Gebilde); presente al soggetto perché gli si va rivelando come «immagine concreta» (das Bild), essa è «rappresentazione» (das Ab-Bild, die Abbildung) di un Archetipo o «immagine originaria» (das Ur-Bild) dell’uomo. Per la filosofia cristiana, l’Archetipo è Gesù, «Immagine visibile dell’Invisibile», e la sua 54 55

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Ibi, p. 211 (W XII, p. 212). Ibi, p. 209 (W XII, p. 209).

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pienezza (pléroma) è custodita nella Chiesa, che è il suo Corpo Mistico.56 Ogni uomo che viene a questo mondo riceve l’essere, essenza ed esistenza personale, come un dono offerto e affidato alle sue stesse mani nella forma originaria di un seme, un’impronta germinale che, col tempo dell’esistenza, si va dispiegando; disvelando insieme il chi io sono e il dove io vado. Ora, per E. Stein, l’impronta originaria che noi stessi siamo, l’atto d’essere che ci tiene fuori dal nulla e che consiste nell’esercizio consapevole e libero dell’esistenza ricevuta, è propriamente il nostro spirito. Lo spirito non è semplicemente psyché, che è l’anima del corpo in quanto principio della sua vita; è bensì pneuma, l’anima dell’anima: vita sussistente avente in sé, indipendentemente dal corpo e dalle sue operazioni, una vita propria e l’energia per vivere. Della psyché, della sua mutevolezza si occupa la psicologia; è la persona «empirica», la sua «temperie individuale» (das Gemüt). Mentre dello pneuma, della sua immutabile struttura e del significato eterno, si occupa la filosofia cristiana; si tratta della persona «spirituale» (geistliche), l’anima che dispiega per intero la sua forma propria (die Seele).57 In questo dispiegamento acquista significato il lavoro educativo, che consiste nell’aiutare ogni uomo così com’è (con il suo ethos originario, le sue forze, la sua indole…) a divenire come deve essere. L’educando, il suo bisogno di essere educato, può esser espresso, dice efficacemente E. Stein, con le stesse parole che troviamo nel Vangelo: «Maestro, che cosa fare di buono per ottenere la vita eterna?» (Mt 19, 16). Da queste parole traspaiono l’aspirazione a un compimento che sia buono, cioè conforme alla propria natura originaria; e la docilitas, la volontà di lasciarsi istruire da parte di chi per questo si fa discepolo. Dal canto suo, secondo E. Stein l’educa56 Ibi, p. 21 (W XII, p. 25). Nel testo tedesco si legge: «Sagen wir Gebilde so meinen wir damit eben, dass es Geformtes, Gestaltes ist. Sagen wir Bild, so meinen wir, dass es Abbild eines Urbildes ist. Es gehört also zum Bildungsprozess, dass eine Materie eine Form annimmt, die zum Abbild eines Urbildes macht» (corsivi nel testo). 57 Cfr. E. Stein, Einführung in die Philosophie, W XIII (1991), pp. 135 ss. e 170 ss.

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tore è definito da una «volontà di donare la vita e la salvezza» all’educando, che costituisce «l’essenza dell’amore genitoriale».58 Può accadere così che nella relazione «d’amore e di fiducia» che è l’educazione stessa, il discepolo sia aiutato a pervenire alla visione di sé stesso: a vedere, attraverso l’altro, il suo proprio chi (l’identità) e il suo proprio dove (il compito). Non è, naturalmente, opera semplice perché quest’intuizione di sé è il risultato di una prudente opera di discernimento (Diskretion), che l’educando non riesce a compiere se non è aiutato, con intenzionalità e con dedizione, dal suo educatore (o dalla comunità educante). Si potrebbe accettare a proposito la tesi che esista in E. Stein una «pedagogia del discernimento», nella quale si compendierebbe il contributo più originale di questa autrice.59 C’è, a mio giudizio, una verità in questa proposta interpretativa; andrebbe però precisata, aggiungendo che si tratta qui di un metodo e insieme di un fine pedagogico. Il discernimento è, in primo luogo, il metodo posto in atto dall’educatore per aiutare l’educando a riconoscere e a scegliere la forma propria, che è il fine dell’opera educativa. Discernere è, infatti, un «legger dentro» e un «leggere in prospettiva» gli eventi personali o le situazioni storiche, che tende a obiettivi di valore (è quindi segnato, essenzialmente, da una intenzionalità morale) e mette in movimento tutto il soggetto (lo mobilita globalmente).60 Ma il discernimento, in secondo luogo, è un fine dell’opera educativa: questa è rivolta all’acquisizione, da una parte dell’educando, di un «tatto», che è la «saggezza acquisita», la phronesis di Aristotele o la prudentia di Tommaso d’Aquino. Ora, perché ciò avvenga, è necessario, da parte dell’educatore, la comunicazione per connaturalitatem – una comunicazione empatica, si potrebbe tradurre – e la testimonianza della prudenza in actu exercito. Questa testimonianza esemplare è Id., La vita come totalità: Scritti sull’educazione religiosa, p. 223 (W XII, p. 223). È quanto sostiene R. Cerri Musso, La pedagogia dell’Einfühlung: Saggio su Edith Stein, cit. 60 Ibi, pp. 43-48. 58 59

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l’unica «offerta di valori» veramente persuasiva perché veramente capace di mettere in movimento, con l’intelletto, anche la volontà, facendo prediligere ciò che è riconosciuto e si è scelto.61 Esito della relazione educativa è la Bildung, diventare ciò che si è; in un processo che porta, gradualmente ma in modo decisivo, al «massimo dispiegamento» dell’impronta germinale ricevuta, autentica potenzialità reale dell’esistenza personale. La Bildung consiste nel massimo dispiegamento dell’essere e per questo porta «la massima personalizzazione dell’essere», in un processo di crescita per approfondimento che avviene attraverso necessarie tappe «simboliche», per così dire: ogni momento prefigura, in qualche aspetto, la forma perfecta, all’interno di un itinerario esistenziale che ha in sé il criterio e la regola di sé.62 Idee per una pedagogia ermeneutica

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È possibile, scegliendo di studiare con simpatia intelligente un’impostazione come quella di E. Stein, un arricchimento per la pedagogia come scienza; ritrovare, in particolare, proprio grazie alla sua idea di Bildung cristiana, suggestioni per un’ontologia pedagogica di stile ermeneutico.63 La pedagogia scientifica come qui viene intesa è scienza distinta dalle altre scienze, in quanto sapere determinato di aspetti determinati dell’educazione; così come, del resto, essa è distinta dalle scienze filosofiche, in quanto sono appunto filosofiche. Scienza distinta, ma scienza per la quale il dialogo critico con le singole scienze (naturali, umane ed esatte) e con la filosofia (l’antropologia, l’etica e l’ontologia) è costitutivo. Il suo oggetto proprio è l’educazione in quanto tale, nel E. Stein, La vita come totalità: Scritti sull’educazione religiosa, p. 224 (W XII, p. 225). Id., Essere finito ed essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere, p. 78. Cfr. C. Fabro, «Stein Husserl e Heidegger», Humanitas, 1978, 33, pp. 485-517. 63 Il riferimento è alle Ideen III di Husserl. Un esempio può essere quello disegnato, In dialogo con P. Ricoeur (come recita il sottotitolo) da P. Malavasi, L’impegno ontologico della pedagogia, La Scuola, Brescia 1998. 61

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suo intero o nella sua verità; e il suo metodo è strutturalmente dialettico in senso ermeneutico. La pedagogia scientifica, infatti, si costituisce nel dialogo critico con le «scienzefonti», reinterpretandone le categorie, a partire da una definizione veritativa dell’educazione, che ne costituisce il principio proprio come sapere distinto e il criterio perché quel dialogo sia, in senso adeguato, pedagogico. Ora, una tale definizione e il sapere che la pedagogia elabora in modo rigoroso e oggettivo attinge originariamente a una precomprensione di senso che è per essa scaturigine e insieme punto di fuga: la «ricchezza» pur sempre presente con la «povertà», e che mette in moto la ricerca.64 È in ultima istanza l’a-priori di senso attinto nel «mondo della vita»: in luoghi in cui il senso è piuttosto esperienza vissuta segnata dal senso. Tale originaria comprensione conferisce ai concetti di una pedagogia scientifica una specifica calibratura e fa dell’intero del suo discorso un «testo», un’originale offerta di senso per l’esistenza. E. Stein ha elaborato una filosofia cristiana della Bildung, la cui struttura è, a ben vedere, di tipo ermeneutico e il cui procedere è orientato da quell’origine sovrabbondante di senso che è per lei la «Forma stessa dell’esistenza cristiana». Ella ha scelto di mantenersi nella più simpatetica delle frequentazioni, l’«intimità adorante» il Mistero, e in questa prossimità ha cercato di elaborare i fondamenti di una pedagogia. L’esito può essere giudicato insufficiente, nell’ottica di una pedagogia scientifica o comunque può apparire problematico. Il suo tentativo però resta come aiuto a pensare una pedagogia che, mentre vuole essere cristiana, ritiene però di poter offrire un contributo originale sul piano della razionalità pedagogica. Esiste in sostanza, con e oltre E. Stein – ecco una conclusione generale dopo l’analisi –, la possibilità di un approfondimento dei problemi pedagogici in quanto pedagogici; 64 Secondo la celebre espressione platonica: Platone, Simposio, 201d-206a (tr. it. P. Pucci, in Id., Opere, 2 voll., Laterza, Bari 1974, vol. I, pp. 696-701.

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esiste, nella fattispecie, la possibilità d’istituire un’ontologia pedagogica, pensandola nel suo ordine proprio, segnata da principi propri e dal proprio metodo, che può essere fecondata dall’incontro, critico e simpatetico insieme, con il Mistero cristiano – precomprensione, orizzonte e a-priori di senso. Possono aprirsi allora per l’intelligenza pedagogica delle prospettive inedite sul senso stesso dell’educare, sull’educabilità dell’uomo e sulla formatività come esistenziale; e delle originali figure ermeneutiche del tempo dell’esistenza come tempo in cui ogni uomo può acquisire (o smarrire) la sua forma propria, realizzandosi in una relazione di riconoscimento reciproco (o alienandosi in forme di comunicazioni inautentiche e di misconoscimento). E. Stein ha scelto di vivere la sua morte come «olocausto», offerta sacrificale di sé «per il suo popolo».65 Ha così reso una verità testimoniale che, proprio perché vissuta ad Auschwitz, attraversa il nichilismo che pure segna il secolo di Auschwitz. Ne accetta, da un lato, la verità terribile, realmente tragica, che è quella di sostare presso l’abisso (AbGrund), la radicale negazione di senso – il silenzio di Dio. Ma lo sguardo che, secondo l’espressione di E. Stein «Über-dieErfahrung-Hinausgehen», intende un orizzonte ulteriore rispetto al deserto – a ciò che immediatamente del reale si manifesta e che in modo così evidente e cruento appare afflitto dall’annientamento: tale sguardo oltrepassa l’abisso perché non appartiene al deserto. La ragione pietosa, la ragione con il cuore, intende il fondamento (Grund) come l’Infinitamente Misericordioso.66

65 E. Stein, La scelta di Dio. Lettere dal 1917 al 1942, p. 129. Ma cfr. anche C. Bettinelli, «Introduzione» a E. Stein, Vie della conoscenza di Dio, pp. 48-50. 66 Id., Scientia crucis. Studio su San Giovanni della Croce (trad. dal tedesco), Ed. OCD, Roma 1996; ultimo volume scritto dall’A., nel 1942, pubblicato come W I (1950). Opera profondissima di teologia (e di pedagogia) spirituale, che può essere letta nell’ottica di una «filosofia del Sabato Santo», come ne parla X. Tilliette, La settimana santa dei filosofi, Morcelliana, Brescia 1992, pp. 109-142. La Croce è l’estrema realissima epoché, come abbandono totale di sé; la rivelazione compiuta che l’essere è piuttosto ricevere l’essere come dono che chiede di essere riofferto. È l’estrema vicinanza a Dio e a ciò che è di Dio, l’essere e il proprio sé.

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È lo sguardo che costituisce un uomo come persona spirituale. Per ciò, l’esistenza e l’opera di Edith Stein portano una sorta di «dimostrazione» dell’esistenza dell’uomo: dell’«uomo vivente», del quale Dio stesso si gloria.67

67 Cfr. Th. W. Adorno, Dialettica negativa (trad. dal tedesco), Einaudi, Torino 1970, p. 326; H. U. Von Balthasar, Homo creatus est. Saggi teologici V (trad. dal tedesco), Morcelliana Brescia, 1991. Ma anche, M. Gennari, «Modernità e mistero. Teologia pneumatologia e filosofia dell’educazione», Studi europei (Olschki, Firenze), 1995, 3, pp. 241-245.

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L’uomo tra scienza e filosofia: macchina o persona? Luciano Sesta*

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L’attuale primato della scienza nei confronti della filosofia

Se gettiamo uno sguardo al passato, ci accorgiamo che scienza e filosofia nascono gemelle, vivono un felice connubio fino al XIII secolo, per poi, imboccando strade diverse, giungere a un divorzio per certi versi insanabile. Di questo divorzio ha fatto le spese soprattutto la filosofia. Non si può negare, in effetti, che nell’affrontare il tema dell’uomo la filosofia parta oggi svantaggiata rispetto alla scienza, che sembra essere ormai l’unica forma di sapere credibile, godendo di un’autorità paragonabile a quella che, nel Medioevo, veniva attribuita alla teologia. Lo stesso linguaggio con cui ci esprimiamo quotidianamente, tradisce quanto ormai abbiamo accettato il primato indiscusso della scienza su tutte le altre forme di sapere. Così, quando vogliamo rendere autorevole una nostra opinione, spesso premettiamo la formuletta “è scientificamente provato che…”, e non diciamo mai, invece, “è filosoficamente provato che…”. Certo, potremmo anche provare a farlo, ma il risultato, probabilmente, sarebbe esattamente contrario a quello che vogliamo ottenere: la nostra idea non solo non si presenterà più autorevole, ma perderà in credibilità. Siamo dunque tutti un po’ convinti che la verità su come vanno le cose nel mondo possa esserci detta più da uno scienziato che da un filosofo, dal momento che la scienza, co* Luciano Sesta è Dottore di Ricerca in Filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo.

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sì si dice, è oggettiva e si basa su fatti osservabili e tangibili,1 mentre il filosofo costruisce delle teorie che non hanno riscontro nella realtà oggettiva. Così, le teorie filosofiche sarebbero solo interpretazioni soggettive, a immagine e somiglianza del filosofo che le formula, laddove lo scienziato, al contrario, si limiterebbe a constatare la realtà oggettiva con l’ausilio dei suoi potenti strumenti di osservazione. Da qui il prestigio della figura dello scienziato e l’assoluta fiducia nella sua testimonianza da parte dell’opinione pubblica e la corrispondente diffidenza nei confronti del filosofo, paragonato, nella migliore delle ipotesi, a uno stravagante artista del pensiero, rinchiuso nelle sue teorie e lontano dalla realtà.2 Nell’affrontare il problema dell’uomo, consideriamo qui la scienza e non la tecnica. La scienza può essere definita un insieme di conoscenze teoriche basate sull’osservazione, sulla descrizione e sulla spiegazione di alcuni fatti/fenomeni visibili e tangibili. Lo scopo della scienza è quello di stabilire “come stanno le cose”, in questo caso “come è fatto” l’uomo. Un libro di anatomia, per esempio, è un libro scientifico che, descrivendo come è fatto il corpo umano, ci dice anche, a suo modo, che cos’è l’uomo. La tecnica, o la tecnologia, può essere invece definita come la parte applicata della scienza. Lo scopo della tecnica non è descrivere e spiegare la natura di una cosa ma la realizzazione di qualche azione, l’ottenimento di un risultato pratico.3 L’attuale successo della scienza è legato, spesso, al successo della tecnologia, che producendo benessere e comodità, spinge a vedere nella scienza una sorta di panacea universale. Ora, qui non ci occupiamo della tecnica ma solo della scienza. Non trattiamo, dunque, del modo in cui la scienza, attraverso la tecnologia, risolve i problemi pratici dell’uomo e soddisfa i suoi bisogni, ma del modo in cui la 1 “Dato di fatto” si dice in latino anche “positum”. Di qui il nome scienza “positiva”. Cfr. A. Livi, La filosofia e la sua storia. La filosofia contemporanea - Il Novecento, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 1997, p. 1094. 2 Cfr. G. Savagnone, Theoria. Alla ricerca della filosofia, La Scuola, Brescia 1991, p. 220. 3 E. Agazzi, Il bene, il male e la scienza. Le dimensioni etiche dell’impresa scientifico-tecnologica, Rusconi, Milano 1992, pp. 69-73.

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L’uomo tra scienza, fede, filosofia


scienza guarda l’uomo e se ne forma un’immagine. La nostra tesi è che sia la scienza sia la filosofia possono dare un’interpretazione convincente della natura umana, a patto, però, che una delle due non pretenda di dare l’unica interpretazione, ma accetti, umilmente, di convivere con quella dell’altra. La dualità originaria: l’uomo come anima e corpo

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Quando in Grecia tra il VII e il VI secolo nasce il pensiero filosofico, scienza e filosofia sono talmente intrecciate da rappresentare due forme dello stesso tipo di sapere. Filosofia e scienza si distinguono entrambe dal senso comune per il fatto che non si limitano al “che” ma ricercano il “perché”. L’uomo comune, dice Aristotele nella Metafisica, sa «che» il fuoco brucia e riscalda ma non sa «perché».4 Il sapiente, invece, non sa solo «che» il fuoco brucia ma ricerca anche il «perché» il fuoco brucia: egli ricerca dunque la causa, il principio in forza del quale il fuoco produce calore. Il sapiente è allora colui che, attraverso la scienza e la filosofia, non si limita a constatare i fatti, ma cerca la spiegazione dei fatti. Con la nascita delle scienze sperimentali, sarà chiaro che mentre le spiegazioni della scienza fanno riferimento a ciò che può essere sperimentato sensibilmente, dunque al mondo della materia, la filosofia attinge il mondo dell’anima, dei principi immateriali e invisibili. Questi principi non sono meno reali per il fatto che non si vedono. Anche la vista non si vede, eppure è il principio di tutto ciò che si vede. È importante, all’interno di questa fondamentale distinzione, che scienza e filosofia rimangano ciascuna nel proprio ambito di competenza. Nel Fedone Platone fa pronunciare a Socrate un discorso magistrale, in cui la distinzione tra anima e corpo è fatta derivare dall’esistenza di due tipi diversi di cause. Per quelli che oggi noi chiameremmo i neuroscien4

Aristolele, Metafisica, I, 981a, pp. 25-30.

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ziati, l’essere seduto di Socrate sul letto della prigione in attesa della morte può essere spiegato con una serie di cause puramente fisiche, come se il tendersi e il distendersi dei nervi, provocando il movimento dei muscoli e delle ossa, fossero le uniche vere e proprie cause sufficienti a spiegare la condizione di Socrate. In realtà questo, ci dice Platone, è assurdo. Se Socrate sta seduto sul letto della prigione, piuttosto, ciò accade perché gli ateniesi gli hanno votato contro ed egli ha creduto suo dovere affrontare la pena, scegliendo ciò che, ai suoi occhi, era più giusto. La vera causa della condizione attuale di Socrate è la sua scelta morale, il cui principio è l’anima. I meccanismi materiali che governano il corpo sono, tutt’al più, una con-causa: Se uno dicesse che, se non avessi ossa, nervi e tutte le altre parti del corpo che ho, non sarei in grado di fare quello che ritengo di fare, direbbe bene; ma se dicesse che io faccio le cose che faccio proprio a causa di queste, e che, facendo le cose che faccio io agisco sì, con la mia intelligenza, ma non in virtù della scelta del meglio, costui ragionerebbe con grande leggerezza. Questo vuol dire non essere capace di distinguere che altra è la vera causa e altro è il mezzo senza il quale la causa non potrebbe mai essere causa. E tuttavia proprio questa, quasi fosse la vera causa, la maggior parte degli uomini, brancolando nel buio, chiamano causa e le danno un nome che non è suo (Fedone, 99a-99b).

Così, se da un lato l’uomo è vincolato dai meccanismi del suo corpo, d’altro lato, questi stessi meccanismi sono il segno sensibile della sua libertà e del suo principio, l’anima. Se invece Socrate fosse solo il corpo di Socrate, allora le cause fisiche che spiegano lo stare in carcere di Socrate sarebbero le stesse che spiegano il suo stare nella piazza della città. Ciò significa che le cause fisiche non spiegano come mai Socrate è in carcere piuttosto che altrove. Come si può notare, in questa suggestiva pagina del Fedone Platone ha inteso dimostrare che quando la scienza – qui identificata con la dottrina dei materialisti fisiologi – vuole rispondere ai perché della filosofia smette di essere scienza, non riesce, cioè, a fare ciò che in quanto scienza è chiamata a fare: spiegare i fenomeni. 58

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Il grande insegnamento di Platone, mentre ci restituisce la distinzione tra scienza e filosofia a partire dai rispettivi ambiti di competenza, dimostra che l’uomo non è solo anima né solo corpo ma sempre, inseparabilmente, anima e corpo. Affermare che il corpo umano possiede un principio immateriale chiamato anima non significa sconfessare il punto di vista scientifico. La filosofia, che studia l’anima, e la scienza, che studia il corpo, non sono dunque incompatibili. Esse si riferiscono alla medesima realtà, l’uomo Socrate, ma la spiegano con linguaggi diversi, con metodi diversi. La verità del punto di vista scientifico che indaga le leggi fisiche rimane, ma viene meno la sua indebita pretesa di esaurire l’intera natura dell’uomo. 3

Materialismo ed evoluzionismo: l’uomo è solo corpo

Questa pretesa, invece, si imporrà gradualmente soprattutto nella modernità, quando scienza e filosofia cominciano a distinguersi nettamente. Con Newton, Galilei e Copernico, si assiste alla cosiddetta “rivoluzione scientifica”, il cui punto di forza, che segna la nascita della scienza così come noi oggi la intendiamo, consiste nel riduzionismo metodologico. Si tratta, in breve, di indagare le cose non nella loro totalità, ma sotto un certo punto di vista, consapevolmente parziale. Galilei suggerisce così di abbandonare «l’impresa vana di tentar le essenze», cioè di comprendere la natura profonda delle cose, e invita a limitarsi alle «affezioni» delle cose, ovvero agli aspetti quantificabili e misurabili con il metodo matematico.5 Ora, però, limitarsi a indagare le caratteristiche misurabili delle cose e non la loro natura profonda non significa che tale natura non esista, ma solo che essa non è oggetto della scienza. Di qui l’espressione realtà oggettiva, che non indica la realtà in se stessa, uguale per tutti e sottratta alla libera interpreta5 G. Galilei, Opere, Ediz. Naz., Barbera, Firenze 1929-1939, 20 voll., vol. V, pp. 187-188.

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zione – come siamo invece spesso portati a ritenere –, ma la realtà in quanto oggetto del metodo scientifico-matematico. Per una serie di circostanze complesse, la riduzione delle cose ai loro aspetti quantificabili e sperimentabili, legittima dal punto di vista della ricerca scientifica, diventerà un’indebita riduzione ontologica.6 Per esempio, è legittimo e doveroso, per la scienza anatomica, considerare il corpo umano come una macchina complessa, un insieme di ossa, muscoli, nervi, organi ecc. Se non si considerasse il corpo umano come una macchina, la scienza anatomica e l’arte medica non potrebbero nascere e progredire. Per la scienza osservare e trattare l’uomo come una macchina è dunque legittimo. Ciò che non è legittima, invece, è la pretesa della scienza di avventurarsi in affermazioni sulla natura o sull’essenza dell’uomo, per esempio, dicendo che l’uomo è solo una macchina. E questo è ciò che accade quando si cominciano a costruire macchine in grado di realizzare le stesse funzioni degli esseri umani (come per esempio i calcolatori). Dal momento che funzioni tipicamente umane come il pensiero possono essere simulate da una macchina, ci si crede autorizzati ad affermare che tali funzioni non richiedono l’esistenza di un principio spirituale per poter essere comprese e spiegate.7 In questa prospettiva l’uomo non è più, come era ancora per Socrate e per Platone, un soggetto corporeo dotato di facoltà spirituali come il pensiero e la libertà ma una macchina, ovvero un assemblaggio di parti materiali, regolate da leggi meccaniche ed elettromagnetiche. Quella che noi chiamiamo anima non sarebbe altro che una funzione biologica, che spingerà lo zoologo Karl Vogt (18171895) ad affermare che «Il cervello secerne pensiero come il fegato secerne la bile». Si passa così dal corpo-macchina dell’anatomia all’uomo-macchina della filosofia (J.-O. La Mettrie). Anche per alcuni scienziati e filosofi contemporanei l’uo6 Cfr. M. Heidegger, Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954; tr. it. Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 5-44. 7 E. Agazzi, La tecnoscienza e l’identità dell’uomo contemporaneo, “Seconda Navigazione”, Annuario di filosofia, 1998, pp. 74-90, 79. Si pensi al celebre test ideato dal matematico inglese Alan Turing nel 1936.

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mo è una “macchina chimica” (J. Monod) e una “macchina desiderante” (G. Deleuze). Ora, dire che l’uomo è una macchina biochimica significa ridurre, fino a eliminarle, le differenze tra l’uomo e gli altri esseri viventi. Questa ipotesi ben si sposa con una diffusa mentalità, secondo la quale la persona umana non occupa un posto privilegiato nel cosmo, e secondo cui ogni convinzione contraria non è altro che ingenuo antropocentrismo.8 Il superamento di quest’ultimo si è consumato nelle tre grandi rivoluzioni che hanno profondamente ferito il narcisismo dell’umanità.9 La rivoluzione di Copernico (1473-1543), quella di Darwin (1809-1882) e infine quella di Freud (1856-1939). La rivoluzione cosmologica di Copernico infrange l’antica persuasione che la terra fosse al centro dell’universo. L’illusione di conservare comunque un primato sul mondo subumano viene meno con la rivoluzione di Darwin: l’uomo ha stretti legami di parentela con gli animali, anzi deriva da essi. Infine la rivoluzione freudiana, che dimostra quanto le manifestazioni più tipicamente umane dell’uomo, quali la religione, la cultura, l’arte ecc. siano sublimazioni di istinti primari, che l’uomo ha in comune con gli animali.10 Come si può vedere, queste tre rivoluzioni nascono sul terreno della scienza e, insieme alla teoria del Big Bang, contribuiscono a rinforzare l’idea che l’uomo sia soltanto un frammento di materia immerso nel cosmo. Ma è soprattutto l’evoluzionismo che tocca l’uomo più da vicino. Secondo la teoria di Darwin ci sarebbe una continuità tra le specie più infime di vita, come virus e batteri, e le forme più complesse ed evolute, come l’uomo. Come la vita può derivare dalla non vita, l’organico dall’inorganico, così esseri viventi di una specie derivano da esseri viventi di altre specie. La differenza tra 8 Come, per esempio, quello espresso da Aristotele nella Politica: “le piante esistono in funzione degli animali ma tutti gli altri animali esistono in funzione dell’uomo”. 9 M. Faggioni, La vita e le forme di vita. Rapporto fra biologia e antropologa, in J. D. Vial Correa - E. Sgreccia, La cultura della vita: fondamenti e dimensioni, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, pp. 65-100, 75. 10 Ibidem.

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vita umana, animale e vegetale, sarebbe una differenza di grado di complessità e non una differenza di essenza: come l’animale non è che una pianta più evoluta, così l’uomo è solo un’animale più evoluto.11

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Ritornare all’uomo come persona

Occorre ora fare attenzione al passaggio, a volte impercettibile, dal campo della scienza a quello della filosofia. La scienza ci dice che probabilmente le varie forme di vita, vegetale, animale e umana, provengono dall’evoluzione di una materia comune. Ma nel momento in cui dovesse anche dirci che queste forme di vita si equivalgono e che la vita umana non può esser considerata una forma di esistenza superiore alle altre, si tratterebbe ancora di un’affermazione scientifica o filosofica? Il passaggio dall’una all’altra scatta quando l’ipotesi scientifica sull’origine dei viventi da un unico principio materiale diventa una filosofia che nega la differenza ontologica, e dunque anche di valore, tra le diverse forme di vita, quella umana compresa. È interessante notare come le varie scienze ripercorrano a ritroso, nei loro metodi di spiegazione, l’evoluzione dal semplice al complesso: dall’antropologia si passa alla biologia e dalla biologia alla chimica, secondo un metodo di spiegazione di tipo riduzionistico: i livelli superiori sono spiegati mediante i livelli inferiori: alla domanda filosofica “che cos’è l’uomo? ” la biologia risponde che “l’uomo è il suo corpo” e alla domanda “che cos’è il corpo dell’uomo?” la fisica e la chimica rispondono che “l’uomo è un aggregato di atomi e molecole”. E l’anima? Non esiste, rispondono le varie scienze, perché non è dimostrabile empiricamente. Il ri11 A livello bio-chimico questo è senz’altro vero. Ma nel momento stesso in cui ciò che è vero a livello bio-chimico venisse fatto valere anche a livello ontologico, allora si tratterebbe di un’estrapolazione indebita. Non sembra si possano trasferire di peso nell’ontologia criteri che valgono nella bio-chimica. Mentre infatti la continuità biologica tra uomini e animali può essere verificata sperimentalmente, ovvero sul piano della scienza, la continuità ontologica non può essere né verificata né falsificata sperimentalmente ma solo argomentata filosoficamente.

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duzionismo è così definitivamente consumato: la scienza, invece di lasciare umilmente alla filosofia quella fetta di realtà che non si lascia leggere in termini scientifici, finisce per dichiararne presuntuosamente l’inesistenza. È importante, a questo punto, stabilire se l’elemento biologico-materiale, nella sua origine e composizione, costituisca tutto l’uomo, esaurisca, cioè, la sua natura o essenza. Se così fosse, infatti, non ci sarebbero come già detto differenze rilevanti tra l’uomo, l’animale e la pianta, dal momento che si tratterebbe di enti costituiti della medesima stoffa bio-chimica. Ma non ci sarebbe differenza neanche tra l’uomo e la macchina, dal momento che, considerato dal punto di vista biologico-materiale, l’uomo è soltanto un assemblaggio sofisticato di molecole, atomi, cellule ecc. L’equiparazione delle diverse forme di vita si scontra, prima ancora che con una corretta filosofia, con l’esperienza che facciamo quotidianamente dell’uomo, nella persona di noi stessi e degli altri. Essa nega, insomma, la nostra esperienza effettiva dell’uomo come persona, ovvero come essere libero e intelligente di natura inseparabilmente corporea e spirituale. Senza entrare in merito all’ipotesi scientifica, possiamo notare le conseguenze controintuitive di questa equiparazione in quattro casi. A) Se chiedessimo a un biologo che rapporto c’è tra la struttura del DNA e la vita,12 con ogni probabilità egli ci risponderà che sono la stessa cosa, perché il DNA, in biologia, è la vita. Eppure la vita è qualcosa di più complesso e ricco di quanto possiamo leggere scientificamente a partire dal 12 La biologia genetica studia le basi e il funzionamento dell’ereditarietà. John Gregor Mendel (1822-1884) mostrò che l’informazione ereditaria consiste in unità separate, chiamate geni, e che si trasmette inalterata da una generazione all’altra. Differenti geni sono ugualmente distribuiti tra le cellule germinali maschili e femminili. I geni possono ricombinarsi nella prole che, così, incrementa la variabilità biologica. Questo vale per uomini, piante e animali. Il DNA (acido desossiribonucleico) è una complessa macromolecola che costituisce l’informazione ereditaria in tutti gli organismi viventi (il cui meccanismo di trasmissione è governato dall’acido ribonucleico o RNA). Il DNA è una sorta di ricetta/programma per la costruzione delle proteine e delle cellule di un organismo. Il genoma umano (insieme dei cromosomi di una cellula, germinale o somatica) possiede circa 100.000 geni.

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DNA. In altri termini: difficilmente la risposta alla domanda: “che cos’è la vita?” può essere un’elencazione delle sue più riposte componenti ereditarie e del loro funzionamento. Se dovessimo assumere un meccanicismo biologistico di questo tipo, dovremmo dire che il senso della letteratura sta nelle lettere, quello della musica nelle note, e quello della storia nelle date.13 Posso anche, per esempio, scoprire tutte le leggi chimiche che presiedono al fenomeno dell’amore e dell’amicizia. Le neuroscienze ci assicurano che l’amicizia e l’amore non sono altro che complesse reazioni bio-chimiche del mio e dell’altrui cervello. Ma se conoscessi dettagliatamente queste reazioni chimiche, se avessi cioè una conoscenza scientifica dell’amore e dell’amicizia, non avrei affatto la sensazione di trovarmi di fronte alla vera spiegazione del mio rapporto con Valentina o con Alessandro.14 Ancora una volta, come abbiamo già visto nel Fedone, quando si vuole comprendere la complessità di un fenomeno tipicamente umano utilizzando formule esclusivamente scientifiche, si finisce per rappresentarne una contraffazione e non una spiegazione.15 B) Spesso per sostenere la stretta parentela tra l’uomo e gli animali si cita il fatto che condividiamo il 99% del nostro pa13 J. Testart - C. Godin, Au bazar du vivant. Biologie, médecine et bioéthique sous la coupe libérale, Seuil, Paris 2001; tr. it. La vita in vendita. Biologia, medicina, bioetica e il potere del mercato, Lindau, Torino 2004, p. 38. 14 Come ha mostrato Thomas Nagel, i fenomeni mentali interni non si lasciano afferrare pienamente da una descrizione scientifica e oggettiva della mente. Così, per quanto possiamo scrutare la fisiologia della percezione di un pipistrello, non sapremo mai che cosa si prova a essere un pipistrello. Cfr. T. Nagel, What is it like to be a bat? (1974); tr. it. Che effetto fa essere un pipistrello?, in Questioni mortali, Il Saggiatore, Milano 1986, pp. 162-176. 15 Se spesso è utile considerare fenomeni superiori come soggetti alle leggi meglio stabilite e più precise di fenomeni più elementari, occorre chiedersi se tale riduzione sia sempre possibile e rispettosa della complessità dei vari livelli di realtà e non ne rappresenti, almeno in alcuni casi, un oggettivo impoverimento oltre che un ostacolo alla loro autentica comprensione. Le scienze naturali, quando conducono a un riduzionismo a oltranza, diventano supremamente artificiali. Da un lato esse sono naturali perché si occupano delle cose di natura, d’altro lato sono artificiali perché per coltivarle l’uomo deve sospendere un modo di guardare le cose certamente più naturale di quello a cui lo costringono le scienze “naturali”. (G. Angelini, La vita tra natura, cultura e fede, in E. Sgreccia - M. Lombardi Ricci, La vita e l’uomo nell’età delle tecnologie riproduttive, p. 99).

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trimonio genetico con lo scimpanzè. Un fatto simile, tuttavia, dovrebbe convincerci del contrario, ovvero che l’essenziale non sta nei geni: se geneticamente soltanto un 1% distingue Dante da uno scimpanzè, questa è forse la prova che non sono i geni di Dante ad aver scritto la Divina Commedia e che tra uno scimpanzè e un uomo c’è una differenza qualitativa e non quantitativa. Una variazione quantitativa dell’1% non è in grado di spiegare, in effetti, la differenza qualitativa tra la Divina Commedia e gli scarabocchi, per quanto sofisticati per un animale, di uno scimpanzè.16 C) L’origine da una materia comune, quale può essere la vita organica, non cancella dunque le differenze qualitative tra le varie forme di vita. Un altro esempio, molto semplice, ci aiuta a comprenderlo. Ipotizziamo che dalla medesima materia, per esempio il marmo, provengano, per evoluzione interna, sia una semplice lastra grezza, sia la Pietà di Michelangelo. Sottoposte a un’analisi chimica, la lastra e la Pietà presentano le stesse caratteristiche. Materialmente sono la stessa cosa: marmo la lastra, marmo la Pietà. Ma chi oserebbe negare che ci sia una differenza di valore decisiva tra l’una e l’altra? Solo chi non vede altro che il livello chimico della realtà, e non anche quello ontologico. Allo stesso modo, la differenza tra una pianta e un uomo, sebbene sia minima quanto a composizione chimica, è massima a livello ontologico. D) In ultimo, si può accennare al motivo filosofico probabilmente più forte che rende problematica non tanto la teoria evoluzionistica, quanto la sua pretesa riduzionistica. Si tratta di un elementare principio della ragione, secondo cui il più non può essere spiegato ricorrendo al meno, l’effetto non può essere superiore alla sua causa e il caos non può essere il 16 J. Testart - C. Godin, La vita in vendita…, cit., p. 54. Si potrebbe anche notare, per relativizzare l’importanza della costituzione genetica e dunque della dimensione biologica, che mentre noi possediamo “soltanto” 30.000 geni, un chicco di riso ne possiede 50.000. Per evitare ogni visione deterministica della genetica, Jacques Testart sostiene che il genoma sta all’uomo come il calendario alla meteorologia: offre un tracciato senza determinarlo nei dettagli. Un’altra autorevole denuncia all’idolatria biologistica si trova in R. C. Lewontin, Biology as Ideology. The Doctrine of DNA, Concord, Ontario, Canada 1991; tr. it. Biologia come ideologia. La dottrina del DNA, Bollati Boringhieri, Torino 1993.

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principio dell’ordine. Se vedo qualcosa che si muove deve esserci una causa che possiede almeno il movimento, che possiede almeno la caratteristica del suo effetto. Se vedo un quadro, la sua causa non può essere un gatto. La causa di cui il quadro è un effetto deve infatti possedere almeno la capacità di creare un’immagine. Allo stesso modo, un computer intelligente non può derivare da un’aggregazione casuale di pezzi, ma da una causa altrettanto intelligente quanto lo è il computer come effetto. L’uomo, insomma, non può derivare dal non uomo. Viceversa il non uomo, un computer, un quadro, ecc., può derivare dall’uomo: è l’uomo a essere il modello della macchina e non la macchina a essere il modello dell’uomo. Se, dunque, il più non deriva dal meno, il meno, invece, può derivare dal più (nella teoria del Big Bang, certo, l’effetto è molto superiore alla causa). Questi esempi dimostrano che la persona umana possiede una complessità che non si lascia facilmente mettere sullo stesso piano della vita non umana e, di conseguenza, che l’uomo non può essere ridotto a un composto di parti materiali, a una macchina. Una prova classica di questa irriducibilità è data dal fenomeno dell’autocoscienza. L’uomo, infatti, non solo conosce, ma sa di conoscere: conosce se stesso come l’essere che conosce. L’uomo è dotato, cioè, di autocoscienza. Così, quando qualcuno afferma invece di non essere altro che materia, con ciò stesso dimostra di sapere auto-giudicarsi, di poter prendere le distanze dalla propria dimensione materiale, sia pure per negare, immediatamente, che tale distanza ci sia. Ma non è precisamente questa capacità di auto-giudicarsi, di prendere consapevolezza di sé, che la materia in quanto materia non possiede? Non ci sono pietre né animali materialisti, per cui si può dire di essere solo materia a condizione di essere anche spirito: ovvero, a condizione di non essere davvero solo materia.17 17 A. Cavadi, L’uomo a più dimensioni, in A. Cavadi - N. Galantino - E. Guarneri, Alla ricerca dell’uomo. Lineamenti di antropologia filosofica, Augustinus, Palermo 1988, p. 64.

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Questo salto di qualità, questa discontinuità ontologica nella continuità biologica tra le varie forme di vita, questa irriducibilità dell’uomo alla sua componente organica e materiale, non può essere ignorata solo perché la scienza non sa spiegarsela. Tutto ciò rimane evidente anche dentro l’ipotesi evoluzionistica. Non è cioè necessario, per affermare la superiorità ontologica della persona umana, la sua spiritualità, negare l’ipotesi scientifica sull’origine dell’uomo dagli animali inferiori. In tal senso, l’uomo non è una parte del mondo ma un mondo a parte, senza che ciò significhi fare dell’uomo il despota della natura, colui che, per il fatto di rappresentarne il vertice, si sente autorizzato a saccheggiarla irrispettosamente. Hans Jonas, benché forse in modo un po’ riduttivo, ha scritto giustamente che «l’uomo non è in nulla superiore agli altri esseri viventi, eccetto che per poter essere soltanto lui responsabile anche per loro».18 5

Conclusioni

In conclusione, possiamo dire che la realtà, non solo umana, possiede una ricchezza di cui la scienza, quando pretende di essere l’unica forma credibile di sapere, ci restituisce un’immagine inevitabilmente artificiale e impoverita. Ciò vale ancora di più quando ci spostiamo dall’antropologia, che definisce che cos’è l’uomo, all’etica, che si occupa invece di come l’uomo dovrebbe agire. E infatti, come ha scritto Ludwig Wittgenstein, «Noi sentiamo che, anche se tutte le possibili domande della scienza trovassero una risposta, i nostri problemi vitali non sarebbero neppure sfiorati».19 Se anche conoscessi la struttura segreta della materia di cui è fatto l’universo non mi sarebbe di aiuto nella vita. Anche il grande scrittore 18 H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung, Insel Verlag, Frankfurt a. M. 1979; tr. it. Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, a cura di P. P. Portinaio, Einaudi, Torino p. 128. 19 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Basil Blackwell, Oxford 1961; tr. it. a cura di A. G. Conte, Einaudi, Torino 1995, 6. 52, p. 81.

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russo Lev Tolstoj potrà scrivere: «La scienza è assurda, perché non risponde alla domanda più importante per noi: che dobbiamo fare? Come dobbiamo vivere?». Dire che la scienza è assurda è però eccessivo e non rende giustizia alla scienza sana, quella che si limita a fare il suo mestiere senza sconfinare nel campo della filosofia e della fede religiosa. Potremmo, allora, se ci è concesso, correggere Tolstoj dicendo: “La pretesa della scienza di esaurire il mistero della vita è assurda, dal momento che la scienza non risponde alla domanda più importante per noi: che dobbiamo fare? Come dobbiamo vivere?”.

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Finito di stampare dalla Luxograph s.r.l. per conto della G. B. Palumbo & C. Editore S.p.A. Palermo, Dicembre 2005





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