VESPERTILLA Numero Intermedio 1-2012 (settembre-ottobre)

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Periodico di approfondimento culturale - Anno IX - supplemento n° 4 luglio-agosto 2012- Prezzo € 5

“...non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini...” Elio Vittorini, 1945

“Scrivere non è descrivere. Dipingere non è rappresentare.” George Braque

Periodico romano di approfondimento culturale: arti, lettere, spettacolo


VESPERTILLA - Anno IX - supplemento n° 4 luglio-agosto 2012

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Padana Spedizioni S.a.S.

Doganalisti specializzati in Mostre d’Arte Padova Rovigo Vicenza Tutte le operazioni doganali e le istanze presso la Sovrintendenza alle Belle Arti p e r re p e r t i a rc h e o l o g i c i e o p e re d ’ a r t e p ro v e n i e n t i d a l l ’ e s t e ro e i n v i a t i a l l ’ e stero per esposizioni e scambi culturali.

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PER ALLARGARE LO SPETTRO DELLE INFORMAZIONI

E PER CONOSCERE IN ANTICIPO I RETROSCENA

Vespertilla intende offrire un nuovo servizio ai propri lettori: la rivista uscirà infatti, nei mesi intermedi al numero ordinario bimestrale, con una pubblicazione più breve, in cui saranno segnalati, tramite anticipazioni, presentazioni e approfondimenti, film, spettacoli teatrali e mostre che, secondo la redazione, rivestono particolare interesse. Questi eventi saranno illustrati inquadrandoli storicamente, si riferirà sui precedenti e sulle fasi di lavorazione e preparazione, e, in base a note di regia, rassegne stampa e altre fonti, si analizzeranno le premesse su cui gli autori dell’evento dichiarano di voler lavorare, valutandone condivisibilità, credibilità e scientificità. Si verificherà poi nell’intervento sul numero ordinario se tali premesse siano state rispettate o disattese e se gli strumenti registici, per cinema e teatro, e le opere scelte per l’esposizione nel caso di mostre, siano i più corretti per dimostrare la validità delle tesi che l’autore dell’evento e/o dell’opera sottopone al vaglio di pubblico e critica. L’obiettivo è quello di dare maggior informazione possibile, assieme al maggior numero di notizie disponibili, utili alla valutazione e alla comprensione dell’evento stesso, attraverso una conoscenza più diffusa della storia, delle opere, degli autori, dei registi e dei curatori, e nel caso di testi, soggetti e opere non inediti i precedenti più significativi, per permettere al pubblico di partecipare agli eventi con l’analisi di tutto quello che concorre alla formazione dell’evento in questione. Si spera che come tutte le modifiche, correzioni, aggiunte, che hanno accompagnato questi dieci anni di attività editoriale, anche questa possa godere dell’approvazione e dell’interesse di tutti i lettori di Vespertilla. Luigi Silvi

SOMMARIO TEATRO

PRESENTAZIONI SPETTACOLI

ARCHEOLOGIA

PRESENTAZIONI MOSTRE

ARTE PRESENTAZIONI MOSTRE

CINEMA

PRESENTAZIONI FILM

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VESPERTILLA Direttore Responsabile: Serena Petrini Direttore Editoriale: Luigi Silvi Condirettore: Ilaria Lombardi Vicedirettori: Serena Epifani, Francesca Martellini Segretaria di Direzione: Maria Pia Monteduro Responsabile settore teatro: Mariella Demichele Hanno collaborato a questo numero: Serena Epifani, Ilaria Lombardi, Francesca Martellini, Maria Pia Monteduro, Luigi Silvi. La collaborazione sotto ogni forma è gratuita Impaginazione grafica: Maria Pia Monteduro Editore: Associazione Culturale ANTICAMente via Sannio 21, 00183 Roma INFO 3476885334 - 3331904856 rivista.vespertilla@live.it - vespertilla@tiscali.it Pubblicazione registrata presso il Tribunale Civile di Roma n. 33505.08.2004 Stampa: Copypoint - via dei Funari 25, 00186 Roma


JOHN GABRIEL BORKMAN, in scena alTeatro Eliseo dal 16 ottobre al 4 novembre 2012 John Gabriel Borkman è la penultima opera composta da Henrik Ibsen nel 1896. I grandi capolavori del drammaturgo norvegese sono stati già scritti, già rappresentati e hanno già fatto discutere la società borghese europea. Ibsen, che da giovane farmacista ha scelto la precarietà del teatro per affermare le proprie idee, ha già scosso le platee presentano personaggi dibattuti, angosciati, a volte sconfitti ma che anelano alla libertà. O meglio che decidono di viere, come il suo autore, la propria vocazione. L’antagonista del protagonista in Ibsen è il destino, tema già caro a Kirkegaard, che l’autore norvegese ha letto, meditato, metabolizzato molto attentamente. Ibsen cerca nel suo teatro di opporsi a stilemi convenzioni statiche e precostituite: il caso più noto è certamente Casa di bambola (1879), ma in tutta la sua drammaturgia l’anelito a rompere schemi e gabbie è forte, pur se non sempre il personaggio riesce a “vincere” la propria battaglia personale. Ma la cifra interpretativa del teatro ibseniana è il rigore. Un rigore da vivere pur infrangendo le regole, o cercando di farlo. Chi sbaglia, sottolinea Ibsen, prima o poi paga, chi ha disatteso a questo rigore, morale, civile, etico, civico, paga. E John Gabriel Borkman ha pagato. Ha trascorso degli anni in prigione per aver speculato illegalmente con i soldi dei suoi investitori (superfluo sottolineare l’agghiacciante attualità del tema…), ha perciò pagato il prezzo alla società, come si suol dire; è, si potrebbe dire, un fallito, ma egli invece non si sente vinto, ma addirittura si reputa un genio creativo della finanza, quasi l’affarista MercaJohn Gabriel Borkman di Henrik Ibsen, Copenha- det di Balzac. Egli, ex-personaggio vincente, ora fallito, gen (1896). cerca di affrancare la propria vita dalla propria coscienza, accorgendosi però che svincolata la coscienza perde spessore quella stessa vita amorale e libera da ogni tipo di regola, tanto agognata. L’analisi sociale che Ibsen delinea è, come sempre nel suo teatro, lucida, quasi spietata, ma si avverte qui una vena quasi tragicomica, nella prevaricazione continua e pressante che ogni personaggio svolge su se stesso e sugli altri, reciprocamente. Così illustra il regista, Piero Maccarinelli: “Borkman presta un ineguagliabile volto poetico a quel destino che fa di ognuno un prevaricatore e un umiliato e offeso.” Il regista punta sulla modernità del tema e lo declina nel contemporaneo, stimolato dalla nuova traduzione di Claudio Magris, uno tra i maggiori studiosi del drammaturgo norvegese; e questa modernità viene anche sottolineata da un’ambientazione essenziale, quasi minimalista, molto vicina al sentire dell’oggi. Ancora Maccarinelli: “La classicità sembra dissolversi in un presente bruciante, l’unità del reale disintegrarsi. La realtà della vita brucia in una contemporaneità che non ha bisogno di essere resa contemporanea esteriormente.” In scena tre grandi interpeti: Massimo Popolizio, Manuela Mandracchia, Lucrezia Lante Della Rovere. La scheda illustrativa dell’Eliseo sottolinea che questi attori appartengono a quella generazione di attori che ha potuto sfiorare le utopie da un lato e che ne ha visto la devastazione dall’altro”. Questa affermazione, pur vera, sembra quasi far torto a questi interpreti, che sanno andare anche ben oltre alle proprie esperienze personali generazioniali vissute. Henrik Ibsen in una fotografia di Kohlenberg (1895). Maria Pia Monteduro

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Teatro RE LEAR, in scena al Teatro Qurino dal 16 al 28 ottobre 2012 Re Lear ha un inizio da favola, un evolversi di degenerata sofferenza, un finale di morte non salvifica. Preparandosi a vederlo in scena, o a leggerne il testo, è opportuno farlo come se non si conoscesse la storia, dimenticando la malvagità dei figli e la “cecità” dei padri: solo così si comprenderà come Shakespeare, sin dall’inizio, tenga le redini della vicenda, componendo battute e scene con un acume così sottile da guidare il pubblico in una direzione totalmente opposta rispetto alla realtà dei fatti. La storia di Lear proviene da un repertorio di antiche leggende britanniche, patrimonio dal sapore mitologico in cui il pubblico del tempo riconosceva autentici avvenimenti fondativi; Shakespeare trasforma il “materiale narrativo” in una tragedia dell’esistenza, delle generazioni umane, del decadimento morale. Niente di tutto questo si percepisce dalla prime scene, dove, al contrario, in un inizio un po’magico e rituale s’innesta una scintilla che ne incrina l’armonia, ma non spezza l’incantesimo. Il vecchio Lear, deciso a lasciare il trono e a dividere il regno fra le tre figlie, chiede loro di dimostrare l’amore che provano per il padre; Goneril e Regan si “esibiscono” in atti di sottomissione, mentre Cordelia, la minore, dichiara di usare sincerità dove il padre vede offesa: “Amo Vostra Maestà secondo il mio dovere: né più né meno”. La reazione del re, che ripudia e caccia la figlia, e l’impassibilità delle sorelle davanti alla severa sentenza, appaiono manifestazioni di follia e insensibilità, ma Shakespeare, grande conoscitore della natura umana, chiede al pubblico, almeno per il momento, di giustificare i personaggi. Goneril e Regan danno prova di ipocrisia e insensibilità, ma nel dramma non si leggerà mai di manifestazioni di affetto o tenerezza nei loro confronti, mentre abbonderanno gli autocompiacimenti di Lear per quanto ha fatto per loro. Al termine della prima scena, le stesse Goneril e Regan si mostrano stupite dalla reazione rabbiosa del padre, furioso nonostante abbia sempre “amato nostra sorella più di tutte”, e anche nelle future scelte (in primis, ridurre il numero dei cavalieri richiesto dal sovrano, obiettivamente gravoso sul bilancio domestico e motivo di disordine a palazzo) più che di cattiveria gratuita sembrerebbe facciano uso di un senso di realtà che a Lear sfugge (se si parla tanto spesso di “vecchiaia capricciosa”, il carattere del sovrano non è mai stato facile). Senz’altro le due donne sono poco sensibili, ma pratiche, cresciute nell’ombra, e hanno ben capito che dovranno stare in guardia per impedire al re scatti incontrollabili come quello nei confronti di Cordelia. Similmente, si cerca di comprendere come il tradimento di Edmund nei confronti del padre e del fratello, vera trama secondaria, non sia del tutto immotivato. Prima dell’ingresso di Lear, il conte di Gloucester, quasi vantandosi davanti al servitore Kent, ripercorre i natali del figlio illegittimo: “Sua madre era una bellezza. Ce la spassammo nel farlo, e il figlio di puttana va riconosciuto”. Si ricordi che Edmund è il terzo uomo in scena, presente all’imbarazzante racconto del padre, che avrà sentito chissà quante volte: alla fine del dramma, nonostante sia indiscutibile condannare un tale personaggio dalla moralità negativa, si può comprendere lo stato di frustrazione e vergogna che ha alimentato il suo tradimento. “Il piano della vecchiaia e della giovinezza. [] Il vecchio e il giovane come storia”, scriveva Giorgio Strehler negli appunti di regia per il suo Re Lear, rappresentato al Piccolo Teatro di Milano nel 1973. I due “vecchi”, Gloucester e Lear, appaiono personaggi deboli e sciocchi in mezzo a tanti “giovani” «agili e crudeli e voraci” – continua Strehler – ma è solo nella scena che conclude il secondo atto che i personaggi si schierano definitivamente come pedine bianche e nere su una scacchiera. Shakespeare ha mostrato le debolezze umane che hanno innescato il precipitare degli eventi (gelosia, rancore, senso di frustrazione, lussuria) ma non è più ammissibile alcuna comprensione quando si inizia a realizzare, insieme ai personaggi, ciò che finora è sfuggito agli stessi protagonisti. Quando Regan e Goneril chiudono la porta al padre, davanti alla tempesta, sarà Glaucester a palesare che “le figlie lo vogliono morto”. Durante e Lear (Tino Carraro), il Matto (Ottavia Piccolo), Re Lear, regia dopo l’uragano i personaggi rivelano la vera natura, e ha inidi Giorgio Strehler (1973). zio la discesa fisica, psicologica, morale che la natura impie-


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tosa simboleggia. “Lear è circondato dal mondo ostile e, dentro, dal suo mondo ostile che frana. Il tutto però potrà dare anche una sensazione abbastanza semplice di ‘tempesta’, fatta di scrosci, grida di vento, scoppi, sibili” (Strehler). In una tragedia in cui la natura sembra essere del tutto indifferente alla sorte umana, l’uragano è presagio di un mondo “strano” (Glaucester), “basso” (Kent), da cui difendersi. Sotto la pioggia si compie la discesa di due personaggi, Lear e Edgard, quest’ultimo costretto a (s)vestire i panni del folle povero Tom per fuggire al disegno ordito dal fratello Edmund. “Non son più niente”, realizza nell’atto IV, re Lear cacciato dalle figlie alle quali ha dato tutto. La battuta riporta al Riccardo II, ancora una tragedia della privazione sociale e dell’identità di un individuo. Per il re Riccardo in cella, un sovrano che muore ancora investito del suo potere è pur sempre qualcosa, mentre un re privato della propria sovranità è un niente, soprattutto se rimane in vita. Edgar pronuncia le stesse parole nello straziante monologo con cui si prepara a immedesimarsi nel soggetto rifiutato della società: “Povero Tom! Ma tu sei ancora qualcosa. Io, Edgar, non sono niente, io!”. Peter Brook, nella trasposizione filmica del King Lear (1971), riprende l’incontro di Lear e di Tom sotto una pioggia scrosciante, quasi una cascata, ove i personaggi stanno immobili e le immagini si compongono a tratti veloci, a tratti lente, mostrando frammenti ripresi da più punti di vista. L’annullamento dell’io nella pazzia sembra, nell’assurdo, una condizione inevitabile per giungere alla comprensione. Lear ha perso la propria natura regale, Edgard lo status di figlio prediletto, ma entrambi finiscono per acquisire dimensioni “grandi” che non sono quelle del re, o dell’eroe, ma dell’uomo che soffre e si riconosce nel dolore altrui. Il tema della pazzia è molto delicato e ricco di sfumature, a partire dal fatto che l’appellativo “matto” è riferito a ciascun personaggio. Lear teme di impazzire, così come Glaucester, che non riconosce più il mondo in cui il padre è contro la figlia, e il figlio contro il padre; Goneril accusa Albany di essere uno “sciocco moralista”, lo sposo diviene come Edgard “matto” nel senso di “vittima della propria ingenuità”. Il Matto vero e proprio, allo stato naturale, è la voce della coscienza che affianca Lear nelle sue disgrazie, personaggio al contempo tragico e comico perché legittimato, dal suo ruolo, a non porre filtri ai propri pensieri. In tanto caos, mentale e gerarchico, Cordelia torna come un’apparizione salvifica, presenza che redime la forza insensata della natura. Non è un caso che Strehler abbia affidato alla stessa attrice, una straordinaria Ottavia Piccolo, il ruolo della figlia minore e del Matto: nello stesso personaggio si componevano le due opposte facce della stessa medaglia, “ruota di questo duro mondo”, ricorda Kent, destinata a girare senza preavviso. La morte, nel finale, dimostra di nuovo la grande ambiguità della tragedia, dove arriva tanto come punizione per i “cattivi” quanto come “condanna” per i giusti. Regan muore avvelenata, Goneril si suicida, Edmond è punito, Cordelia è impiccata, Lear si spenge dopo averla portata in scena tra le braccia. Mettere oggi in scena Re Lear vuol dire rappresentare l’allegoria della potere “marcio” ma, soprattutto, del dolore, che rende ciechi tanto più si è stati prima incapaci di vedere. Oltre alle regie di Brook e Strehler, si ricorda un eccezionale Roberto Herlitzka diretto da Antonio Calenda (2004), creazione memorabile in cui forza e debolezza si mostrano in uno stesso personaggio dalle molteplici sfumature. La vecchiaia del sovrano, lo sbiadirsi della gloria, l’incedere lento verso l’oblio fecero da cornice ai cento anni del Museo Stibbert di Firenze, dove, nel 2006, Stefano Massini allestì un itinerante adattamento del testo shakespeariano (Il Re è solo) tra le collezioni di armi, armature, arazzi, costumi, divenuti silenziose e complici scenografie. Siamo per gli dei come le mosche per i ragazzini, dice Gloucester: “ci ammazzano per divertirsi”. Il mondo in cui agiscono i personaggi di Re Lear è astratto, lontano nel tempo, ma forse per questo un testo così segnato da malvagità, crudezza e violenza di atti e parole ben si presta a ricalcare un messaggio di desolazione umana universale. Francesca Martellini

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Teatro

King Lear (Paul Sconfield) in King Lear, regia di Peter Brook (1971).


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Archeologia ROMA CAPUT MUNDI. UNA CITTÀ TRA DOMINIO E INTEGRAZIONE, Colosseo e Foro Romano, 10 ottobre 2012-10 marzo 2013 Secondo lo storico Livio la potenza universale di Roma – come viene percepita nell’immaginario collettivo ancora oggi – era stata già anticipata da una profezia di Romolo che, disceso dal cielo e rivoltosi a un romano, pronunciò le seguenti parole: “Va’, annuncia ai romani che gli dèi celesti vogliono che la mia Roma sia a capitale del mondo; perciò coltivino l’arte militare e sappiano, e tramandino anche ai posteri, che nessuna potenza umana potrà resistere alle armi dei romani”. Tradotto in guerre di rapina, sofferenze perpetrate contro i popoli sottomessi, schiavitù, il brutale dominio romano, mai negato dalla storia, seppure tra mille contraddizioni procede di pari passo con la politica di integrazione che i romani seppero attuare di volta in volta. Non era infatti Roma – e si provi a cercare un riscontro che non si troverà nella storia universale – una città che fin dalle origini seppe accogliere nel suo grembo genti provenienti dai luoghi più disparati? Prerogativa peraltro rimasta immutata della città contemporanea. Il mito narra che al momento della fondazione della città Romolo invitò coloro che a lui si erano uniti per creare una nuova civiltà, una nuova identità politica sul territorio dell’antico Lazio, a deporre prodotti in una fossa, insieme a zolle dei rispettivi territori di origine. Detto bothros, denominato mundus (un termine che starebbe a indicare, secondo il parere di taluni studiosi, sia il cielo che la terra, e che indicherebbe pertanto l’orbis), era posizionato non sul Palatino, ma in corrispondenza del Comitium nel Foro. Il rimescolamento e la fusione di terre venute da lontano rispecchia perfettamente il processo che caratterizza l’asylum. Dominio e integrazione dunque. Questi i due aspetti intorno ai quali ruota l’esposizione allestita al Colosseo, alla Curia Iulia e al tempio del Divo Romolo al Foro Romano, sull’Urbe e la sua espansione politica e militare nel Mediterraneo. L’obiettivo dei curatori Andrea Giardina, storico e professore presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane e e la Scuola Superiore Normale di Pisa, e di Fabrizio Pesando, archeologo e professore presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, è quello di fornire al pubblico una visione poliedrica del mondo romano. A tale scopo vengono mostrate nelle tre prestigiose sedi individuate nell’area archeologica centrale più di un centinaio di opere, che pongono l’enfasi sull’espansione non sempre pacifica attuata dai romani nel Mediterraneo e sul processo di integrazione delle genti di volta in volta sottomesse. Serena Epifani


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Archeologia

Ratto di Palladio,affresco, 20-37 d.C., da Pompei, casa degli attori (I, 2, 6) Napoli, Museo Archeologico Nazionale


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Archeologia L’ETÀ DELL’EQUILIBRIO. TRAIANO, ADRIANO, ANTONINO PIO, MARCO AURELIO, Musei Capitolini, 4 ottobre 201 - 5 maggio 2013 Nell’ambito del progetto quinquennale I giorni di Roma, che ha già visto ai musei Capitolini le mostre L’età della conquista. Il fascino dell’arte greca a Roma (2010) e Ritratti, le tante facce del potere (2011), è la volta dell’esposizione incentrata su una fase dell’impero romano dove protagonisti furono Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio. Si tratta degli “imperatori buoni”, coloro i quali condussero e governarono un impero al massimo della sua espansione territoriale. Negli intenti dei curatori – Eugenio La Rocca e Claudio Parisi Presicce – analizzare una fase della storia romana che non si ripeté più nel tempo, caratterizzata dall’avvenuta maturazione di una politica di dominazione avente come effetti la pace nel bacino del Mediterraneo, l’unificazione dello spazio monetario, la diffusione del sistema legislativo e giudiziario romano, e del modello di vita urbano in ogni luogo dell’impero, anche quello più distante da Roma. Infatti, se durante il principato di Ottaviano Augusto gli antichi romani, dopo il sanguinoso periodo delle guerre civili che avevano insanguinato Roma, conobbero quaranta anni di pace – non a caso tale arco temporale venne chiamato già in antico “età aurea dell’impero” – con gli imperatori che gli succedettero si visse un’epoca all’insegna di un clima di consenso politico e dell’equilibrio, parola chiave quest’ultima che compare anche nel titolo della mostra. Cinque le sezioni attraverso le quali si effettua il tentativo di inquadrare detta fase storica, i Felicia tempora, come la definivano gli stessi romani, nella quale dominarono concetti di pacatezza, classicità, eleganza formale; I protagonisti, con numerosissimi ritratti dei suddetti imperatori e delle rispettive mogli e famiglie, ma anche quelli dei privati cittadini, da cui si evince la volontaria assimilazione alle immagini degli imperatori regnanti; Il linguaggio artistico, dove si fa il punto sulla assimilazione e rielaborazione dell’arte greca; Ville e dimore, in cui si illustrano i luoghi che fecero da sfondo a queste vite celebri come quinte teatrali capaci di dare il giusto risalto allo status di chi lì abitava; I rilievi storici, sezione dove si focalizzano i diversi aspetti della vita pubblica (l’educazione dei giovani, l’evergetismo pubblico e privato, le opere realizzate per il popolo, i monumenti statali); Vincitori e vinti, che mette in evidenza tutte le attività connesse alla guerra; Le tombe, settore della mostra dove si inquadrano i temi sui costumi funerari e che si conclude con la ricostruzione di due mausolei privati: il sepolcro degli Haterii, dalla Casilina, e il mausoleo di Claudia Semne dalla via Appia. Statua femminile come Faustina Maggiore, II secolo, marmo, h cm Serena Epifani 197, Roma, Musei Capitolini, Palazzo Nuovo.


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Archeologia

Fauno ebbro, marmo rosso, II secolo, h. cm 50 cm, largh. cm 203, Roma, Musei Capitolini, Palazzo Nuovo.


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Arte PAUL KLEE E L’ITALIA, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, 9 ottobre 2012 - 27 gennaio 2013 La Galleria d’Arte Moderna di Roma si assume alle sue opere un nuovo dinamismo e un punto l’onere e l’onore di mostrare al grande pubblico di vista totalmente diverso con cui guardare all’opera di Paul Klee. La mostra, se non deluderà l’architettura, mentre i mosaici di Ravenna incile aspettative, darà la giusta rilevanza a un arti- dono a tal punto da far sviluppare una nuova sta iper-conosciuto tra gli addetti ai lavori, ma fase in cui recupera la lezione pointelliste. Alche rappresenta poco più di un nome per chi la cune opere sono direttamente ispirate all’Italia e storia dell’arte non l’ha studiata a fondo. Non si nate dalla visione del paesaggio, come ad esemè di fronte a un’antologia, ma a un percorso spe- pio Mazzarò (1924) con una villa siciliana, o Cocifico che vuole indagare il rapporto tra il nostro struzione portuale (1926) eseguito durante il paese e l’artista svizzero (naturalizzato tedesco). soggiorno sull’Isola D’Elba; altre. invece risenIl legame tra i due è stato fecondo e armonioso tono del messaggio trasmesso per il sapore di cui da entrambe le parti. Klee, da sempre affascinato sono fatte (i colori tipici del sud o i profumi delle dell’ambiente mediterraneo, compie sei viaggi in notti d’estate). Ci si auspica che delle cento opere Italia; il primo di questi nel 1902 secondo lo spi- in mostra almeno alcune di queste appartengano rito del Grand Tour in compagnia di Goethe e alla fase interamente astrattista, così da poter teBurckard che devono essere stati gli accompa- stimoniare che l’Italia non è presente solo in gnatori ideali nella scoperta del mondo classico! quanto “bel paesaggio” da riprodurre, ma poter Nonostante per Paul Klee sia stato fondamentale comprendere quanto sia penetrato a fondo nella il viaggio in Tunisia, durante il quale è rimasto poetica di Klee. “L’arte è un mezzo attraverso il rapito dalla potenza del colore, l’Italia ha rappre- quale si indaga la verità delle cose che risiede sentato per lui un bacino inesauribile d’ispira- nell’invisibile”: questo rispondeva Klee quando zione. Sebbene alcuni dei sei viaggi si siano gli si chiedeva quale fosse il significato delle sue succeduti a poco distanza l’uno dall’altro, ogni opere, ed è questo che bisogna ricercare ancora volta Klee veniva a contatto con una realtà cul- oggi nella sua arte. Ilaria Lombardi turale e sociale differente. Il futurismo imprime

Paul Klee (Münchenbuchsee 1879, Muralto 1940), Mazzarò, pittura a olio, 1924.


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GUTTUSO. 1912-2012, Complesso del Vittoriano,.12 ottobre 2012 - 10 febbraio 2013 A cent’anni dalla morte, Roma dedica una retrospettiva una sua retrospettiva, che pare, invece, almeno dalle a Renato Guttuso, l’artista siciliano, che a Roma visse per prime anticipazioni, proporre una lettura della sua opera oltre cinquant’anni. Una retrospettiva su Guttuso do- attraverso una serie di “manifesti”, vale a dire le sue vrebbe essere l’occasione per entrare nelle controversie opere più note e famose, quasi ad attirare l’attenzione sui del dibattito sulla sua opera, con studi, ricerche e ap- riflettori della ribalta, più che sulle problematiche scienprofondimenti, perché Guttuso è autore decantato, ma tifiche e di contenuto. Si è abituati alle mostre del Vittoanche discusso e controverso, sia per ragioni artistiche riano, dove spesso un grande nome e le sue opere più sia per motivi di pensiero: le sue nature morte con bucra- famose ed eclatanti servono a richiamare sciami di turinio su tavolino di netta, chiara e dichiarata ascendenza sti e di appassionati, che, in buona fede, credono di assipicassiana e braquiana fanno ancora discutere; e resta stere a un importante evento culturale, senza rendersi nell’occhio del ciclone la sua mancata evoluzione per l’u- conto, che trattasi di evento mondano, che in realtà si liscita polemica dal Fronte Nuovo delle Arti, cui aderi- mita a movimentare opere d’arte, spesso di altissimo livano tutti gli autori che volevano uscire dall’allora vello, col solo obiettivo del botteghino e del “lauto pasto” provincialismo della pittura italiana, in seguito all’accet- dell’indotto. Visionando il materiale diffuso alla stampa tazione, seppur critica, del nefando “richiamo-invito dagli organizzatori, tutte le indicazioni vanno in questo pressante” di ritorno all’ordine, che Guttuso accettò, pur senso, segnate dal deprimente metodo di ampliare il in polemica con “il migliore”, rivendicando la necessità vero oltre il reale, che deprime il diritto all’informazione, di un confronto con le nuove esperienze europee. Ri- e il metro di giudizio usato nella valutazione delle opere spose alle sirene togliattiane, versione italiana dello zda- è l’appartenenza o meno ai musei e alle collezioni prinovismo sovietico, attento e severo custode della retorica vate “più grandi del mondo”. Si assiste pure all’esaltapropagandistica del realismo socialista, anche perché zione retorica e acritica dell’impegno civile di Guttuso, era difficile rinunciare alla potente macchina pubblicita- quasi fosse l’unico artista a porsi problematiche sociali, ria del partito comunista e della sua stampa, e al gran- basti, invece, ricordare, tra i molti, Emilio Vedova con la dioso mercato per multipli, offerto dalle Feste dell’Unità sua commossa e partecipata adesione concreta e persoe dalle manifestazioni culturali del partito, dove folle di nale a tante battaglie, ben diversa da quella elitaria, salotproletari imborghesiti aspiravano ad appendere nel sa- tiera e leggermente snob di Guttuso. Questo servile lotto buono una delle centinaia di repliche di un’inci- modo di scrivere, pubblicizzare e diffondere da parte di sione del compagno artista amico dei compagni Picasso, stuoli di lacchè obbedienti e servili, che non smette di Neruda e Moravia. Questi temi irrisolti dovrebbero es- amareggiare è, salvo voci isolate, ormai la regola e non fa sere al centro dell’analisi dell’opera di Guttuso attraverso ben sperare per la mostra: si attende però, di prenderne

Renato Guttuso (Bagheria 1912, Roma 1987), I funerali di Togliatti, 1972, acrilico e collage di carte stampate su carta incollata su quattro pannelli di compensato, cm 340 x 440, MAMbo, Museo d'Arte Moderna di Bologna.

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Arte


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Arte AFRO. DAL PROGETTO ALL’OPERA. 1951-1975, Museo Carlo Bilotti, 11 ottobre 2012 - 6 gennaio 2013 A cent’anni dalla morte dell’artista friulano, il Museo Bilotti propone, da ottobre a gennaio, una mostra dal taglio inusuale che si preannuncia, se sarà correttamente costruita, di squisita peculiarità e darà un sicuro contributo alla conoscenza dell’opera dell’artista. La curatrice della mostra Barbara Drudi abbandona la scontata idea della grande retrospettiva e sceglie di presentare solo sei opere indicative dell’evolversi del fare artistico di Afro: dalle prime prove espressamente naturaliste, alla rivisitazione tutta personale delle avanguardie storiche, per seguirne poi l’opera attraverso il complesso e lungo, ma sicuro, processo di astrazione che giunge a compimento nella maturità artistica. Le opere saranno accompagnate ognuna da una serie di prove e schizzi preparatori che, partendo sempre dal reale, giungono all’esito finale, formale o astratto, che sia. Se l’esito finale corrisponderà alle premesse teoriche, risulterà un contributo decisivo alla comprensione del processo formativo di ogni singola opera e di tutta la produzione dell’autore e anche del percorso che porta Afro a essere uno dei principali esecutori internazionali dell’astrattismo. Si potrà così mettere in luce la grande importanza rivestita da una programmazione rigorosa e precisa da parte di tutti gli autori dell’astrattismo italiano: si pensi a Emilio Vedova e a Fausto Melotti, o ad Alberto Magnelli. Nel caso di esito positivo e soddisfacente si potrebbe essere di fronte a un nuovo metodo di indagine su un autore attraverso l’analisi del come l’autore giunga alla costruzione di una singola opera e, attraverso rimandi e confronti, analizzare anche l’elaborazione di tutta la visione e l’interpretazione del suo fare artistico, oltre che essere un buon viatico, in tempo di crisi per mostre a basso costo e nel contempo di alto interesse scientifico. Roma rende omaggio ad Afro anche con una mostra alla Casina Giustiniani, sempre nel parco di Villa Borghese, che ricorda le opere realizzate a Roma in edifici pubblici, proponendo così nuovi itinerari alla serie già ricchissima della città eterna, e presenta inoltre una serie di ritratti fotografici di Afro realizzati da importanti autori. Luigi Silvi Imogen Cunningham (Portland 1883, San Francisco 1976), Afro (particolare), 1958.


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Arte

Afro (pseudonimo di Afro Libio Basaldella (Udine 1912, Zurigo 1976), Negro della Luoisiana, 1951, tecnica mista, cm 150 x 100, Collezione privata.


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Cinema REALITIY, MATTEO GARRONE

Luciano (Aniello Arena).

Di Reality, l’ultimo film di Matteo Garrone, si è parlato e scritto molto ben prima della sua uscita. All’inizio aleggiava un certo mistero attorno al tema, gli interpreti, al plot. Poi con il titolo provvisorio di Big House è emerso che la vicenda gira attorno al mondo fittizio, illusorio e mendace della televisione e dei suoi reality. In seguito è giunta notizia che interprete principale del lungometraggio sarebbe stato un attore della Compagnia della Fortezza di Armando Punzo, vale a dire un recluso del carcere di Volterra, nel caso specifico un ergastolano, un “fine-pena-mai”, Aniello Arena. Poi il film è arrivato a Cannes e tutti i misteri si sono svelati: il tema conduttore è la malia che esercita il Grande Fratello, Aniello Arena è un attore con l’A maiuscola, la vicenda si svolge a Napoli, città prediletta da Garrone. È una Napoli barocca e insieme squallida, madre ma anche matrigna, genera fascino e disgusto assieme, è attraente e nel contempo repellente: una Napoli non banale, non macchietta, o per lo meno non solo. Garrone è attratto e affascinato da Napoli e in ugual misura dal trash e kitsch della televisione odierna, che è specchio della vita di oggi, del quotidiano, spesso della politica: una società, creata a plasmata a tavolino proprio su modelli televisivi, dove apparire non solo conta più dell’essere, ma è la sola cosa che conta. Ma in Garrone non c’è moralismo o voglia di sputar sentenze: la sua è un’analisi, vestita un po’ da fiaba: il pescivendolo Luciano (Arena), Pinocchio contemporaneo che crede ancora alle favole, appena intravede la possibilità di partecipare al GF, “perde il ben dell’intelletto”, coadiuvato da tutti gli amici, i colleghi, i familiari, l’ambiente sociale che frequenta e che già lo vede un divo solo per aver partecipato ai provini del Grande Fratello. Il finale, amaro, ma poetico, ricorda che vicende analoghe, con tutte le variazioni del caso e del diverso momento storico e sociale, erano state già condotte, ad esempio, da Visconti in Bellissima. Indubbiamente per Garrone non sarà stato facile girare un film dopo il tanto celebrato Gomorra, e infatti quest’opera arriva dopo quattro anni. Soggetto completamente diverso, ma inalterata la tecnica registica di Garrone, fatta di primi piani, telecamera a spalla, vedute aeree e celebrazione di dettagli intimistici: quello stile che fa di lui un regista immediatamente riconoscibile, pur nella diversità delle storie e degli ambienti che tratteggia. Cannes gli ha tributato il Grand Prix della Giuria, ma poi non è parso opportuno (!) inserirlo nella cinquina italiana per gli Oscar… Maria Pia Monteduro


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Cinema


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Cinema

“... La vera terra dei barbari non è quella che non ha mai conosciuto l’arte, ma quella che, disseminata di capolavori, non sa né apprezzarli né conservarli...” (Marcel Proust)

BELLA ADDORMENTATA, MARCO BELLOCCHIO

Dopo le tante sterili polemiche che lo hanno accompagnato fin dalla lavorazione il film di Marco Belocchio esce nelle sale in attesa di tutto il livore che lo accompagnerà. Si scatenerà lo schieramento di tutte quelle forze che dal neorealismo in poi, passando per la felliniana Dolce vita e per tutta l’opera di Pier Paolo Pasolini si è dimostrato nemico della libertà di espressione, della chiarezza, della verità, della cultura e del cinema italiano in particolare. Belocchio è sempre attento, a quello che succede nella società, a quello che in fondo e ai margini di essa si muove e si agita, da riesce a mettere a nudo, con coraggio e lucidità le ipocrisie, le insicurezze, le ansie che temi fondamentali accendono e provocano. E stato così per tutta la sua carriera in cui ha indagato le tensioni all’interno della famiglia intesa come il luogo dove si nascondono i fantasmi delle ipocrisie e gli egoismi, le problematiche più laceranti provocate dalle malattie incurabili in I pugni in tasca, ha smascherato i limiti profondi di un’istruzione slegata dalla realtà e dalle esigenze e aspirazioni di chi studiava e insegnava e di un metodo didattico coercitivo privo di dialogo e confronto, autoritario e antidemocratico, che im-

Marco Bellocchio.

pediva la libera formazione di coscienze dotate di senso critico e autonomo in Nel nome del Padre, sulla falsità e la capacità di distorcere il reale di un uso utilitaristico del diritto di cronaca, che stravolge ogni senso del diritto all’informazione di fatto negandolo in Sbatti il mostro in prima pagina, o denunciando la violenza e l’inattualità del mondo militare e delle gerarchie dell’esercito in Marcia trionfale. Da un quarto di secolo Belocchio con lucidità e chiarezza dice la verità, una verità scomoda, ma necessaria, indispensabile quasi. In questa occasione il regista non condanna e non denuncia, come egli stesso asserisce, ma si limita a guardare pur ispirandosi a un tema che smuove e mette in difficoltà tutte le coscienze, ispirandosi alla difficile vicenda di Eluana Englaro, medita sul senso della vita e della morte sulla dignità e sulla libertà. Ma chi scrive non intende essere come l’on. Gasparri, che, palesemente pur non conoscendo palesemente la sceneggiatura sostiene, che il film sia la cronistoria della vicenda della giovane Eluana, e attende la visione dell’opera per esprimere il proprio giudizio sia sul film che sui suoi contenuti. Luigi Silvi


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