Meccanica dell'abbandono

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meccanica dell’abbandono anila resuli



febbraio 2013


se la foglia non avesse memoria del ramo mentre cade.


così persiste il buio: dentro rantola nell’accoglierti intero, goccia di acqua mai raccolta. dispersa. prosciugata. non hai nome: sei come i morti; tarli caduti a buchi aperti come case a trattenere le ossa, le anche spesse con l’utero sì gonfio, gonfio tutto, nel suo dolore.


come grida. non senti più schiacciare nel polmone la pietra che ti spinge dura tra le tue vene per entrare diritta al cuore. come trema un semplice vociare distillato al sangue, senza i nomi di cui tieni fisse le unghie nella testa a cui stringi e mordi pelle, di cui hai fame, giorno dopo giorno. ma ora non piangi, è l’ora di credere ciò che devi alla roccia. l’acqua districa corpi poi spinge i menti a tradire occhi, preme indistintamente, e sopravvive.


respira e dimmi cosa vedi dentro quest’anfora riempita che consuma l’argine, un traboccare di continuo, d’assetata bocca, qui, non di fame ma un palpitare unico. non perdona.


se della pietra l’odore si scioglie al mare, se dell’acqua preme stretta la scissione, non lascia scia l’arteria, la bocca gravida che sfama, districa vene portate al cuore, reca tagli quella tua pelle che s’instaura dritta piegando la ragione.


contiene la distanza l’occhio che apre il colore di mani scese in seni e ventri aperti come delle mandorle chÊ stretti ci si bacia nel guardare come si trema dentro ad ogni sogno.


parodia di parole a bocca chiusa per dire qui sei parte di me come pelle a confine con la nostra lingua che ancora gola a gola in noi rimane.


questa frontiera che slabbra il confine non tiene gambe a camminare strette.


ho questo lago che è mare e impiantate radici ascolti tremare nel fondo ascolti urlare come voci che ora ritornano su in gola e che poi smembrano le litanie precise oltre la pioggia.


se tutto ferma, sulle strade, l’orma rimasta nella pioggia, mani – resta qui - sul marmo di questa pietra dura, risorta, naturale, in questo volto che inclina i volti resi magri, tolti; in questa ombra stanata, dove muti negli occhi scuri, prima di partire.


questo frantume, doglia lunga presa dal grembo prima di partorire una parola per te, che muto raccogli i miei dettagli fermi sulle scale della tua casa, ad innaffiarti i passi.


parti e ritorni e neghi nella perdita condizione lasciva, e bene e male la goccia nelle fughe; nelle vene l’odore che rimane, col sapore nel nome, il vento, pietra non mia arsa viva, questo è nel canto: ingiuri, perdi togli inserti, t’arrendi. con gli anelli, lo stesso odore nelle dita. resti. cogli silenzio, chĂŠ tale rimane la bocca nella bocca che ti trema.


come chiede parola il laccio che ami peso alle labbra, che stretto ti stringe polsi nell’eco, piantagione a pelle che padroneggi e ascolti, come tua.


nella preghiera, voce che se taci accolgo nel frammento, un vetro appena dentro l’occhio, sÏ dentro, nella nascita: tua pietra odore vivo, nervatura calco, nella memoria.


come caduta la foglia rimasta col mento al grembo vorace: ti chiedi le voci hanno nomi, bocche chiuse, morsi da pelle recisa dei nei, colorata a frammenti, misto nero, dove il bianco s’arrende e, piÚ lontano, sgorga, poi tace.


come lago t’innesti dentro al buio, bagni delle radici di alberi alti, privi di rami, un viale scuro e stretto, dove tramonta lentamente il sole.


contano giorni, dita delle mani imperfette nei dorsi che mi stringi con la testa piegata lĂŹ, sul lato monco delle mie cose, che distraggono, in questa casa, il tuo profumo denso che non rimane.


forse annodati i corpi dentro restano un ricamo pi첫 piccolo che stringe forte le gole. tu stai ad indicare come la neve cade, poi sparisce velocemente.


nell’occhio la radice che ti presta la visione di un solo attimo, solo un dettaglio un po’ sporco che rivedi in questo volto che reca dei nomi ai morti, che non isola alla pelle il tuo, chÊ sfalda nel rumore fisso, preciso nel cadere, come morto.


comprendi come il suono della bocca sfalda il rumore, un ronzio che mi resta dentro, mentre t’accorgi, che qui esisto, come fragile muro, sola e soltanto chiudendo gli occhi: la mia pelle secca prima che dormi.


come prendi la fame del giorno che resta in sconnessione di quest’ora tarda nel cominciare a terminare slanci di dentro e fuori di un’assenza che permane isolando nel criterio un nostro svincolare, mio e tuo, dentro, dalla radice.


riflette di catena non spezzata corrosa corta dritta qui tagliata marcia proprio all’inguine. come bocca che lacera parole mentre chiami.


e se ritagli, di colore flettono le scorie a tratti dove intrecci piano dentro quella voragine che scaglia odori e invecchia, poi rimuove il sogno caduto tra le mura.


nel cerchio della bocca un varco vuoto dove riempire tratti di altri tratti altre figure dove restiamo te io solamente un quadro bianco proprio a marcare ombre poi silenzi arresi di corde e voci, sorrisi poi pianti, continuamente.


se questo grembo, una fitta nell’orma che mordi appena, stasi di male sciolto in acqua che resta ferma nel tuo palmo – dove prende odore la fiamma – dove rosica e irride l’aria che consuma, dove conquista sciami di bocche schiacciando nel tuo respiro quell’aspettarsi privo dove il silenzio muta i corpi nudi come meno restiamo.


vedi, contare le foglie di questi alberi credi dica i nomi a pietre, i passi qui rimasti, qui le gole chiuse nei baci, poi i piedi calcati nella memoria d’essere rinati nelle pelli di rame rese verdi, e dalle piogge rese glabre, dalla secchezza a temporali dentro e fuori, il tuo guardarmi altrove.



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