al tempo delle pallottole di plastica

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Andrea Scarfò

pallottole di plastica

al tempo delle

un racconto fotografico da Rosarno

con



a Marcus arrivato in Europa per morire di tosse


© per i testi, Andrea Scarfò © per le fotografie, Andrea Scarfò Alcune foto dell’autore sono distribuite dall’Agenzia Controluce, Napoli


pallottole di plastica

al tempo delle

un racconto fotografico da Rosarno

Se la violenza si chiama lavoro, se i diritti sono spazzatura, se il male usa nuovi mezzi, se lo Stato è complice, sono pallottole di plastica.



Alex Zanotelli

La speranza viene dagli ultimi

Nei miei viaggi in Calabria, ho potuto visitare varie volte il ghetto africano di Rosarno nella piana di Gioia Tauro. Ne sono sempre rimasto scioccato per le condizioni igienico-sanitarie in cui sono costretti a vivere. Sono migliaia gli africani che tra ottobre e febbraio si stanziano a Rosarno: sono gli stagionali dell’agricoltura che servono come mano d’opera pagata a basso prezzo. E poi si spostano, secondo le esigenze del mercato, in Puglia, Campania, Basilicata e Sicilia. “Questo esercito di lavoratori ‘a disposizione’ è estremamente conveniente per un’economia che si ciba del lavoro a nero – scrive il prof. Antonio Esposito nel suo ottimo volume sll’immigrazione A distanza d’offesa – e dell’assenza di diritti”. Vanno nei campi alle sei del mattino d’inverno, alle cinque d’estate. Tornano nel ghetto alle 21. Sono pagati una miseria: 25 euro al giorno (se va bene!) di cui cinque vanno al caporale. Con questi soldi devono mantenere le loro famiglie in Africa e vivere qui in Italia. Dietro a tutto questo le piccole e grandi mafie del Sud, in particolare la ‘ndrangheta in Calabria, che gestiscono il traffico di braccia e sudore. A tutto questo, gli immigrati africani si sono ribellati nella notte del 7 gennaio 2010. Con dei fucili ad aria compressa venivano feriti quel giorno due immigrati dai ‘bravi ragazzi’ di Rosarno in cerca di divertimento. Si era sparsa voce che erano morti. L’esasperazione davanti al quotidiano razzismo degli immigrati di Rosarno si tramuta in rabbia. Bloccano le strade, ribaltano auto e cassonetti della spazzatura... Arrivano le forze dell’ordine. L’8 gennaio è una giornata di scontri con le forze dell’ordine con decine di feriti. E’ la rivolta di Rosarno, la rivolta degli immigrati africani di Rosarno contro lo strapotere della ‘ndrangheta e dei suoi accoliti. Esattamente com’era avvenuto l’anno prima, il 19 settembre a Castelvolturno in Campania quando gli immigrati africani si erano ribellati alla camorra che aveva massacrato sei africani nella ‘strage di S.Gennaro’. Come sono stati i braccianti africani guidati dal camerunense Yvan Sagnet a ribellarsi nelle campagne di Nardò (Lecce) contro i caporali, obbligando la magistratura nel maggio scorso ad arrestare 16 imprenditori agricoli e caporali. È incredibile che siano proprio gli africani immigrati a ribellarsi alle mafie, ai caporali e non


i cittadini calabresi, campani o pugliesi. È proprio vero che la speranza viene sempre dal basso, dagli ultimi. “La speranza del Mezzogiorno italiano – ha scritto recentemente R. Saviano – sta proprio in questa parte d’Africa che arrivata al Sud, trasforma il Sud e rimette in gioco interi territori, migliorandoli. Rischia la vita per una democrazia diversa, battaglia che molti italiani hanno rinunciato a combattere.” Grazie, Andrea perché hai sempre accompagnato questi nostri fratelli africani di Rosarno con tanta sensibilità che traspare anche da queste tue foto. Ci auguriamo che tanti altri giovani possano impegnarsi per abolire quelle leggi razziste del governo italiano, che rendono così disumane le vite di tanti immigrati in questo paese.


Donatella Loprieno

Oscenità in scena

Se lo Stato è complice, si chiede Andrea, e se il lavoro non è più la cifra della dignità delle persone ma esercizio quotidiano di violenza e di sopraffazione dei più forti sui deboli di turno, allora fischiano pallottole di plastica che si fa presto a dimenticare, aggiungerei io. Certo. Le pallottole di plastica non sono pericolose e dannose come i proiettili metallici sparati da armi da fuoco. Di pallettoni, pallottole e proiettili di piom- bo la gente di Calabria ne sa molto perché sono la firma dei c.d. uomini d’o- nore, degli uomini affiliati a questa o quella ‘ndrina (in cosa consiste l’onore di questa gente, però, noi non lo abbiamo ancora capito). Si badi bene però che le pallottole di plastica, più pericolose di quelle di gomma che le hanno precedute, non scherzano: hanno causato cecità, ferite gravi e talora persino la morte. Le pallottole di plastica che inquietano e guidano Andrea nel suo viaggio di luce, perché la fotografia questo è, sono di una specie assai particolare. A farne uso non sono stati eserciti e polizia e i bersagli non erano manifestanti “facinorosi” pronti a sconvolgere l’ordine pubblico costituito. No, no. In queste zone martoriate della Calabria, a Rosarno e dintorni, le cose vanno diversamente. Funzionano in maniera diversa che altrove perché qui, come in altre zone della Calabria, la sovranità ossia il controllo del territorio e di chi su di esso nasce, vive, ama, lavora e muore non è sempre e non è solo di perti- nenza dello Stato. A volerla dire proprio tutta, nella Piana di Rosarno (ma non solo ripetiamo) il territorio e tutto ciò che “brulica” sopra di esso è sovente “cosa nostra”. Ma non “nostra” nel senso di qualcosa che appartiene a tutti, di un bene comu- ne, di una cosa pubblica, di un qualcosa legato al perseguimento dell’interesse generale. Qualcosa di tutti ma di nessuno e che ognuno deve difendere nell’in- teresse di tutti e di ognuno. In queste aree, piuttosto, il territorio è oggetto di un potere reticolare e asfitti- co che entra nella vita nelle persone. Controllare il territorio (fondamento stes- so del potere della ‘ndrangheta) significa gestire una serie di attività potendo contare sullo schermo


protettivo di una rete fatta di complicità, connivenza, bisogno di quieto vivere, assuefazione, di solitudine, marginalità e, ove tutto ciò non fosse sufficiente, di

intimidazione, minaccia, violenza bruta. Spesso, troppo spesso, lo Stato e le sue agenzie di controllo, i suoi presìdi di legalità e di sicurezza, commettono il peggiore dei peccati per un sistema autenticamente democratico: sono latitanti. Pezzi di Stato combattono con determinatezza, altri pezzi di Stato combattono chi combatte la mafia con determinatezza. Quindi, la latitanza scivola in quella complicità di cui parla Andrea. Se, poi , pezzi di Stato mostrano una certa propensione alla latitanza verso i diritti di libertà dei propri cittadini, con quel popolo sovrano titolare della sovranità, cosa potranno mai contare quelli e quelle che cittadini italiani e europei non sono? Cosa potrà mai contare uno che non può vantare nessun diritto a restare su questo territorio perché “clandestino”, perché “irregolare”, perché “zavorra” da espellere? Conterà poco o nulla. Specie in tempi di crisi economica: “questi negri, questi rumeni di merda ci rubano il lavoro, pisciano nelle nostre strade, guardano le nostre donne, si rubano i nostri uomini”. Gli effetti della crisi, a Rosarno come altrove, hanno spogliato i corpi dei migranti della loro principale funzione che ne giustificava la presenza su quel territorio: il loro essere docilmente sfruttabili. I loro corpi, così denudati, ne hanno resa palese, accanto alla percezione della loro inutilità e ridondanza, quella (conseguente) della loro scomodità, del loro creare problemi per il solo fatto di esistere, persistere, sostare e attraversare le strade, rientrare nel loro ghetti, pretendere il compenso per le ore passate a spaccarsi la schiena per raccogliere arance. Era già accaduto in passato che qualche “coraggiosissimo” autoctono in cerca di onore, con fucili ad aria compressa e piombini, esercitasse la


propria mira sui corpi a perdere dei migranti, le persone più vulnerabili giuridicamente e socialmente. Chi, poi, tra i migranti è irregolarmente presente (gli abusivi della Terra) sa che la reale grumosa consistenza quotidiana dei suoi diritti astratti deve scontrarsi con la crudezza del trattenimento (fino a 18 mesi) in un Centro di identificazione e espulsione e, poi, di un possibile allontanamento coattivo. Espellibili in ogni momento e, quindi, massimamente ricattabili dal datore di lavoro di turno, dal caporale di turno, dal balordo di turno. I piombini impressi nelle carni color ebano di due lavoratori, il cui sangue è rosso proprio come quello dei bianchi o dei gialli, hanno innescato quel che noi tutti abbiamo conosciuto e che non dovremmo ricordare come i “fatti di Rosarno”, bensì come lo “scandalo osceno di Rosarno”. Andrea ci restituisce, in un bianco e nero che ci fa sognare i colori di una Calabria che vorremmo diversa, la cifra di quello scandalo osceno. Una reazione, quella di molti rosarnesi (sostenuti da un Ministro dell’Interno leghista, razzista e xenofobo) scomposta, crudele, priva di qualsiasi bagliore di quella pietas di cui le popolazioni mediterranee vanno così fiere. I fratelli africani furono nel 2010 cacciati da Rosarno perché colpevoli di aver ricordato al mondo il loro essere “persone” e non bestie. Sono poi ritornati e dovremmo essergli grati per averlo fatto. Noi calabresi siamo rimasti qui incapaci, salvo illuminate eccezioni, di ricordarci che la dignità che riconosciamo agli altri è innanzitutto il riconoscimento della nostra stessa dignità.



Rosarno

come parecchi paesi diventati interamente periferia, parla con la sua urbanistica fatta di esaltazione dello spazio personale e disprezzo di quello pubblico: mancanza di scelte politiche lungimiranti e mentalità degli abitanti sono i principali responsabili.

I giovani in questo contesto sfrecciano, inflazionano (in due e senza casco su uno scooter) il glorioso passato delle conquiste bracciantili operate dalle donne di Rosarno nel dopoguerra che avevano fatto diventare il paese così fiorente da meritare il nominativo di “Merichicchjia”, ossia “Piccola America”.



Già prima dei disordini del 7 e 8 gennaio il paese di Rosarno mostrava diversi segni di incuria nel suo centro storico, segno della scarsa capacità di gestione dell’amministrazione e della diffusa indifferenza per ciò che è pubblico. L’ urbanistica di Rosarno, così come quella di altri paesi della Piana, è selvaggia. Non esiste alcuna ordinanza che si esprima su facciate, intonaci, infissi... non esiste il buon gusto esteriore né privato né pubblico.


da anni

esiste un’altra Rosarno fatta di baracche, di baraccati e di baraccopoli, di tende, di capannoni occupati: industrie costruite decenni fa con fondi pubblici, fallite o addirittura mai andate in funzione. Questa Rosarno occupa territori che sono anche di altri comuni: Gioia Tauro, San Ferdinando e Rizziconi.

In queste baraccopoli gli africani ci vivevano, e si ammalavano. Le principali erano la Cartiera, nel comune di San Ferdinando ma molto vicina all’abitato di Rosarno. Proprio dentro il paese di Rosarno vi era, invece, la Rognetta; la Collinetta stava nel territorio di Rizziconi. La Cartiera, nell’agosto 2009, ha subito un incendio per cui è stata “sostituita” dall’ex Opera Sila-ESAC-ARRSA (qui d’ora in poi ESAC).



I panni ad asciugare erano segno delle condizioni in cui lavorano gli stagionali africani nelle campagne della Piana di Gioia Tauro. Tutti i panni arrivavano grazie alla solidarietà della gente del posto e di tutta la provincia. Ogni indumento durava poche giornate di lavoro e spesso poi era da buttare poiché non c’era la possibilità di lavaggio, né di igiene.

Gli africani di Rosarno, fin quando avevano lavoro, riuscivano a cucinare anche se in condizioni pessime, spesso avevano l’acqua corrente ma non avevano servizio fognario né l’energia per riscaldare l’acqua, avevano cellulari ma non avevano la corrente elettrica.



Una vista dell’ESAC da uno dei capannoni. Oltre i capannoni, sulla sinistra, si intravede il comignolo dell’inceneritore di Gioia Tauro.

Molti degli africani che stavano all’ESAC erano di religione cristiana e con le loro mani hanno voluto costruire al centro della baraccopoli una cappella dove riunirsi per pregare.




solidarietà

è una delle parole chiave di questa strana storia. Durante gli ultimi mesi del 2009 c’è stata attorno agli africani un’ondata di solidarietà che si materializzava essenzialmente in pasti caldi e abiti. Alcune persone hanno anche instaurato un rapporto di amicizia con gli africani, servendosi di strumenti e linguaggi universali quali quelli prodotti dal tamburo.

Era il 6 gennaio quando l’associazione Mammalucco donava alla comunità dei lavoratori stagionali che risiedeva all’ESAC tre tamburi. Proprio il giorno prima dei disordini.


il lavoro

per gli africani nell’inverno 2009/’10 era poco e nel frattempo le arance cadevano restando incolte. Per i produttori il prezzo di vendita delle arance da spemuta oscillava tra i 4 e i 7 centesimi di euro al chilo.

La Piana di Gioia Tauro è un immenso bosco di ulivi sotto i quali spesso viene piantato anche un agrume. L’unica forza lavoro adatta a mantenere il prezzo delle arance ai livelli di quello di mercato è quella africana o comunque straniera, che in realtà spesso serve solo a truffare lo Stato giustificando i contributi per lavoro bracciantile delle persone del luogo.


spari

A metà strada tra Rosarno e Gioia Tauro, nel pomeriggio del 7 gennaio, vengono sparati due colpi contro due ragazzi africani all’ESAC. Poco dopo altri due spari esplodono e colpiscono alla Rognetta, l’accampamento dentro il paese di Rosarno. Sale l’ira. Le forze dell’ordine prima contengono, ma probabilmente la situazione precipita quando vengono usati i manganelli. Non sapremo mai la verità, ognuno ha la sua, non ci sono prove.

Per gli africani, perdere la vita in Italia significherebbe condannare a morte anche la propria famiglia. I migranti non ci stanno e insorgono; improvvisano un corteo per le strade del paese; solo alcuni causano disordini. Inoltre viene leggermente ferita una donna, i suoi due bambini vengono spaventati.

Alcune persone di Rosarno mal sopportano il corteo degli africani ed inizia la “Caccia all’uomo” con bastoni e spranghe. In definitiva: più di venti i feriti tra gli africani, circa una decina tra gli abitanti del posto e un’altra decina tra le forze dell’ordine. Una testimonianza postuma parla anche di un morto nelle campagne, lontano dai riflettori dei media.


Lo Stato Italiano reagisce

Il dispiegamento di forze dell’ordine è enorme. Il colore della pelle diventa il criterio secondo cui una persona a Rosarno tra la sera dell’8 e la mattina del 9 gennaio viene deportata dal luogo dove lavorava. Tutto questo ad opera delle forze dell’ordine.




Gli africani, come raccontano le fotografie, la mattina del 9 gennaio non volevano andare via perchĂŠ dovevano essere pagati. Molti aspettavano il saldo di due, tre o anche quattro settimane di lavoro, e parecchi erano rimasti giĂ senza soldi.

Alcuni proprietari terrieri durante la mattina del 9 gennaio sono arrivati e hanno pagato i propri lavoratori, altri invece non sono mai arrivati. Bisogna ammettere che le forze dell’ordine non hanno dimostrato grandi capacità di dialogo.



In ogni caso gli africani sono andati via, l’alternativa era restare rinchiusi dentro l’ESAC sotto lo stretto controllo delle Forze dell’Ordine.

“Allontanati” o ancora peggio “partiti volontariamente” sono espressioni inventate per l’occasione perché sarebbe stato scomodo usare il vocabolo migliore ossia “cacciati via” o meglio ancora “deportati”.



Sui volti di questi giovani piÚ che il fallimento di una stagione si vede la sconfitta dell’uomo di fronte a poteri troppo forti, non si tratta solo di sogni infranti, ma di poter sopravvivere e far vivere la propria famiglia in Africa.

Sono partiti tre autobus dalla Rognetta la sera dell’8 gennaio e cinque dall’ESAC il mattino seguente. Di questi ultimi, tre sono finiti a Crotone e due a Bari. Secondo alcune testimonianze pare che su alcuni non ci siano stati controlli, ma addirittura gli stranieri sarebbero stati portati alla stazione e autorizzati a salire sui treni senza biglietto. Molti sono finiti a dormire alla stazione Termini di Roma.


la cittadinanza

di Rosarno si è organizzata giorno 11 gennaio in un corteo durante il quale era consentito solo un manifesto. I ragazzi del liceo, conoscendo questa regola, hanno esposto il loro manifesto solo in piazza e dunque fuori dal corteo. Viene censurato ugualmente, probabilmente perché recitava: “Speriamo un giorno di dire: c’era una volta la ‘ndrangheta”.


come dopo i terremoti

visitando i luoghi della catastrofe si trovano indizi che parlano dell’accaduto che non ha testimoni.


Il fallimento della solidarietà del popolo italiano sta nell’incapacità di dare a queste persone un’accoglienza degna: ci si è preoccupati solo di pasti caldi, indumenti e fraternità; non si è riusciti a portar loro la corrente elettrica né tantomeno l’acqua calda, nonostante non fosse così difficile. Qui sopra, una doccia con il fuoco dove si riscaldava l’acqua. Le capanne della Rognetta, metalliche o fatte con teli di plastica, presentano pentole mezze piene che raccontano di una partenza improvvisa; la presenza di troppi effetti personali è segno, invece, di una scarsa lucidità mentale.



I catenacci di bicicletta tagliati sono frutto di una prima bonifica, opera dei Vigili del Fuoco, che hanno raccolto tutta la ferraglia nello stesso posto.

Da questi binari dell’ESAC doveva partire l’oro della Piana: l’olio. Dopo questi fatti, invece, questi binari richiamano fortemente quelli più tristi del passato ed è ancor più forte la voglia di parlare di deportazione.



Quello africano è noto da sempre per essere un popolo capace più degli altri di adattarsi alle condizioni peggiori e di non scoraggiarsi mai... I ragazzi dell’ESAC trovavano l’energia anche per una partita a pallone. E usavano questa stessa energia anche per andare a lavorare nei campi in bicicletta, poiché il mezzo di trasporto costava molto caro.


la bonifica

della Rognetta è stata effettuata ad opera dei Vigili del Fuoco che l’hanno completamente abbattuta. All’ESAC la Protezione Civile ha ripulito gli spazi antistanti dalle sterpaglie e l’interno dei capannoni dagli effetti personali dei lavoratori. Questo accade dopo anni di richieste disattese di disinfestazione. La situazione “emergenziale” ha consentito alla Protezione Civile di poter operare e in poche settimane tutto è stato bonificato.

Il braccio meccanico, manovrato dai Vigili del Fuoco, issa, carica per far smaltire rifiuti che provengono dalla bonifica della Rognetta. Questo cumulo è tutto materiale con cui erano fatte le capanne o panni appartenuti agli africani, avuti grazie alla solidarietà della gente del posto.


Durante la bonifica, alla Rognetta è stata rinvenuta tra le macerie una “Guida Pratica per i titolari di Protezione Internazionale”. Uno dei Diritti Umani sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 è finito in discarica.


Non è ben chiaro quale progetto abbia il comune di Rosarno sullo spazio che era la Rognetta, forse un mercato all’aperto. La bonifica della Rognetta è stata totale e rapidissima, in pochi giorni i Vigili del Fuoco hanno abbattuto tutto.

L’ESAC invece è stata bonificata da erbacce e da tutti gli effetti personali degli ex inquilini.


l’engage

è l’attività di richiesta di lavoro o, letteralmente, quella di trovarlo. Poche settimane dopo, di primo mattino, agli incroci nei dintorni di Rosarno c’erano di nuovo africani in cerca di lavoro, pochi hanno avuto successo; la stagione delle clementine ormai era quasi terminata.



Il bisogno di lavoro ha spinto decine, forse anche qualche centinaio di migranti, a tornare a Rosarno in cerca di quella fortuna che, vista la recessione, non hanno trovato in alcun angolo d’Italia.

Nelle settimane successive ai disordini, quando gli africani sono tornati a Rosarno per cercare lavoro, l’immediata reazione all’arrivo di qualsiasi auto rappresentava l’angoscia e il timore con cui queste persone convivevano dopo i fatti di cronaca.



Le comunità africane non sono tutte le stesse. Quella maghrebina (tunisini, algerini, marocchini) è la comunità meno povera, infatti si spostano spesso con i mezzi, i subsahariani invece vanno a piedi o in bicicletta. Gli italiani in auto.



niente di nuovo

Il biglietto del treno recita 22 ottobre: arrivo da Sapri... bentornati a Rosarno. La storia si ripete, l’uomo non vuole (che fa rima con fa finta di voler) cambiare quella storia che ancora presenta cicatrici evidenti.

Ad un mese dagli scontri, nulla faceva pensare che non ci sarebbero stati ancora lavoratori stagionali africani, nulla faceva pensare che l’inverno successivo sarebbe stato diverso.



L’inverno successivo piccoli segni di cambiamento, ma troppo piccoli rispetto al peso della storia: presso la sede dell’associazione OMNIA vengono effettuati corsi di alfabetizzazione e visite mediche. Queste attività però non riescono assolutamente ad intercettare i lavoratori che trovano accoglienza solo nei casolari delle campagne.

Esistono anche esempi di legalità, talvolta accade che un migrante non solo non venga trattato da schiavo, ma addirittura sia assunto con contratto al fine di poter far in modo che possa avere il permesso di soggiorno. A quanto pare non è impossibile, ma solo difficile.




La realtà resta sempre quella impressa da un carboncino su un muro di uno dei rifugi di fortuna degli stagionali... resta ancora l’amarezza, non cambia il copione delle scene dell’arrivo dei lavoratori: il biglietto ritrovato all’ESAC

dopo gli scontri recita 22 ottobre, da Sapri, con cambio prenotazione. Gli stagionali d’estate lavorano in Sicilia, Campania e Puglia per altri duri lavori della terra.


Le conseguenze della presa di coscienza del cosiddetto “eccesso di tolleranza” tanto sventolato dal governo italiano si materializzano in un divieto di formare assembramenti di lavoratori stagionali maggiore ad alcune decine di unità.

Una delle condizioni peggiori, come sempre, è quella dell’accesso ai servizi primari: acqua corrente, fogna, corrente elettrica, servizi igienici. L’acqua viene presa da sorgenti facendo anche vari chilometri, spesso in bicicletta, con taniche da decine di litri. L’acqua non ha solo scopo potabile, ma viene usata anche per l’igiene personale.



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Il risultato di tali decisioni politiche è un’evidente dispersione degli africani nel territorio, precisamente nei casolari rurali abbandonati che vengono abitati quindi da piccole comunità. Proprio per questo motivo non solo stanno ancora in pessime condizioni igienicosanitarie (qui in foto una doccia), ma possono divenire più facilmente

bersaglio di vessazioni e minacce. Inoltre di sicuro diviene più difficile intraprendere qualsiasi azione a loro vantaggio. Sembra quasi che lo Stato abbia annuito al suggerimento di qualche interesse a ristabilire il controllo del territorio e a sopire i suoi abitanti, anche quelli più ribelli.



andrea scarfò

Originario di Taurianova, paese nel cuore della Piana di Gioia Tauro, è da sempre vicino ai temi sociali. Si laurea in ingegneria per l’ambiente e il territorio, ma finisce per raccontare attraverso la macchina fotografica. Inizia nel 2007 ad esporre al pubblico grazie all’iniziativa InvasioniUrbane dell’associazione Mammalucco onlus. In settembre-ottobre 2008 partecipa come fotografo alla Carovana Missionaria della Pace, guidata da padre Alex Zanotelli. Da gennaio 2009 un suo lavoro presenzia permanentemente al museo della memoria di Ferramonti di Tarsia. Dal gennaio 2010 collabora con alcune agenzie di stampa nazionali. In febbraio 2010 una sua foto scattata per il lavoro “Magna, Italia!” è la copertina di NarcoMafie, rivista edita dal Gruppo Abele e realizzata in collaborazione con l’associazione Libera. Con alcune foto facenti parti del reportage “Magna, Italia!” riceve una menzione speciale al concorso giornalistico internazionale “From A to B” bandito da Euroalter, in collaborazione con EuroYouth Media. Con lo stesso lavoro riceve a Bruxelles il secondo premio al concorso europeo “In search of solidarity” bandito dal PSE European Comittee of Regions. Nel 2011 viene edito per la Città Del Sole Edizioni il libro fotografico “u Gioia. Pasqua a Scicli” di cui è autore. E’ coautore del libro “I volti del primo marzo - voci da un’altra Italia” edito da Marotta&Cafiero editori. Dal 2011 si stabilisce nel territorio modicano ed è membro della redazione del mensile “il Clandestino”. andreascarfo.com

Special thanks to: Osservatorio Migranti di Rosarno www.africalabria.org Associazione Mammalucco www.mammalucco.org




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