GG La Storia 1935-1958

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GG La storia


Ai nostri genitori. I migliori che ci potessero capitare. Gilberto e Gianfranco


Presentazione Un tempo le piccole storie di famiglia venivano tramandate oralmente, di generazione in generazione, grazie all’ostinata ripetizione del racconto dei vecchi ed al paziente e doveroso ascolto dei più giovani, nelle serate fortunatamente prive di tecnologia audio-visiva, se inverno davanti al camino o bioriscaldati nella stalla. Oggi noi, ultrasettantenni, in virtù di una inattesa quanto gradita provocazione di uno dei nostri amatissimi figli, ci apprestiamo a mettere in gioco gli ultimi barlumi di memoria e le miserevoli doti letterarie per un ambizioso obiettivo: la raccolta scritta dei nostri ricordi, in un dossier “aperto”, nella tradizione delle migliori telenovelas, che potrà essere integrato a piacere (purchè con piacere) da chi viene dopo di noi, magari con un po’ d’ironia, l’unico modo “serio” in cui conviene prendere la vita. Questa modesta e gradevole fatica non sarà stata vana se riuscirà almeno a rispondere a qualche “quando?” o “perchè?”.

Gil&Gian


I PROTAGONISTI PAOLO 1907-1988 Babbo, Il biondino, Pevel, Paolino, El capo, Il nonno intelligente, indolente, buono, onestissimo ANTONILLA CERVELLATI 1910-2009 Mamma, Nilla, La mujer del capo, La capa, La nonna estroversa, esuberante, furba, lavoratrice, cantante, tenace GILBERTO Umberto Saverio 1936 Gil, Gillo brillo schiattarabbia bello, esuberante, petulante, straordinario artigiano, istintivo, troppo istintivo GABRIELLA GUZZO (Gabri) 1939 GIANFRANCO Luigi Maria 1938 Gian, Posapiano, Dotor di beghi, Maestro Cian introverso, pigro, “artista”, menefreghista, parsimonioso, riflessivo, troppo riflessivo PATRIZIA FERRARI (Pati) 1951 ERMANNO GUZZO (Risetta) padre di Gabri 1915-1991 SOFIA FRANZONI madre di Gabri 1920-2006 EVERINO FERRARI (Vano) padre di Pati 1926 GERMANA BELLANI madre di Pati 1928-1993 ROBERTO (Robi) 1962 PAOLA 1965 DANIELA (Dani) 1967 ANDREA 1971 ALESSANDRO (Ale) 1974


I PARENTI Nonno SAVERIO, controllore FFSS, altissimo, serioso [1876 -1955] Nonno UMBERTO CERVELLATI, sindacalista, etilista, simpaticissimo [1886 -1951] Nonna ADRIANA COCCHI, lavoratrice, arcigna [1891-1953] Zia CAROLINA (Lina), gran dama, molto bella [1899 -1989] “Zio” EUGENIO SERRANTONI, orso, aristocratico [1891-1976] Cugino SERGIO SERRANTONI, intelligente, dissacrante [1923 - 2008] Cugino GIORGIO SERRANTONI, il massimo della simpatia [1926 -1945] Cugino CLAUDIO SERRANTONI, bello, sciupafemmine [1927] Cugina ANNA SERRANTONI , simpatica, disinibita [1929] Zia MARIA, bella, piissima [1914-1994] Zio GIUSEPPE (zio Beppe), poliomelitico Zia LUCIANA (zia sudante), vamp, superpolemica [1919 - 2008] Cugino CLAUDIO CERVELLATI, simpatico, mascalzoncello Cugina MIRELLA CERVELLATI Cugina EDDA CERVELLATI Zio di Mamma GIUSEPPE COCCHI (Iusfein) “Zia” di Mamma MARIA TRACCHI [1901-1986] Cugino di Mamma SILVERIO COCCHI (Piretto)

UN “AFFILIATO”, LA BANDA, ALCUNE FAMIGLIE GIULIO POLETTINI LA BANDA DELLA STAZIONE (Gil, Gian, Giulio, Grazia, Mariarosa, Giancarlo, Carla, Lamberto, Sandro, Germana, Luciano) Gli SPOLADORI (Gonda, Gioanìn, Palmira, Zolìa, Ervino, Pierina, Grazia) I PILATI ( il Direttore, la moglie del Direttore , Pino, Laura, Marino, Lamberto) I MANTOVANELLI (Marino, Maria, Mariella, Carla, Alberto, Luisa) I GUARESCHI (Duilio, Norma, Sandro, Germana, Luciano, Paolo) I PESAVENTO (Il Maresciallo CC, la moglie del Maresciallo, Mariarosa, Giancarlo)

CRONOLOGIA Vedi in fondo al volume



Antefatti



IL BABBO PAOLO Il Babbo Paolo Gagliardi è nato a Bologna fuori Porta Galliera (Bolognina) il 22/05/1907 da Nonno SAVERIO, un bell’uomo alto e serioso, e da Nonna Brunilde(?) di cui si sa solo che era molto bella e che è morta giovane di tifo lasciando Saverio vedovo con quattro figli. La Mamma, come del resto tutti i suoi famigliari bolognesi, l’hanno sempre chiamato Paolino (o Pèvel in dialetto bolognese), mentre era il Biondino per i ragazzi coetanei del rione. A Sanguinetto è sempre stato El Capo. Nonno per tutti gli altri. BOLOGNA

A parte i sentimenti e le radici che ci legano a questa incredibile città, Bologna è tante cose. Città di origine etrusca, Felsina nel IX sec. a.C., poi dei Galli e Romana, Bononia; accrebbe la sua importanza anche perché attraversata dalla Via Emilia strada romana costruita tra il 189 e il 187 a.C. dal console Marco Emilio Lepido tra Rimini e Piacenza . In quel periodo la colonia di Placentia era circondata dai Galli Boi che, nonostante fossero stati sconfitti, non avevano voluto firmare la pace con Roma. Il pericolo di rivolte era quindi reale. Roma decise allora di realizzare una strada militare fino a Placentia per far spostare velocemente l’esercito allo scopo di reprimere eventuali rivolte boiche. Alcuni decenni dopo la via Emilia venne prolungata da Piacenza a Milano. É detta la DOTTA perchè è sempre stata al centro del libero pensiero e dell’attività intellettuale: la sua Università risale alla seconda metà del XI secolo, la prima in Europa e tra le più antiche con la scuola di diritto romano ed a seguire di medicina, chirurgia e notariato. La sua posizione geografica è altamente strategica sin dalle lotte tra impero e papato contro il quale ha mantenuto un’atavica contrapposizione politica e culturale diventando la casa della sinistra italiana, da qui il soprannome la ROSSA (anche con riferimento al colore dominante di tetti e muri). Già prima d’istituirsi a Comune nel XII secolo, è nodo di incrocio di tutti i commerci di una vasta area di grande produzione agricola e industriale, diventando importante e famosa anche per la sua cucina straordinaria, per questo è chiamata anche la GRASSA. Detta anche Città delle due torri (la Garisénda, bassa e pendente, e la Torre degli Asinelli alta e slanciata), un tempo numerosissime, è unica per il suo impianto urbanisco medievale con i suoi 35 Km. di PORTICI di cui sono dotate tutte le vie, spesso da entrambi i lati ( le zie abitavano in via Broccaindosso tra le antichissime Strada Maggiore (Porta Mazzini) e Via San Vitale, quasi di fronte alla abitazione ed al giardino dove sorgeva il famoso melograno del Carducci, ricordato con una targa), tanto che la si può visitare rimanendo sempre al coperto fino alla sommità del Monte della Guardia (289m) dominato dal famoso santuario della Madonna di San Luca, percorrendo un portico di 3700m costituito da più di seicento archi, e 2400 gradini (il più lungo del mondo), costruzione durata un secolo a partire dal 1674.


Purtroppo è morto all’Ospedale di Como durante la vacanza estiva il 21.7.1988, mentre si trovava in montagna nella casa di Gil a Guello di Bellagio, sopra il lago di Como. Il destino, spesso beffardo, ha voluto che proprio la mattina prima di sentirsi male (è stato stroncato in poche ore e in modo inesorabile da una pancreatite fulminante, con enormi sofferenze) aveva appena detto alla Mamma: “Che paradiso è questo Nilla, siamo assai fortunati di poter passare qui l’estate tutti gli anni lontani dall’afa estenuante di Sanguinetto”. Il Babbo, fin da giovane era veramente attraente ed assai ammirato, anche perché adorava tutti gli sport, tirava di box, giocava al calcio con discreto talento, tanto da diventare un campioncino regionale. Se fosse stato più opportunista ed ambizioso e non avesse incontrato la Mamma, avrebbe certamente avuto grande successo nello sport. Però ha sempre amato moltissimo la sua Nilla e anche la propria famiglia, tanto da sacrificare se stesso e la sua carriera in ferrovia per starci vicino, specialmente durante la guerra. Intelligente, buonissimo, tiratardi, onesto fino all’ossessione, intransigente con noi figli specie per la scuola, ottimista, tutto sommato fortunato, idealista, ma purtroppo indolente fino all’incoscienza. E qui vien da citare qualche aneddoto per la sua indolenza, peculiarità che purtroppo lo ha sempre accompagnato lungo tutto l’arco della vita, purtroppo per chi gli viveva accanto naturalmente, perché lui era sempre sereno e pacifico anche nei momenti più difficili. Quando certe scadenze tormentavano la Mamma, il suo motto era: “Andiamo a letto Nilla e vedrai che domani tutto si risolverà”, e convinceva la Mamma anche a fare all’amore.

Nelle pagine precedenti: Babbo e Mamma a Gabicce [1975], Gil, Babbo e Gian a Ospedaletto Euganeo [1940] Da sinistra: Babbo e Mamma a Cervia [1926], Babbo in Stazione a Sanguinetto [1954] Babbo Paolo

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L’indolenza del babbo Faceva il Capostazione delle ferrovie a Sanguinetto, anzi, più precisamente, era Assuntore, una sorta di contrattista malpagato con rapporto di appalto a scadenza e rinnovo annuale senza trattenute di pensione né di liquidazione. L’Amministrazione delle Ferrovie aveva creato questa figura durante il vituperato ventennio fascista per risparmiare sul personale; nel recente non meno vituperato quinquennio berluskoniano, potrebbe essere benissimo un precario o un lavoratore a progetto.


Aveva diritto ad una certa quantità all’anno di carbone antracite, dall’alto potere calorico e pochissime scorie dopo il consumo (era lo stesso che veniva usato nelle locomotive a vapore, dove era indispensabile un grande rendimento calorico con pressoché nessuna cenere nel focolaio). Doveva compilare un prestampato di pochissime righe ed inviarlo al Compartimento di Verona entro l’estate: richiedeva un impegno al massimo di cinque minuti. Bene, anzi male: sebbene la Mamma cominciasse a dirglielo in primavera, quasi quotidianamente (“Paolino, hai fatto la richiesta del carbone?”), lui non si decideva mai, rimandando sempre di giorno in giorno, come se fosse una inconscia reazione all’insistenza, che lui forse riteneva ossessiva, della Mamma, consapevole di quali erano poi le conseguenze. Arrivava la scadenza e la domanda non era stata fatta, con la naturale costernazione di tutti, come vedremo. Allora in gran fretta era costretto, per la nostra casa e per gli uffici della stazione, a richiedere la legna, se così si può chiamare; si trattava di traversine scartate per vetustà delle linee ferroviarie, in rovere durissimo ed impregnato di catrame, con potere calorico molto basso e tanta tanta cenere, fuliggine, fumo e scorie. Naturalmente arrivava un vagone scoperto pieno di queste traversine, che bisognava scaricare ed ammucchiare nel grande magazzino, staccato dalla stazione: una quantità enorme, allucinante. Dovevamo tutti assieme (lavoro che facevano Gil ed il Babbo ed un po’ meno Gian che era piccolo e furbo fin dalla nascita) segarle in pezzi di circa venticinque centimetri con un grande segaccio a mano e poi con l’accetta fare dei tronchetti più piccoli da trasportare su in casa ed in ufficio. Un lavoro immane ed improbo, purtroppo completamente gratuito. Da quanto possiamo ricordare, non ci pare abbia mai ordinato in tempo il carbone. Per fortuna era anche dotato di un raro sentimento di ottimismo, forse di serena incoscienza, che l’ha molto aiutato in tante circostanze. Inoltre il suo buon carattere lo faceva ben volere da tutti i ferrovieri al punto che, con grandissimo rischio (poteva comportare il licenziamento in tronco), gli scaricavano di nascosto dei pezzi di antracite dalla locomotiva, nel lato opposto alla stazione. Appena partito il treno andavamo a raccogliere immediatamente quel combustibile, per noi figli prezioso. Spesso abbiamo pensato che quei macchinisti, conoscendo la situazione, facessero un’opera buona specie per noi.

Tornando a quella legna incatramata, bisogna ricordare il rito della pulizia della stufa. Purtroppo dopo alcuni giorni di funzionamento i tubi ed il forno si impregnavano a tal punto di fuliggine da impedire il tiraggio. Era indispensabile quindi procedere con frequenza ad asportarla con una operazione alquanto fastidiosa, cosa che il Babbo ovviamente faceva senza chiedere l’aiuto di nessuno, consapevole del suo peccato originale, anche se palesemente irritato. Nonostante le raccomandazioni della Mamma, ogni volta si accingeva a questa incombenza senza togliersi il cappotto e mettersi un indumento adatto. Bisogna dire che quel cappotto, già abbastanza vecchio e consunto, era l’unico, e ben difficilmente le possibilità della famiglia avrebbero consentito di procurarsene un altro. Infilando ripetutamente le mani e metà delle maniche nella stufa, si può immaginare in che condizioni fossero alla fine del lavoro. Non c’è mai stato verso di farglielo togliere. Completata l’operazione, con la mamma che si allontanava per non imbestialirsi, si sfilava il malridotto cappotto, lo stendeva sul tavolo e procedeva ad un lungo paziente lavoro di spazzolatura finché l’indumento tornava ad essere indossabile (“Che pulito! Cos’hanno da lamentarsi?”, diceva alla fine). Anche la richiesta alle ferrovie dei nostri abbonamenti gratuiti (si chiamavano AO) per andare a scuola, subiva la stessa sorte del carbone, con inverosimili interventi presso gli amici ferrovieri per ovviare alla loro mancanza per i primi giorni. La vendemmia della piccola vigna davanti all’orto veniva sempre fatta quando ormai l’uva era appassita, eppure aveva piantato lui le viti e le aveva potate e curate per bene. Un piccolo grande, ma assolutamente unico, neo della sua ineccepibile vita coniugale. Certamente più per indolenza che altro, ha ceduto alla passione per una giovane, bella e compiacente signora, che abitava nell’altro appartamento della stazione. L’episodio è stato bruscamente interrotto dall’intervento energico e risolutore della Mamma, che lo ha perdonato, dimostrando un grande senso di responsabilità, di intelligenza e di amore. Tantissimi altri sarebbero gli aneddoti che hanno caratterizzato la sua indole. Babbo, Mamma, Gil e Gian alla Stazione di Sanguinetto [1942] 11

Babbo Paolo


I suoi pregi Abbiamo visto i lati particolari del carattere del Babbo analizzando alcuni suoi difetti abbastanza pesantini. Ora vediamo i suoi pregi. Prima di tutto la sua natura mite e paziente, impregnata d’amore, di fiducia per il prossimo, d’ottimismo e di grande serenità. Ha amato intensamente la Mamma e la sua famiglia. Ha rifiutato una stazione importante che l’avrebbe inserito nei ruoli delle ferrovie, per stare vicino a tutti noi, specialmente in tempo di guerra. Quando la Mamma si ammalerà seriamente di cuore smetterà all’improvviso di fumare, con un sacrificio immane (era veramente l’unico suo vizio). Il Babbo è sempre stato socialista, fin da giovane, in modo viscerale. Aveva una venerazione per Nenni e Pertini. Ha sempre fatto per tutta la vita intensa attività politica in quelle campagne venete dove la Democrazia Cristiana aveva il 99% dei consensi, benché la sua indole onesta e mite non gli avesse mai consentito grandi risultati. Era necessaria furbizia e spregiudicatezza ben lontane dalla sua rettitudine e moralità. Segretario della sezione di Sanguinetto era riuscito incredibilmente ad avere una decina di iscritti, con tessere ed abbonamenti dell’Avanti, il quotidiano del partito socialista. Alla direzione di Verona avevano preso la notizia con entusiasmo, ma anche con scetticismo, ben conoscendolo. Dopo molto tempo, da un suo amico, venimmo a sapere che per anni quelle tessere e quei giornali li aveva comperati tutti lui non si sa bene con che soldi, dato che non ce n’erano nemmeno per mangiare (non certo in modo illegale, questo è assolutamente sicuro: pare provenissero da prestiti che importanti personaggi anche democristiani gli facevano di nascosto, sicuri che non li avrebbe mai restituiti, in virtù della grande stima che provavano per lui, per la sua coerenza e per la sua rettitudine), per darli e farli leggere ai suoi amici che non se lo potevano permettere e per un pur minimo contributo al partito. Anche se non platealmente, dati gli enormi rischi delle sue condizioni di precario, aveva sempre svolto anche attività sindacale, partecipando a tutti gli scioperi con incredibili sacrifici economici e facendo proseliti col suo esempio anche tra i suoi colleghi che non potevano permettersi di perdere qualche ora di lavoro. Da sinistra: Babbo formato tessera [1952], Babbo e Mamma a Sanguinetto [1962], Babbo e Mamma sposi [1935] Babbo Paolo

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La sua perseveranza verrà premiata a pochi mesi dalla pensione, poiché le Ferrovie per evitare pesanti sanzioni, dovettero cedere e passare di ruolo gli Assuntori. Alcuni suoi colleghi sfortunati andati prima di lui sono rimasti senza nulla. Così, pur non potendo godere della liquidazione, ebbe un trattamento dignitoso che gli permise di vivere con la Mamma molti anni di grande serenità e felicità. Lavorò sempre moltissimo tutta la vita di ferroviere, dall’alba al tramonto con orari allucinanti e senza straordinari, per quasi quarant’anni mai una vacanza, né una capatina al bar dove non lo avevano mai visto, appassionato del suo lavoro, stimatissimo dai suoi superiori ed amato dai colleghi. Avvicinandoci alla quiescenza del Babbo spesso ci interrogavamo su come avrebbe cambiato quelle abitudini dopo quasi mezzo secolo, specialmente l’orario allucinante della sveglia. “Dovrà far uso della sua proverbiale pazienza” concludevamo, certi che in qualche mese l’a-


IL RE A BOLOGNA

Va ricordato un episodio molto emozionante che avrebbe potuto avere conseguenze tragiche, ma che si risolse per fortuna solo con un bello spavento. Dopo qualche anno di servizio ad Ospedaletto, con infinite difficoltà, il Babbo era riuscito ad avere quarant’otto ore di permesso per andare a trovare i suoi famigliari, che non vedeva da tanto, a Barile nel lontanissimo meridione Lucano, con la previsione di viaggiare assai più ore in treno di quante ne rimanevano per stare con loro. Come gli era congeniale, dovendo partire all’improvviso ed all’ultimo momento, senza tempo per le consegne al collega che lo sostituiva, disse alla ragazzetta che aiutava la Mamma con noi piccoli, di mettere tutta la sua roba del 1° cassetto del comò in valigia e partì praticamente all’istante prendendo il treno al volo, come sempre nella sua vita. Giunto alla stazione di Bologna, trovò un numero impressionante di poliziotti e carabinieri che perquisivano tutti. S’informò su cosa stesse succedendo e seppe che era in arrivo in città il Re ed in considerazione dell’inizio della seconda guerra mondiale stavano prendendo precauzioni enormi a tutto campo. Nel tragitto per il cambio di treno fu fermato e dopo il controllo dei documenti gli chiesero dove andava e cosa avesse in valigia: “la mia biancheria per due giorni” rispose, “per andare a Barile a trovare la mia famiglia che non vedo da parecchi mesi”. Gli chiesero di aprire la valigia e lui tranquillamente e con la massima serenità se la appoggiò sulle ginocchia, sbottonò i due gancetti laterali, il blocchetto centrale e con un mezzo sorriso aprì il coperchio. Impallidì rimanendo senza fiato nel constatare che in mezzo alle canottiere c’era una rivoltella, con l’evidente entusiasmo dei carabinieri che credevano di aver scoperto un killer in azione. Naturalmente non seppe convincere gli agenti che dopo il furto nel pollaio, la Zia Lina di Bologna, sorella del Babbo, gli aveva dato una vecchia rivoltella tra quelle del marito ufficiale di cavalleria, che poteva esercitare un deterrente non da poco per quei ladruncoli di campagna; naturalmente senza proiettili che mai il Babbo avrebbe conservato. Questa era stata riposta nel cassetto del comò, mai utilizzata e finita in valigia in mezzo alla biancheria. Fu immediatamente fermato con costernazione della Mamma, saputa la notizia. Quel giorno in servizio c’erano agenti di quasi tutte le armi, poliziotti, polizia politica, polizia ferroviaria, brigate nere, ma la sua fortuna, che lo accompagnerà spesso nella vita, lo mise nelle mani dei carabinieri, che allora erano i più corretti ed obiettivi di tutti i servizi investigativi. In poche ore accertarono l’accaduto con la testimonianza della ragazza interrogata dai carabinieri di Ospedaletto, che poterono anche dare ampie garanzie sull’integerrima onestà del Babbo. Lo rilasciarono in nottata, fatti ulteriori accertamenti, e poté verso mattina, con mezzi di fortuna, tornare a casa, tra le braccia della Mamma ancora inconsolabile. Naturalmente senza alcun rammarico del suo viaggio interrotto e del pericolo corso, entrambi già completamente dimenticati.

Da sinistra: Babbo e Mamma a Taranto [1960], Babbo a Bologna [1938], Babbo e Mamma fidanzati [1026] 13

Babbo Paolo


vrebbe aiutato a raggiungere un ragionevole equilibrio. Salendo le scale che lo separavano dall’ufficio, la sera dell’ultimo giorno di lavoro, praticamente da pensionato, in quei pochi attimi iniziò a metabolizzare il ricordo di una intera vita lavorativa. Andò a letto come se nulla fosse successo e dormì profondamente tutta la notte fino alle undici dell’indomani. E così sarà per tutti gli altri giorni a seguire: sveglia alle nove, il caffè a letto dalla Mamma, di nuovo sonno profondo fino mezzogiorno. Poi in fretta e furia, come sempre in ritardo, dovrà alzarsi per andare a far la spesa, arrivando sempre con la saracinesca semi-abbassata del negozio delle “Sabine”: “Spèta ancora un s-ciantìn, che gà da rivar el Capo”. Dopo un sonnellino pomeridiano, finalmente andrà al bar a giocare a carte, quando non impegnato con l’Associazione Pescatori che lo vedeva sempre presente in qualità di giudice. Quando il lavoro ci porterà in meridione, la sua nostal-

gia avrà il sopravvento: sarà capace di prendere il treno all’improvviso, farsi quindici ore di viaggio per andare a trovare gli adorati figli e nipoti, per poi magari ripartire subito per tornare alla sua casa ed alla sua Nilla. Proverbiali i suoi fraterni rapporti con tutti (lui al mondo odiava solo due persone: il capo squadra fascista e la sua matrigna, entrambi arroganti, falsi e cattivi d’animo) che lo hanno sempre fatto ben volere. Un esempio tra tantissimi. Il Maresciallo Quartesan, la cui moglie era amica intima della Mamma, con cui condivideva un caratterino autoritario niente male e molta stima, quasi certamente per indole era solito, quasi tutte le mattine, arrivare in ritardo alla stazione, con la sigaretta accesa all’angolo della bocca e la lingua di fuori tra accessi convulsivi di tosse. Dei tre figli, nostri amici, che prendevano lo stesso treno, almeno uno aveva l’identico atteggiamento. Una famiglia di sciagurati. Il Babbo, con una scusa qualsiasi, ha sempre tenuto fermo il treno, anche per alcuni minuti, finchè non erano saliti, seguendo con pazienza il loro sopraggiungere ansimante lungo il viale della stazione e senza aver mai mostrato alcuna insofferenza. Deve aver preso qualche multa in proposito dalle Ferrovie, ma non l’ha mai detto a nessuno. Amava tutte le gare sportive e tutti i giovani. Sul lettino che lo porterà in sala operatoria, da cui non sarebbe uscito vivo, ci disse: “Un bacio ai miei bambini”. Al suo funerale molti bimbi e ragazzi che non conoscevamo. Consigliere comunale ha ricevuto la medaglia d’oro per trent’anni di presenza attiva nella società civile; stimatissimo, benvoluto, cercato per consigli. Pur con i suoi difetti ci ha lasciato un’eredità di onestà, di ottimismo, di grande bontà, di grande rettitudine, di amore impareggiabile. È stato un grandissimo genitore ed anche un altrettanto eccezionale nonno. Ci manca tanto.

Babbo Paolo

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Da sinistra: Babbo [1935] Pagina successiva: Babbo, Mamma, cugini di Mamma davanti alla Stazione di Sanguinetto [anni’40], Zia Lina, Babbo e Zia Maria a Bologna per il matrimonio [1935], Babbo e Mamma a Guello [1986], Babbo, Mamma, Gian e Robi a Caorle [1968] Pagina siccessiva: Babbo, Mamma, Gil e Gian a Ospedaletto [1939], Babbo e Robi a Taranto [1963], Mamma, Gil, Babbo a Como per il giuramento [1958], Babbo e Gian a Ospedaletto [1939], Babbo e Robi a Taranto [1964], Babbo e Mamma a Como Villa Olmo [1958], Nonno Saverio, Gil e Babbo a Ospedaletto [1939], Babbo in Svizzera [1968], Babbo ed il cugino Claudio Cervellati a Ospedaletto [1940], Babbo a Venezia [1958] Pagina successiva: Babbo a Sanguinetto [1971], Babbo e Mamma a Sanguinetto al Veglione Pescatori [1982], Babbo a Roma [1986], Babbo, Mamma. Robi, Gil e Paola a Caorle [1968], Babbo e Robi a Padova [1970], Babbo, Mamma e Andrea a Gabicce [1975]






IL NONNO SAVERIO E LE ZIE

La Zia Maria faceva finta di rimproverarmi aspramente costringendomi ad aiutarlo. Lui con quell’occhietto semichiuso e la bocca atteggiata ad un mezzo sorriso compiacente, gongolava come non mai. Il Nonno Saverio era famoso per la sua parsimonia, acuìta da una famiglia numerosa e problematica. Quando portava fuori i figli, nell’uscita domenicale cominciava col proporre i burattini, con l’entusiasmo di tutti, e dopo un lungo giro al sole li convinceva che era meglio un bel gelato, poi via sotto i portici allettandoli con tante belle caramelle, finchè esausti arrivavano a casa senza aver speso nulla. Al mercato comprava la frutta che costava meno, dopo ore di verifica dei prezzi di tutti i banchi, naturalmente la più scadente. A tavola le Zie si lamentavano di quella frutta, per fare un pò di commedia, poiché ce n’era dell’altra buona acquistata di nascosto, riposta sotto la credenza. Lo zio Beppe, a quelle lamentele, cominciava ad agitarsi ed ammiccare verso la sua Mariolla, indicando il nascondiglio, con le Zie intente a distrarre il Nonno.

Il nonno Saverio si era trasferito a Bologna il 31/3/1904 proveniente da Cento (FE) dove era nato il 4/9/1876 da ragazza madre, a servizio presso un nobile locale (!?). Un bell’uomo alto e distinto che ha fatto tutta la carriera nelle Ferrovie dello Stato fino a diventare ispettore. Da controllore era famoso perché durante il viaggio, col treno che correva a tutta velocità, cambiava carrozza passando dai predellini esterni – non c’erano i soffietti di comunicazione – per scovare i viaggiatori senza biglietto. Abitava alla Bolognina con la sua famiglia composta dalla Zia Lina, dal nostro Babbo Paolo, la Zia Maria, la Zia Luciana e lo Zio Beppe. Quest’ultimo in giovane età era stato colpito gravemente dalla poliomelite, rimanendo paralizzato in modo incrociato dalla testa ai piedi: aveva subito molte operazioni presso l’Ist. Rizzoli di Bologna, allora all’avanguardia, che gli consentirono almeno di poter camminare anche se zoppicando; purtroppo la paralisi aveva colpito anche il cervello e per molte funzioni intellettive era rimasto bambino, pur lasciandogli la parola; aveva l’uso di un solo occhio e di un solo braccio, che gli consentivano di essere completamente autonomo, lavandosi dalla testa ai piedi tutti i giorni, vestendosi e tra le altre cose riuscendo perfino ad allacciarsi alla perfezione le lunghe scarpe ortopediche, piene di occhielli e ganci, necessarie per camminare.

Dopo la morte prematura della moglie, con quattro figli, fu costretto a risposarsi, unica soluzione per quei tempi. Incontrò l’Elvira, una donna perfida e bugiarda di cui il Nonno si era invaghito. Andato in pensione abbastanza presto, (secondo Gil perchè era d’obbligo per il personale viaggiante, secondo Gian perchè era cominciata la persecuzione fascista di chi non voleva prendere la tessera del nuovo P.N.F.) si trasferì con tutti, escluso il Babbo che era rimasto a Bologna fidanzato con la mamma, a Barile un paesino in provincia di Potenza (basta cercarlo sulla carta geografica per capire quanto sia più probabile la tesi di Gian), in una piccola Assuntoria che gli permetteva di avere gratis la casa e migliorare le entrate della pensione.

Simpatici i suoi atteggiamenti a tavola quando magari mancava una posata o il bicchiere: guardava la zia Maria, che adorava, e senza aprire bocca puntava l’indice della mano verso il suo piatto, ammiccando ripetutamente. Infilando le carte sempre coperte di due mazzi tra le dita della piccola mano paralizzata, faceva degli strani e ripetuti scambi e numerose mescolate in apparenza strampalate, terminando il gioco con i quattro semi e le carte stesse perfettamente in ordine. Gil, quando andava per le vacanze estive a Bologna, trattandolo a tutti gli effetti come un coetaneo, con un po’ di cattiveria lo distraeva invertendogli qualche carta, con la conseguenza che alla fine l’ordine non tornava. Costernato ed agitato andava dalla sua Mariolla a lamentarsi: “Gil me n’ha rubata una”. Per lui sfogliare tutte quelle carte, alla ricerca di quella mancante o spostata, era un’impresa.

Nella pagina a fianco: Mamma, zia Maria, Gil, zia Luvciana, Gian a Bologna [1941] In questa pagina: Zia Luciana in Lombardia [1947], Zia Lucia Sergio Zia Lina e Mamma [1940], Mamma Gabri e Zia Maria [?].

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Il Nonno Saverio e le Zie

Raggiunti i limiti d’età anche da Assuntore, tornò in settentrione ed andò a stare, probabilmente nel periodo della guerra, a Lama Polesine vicino a Rovigo, presso il figlio della matrigna, che faceva il ferroviere ed abitava nella stazione del paesino. Lì rimasero poi per diversi anni, finché morì la donna cattiva di infarto. Il Babbo era già a Sanguinetto con noi grandicelli: tanto la odiava che la notizia lo fece esultare di gioia, destando lo stupore di chi gli stava comunicando al telefono la


ferale notizia “È deceduta la sua mamma”. Oltre ad essere una vera matrigna perversa, era un’attivista del partito fascista, con le dame di carità al pomeriggio e di sera sevizie alle nostre zie e specialmente allo Zio Beppe, che lasciava spesso senza mangiare. Per fortuna la Zia Maria gli ha sempre fatto da Mamma, proteggendolo e se necessario affrontando energicamente la matrigna. Tornò a Bologna con tutti e tre i figli ed andò ad abitare nel centro storico, in via Broccaindosso (vicino alla casa dove nel 1870 era morto il piccolo Dante, figlio di Carducci che gli dedicò Pianto antico) fino alla fine dei suoi giorni, accudito amorevolmente assieme allo Zio Beppe, dalla Zia Maria che si era votata anima e corpo a quella missione rifiutando più volte di sposarsi, e sacrificando quasi tutta la sua vita.

Era un abilissimo giocatore di carte anche da anziano: a scopa, briscola e tresette arrivava alla fine della partita sapendo con precisione le carte dell’avversario. Non perdeva mai ed era assai famoso al dopolavoro dei ferrovieri della stazione centrale di Bologna, dove andava tutti i pomeriggi a piedi da Via Broccaindosso, risparmiando i soldi del tram, giocando nel tavolo più economico, ma vincendo sempre almeno la consumazione. Da sinistra: Nonno Saverio, Mamma e Gil a Ospedaletto [1939], Luigina, Mamma, Carla e Mariella Mantovanelli, Zia Luciana, Zia Maria, Pierina T. a Bologna, San Luca [1960], Gil e Nonno Saverio a Ospedaletto [1939] Nella pagina a fianco: Zia Luciana [?], Zia Maria [?], Zio Gigi Mamma e Zia luciana a Sanguinetto per l’inaugurazione della Sede del Partito Socialista [?], Zia Luciana Zio Gigi Babbo Mamma Zio Oreste e Zia Maria a Sanguinetto [1971], Zia maria e il Babbo a Bologna [1971]

Nonno Saverio e le Zie

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LA MAMMA NILLA La Mamma ANTONILLA CERVELLATI, è nata a Molinella in provincia di Bologna, il 23 luglio 1910 dal Nonno Umberto Cervellati (1886 -1951), e dalla Nonna Adriana CocchI (1891-1953). Il Babbo e tutti i parenti l’hanno sempre chiamata Nilla. In questi ultimi anni noi la chiamiamo anche Nonna Wit, da Witecker il sergente di ferro, per il suo caratterino niente male, o Nonna bis, come la chiamano le sue nipotine per semplificare la dizione. A Sanguinetto veniva anche chiamata la Mujer del capo o la Capa. Nella notte del 13 aprile 2009, Lunedì dell’Angelo, a pochi mesi dai novantanove anni, la Mamma non si è risvegliata. Se ne è andata alle cinque e venti, in silenzio per non disturbare, così come aveva vissuto questi ultimi anni, con grande tristezza per noi, per nipoti e pronipoti che adorava, ed anche per tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerla. Alla chetichella per raggiungere il “bilocale”, come chiamava col suo incredibile senso dell’umorismo i due loculi attigui nel cimitero di Sanguinetto, uno dei quali già occupato dal Babbo, che con la sua pazienza infinita la stava aspettando da quasi ventun anni. “Che cosa sto a fare qui a perdere tempo? Sono stanca ed ho tanta voglia di ritrovare il mio Pevel”, ripeteva spesso negli ultimi tempi, ed è sta accontentata dall’ineluttabile destino, che ha impedito a Gil di attuare la festa dei cent’anni con la Banda Civica di Pessano a intonare l’Inno di Mameli e l’Internazionale Socialista suonati davanti alla sua stanzetta dell’Istituto Don Gnocchi. Innanzi tutto va precisato che era una piacente ragazza, classico esempio di florida bellezza emiliana, ed era anche estroversa, esuberante, simpaticissima, furba, grande lavoratrice, cantante, tenace. E’ sempre stata assai innamorata del Babbo ed orgogliosa dei suoi due figli Gilberto e Gianfranco, dei suoi nipoti e pronipoti. Ha sempre posseduto una memoria incredibile, che le consentiva di cantarci o recitarci (specialmente ai suoi pronipoti) storielle, poesie, favole, in dialetto o italiano. Abbiamo inciso una cassetta di queste sue performance nella speranza di riuscire ad impararne a memoria almeno una e cantarla con lei (ben sapendo quale sarebbe stata la sua reazione con Gil: ”Ma insomma non si può essere stonati fino a questo punto.


Sei tutto tuo padre, anche se a dir il vero qualche parola in bolognese tu l’hai azzeccata, mentre il tuo Babbo, nato e vissuto in giovinezza a Bologna e poi per tutta la vita in Veneto, non è mai riuscito a mettere insieme due parole decenti in nessuno dei due dialetti!”). Fin da giovanissima ha sempre lavorato moltissimo, in casa e fuori. Non è mai rimasta più di un giorno senza occupazione. Ci raccontava che se il datore di lavoro chiudeva l’attività (lei non è mai stata licenziata nella sua vita), immediatamente si metteva in moto e al massimo nel giro di una mattinata ne trovava un’altra, anche in periodi critici di occupazione.

Proverbiale anche il suo coraggio in tempo di guerra, quando accompagnata da Gil, ed all’insaputa del Babbo, andava a rubare l’olio e la farina dalle tradotte militari presidiate dai soldati tedeschi armati, con enorme rischio, ma anche tanta fame. Il giorno dopo però in casa c’era il pane bianco in tavola. Quando noi iniziavamo le scuole superiori, ed anche prima, lo stipendio del Babbo bastava solo per sopravvivere. È stata l’intraprendenza della Mamma a soccorrere la famiglia. Trovò subito un lavoro come magliaia in casa per alcune ditte manifatturiere. Iniziava all’alba, anticipando anche il gallo degli Spoladori (una famiglia amica che abitava vicino alla stazione) che cominciava a cantare a squarciagola imbrogliato dall’accensione della luce del deposito biciclette, col sole ancora chissà dove, e finiva alla sera tardi, a notte fonda. La sua grande abilità, favorita da una naturale predisposizione per questi lavori fatti in gioventù, e la mole di ore lavorative giornaliere senza soluzione di continuità, le consentivano di confezionare un numero di maglie almeno doppio delle altre lavoranti con un discreto guadagno, anche se sempre lontano anni luce da un compenso decente. Poi quando questo lavoro andrà in crisi iniziando a scarseggiare, la sua fama di rendimento, abilità e precisione le permetteranno di non rimanere ferma. Naturalmente sempre cantando e di buon umore. Si ripeterà esattamente la storia della sua giovinezza, con la sua carica inesauribile. É stata la salvezza della situazione economica famigliare in tempi assai duri, specialmente con Gian all’Università. Naturalmente non trascurava i lavori domestici, con una casa da mandare avanti, tre maschi da accudire e tutte le altre incombenze che ne derivavano, e sempre cantando. Rimase confinata in casa, senza uscire e senza svaghi, per alcuni anni, eppure sapeva sempre tutto di tutti; informata dalle sue amiche spesso giovani, dalle quali riceveva le confidenze e alle quali dispensava saggi consigli molto apprezzati. Era bravissima a fare le imitazioni, specialmente del medico del paese e di qualche altro personaggio, cogliendo tutte le volte di sorpresa le amiche che abitavano lì vicino. Naturalmente ha sempre avuto il suo bel caratterino autoritario ed intransigente, per la fortuna della famiNella pagina a fianco: Gil, Mamma e Gian a Ospedaletto [1940] Da sinistra: Mamma a Cervia [1926] 23

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glia, viste le carenze del Babbo. Quando si arrabbiava con lui per le solite indolenze, era capace di stare per due mesi senza rivolgergli la parola, pur facendo tutto in casa, ma ignorandolo con indifferenza per farlo ingelosire. A 68 anni, proprio la sera di Natale del 1978, con tutti noi in casa per le feste, venne colta da una violenta crisi di Angina Pectoris. Non aveva mai avuto problemi cardiaci. Ricoverata d’urgenza nella Cardiologia di Legnago fu controllata e preparata per un intervento di by-pass; poi operata a Padova dal Prof. Gallucci, la prima donna in Italia a fare il by-pass a quell’età, grazie alle sue eccezionali condizioni fisiche e psichiche. Era appena uscita dalla Rianimazione quando, al Primario in visita, chiese: “Come dovrò comportarmi dal punto di vista sessuale?”. “Con moderazione!” fu la simpatica risposta del Professore, tra il coro di risate dei giovani specializzandi. Guarì perfettamente, riprendendo a fare i tortellini a mano alla bolognese e facendone per molti anni omaggio per Natale al medico che l’aveva visitata per primo al Pronto Soccorso. Non ebbe più alcun disturbo, per oltre trent’anni. Aveva fatto solo la sesta elementare (come era previsto in quegli anni per la scuola dell’obbligo), ma scriveva con bella calligrafia e si esprimeva in un italiano perfetto, come tutti i bolognesi: non le abbiamo mai sentito sbagliare un congiuntivo. Ha sempre avuto numerosissime amiche che la adoravano ed un bellissimo rapporto più che fraterno con le sue cognate. Queste sue doti ed il suo carattere eccezionale sono stati il motore che ha governato ed alimentato materialmente e moralmente la nostra famiglia ed i suoi ottimi rapporti con tutti. La Mamma ci ha dato moltissimo. Noi le saremo eternamente grati. Con noi e con i suoi nipoti aveva la più grande apertura, parlando di qualsiasi argomento, anche intimo, con una delicatezza ed una dolcezza incredibili. Purtroppo fu non vedente per diversi anni (quasi subito imparò a fare tutto con il tatto e l’udito, subendo senza traumi tre traslochi di stanza nell’Istituto che la ospitava dal 1990, che per un non vedente apprendista di novant’anni di solito sono deleteri) e, da quando aveva voluto caparbiamente abitare in una residenza per Da sinistra: La Mamma a Bologna [1939], Gil Mamma e Gian a Ospedaletto [1939] Nella pagina a fianco: Mamma [1931–1932] La Mamma Nilla

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anziani (aveva intuito che sarebbe campata per molto tempo senza vista), non lasciò mai la sua stanza, se non per i pasti, pur essendo sempre informatissima di tutto e di tutti, dalla politica allo sport, dalle sue compagne d’istituto al personale, che trattava con grande simpatia, affabilità, ma anche intransigenza. Dopo circa un paio di anni dal suo insediamento nella elegante residenza di Pessano (il trauma terribile della chiusura della sua casa era ormai superato) improvvisamente ci chiese che fine aveva fatto il ferro di cavallo portafortuna che era appeso al muro della sua casa. Panico generale! Naturalmente non ce n’era più traccia con la conseguente solita rissa. Queste liti erano frequenti tanto che i vecchietti, quando avevano sentore che arrivava Gil, venivano fuori dalle varie stanze nel corridoio con la sedia a godersi lo spettacolo teatrale del reciproco lancio di ciabatte. Purtroppo il 25 settembre 2007 la Mamma scivolò andando in bagno, procurandosi una frattura sotto capitale del femore destro. Pronto soccorso, ospedale di Cernusco, intervento di protesi femorale e d’anca in anestesia totale per alcune ore, proprio come era successo circa otto anni prima per l’altra gamba. Allora aveva avuto un recupero formidabile e sorpren-



dente, favorito dalle sue eccezionali condizioni fisiche e psichiche e dall’assistenza giornaliera di Gil per una ventina di giorni, che col consenso del primario l’aveva fatta camminare quasi subito in corsia, tanto che tornando nella sua residenza di Pessano, dopo trenta giorni, riusciva a deambulare da sola col bastone. La seconda volta purtroppo i suoi novantasei anni si fecero sentire, e nonostante la caparbia insistenza di Gil col fisiatra per una riabilitazione più efficace possibile (per la ripresa del tono muscolare) e della sua tenacia perfino commovente, non ci fu verso di farle recuperare un minimo di autosufficienza nella deambulazione anche con l’ausilio del girello. Così finì su una sedia a rotelle, che purtroppo non le consentiva di spostarsi per via della vista, pur imparando quasi subito a manovrarla con facilità. Anche le sue capacità intellettive subìrono un drastico declino (dovuto certamente al trauma ed all’anestesia totale) influendo a loro volta in modo negativo sul suo recupero fisico. Perdendo l’autonomia, che le consentiva una vita pressoché normale rimanendo nella sua camera con le proprie abitudini, fu costretta a vivere sulla sedia a rotelle, col pannolone, nel salone polifunzionale (con tutti quei vecchi rimbambiti, diceva lei) e a dipendere, per ogni attività ed atti quotidiani, da altre persone, con una violazione insopportabile della sua dignità ed intimità, che deteriorarono il suo proverbiale orgoglio. Purtroppo non riuscì ad accettare questa sua nuova condizione imboccando un declino ineluttabile che la rese sempre più indifferente ed assente, anche se qualche volta, in rari momenti di buon umore, se Gil azzeccava il momento adatto attaccando un suo cavallo di battaglia in bolognese “ Gnulén con la só spórta el va dri al szèd al va a lumèg”, lei continuava come se nulla fosse “..l’incontrè una tóca con ventidù tuchén al le mitté in t’la spórta al le cuvré con tant grustén ...ecc.” fino alla fine. Noi, conoscendola bene, sapevamo che non era un atteggiamento di persona fuori testa, ma dovuto unicamente al suo piacere di far felice Gil che adorava queste sue canzoncine, sforzandosi di apparire serena. E’ stata una Mamma e una Nonna eccezionale che noi abbiamo adorato profondamente.


Alcuni aneddoti sulla sua simpatia ed esuberanza. Il maglificio Dallara di Bologna Quasi quindicenne, lavorava da alcuni anni presso un importante maglificio manifatturiero che si chiamava Dallara, in centro città. Ha sempre cantato tanto (era intonatissima, con una voce limpida e impostata), anche di mattina andando al lavoro e tornando la sera, sempre di buon umore, molto gaia e felice. Era molto scherzosa e simpatica, abilissima nel raccontare barzellette sempre nuove e colorite assai apprezzate dalle sue compagne e da chi ha avuto il piacere di conoscerla in tutta la sua vita. Durante il lavoro in un enorme stanzone con tante ragazze, rimanendo impassibile ed attivissima in prima fila senza farsi mai notare, era solita, con battute spiritosissime incredibili, far ridere a crepapelle tutte le lavoranti che erano costrette loro malgrado ad interrompere le cuciture per non rovinare il lavoro. Un giorno fu scoperta, anzi lei stessa si autoaccusò, per non far perdere il posto ad una sua collega. Fu perdonata, per la sua franchezza, ma anche perché il suo rendimento era altissimo e non volevano privarsene (sembra che il Dallara assistesse di nascosto alle sue ilarità, che giudicava irresistibili). Il viaggio in treno per Bologna Un’altra peculiarità del suo temperamento è sempre stata quella di riuscire con la massima semplicità e naturalezza ad ottenere immediatamente la simpatia e la confidenza di qualsiasi suo interlocutore, creando subito un rapporto di semplice e profonda complicità. Un aneddoto anche per questo lato del suo carattere. Quando dal Veneto andavamo con lei a Bologna per trovare le zie, viaggiavamo in treno con i biglietti dei ferrovieri in seconda classe (allora c’era la prima, la seconda e la terza classe ed era un privilegio che le Ferrovie concedevano a quei poveri sfruttati Assuntori, di poter viaggiare coi “signori”) e nello scompartimento, fin dalla partenza, trovavamo spesso dei compagni di viaggio anche anziani, spesso seri, distinti, taciturni, scontrosi, pieni di sussiego, impeccabili in quei loro vestiti scuri con gilet e catena d’oro dell’orologio: erano commercianti, imprenditori, managers che raggiungevano il capoluogo emiliano all’apertura della Borsa. Bene, dopo un quarto d’ora la Mamma riusciva ad entrare in confidenza a tal punto da dare dei buffetti sulle guance del più restio ed arrivati a Bologna tutti a braccetto fin fuori dalla Stazione e poi baci ed abbracci come vecchi amici.

Nella pagina a fianco: Gian, Mamma e Gil a Sanguinetto [1953] Da sinistra: Mamma [1918], Mamma, Gian e Gil a Bologna [1939], Mamma Gil a Ospedaletto [1939], Mamma Gil a Ospedaletto [1937] 27

La Mamma Nilla



Nella pagina a fianco: Mamma a Barletta [1929] Mamma e Gian a Ospedaletto [1939] Mamma, Gil e Babbo a Como [1958] Babbo e Mamma a Villa Olmo Como [1958] Da sinistra: Nonna Guello [1986], Nonna al Don Gnocchi [2008 -2009] Nelle pagine successive: Nonna al Don Gnocchi [2008 -2009]




I NONNI ADRIANA ED UMBERTO Il Nonno Umberto, di idee profondamente socialiste, con carattere mite, non litigioso, non aveva mai voluto prendere la tessera del Fascio, che il Regìme imponeva drasticamente a tutti, specialmente a chi occupava posti di responsabilità. Ciò gli valse molte minacce fino ad un agguato feroce con tante botte che terminarono con un colpo di bastone ferrato alla tempia (era un manganello che terminava con una punta d’acciaio e veniva usato per randellare ed alla fine uccidere): per fortuna, o meglio pare per stima di qualcuno della banda, il colpo non fu fatale e se la cavò con qualche mese di convalescenza ed una bella cicatrice di fianco all’occhio che gli rimase per sempre, quasi a monito della sua coerenza, e della quale andava assai fiero. Perdette comunque il suo ottimo lavoro (era il coordinatore del personale in una grossa cooperativa di “terraioli” alla Bolognina) e dovette affrontare con la Nonna Adriana tempi molto duri. Naturalmente il suo anti-fascismo crebbe ancor di più fino a diventare un sentimento che ha trasferito a tutti noi indelebilmente e che lo accompagnò tutta la vita. Ce lo ricordiamo sindacalista a Sanguinetto, nella Camera del Lavoro, che gestiva in modo ineccepibile, sempre pronto ad aiutare tutti. Purtroppo etilista, ombroso se normale e simpaticissimo dopo un bicchiere. Aveva sempre il cappello abbassato sugli occhi anche a tavola, ma quando beveva cominciava ad alzarlo sempre più all’indietro finché non lo toglieva. Diventava ciarliero ed allegro. Era il segnale: a quel punto tutte le sue difese erano annullate. La Nonna gli chiedeva il portafoglio e lui glielo dava, cosa che non avrebbe mai fatto da sobrio. Poi si prendeva qualche pacca sulla testa semipelata, con un pentolino di alluminio, ridendo. Il giorno dopo era una tragedia: non si ricordava più nulla e disperato di aver perso il portafogli dove teneva tutto, correva avanti e indietro per le osterie del paese alla sua spasmodica ricerca, senza farsi capire dalla Nonna, che invece se la godeva. Dopo la parentesi della guerra in casa nostra, andarono ad abitare a due chilometri da Sanguinetto, in una camera unica in una casa colonica sita proprio di fronte all’ingresso del grande deposito di munizioni dell’Aeronautica di Asparetto, dove la Nonna faceva la cuoca In questa pagina: Nonni Cervellati [1931]

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per la mensa militare. Purtroppo privi di pensione, quel lavoro era indispensabile alla loro sussistenza. Qui si manifesteranno le doti di intraprendenza del Nonno. In poco tempo aveva imparato, rubando di notte nei campi le foglie del tabacco, a conciarle, essiccarle e farne del trinciato buonissimo. Poi confezionava le sigarette a mano, una per volta, con la famosa macchinetta usata in quei tempi di carestia da quasi tutti, con le cartine marcate. Non siamo mai riusciti a capire come facesse a farle tanto bene, da essere scambiate per quelle originali, con quelle sue mani semi rattrappite dalla gotta, dall’alcool e dall’artrosi. Si procurava dei fogli con stampigliato il marchio dei Monopoli di Stato (nessuno ha mai saputo dove li trovasse) realizzando, sempre a mano, dei pacchetti completi di sigillo autentico e confezioni identiche alle originali: Nazionali, Popolari, Macedonia ed altre marche. Erano talmente identiche e regolamentari che le vendeva alle tabaccherie di Sanguinetto e paesi vicini (Le comperava anche il Nonno di Gabriella, che aveva la privativa), sicuri che nessuno potesse riconoscerle. Faceva del contrabbando vero e

proprio. Quando aveva un bel po’ di confezioni pronte le metteva in una vecchia valigia consunta di cartone che caricava sul portapacchi, inforcava la sua bicicletta (una vecchissima Bianchi, con i copertoni conciatissimi ricuciti più volte e le camere d’aria con tre strati di pezze che ormai non tenevano più e dovevano essere gonfiate ogni mezz’ora) ed andava fino a Bologna, distante novantacinque chilometri, impiegando nove o dieci ore. A vederlo poteva essere benissimo un girovago senza fissa dimora, mal vestito, con la barba lunga di giorni, in condizioni precarie. Rientrava il giorno dopo coi soldi guadagnati. Una volta, per la strada, fu fermato dai carabinieri, che gli trovarono le sigarette. “E’ la mia scorta per tutto il mese, disse, io le fumo in continuazione.” Lo portarono dai finanzieri che non poterono contestargli nulla: le sigarette erano di Monopolio e quindi il Nonno era in regola (c’è sempre rimasto il dubbio se li avesse impietositi con il suo aspetto o, cosa più probabile, se le sigarette fossero perfettamente uguali alle originali). La Nonna Adriana anche lei grande lavoratrice sebbene soffrisse di diabete che richiedeva alcune punture di insulina al giorno. Assai critici furono gli anni della guerra, durante i quali la medicina era quasi introvabile. Fu il Nonno che, inghiottendo bocconi assai amari, si era fatto amico di alcuni tedeschi che gli procuravano l’insulina, in abbondanza tra le truppe. Era una cuoca abilissima, come tutti i bolognesi. Quando andò a lavorare nella mensa del deposito di munizioni dell’areonautica, sconvolse tutte le regole perché era stata assunta per la truppa, ma dopo qualche giorno iniziò con la pasta ed i tortellini fatti a mano, alla bolognese. Subito la vollero gli ufficiali e solo l’accordo di un’unica mensa per tutti (primo caso del genere nelle forze armate) rimise a posto le cose. Era talmente brava che improvvisamente gli ufficiali mangiavano in caserma anche la sera, con scuse banali che facevano mandare in bestia le consorti. Sistemò tutto dando di nascosto alle loro mogli delle pietanze squisite. Quello fu un bel periodo perché le derrate alimentari al deposito erano abbondanti e di prima qualità e lei poté ogni giorno portare a casa il cibo anche per il Nonno, ovviamente con il permesso. Quando, piuttosto ammalata, terminò di lavorare, tra lo sconforto di tutto il deposito, e venne ancora a stare con noi, le visite di tutti i suoi militari furono quasi quotidiane. La ricorderanno per molti anni Nella pagina a fianco: Mamma, Nonno Umberto e Babbo al matrimonio [1935], Nonna Adriana [?]

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I Nonni Adriana e Umberto

rimanendo affezionati anche alla nostra famiglia. Morirà purtroppo completamente cieca, anche se riusciva di notte a trovare la dispensa e mangiare lo zucchero, di cui era ghiotta in modo esagerato. Un aneddoto: la Nonna, che il diabete aveva reso piuttosto grassa, aveva sempre caldo al punto da dormire solo col lenzuolo anche d’inverno. Il Nonno invece, magro come uno stecco, tremava sempre dal freddo, tanto che non bastavano anche d’estate quattro coperte per farlo assopire: eppure hanno dormito sempre nello stesso letto matrimoniale fino alla fine e ancora oggi non sappiamo come facessero senza litigare (le discussioni però, ovviamente in bolognese, erano una costante, specialmente quando si coricavano, che andava avanti per decine di minuti). Morirono a distanza di due anni uno dall’altro nella nostra casa, ancora abbastanza giovani, accuditi fino all’ultimo dalla Mamma e dal Babbo. Su loro preciso ed insistente desiderio, tra le meraviglie dei paesani bigotti, il feretro quando giunse in fondo al viale della stazione, girò verso il cimitero senza andare in chiesa. Siamo ancora orgogliosi della loro coerenza.


1935 1958 dal

al


GG La Storia


L’INIZIO DELLA STORIA La nostra storia comincia a Bologna nel 1925, perché in quella bellissima città, dalla gente più affabile e cortese del mondo, si conobbero (lui 18 anni, lei 15), per poi sposarsi e continuare ad amarsi per tutta la vita, i nostri genitori: il Babbo Paolo che chiamiamo anche Nonno e la Mamma Nilla, negli ultimi anni chiamata anche Nonna Wit o Nonna Bis. Ma andiamo con ordine, perché questi sono i ricordi che la Mamma ci ha raccontato, con il suo accento emiliano (lei parlava perfettamente il bolognese, il ferrarese ed il veneto) che sfoderava in queste occasioni, con dovizia di particolari, con tanto sentimento ma anche tanto umorismo, di cui era particolarmente dotata. Una sera, sotto i portici della Bolognina, proprio dove molti anni dopo iniziò il revisionismo del Partito Comunista Italiano di Ochetto (in quel grande rione di Bologna fuori porta Galliera, i cittadini erano quasi tutti iscritti al PCI, con la tessera sempre nel portafogli ed il quotidiano del partito, l’Unità, che debordava dalla tasca della giacca), si trovò davanti il biondino, di cui aveva sentito molto parlare dalle sue amiche. Alto, biondo, ricciolino, bellissimo, attraente, di gran lunga meglio di quanto le avevano raccontato, con un maglioncino color militare dal bavero aperto lateralmente, come andava di moda allora. Bastò quell’incontro quasi furtivo. Se ne innamorò immediatamente pensando all’istante che quello sarebbe stato l’uomo della sua vita. La scintilla, potentissima, era scoccata; diventò tutta rossa, imbarazzata, tanto tanto emozionata. Il Babbo, diciotto anni, era certamente un gran bel ragazzo, molto ammirato, sportivo, tirava di box, giocava al calcio con discreto talento, ma la Mamma era una vera chicca, assai piacente ed intrigante e quell’incontro li segnò profondamente. Da quel momento vissero sempre insieme, tutti i giorni della loro vita e solo la morte del Babbo ad ottantun anni, dopo cioè sessantatre di vita comune, riuscì a separarli fisicamente, ma non moralmente perché la Mamma, quando ci parlava di questi suoi ricordi, si emozionava ancora come quella volta ed i suoi lucidi occhi stanchi, che da anni avevano perso quasi completamente la luce, si inumidivano ancora di commozione. Il fidanzamento fu lungo, prima di tutto perché in quel tempo c’era poco lavoro e poi perché al Babbo era morta la mamma di tifo ed il Nonno Saverio si era risposato con una donna cattiva, una vera matrigna, di cui era innamorato al punto da trascurare e non proteggere i suoi figli.


Il Nonno, che aveva iniziato a lavorare in Ferrovia da giovane, aveva raggiunto il grado di Controllore, ma non aveva mai voluto prendere la tessera del partito fascista, per cui fu costretto ad accettare “la proposta” di andare con la famiglia in meridione in una piccola stazioncina a Barile in provincia di Potenza, per poter mantenere la sua numerosa famiglia. Per stare con la Mamma, il biondino era rimasto a Bologna e viveva praticamene in casa con lei, dove il loro amore e la ben nota ospitalità dei bolognesi gli consentivano di stare da papa. Noi, che non concepiamo che si possa abitare normalmente a casa della fidanzata senza lavorare o quasi, le abbiamo chiesto: “Ma cosa faceva il Babbo di giorno?” e lei: “Dormiva”. “Ma come, dormiva sempre?” e lei: “ Quando non dormiva non faceva niente”. “Ma tu come hai potuto conciliare una tale situazione, con la prospettiva di una vita futura purtroppo basata su simili presupposti?” e lei subito: “Era tanto bello ed io ne ero pazzamente innamorata; e badate bene che il futuro è stato tanto duro, ma io l’ho sempre amato moltissimo e non me ne sono mai pentita!”. Purtroppo il Babbo, pur buonissimo servizievole e bravo, aveva il difetto d’essere indolente e non si rendeva mai conto della situazione, rimandando sempre al giorno dopo qualsiasi problema, che avrebbe potuto risolvere all’istante. Questa sua indolenza l’ha tenuto per mano tutta la vita, costituendo un eterno cruccio per la Mamma, specialmente nei momenti difficili del dopoguerra ed anche per noi figli. Il Nonno Umberto, il padre della Mamma, che era presidente di una cooperativa di terraioli (allora non esistevano le grandi macchine per i movimenti di terra nei cantieri e tutto veniva fatto a mano con pale e secchi e carri trainati da cavalli) di tanto in tanto gli trovava qualche lavoro temporaneo, ma che non risolveva la situazione. Venne il momento di partire per il militare tra la costernazione generale, ma poiché era il figlio maschio maggiore col padre ferroviere viaggiante ed un fratello poliomielitico, fece una ferma ridotta, il minimo di allora: quattro mesi appena. Poté così riunirsi in breve tempo alla sua amata Nilla. Finalmente, con un colpo di fortuna, incappò non si sa come (o forse con l’ausilio di qualche funzionario del PCI sollecitato dal Nonno Umberto) in un posto in banca, ma quando pareva che tutto andasse per il meglio, l’Istituto si trasferì in Centro Italia. La distanza per quei tempi era enorme, insuperabile. Paolino non seppe staccarsi dalla sua Nilla, tanto si amavano, e rinunciò con una certa dose d’incoscienza, rimanendo disoccupato a Bologna. Dopo un po’ (molto probabilmente su intervento del Nonno Saverio che era stato Controllore ed aveva molti amici) fece un concorso in Ferrovia, per una piccola stazione in provincia di Padova e divenne Assuntore ad Ospedaletto Euganeo. OSPEDALETTO EUGANEO (PD) Piccolo paese a 39 km da Padova, che si incontra dopo Este sulla SS10 che porta a Mantova. É munito di una piccola stazione ferroviaria sulla linea Padova-Monselice, dove hanno iniziato la loro vita coniugale e dove sono nati Gil e Gian. Unica attività di allora l’agricoltura. Nel 1700 troviamo che Ospedaletto si chiama semplicemente Villa de Hospitaleto; più tardi lo incontriamo come Ospedaletto d’Este e, dal 1867, Ospedaletto Euganeo, per distinguerlo da altri omonimi paesi sparsi in diverse regioni d’Italia. Antico insediamento paleoveneto, bonificato già dai romani, Ospedaletto costituisce da sempre un luogo di passaggio fra territori diversi. Nel medioevo fu sede di un ospizio per pellegrini, come testimonia il nome, e in seguito subì il transito e le alterne dominazioni delle truppe estensi, ezzeliniane, scaligere, carraresi, veneziane, e infine napoleoniche.

In queste pagine: Gil e Gian a Ospedaletto [1940]

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La Nostra Storia


Era un lavoro non certo confrontabile e di gran lunga meno redditizio di quello in banca. Poterono però finalmente sposarsi dopo molti anni di fidanzamento: naturalmente dovettero lasciare, molto a malincuore, l’amata Bologna per trasferirsi in quel piccolo paesino veneto. Era il 1935, in pieno fascismo e tutto sommato non fu male allontanarsi dal capoluogo emiliano dove le squadracce di fanatici fascisti e le brigate nere erano assai pericolose. Si sposarono e dopo nove mesi, precisamente il 7 luglio 1936, nacque Gil, nell’appartamento al piano superiore della stazioncina, con l’assistenza della levatrice del paese, tanta acqua bollente e la presenza del Babbo che nel tentativo spasmodico di contenere l’espansione esagerata dell’arteria giugulare della Mamma sotto sforzo, per poco non la strozzò! Il delicato ….tanto atteso… vagito del neonato, quasi il tenue miagolio di un gattino, confermò l’arrivo di un bellissimo bimbo. I primi giorni, con l’inizio dell’allattamento, furono essenziali perché inspiegabilmente, la levatrice ed un’amica del paese, non fecero poppare il primo latte, il

colostro, una specie di purga naturale con la funzione di predisporre lo stomaco a ricevere e digerire il latte materno. Questo fu stabilito in un secondo tempo, perché il neonato mangiava avidamente, ma rigettava, crescendo pochissimo e male. Tanto piangere in lunghe notti insonni, cullato dalla Zia Luciana, che era arrivata per aiutare e confortare la famigliola. Il medico del paese non capiva la situazione, dando la colpa al latte troppo sostanzioso della Mamma. Dopo qualche mese il bimbo era gracilissimo e malaticcio: venne la Nonna Adriana che decise immediatamente di portarlo a Bologna da una nota pediatra. Alla stazione la Zia Lina li aspettava per accompagnarli e quando vide il bimbo si mise a piangere tanto era mal ridotto, lei abituata a quattro figli grossi e sani. La Mamma disperata porse angosciata il bimbo alla pediatra, che lo visitò con cura, volle sapere un po’ tutta la storia, volle vedere ed assaggiare il latte materno e disse: “Il suo latte è eccellente e non va tolto nel modo più assoluto. Prenda queste tre medicine prima e dopo la poppata, che hanno la caratteristica di ripristinare il funzionamento dello stomachino traumatizzato. Stia tranquilla che tutto andrà benissimo; vedrà che non

ci sarà più bisogno di una seconda visita”. (Ah, quel colostro gettato!). La previsione della pediatra fu confermata; dopo pochi mesi il bimbo era splendido, aveva ripreso abbondantemente il peso, mangiava e dormiva beatamente, cresceva a vista d’occhio nel migliore dei modi, tanto che la Zia Lina venuta da Bologna a trovarci lo vide sul passeggino che scorrazzava lungo il corridoio e si commosse di nuovo nel trovarlo in così buone condizioni, bellissimo con la sua testa piena di riccioli d’oro. Tutto bene ad esclusione, però, del suo carattere che le sofferenze neonatali avevano segnato indelebilmente. Un bellissimo bambino, ma nervosetto tanto che fin da piccolo tutti in casa lo chiamavano Gillo-brillo-schiattarabbia. Così fu sempre per tutta la vita, bello buono generoso espansivo ma irascibile, anche se i suoi bollori, dopo pochi minuti svanivano nel nulla, lasciando però gli altri in agitazione. Quando Gil aveva due anni e mezzo (andava già in bicicletta e stava per togliere le ruotine), e precisamente il 13 dicembre 1938 nacque, sempre rigorosamente in casa, con una facilità incredibile, Gianfranco, un elefantino di 5400 grammi. Il primo vagito, uscito da un’enorme bocca da autentico cavernicolo, fece subito capire che aveva una gran fame


e non intendeva aspettare le canoniche 12 ore di attesa. Non era bellissimo, ma paffuto e tranquillo. La prima poppata fu di circa trenta minuti (altro che colostro) seguita da una dormita interminabile. Al risveglio la cacca gli usciva tra le fasce da tutte le parti (l’usanza era ancora quella di fasciare vigorosamente i nascituri per mantenere corretta la postura delle ossa). Ci vollero due giorni per purificare l’aria, che faceva star male tutti meno il nascituro che continuava a poppare dalla Mamma, abbondantemente lattifera, dormire e produrre in modo incredibile, con vicino sempre Gillo, che non era per nulla geloso. Questo fu ciò che contraddistinse i due rampolli alla nascita, ma che sostanzialmente è rimasto sempre nella vita, fino ad oggi. Uno bello, esuberante, estroverso, petulante, irascibile, generoso, buono, lavoratore, straordinario artigiano (rassomiglianze con la Mamma); l’altro meno bello, posapiano, introverso, pigro, tirchio, menefreghista, furbissimo, artista, amante della musica, intellettuale, intelligente, scansafatiche. Col tempo diventerà buonissimo (assonanze col Babbo). La stazioncina molto piccola, su binario unico, aveva ai lati due zone verdi con molti alberi da frutta, l’orto, un vagone ferroviario chiuso che serviva da pollaio che, in una gelida notte d’inverno fu visitato dai ladri, molto attivi in quelle zone abbastanza povere delle campagne padovane. Portarono via tutte le galline e le oche, che costituivano quasi completamente il sostentamento alimentare della famiglia. Per fortuna il Babbo e la Mamma avevano tra i loro amici i Vigato, uno dei quali fu il padrino di Gian, una bella famiglia di benestanti agricoltori, persone squisite molto per bene, che li aiutarono in quel frangente. I ladri non ci visitarono più, forse per compassione se si considera che il paese era noto per avere tra i suoi concittadini molti ladri di pollai. Tuttavia il Babbo si era premunito di tenere in casa una vecchia rivoltella militare del suo cognato Eugenio Serrantoni, Ufficiale di Cavalleria, marito della Zia Lina, naturalmente senza munizioni. Un sentiero di ghiaia correva tra una fila di agavi ed il binario fino al passaggio a livello, con le sbarre comandate dalla stazione con una manovella. Lungo quel sentiero, ormai con la bici senza rotelline, scorrazzava Gil a volte fino in fondo, per andare dal tabaccaio a prendere le sigarette per il Babbo, che gli metteva i soldi di carta nel gancetto del freno, sul manubrio. Già allora entrambi i pargoli erano avidissimi di frutta, del resto abbondante nell’orto-giardino della stazione: Gian, che non camminava ancora (iniziò un po’ tardi,

come pure ad andare in bicicletta) riusciva a raggiungere i grappoli d’uva più bassi; come vedremo più avanti, questa sua golosità lo porterà a rischiare la vita, mentre Gil riuscirà a mangiare, di notte, una enorme quantità di mele poste sotto al letto, in poco più d’un mese, gettando al buio ed al volo i torsoli sull’armadio di fronte, con una precisione che era diventata spietata. Noi diventiamo grandicelli e Gil qualcosa riesce a rammentare. Ricorda le grandi e festose sagre del paese e specialmente, il campo delle bocce piatte: era usanza di quei luoghi praticare un particolare tipo di gioco con al posto delle bocce sferiche tradizionali, degli strani dischi di legno, di circa quindici centimetri di diametro, a sezione incava, che dovevano essere lanciate con tanto effetto da far loro fare strani giri, scansare le altre bocce e raggiungere il bersaglio o finire vicinissimi al pallino. Era una gioco difficilissimo, entusiasmante, che provocava fervore, incitamento, euforia, agitazione, spesso qualche litigio, che aumentavano in crescendo con il progredire della gara, alimentati dagli effetti di qualche bicchiere di vino che non mancava mai in quelle occasioni e che spessissimo rappresentava la puntata di continue sfide e scommesse. Non si può dimenticare la sera della Befana, con la suspense dei regali nelle calze appese al camino, con tutto il cerimoniale emotivo che la precedeva poiché, come sempre, per noi il numero delle calze era insufficiente, ma tante ne consentiva la sussistenza. Nella cucina c’era appunto una grande camino, che serviva per riscaldare tutta la casa. La sera della Befana non veniva acceso perché la “vecchia” (che purtroppo è tuttora rappresentata come una brutta vecchiaccia, col volto pieno di brufoli pelosi, anche se poi porta i doni e le chicche) doveva scendere dal camino e riempire le calze con i dolci per chi era stato buono, ma col carbone (ahimè poco per essere usato come combustibile: solo qualche piccolo pezzetto) per chi aveva fatto il monello. La Befana veniva interpretata esclusivamente ed in maniera insuperabile dalla Zia Luciana (era affezionatissima specialmente a Gil, che aveva tanto cullato per notti intere e per il quale avrebbe fatto l’impossibile) che, arrivata di nascosto a casa da Bologna, si travestiva e truccava in modo fantastico, si nascondeva dentro il camino, appesa alla catena del paiolo della polenta, con uno sforzo sovrumano ed al momento opportuno scenNella pagina a fianco; Gil e Gian da piccoli

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La Nostra Storia

deva, spesso sporca di fuliggine vera, con sulle spalle il fardello: era un momento di incredibile pathos, con noi seminascosti dietro alla Mamma ed al Babbo, sbirciando, impauriti ma curiosi. L’ultimo anno, purtroppo, la Zia scendendo perse la presa facendo volare via il cappuccio: vennero fuori tutti quei capelli biondi di cui era dotata, con un’esclamazione di Gil che disse con un filo di voce: “Guarda come assomigliano ai capelli della Zia; domani quando viene glielo dico, che è brutta come la Befana”. Le zie di Bologna, specialmente la Zia Luciana che nel gennaio 2008 purtroppo, con nostro immenso rammarico, ci ha lasciati, ci hanno voluto un bene immenso, più dei figli che sfortunatamente uno strano destino non ha loro concesso. Da grande Gian farà, presso la loro abitazione di Bologna, tutta la scuola universitaria. Gil indossa la sua prima divisa da “figlio della Lupa” con la costernazione del Babbo, che assolutamente non vorrebbe saperne, ma che è costretto ad accettare, per non correre il rischio di perdere il lavoro; a cinque anni frequenta la scuola materna, la sua maestra si innamora di quel bimbetto biondo e dopo alcuni mesi lo porta di sopra in prima elementare, dove rimane per alcuni mesi, imparando le prime nozioni di scrittura. Ciò gli gioverà non poco frequentando la scuola elementare in periodo di guerra. Con i bimbi, che crescono a vista d’occhio, aumentano le esigenze; la misera paga del Babbo non è più sufficiente, ed ottiene il trasferimento ad una stazione un po’ più importante, a Sanguinetto, sulla stessa linea ferroviaria a circa 40 chilometri in direzione Mantova.




LA GUERRA È il 15 gennaio 1942 quando la famiglia, col dispiacere di dover lasciare tanti amici affezionati ed un paesino dove si erano magnificamente inseriti, si trasferisce nel basso Veronese, a Sanguinetto, e con questo atto, purtroppo, si suggella il definitivo ed inesorabile distacco dall’amata Bologna, rimasta sempre nelle speranze del loro cuore.

movimenti di merci, bestiame, macchine agricole e con una notevole rete di binari che costituisce un grande scalo ferroviario completo di due raccordi esterni: uno con l’attiguo zuccherificio e l’altro con un deposito di munizioni dell’Aeronautica (el Cantiér) a qualche chilometro di distanza. Ovviamente fa sempre il Capo Stazione: da qui il soprannome el Capo e la Mamma la Capa o la Mujer del Capo: in questo paese, più che in molti altri, il soprannome detto “scutmai” è di rigore

straordinari con le fionde e spesso siano più robusti e maturi poiché già lavorano in aiuto dei genitori. Di certo quell’aggregazione fa molto bene a tutti. I mesi trascorrono in fretta, tra la scuola ed i divertimenti pomeridiani e nelle vacanze. Gil e Gian più grandicelli imparano il dialetto, anche se, tra di loro, continueranno sempre ad usare l’italiano, cominciano ad andare per campi, a scoprire nei fossi le rane, i girini, i pesciolini, tra gli alberi le specie più comuni di uccelli, i

SANGUINETTO Etimologia: Incerta la derivazione del nome: forse dalle sanguinose battaglie per la conquista del territorio, strategicamente importante, che si sono succedute nei secoli, molto più probabilmente da una varietà della pianta Cornus sanguinea, detta volgarmente Sanguinello (arbusto caducifoglio che produce bacche rosse). Il toponimo risulta documentato già in un documento del 930, come testimonia lo studioso .Giovanni Rapelli. Storia: Nel XIV Secolo, per volere degli Scaligeri viene costruito il Castello: verrà negli anni più volte saccheggiato. Sanguinetto venne devastata dai Mantovani intorno all’anno 1232, divenne feudo della Serenissima, fu conquistata dai Ferraresi nel 1483, nel 1509 dagli Imperialisti, nel 1511 saccheggiata dai Francesi. Nel XVI Secolo divenne feudo delle famiglie Lion e Martinengo. Il Paese: La descrizione che segue è una rappresentazione ambientata negli anni ‘50, che può essere utile per un miglior coinvolgimento nel racconto. SANGUINETTO anni ‘50 Il paese, come ha detto bene il grande Giulio Nascimbeni, è una “virgola sulla Strada Statale n. 10” e questa strana doppia virata della nazionale si spiega solo con la pre-esistenza, rispetto all’asse Monselice-Mantova o Padana Inferiore, di un centro già ben strutturato sulla direttrice nord-sud, quindi in collegamento con Verona (la pronuncia della ESSE nella parlata dialettale è, unico paese della Bassa, uguale a quella della Città capoluogo). Sanguinetto ha le caratteristiche di un paese che ha avuto una certa importanza nel passato: lo testimoniano tracce di una sede della Pretura, un cittadino deputato in Parlamento (Meritani), una gloriosa stagione musicale con Teatro e Musicisti (Gaetano Zinetti e famiglia), ma anche scrittori e giornalisti (Roghi, poi Nascimbeni, Manzini e Marcucci, infine Falsiroli, Galetto e Castaldelli), last but not least una attività industriale di prim’ordine per quel tempo, lo zuccherificio, iniziativa originale di personaggi locali. Il paese si distingue nel territorio circostante per mentalità e cultura e di ciò va dato merito, oltre alla storia passata e ad alcune illustri ed illuminate famiglie e personaggi del luogo, anche all’immigrazione di dirigenti per lo zuccherificio, di ufficiali e sottufficiali della vicina caserma dell’Aeronautica, di famiglie sfollate dalle città verso la fine della guerra. Poi la presenza di molti studenti che animano l’ambiente, ed il fatto non trascurabile che i coltivatori diretti restano per un po’ di tempo confinati “fuori le mura”, fanno mantenere, ma ahimè non per molto, questa sorta di primato. In paese ci sono due Caffè (Rizzini, Margotto), due Bar (Cin Cian e Manzini), tre osterie (Da Sbecola, El Moro Quatercia, La Valeria), tre Locande (Roma, Al Gallo, Lanterna Verde), quattro cinematografi (IlTeatro, Roghi, Parrocchiale, Da Camiletti-all’aperto), una balera (la “Lanterna Rossa” presso l’Albergo Roma), un campo di calcio, sei chiese (La Chiesa Parrochiale, La Chiesa del Convento o Dei Frati, L’Oratorio delle Tre Vie o Della Rotonda o Del Cao de Soto, La Chiesina della Tavanara, La Chiesa della Venera e la Chiesa Vecchia di Concamarise, prima che la frazione si separi come comune autonomo, due grandi monumenti storici (Il Castello Scaligero del XIV sec., il Convento di Santa Maria delle Grazie del 1600), alcuni palazzi dalle belle facciate ottocentesche. A Sanguinetto, come sicuramente altrove, all’epoca gli schemi ideali sono particolarmente semplici: Coppi/Bartali, Juve/Toro, Ferrari/Maserati, Loren/Lollobrigida, Cattolici/Laici, ed anche Pissonsini/Pizzonzini, Cao de Sóto/Cao de Sóra, Rizzini/Margotto: un simpatico bi-polarismo ante-litteram che anima la oziosa vita provinciale con discussioni, sfottó e anche scontri.

Anche questo paese è piccolo (circa 3500 abitanti), ma dotato di un’imponente attività agricola ed industriale. C’è infatti un buon zuccherificio creato quasi vent’anni prima dall’iniziativa di un gruppo di benestanti locali, che con molta lungimiranza avevano intuito la possibilità di poter sfruttare contemporaneamente, a stretto contatto di gomito, l’attività dei campi e l’industria. Quindi, oltre al grano ed al tabacco, impera la coltivazione delle barbabietole da zucchero. Il Babbo, sempre come Assuntore, anche se con uno stipendio leggermente superiore, ma sempre da fame, ha ora una stazione abbastanza importante, con intensi

e sostituisce completamente il nome e cognome delle persone. Gian ha appena compiuto 3 anni e Gil ne ha 5 e mezzo: quando a ottobre si aprono le scuole Gil inizia a frequentare la prima elementare. Comincia così il periodo più spensierato perché la scuola, specialmente all’inizio, è presa ancora come un nuovo gioco. Molti compagni sono gli stessi dei divertimenti, ma la novità è costituita dai nuovi, parte dei quali vengono dalla campagna; ci intriga moltissimo il fatto che conoscano dal colore delle uova nei nidi il tipo di uccellino, abbiano passatempi diversi dai nostri, siano La Guerra

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passeri, i pettirossi, i merli, i tordi, d’estate le rondini coi loro nidi, i grilli, le libellule, le farfalle, di sera i pipistrelli e le lucciole: è come scoprire un nuovo mondo quasi magico. Ma col passare del tempo ci si avvicina sempre più ad un periodo meno romantico ed assai duro, anche se, come tutti i bambini, Gil e Gian lo affrontano quasi come un gioco. Siamo in tempo di guerra.


La seconda guerra mondiale, cominciata nel ‘39 in Europa, per l’Italia va dal 10/06/1940 al 25/04/1945, con la tappa intermedia dell’armistizio (08/09/1943) che, invece di risolvere, complica parecchio i problemi dei poveri italiani.

il nostro è possibile trovare il modo di cavarsela, salvo accontentarsi di quel pane nero distribuito con la tessera, che difficilmente potremo dimenticare. Il Babbo non vuole saperne di approfittare, come invece fanno moltissimi anche non ferrovieri, dei vagoni purtroppo

una ossessiva onestà che lo accompagna sempre, ma anche per evitare il pericolo di conseguenze durissime che sarebbero deleterie per la sua famiglia. Qualche volta la Mamma e Gil, che è più grandicello, vanno di notte a bucare dei recipienti di olio d’oliva

LE SCUOLE DI SANGUINETTO Va premesso che tutti gli uffici ed istituti pubblici del paese erano siti nel castello medievale, dove abitano solo alcune famiglie: il municipio, il teatro, il cinema, le scuole elementari, quella materna, le grandi aule della scuola d’arte e di disegno, i depositi degli stradini, l’ufficio del lavoro e dei sindacati e così via. La scuola elementare era ricavata nei piani superiori di un’ala del castello con accesso a mezzo di un’ampia scala interna, sulla destra del cortile entrando. La scuola materna, detta allora asilo infantile, era situata in locali seminterrati a sinistra, sotto la hall del teatro, ad una quota inferiore a quella del cortile. Da un lungo finestrone sotto la scala del teatro spesso ci fermavamo a guardare dall’alto quei frugoletti dai capelli più svariati, seduti uno vicino all’altro, nel tentativo di riconoscere un nostro congiunto. Le aule elementari erano molto grandi col soffitto altissimo; i banchi meritano una citazione: costruiti in massello di legno non pregiato, avevano una strana forma. Intanto erano fatti ognuno per una coppia di studenti su un basamento alto circa dieci centrimetri da terra; il sedile unico abbastanza stretto ed alto costringeva gli arti inferiori dei ragazzi a giacere stesi, quasi allungati, senza premere troppo sulle ginocchia; davanti c’era il piano inclinato tutto consunto che tradiva gli anni, per leggere e scrivere, completato in alto da una piccola fascia orizzontale con i fori per i calamai dell’inchiostro e lo spazio per le penne e le matite; sotto un altro ripiano orizzontale per mettere la cartella, entrambi sostenuti da due fianchi che erano sciancati per facilitare l’ingresso e talmente alti che bisognava stare eretti per appoggiare i gomiti sul leggio. Ora farebbero sorridere per la loro forma, ma la postura di chi li usava era tale che i ragazzi crescevano ben eretti, sani e con buoni muscoli: la scoliosi era conosciuta solo per carenze alimentari, come la pellagra diffusa in quelle campagne dove si mangiava tanta polenta di granoturco. I maschi portavano un grembiule nero mentre le femmine uno bianco con i capelli ornati da un fiocco colorato. La cartella rigida fatta di un cartone sottile e robusto conteneva al massimo un libro, due quaderni ed il classico astuccio di legno per la penna, la matita, la gomma e qualche pennino di scorta, chiuso con un listello scorrevole. Era sostenuta da una tracolla in laccio di corda o da una cinghietta in pelle, che consentiva di tenerla di fianco o dietro al centro della schiena; con le mani libere si poteva anche giocare lungo la strada. Tutti rigorosamente eguali, senza distinzioni di censo (in pieno regime fascista, specie nei paesini, ciò era tollerato fortunatamente dalla fasulla demagogia mussoliniana, che contemporaneamente promulgava senza scrupoli le leggi razziali con le sue tragiche conseguenze), proprio come non avviene ai giorni nostri dove la disuguaglianza inizia nelle scuole d’infanzia, lo zaino ricolmo di libri pesantisimi spesso intonsi, pregiudica sistematicamente la spina dorsale dei ragazzi ed il ripiano assai basso dei banchi rispetto al sedile, costringe gli studenti a stare piegati e col capo chino per ore. Quasi tutti i maestri, specialmente gli uomini, erano assai autoritari e spesso maneschi. A volte volavano scapaccioni sonori e qualche calcio nel sedere, riuscendo così a mantenere ordine e rigore. E se i ragazzi andavano a casa a lamentarsi, prendevano il resto dai genitori che non volevano proprio entrare nel merito: “l’ha fato ben a darte na sberla el maestro e se lo trovo par strada ghe digo de dartene dó la prossima òlta”. Un maestro di questi particolarmente intransigente, si chiamava Bissoli, aveva nella sua classe dalla 1^ fino alla 5^, suo figlio, un nostro compagno di giochi lungo il viale della stazione. Bene, all’inizio dell’anno scolastico, quando in aula c’era disordine, in silenzio si avvicinava a suo figlio e anche se non aveva fatto nulla gli mollava due sonore scoppole tra capo e collo che si sentivano fino in cortile. Dopo i primi giorni non volava più una mosca sino alla fine dell’anno. Senza agitarsi, né sgolarsi né punire a più non posso, risolveva all’istante il problema disciplina. E la nostra mente va a quegli anni, di giovinezza spensierata, col ricordo di molti dei nostri compagni coi quali abbiamo frequentato la scuola, abbiamo giocato sereni e feilici e da piccoli bimbi siamo cresciuti in aggregazione ritrovandoci quasi ragazzini alla fine della 5^ classe. Che nostalgia! La materna invece vedeva tutti i bimbi con grambiulino bianco, seduti su panche di legno intorno ad un lungo tavolone per le attività e la mensa, quando non uscivano all’aperto, giù nei giardini della fossa del castello, prediletti dalle suore. Queste gestivano tutte le attività scolastiche dalla didattica, allo svago, alla mensa e così via forse anche in modo un po’ dilettantesco, pur con diligenza e tanta buona volontà (quelle doppie o triplici sottanone fino ai piedi non consentivano di valutare l’aria fredda che invece sferzava le gambine nude dei ragazzi, facendoli tornare a casa spesso raffreddati). Anche quelle suore, non tutte per fortuna, erano abbastanza severe ed intransigenti, riuscendo così a forgiare il carattere dei più riottosi. Le scuole medie in un primo periodo dopo la guerra, erano solo a Legnago, una piccola cittadina a quindici chilometri di distanza e si potevano raggiungere in treno con la perdita di molte ore a causa degli orari delle ferrovie che quasi sempre ignoravano quelli delle scuole. Per non arrivare a casa nel pomeriggio dopo le sedici, si formavano lunghe file di ragazzi che da Cerea, un vicino paese a cinque chilometri di distanza, tornavano a piedi camminando lungo il ciglio della strada statale Mantova-Monselice, fortunatamente allora con poco traffico pesante. Poi venne costruito un grande edificio scolastico per le elementari nella parte nuova centrale del paese e non troppo lontano la nuova scuola materna. Le vecchie aule del castello poterono così essere utilizzate per le nuove scuole medie che in tal modo posero fine alle trasferte in treno di tanti ragazzi. Non si sentono ancora le incursioni aeree ed il rombo del cannone, ma imperversa purtroppo lo spettro della povertà e della fame; pochi fortunati, o perché ricchi o perché legati alla campagna, possono mangiare pane bianco e carne; tuttavia in un paese di campagna come

sigillati delle tradotte militari pieni di generi alimentari che sono destinati al fronte e che a volte, per ragione di incrocio con altri treni, rimangono fermi tutta la notte in stazione, con una minima scorta militare: non solo per 43

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riempendone alcuni bottiglioni e tenendoli scrupolosamente nascosti al Babbo. La fame, la voglia di mangiare un po’ meglio, ma soprattuto il clima di pericolo costante e la dura vita di quei giorni non consentono una valutazione obiettiva, facendoci correre, grandi e


piccini con la massima disinvoltura, dei rischi incredibili non proprio indispensabili. Unica importante derrata, trasportata in carri solo coperti con teli per la pioggia, che il Babbo può ottenere senza rischi dai militari che accompagnano i convogli, magari con qualche scambio, è il sale , preziosissimo poiché non si trova più ed è indispensabile, oltre che per la cucina, anche per la preparazione e conservazione degli insaccati ricavati dal maiale ed altri animali da cortile (dalle oche si ricavavano favolosi piccoli prosciutti detti “ochette”). Quel prezioso prodotto ci consente di scambiarlo con qualche pezzo di carne e farina bianca, che la Mamma trasforma subito in pane squisito o “crescentine”. Nelle grandi città iniziano i bombardamenti, così da Bologna vengono a stare con noi a Sanguinetto i nonni Umberto ed Adriana, stabilendosi nella nostra casa che naturalmente diventa un po’ affollata, come quasi tutte in quel periodo, ma col vantaggio per i nipoti di avere i nonni a disposizione. Come sfollati invece, occupando l’altro appartamento della stazione, che il Babbo è riuscito ad ottenere dalle Ferrovie, arrivano da Milano la zia Lina, sorella del Babbo, coi tre figli Sergio, Giorgio e Claudio (la quarta ed ultima Anna che è da parenti in Toscana, verrà alla fine dell’anno, mentre lo zio Eugenio rimarrà in città), e da Bologna arrivano le due zie Maria e Luciana. Così agli inizi del 1943 la stazione è animata da un gruppo variegato di adulti e ragazzi quasi tutti maschi, in stretto rapporto di parentela, che creano tanta confusione, ma anche tanta allegria, indispensabile alla sopravvivenza in quei giorni in cui imperversa la guerra, per poco ancora lontana dal nostro paese . La presenza della zia Luciana fa da catalizzatore tra i più giovani, Gil che frequenta la seconda elementare e Gian la scuola materna, ed i più grandi cugini milanesi che si inseriscono quasi subito nel contesto giovanile studentesco del paese, con disinvoltura ed entusiasmo. Hanno tutti un buon carattere franco e gioviale che li vede anche tra gli studenti più brillanti. Sergio fa la Maturità classica a Legnago con dieci in greco e dieci in latino. Fanno parte di una compagnia teatrale che rimarrà per lungo tempo tra gli aneddoti di quel periodo; ancora oggi alcuni loro coetanei in paese li ricordano con nostalgia, ma anche con grande commozione perché, come vedremo, due mesi prima della fine della guerra rimane ucciso da un bengala, a soli diciannove anni, Giorgio, estroverso, simpatico, allegro, compagnone, buonissimo e generoso. La tragedia sconvolgente colpirà in modo straziante non solo la famiglia, che ne rimarrà traumatizzata per sempre, ma l’intera comunità.

Dopo la Maturità Sergio si arruola nella guardia nazionale e parte per Milano dove rimarrà fino allo scioglimento dei corpi militari; con l’avvicinarsi del fronte che spinge i tedeschi in ritirata verso la Germania, i Serrantoni tornano a Milano dove i bombardamenti sono diminuiti. Lo Zio Eugenio, per evitargli il fronte, riesce a far arruolare Giorgio come volontario, con destinazione ai servizi d’ordine e di pattuglia, in una caserma di Isola Della Scala, un grosso paese a circa quindici chilometri da Sanguinetto. In questo periodo Giorgio viene spesso a trovarci in divisa da repubblichino, rallegrando tutti con la sua eccezionale simpatia. È solito farsi due baffetti neri pitturati sotto il naso e fare l’imitazione di Hitler con tutta una filippica recitata (es. “kagghen si pollen, si non pollen se purghen”) con l’accento “tetezco di gemmania” di autentica grandissima comicità, tra l’ilarità generale specie dei grandi che possono apprezzare dall’ironia del suo atteggiamento i suoi veri sentimenti antifascisti. Si giunge verso la fine del 1944. Le incursioni aeree sono all’ordine del giorno: tre brevi e ripetuti suoni di sirena le precedono ed uno prolungato le conclude. Ovviamente gli attacchi aerei mirano quasi tutti alla ferrovia, lungo la quale transitano lunghe tradotte militari e dove un binario di raccordo con un importante deposito di munizioni dell’Aeronautica, ad alcuni chilometri di distanza, l’hanno trasformata in un obiettivo strategico. Lì sfortunatamente c’è la nostra abitazione, al piano superiore della stazione. I bombardieri “alleati” arrivano nel pomeriggio, forse per essere contro-sole rispetto alla contraerea tedesca, e Gil e Gian, nel piazzale della stazione a giocare, sentono di lontano il rombo cupo della formazione aerea. Gridano a squarciagola “Aerei, aerei” e corrono nei campi, in un fosso asciutto coperto di cespugli, assieme ai più svelti tra i vicini. I bambini sono già a distanza di sicurezza quindi, quando tre fischi della sirena dello zuccherificio danno l’allarme a tutto il paese. Chi si attarda, arriva a rifugiarsi nel sottoscala della casa colonica dei Pèttene a circa 300 metri dalla stazione. Gli ultimi possono arrivare al massimo ad un piccolo rifugio sotterraneo ad un centinaio di metri di distanza, nel campo dietro la casa dei Mantovanelli, costituito da anelli in cemento di solito usati per le fognature e condutture, del diametro di circa un metro e mezzo, affiancati per formare un tunnel lungo sette o otto metri e interrato a due di profondità. Alle estremità ci sono due brevi rampe per l’entrata e l’uscita, disposte ad angolo retto rispetto al corpo del rifugio ed orientate in senso opposto, formando così una esse adatta a ridurre lo spostamento d’aria provocato dalle La Guerra

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deflagrazioni. Serve ad evitare, se non le bombe, almeno le schegge ed i proiettili degli aerei. Infatti le incursioni non si si limitano a sganciare le bombe lì intorno, ma sempre più spesso i caccia completano le operazioni scendendo a bassa quota per mitragliare a tappeto con armi di grosso calibro. Passata l’incursione un lungo suono della sirena da il cessato allarme, e si rientra. È in una occasione come questa che si verifica un episodio sorprendente: all’improvviso uno stato d’animo di grande tensione ed ansia si trasforma in uno di spontanea vivace ilarità, apparentemente spregiudicata, ma certamente dovuta all’emotività del momento. Con gli aerei che iniziano le picchiate, siamo appena entrati in gran fretta nel rifugio assieme alla Mamma, alla Nonna ed altri sconosciuti, tutti assai trepidanti e tesi aspettando i primi botti, quando la testa ed il collo di un cavallo, compaiono all’improvviso occupando quasi completamente l’angusto ingresso: gli occhi sbarrati, le narici aperte e fumanti e dietro il contadino che inutilmente, contorcendogli la coda, cerca di spingerlo come un forsennato tra urla ed improperi, lungo la rampetta in discesa per sottrarlo alle bombe in arrivo. Scompare improvvisamente la paura e una rumorosa fragrante risata sgorga generale, cosa che fa sparire d’incanto il cavallo, forse impaurito più dallo scroscio improvviso delle risa che dalle bombe, come in un film comico. L’ilarità, però, dura pochissimo poiché è interrotta quasi subito da due devastanti deflagrazioni che fanno sbatacchiare le teste dei presenti contro i tombini in cemento del rifugio. Evidentemente le bombe molto potenti sono cadute assai vicino. Silenzio assoluto, bocca aperta e dita agli orecchi, come ci avevano insegnato per evitare i danni dello spostamento d’aria e delle onde sonore provocati dagli scoppi: non vola più una mosca. L’espressione dei volti diviene terrea, si avverte chiaramente il battito accelerato del cuore dei presenti. Trascorrono in quel modo alcuni minuti, quasi un’eternità, e finalmente suona il cessato allarme. A quel punto, come è ormai consuetudine ed esattamente come fa la marmotta guardiano quando mette fuori la testa a mo’ di periscopio rigirandola di 360° per controllare l’esterno della tana, il primo vicino all’uscita allunga il collo, guarda con circospezione la situazione lì fuori, si volta indietro e con un ampio gesto della mano per rassicurarci, dice, non conoscendoci: “Calmi, tranquilli e nessuna paura, le bombe sono scoppiate a distanza ed hanno solo centrato la stazione”. Col cuore in gola usciamo in fretta scorgendo una lunga colonna di fumo proprio in quella direzione. La Mamma impallidisce ed a momenti sviene, pensando


che il suo babbo, il nostro Nonno Umberto, non voleva mai lasciare la sua camera, quasi ad esorcizzare le incursioni aeree, una sorta di sfida recondita verso i nemici nazisti, rimanendo tranquillamente a letto (la saggezza e l’odio per i tedeschi gli suggerivano: ”Quei piloti americani sono bravissimi a colpire i binari per interrompere la linea ferroviaria, ma senza toccare la stazione a pochi metri, che è abitata”). Corriamo terrorizzati tutti a casa dove per fortuna lo troviamo, come in placida trance, che riposa tranquillo tutto coperto di polvere e piccoli calcinacci d’intonaco del soffitto che gli sono caduti addosso. Le già folte sopracciglie grigie si sono ingrossate apparendo completamente bianche; naturalmente un po’ stordito ed annebbiato anche da qualche sorso in più di vino, che non disdegnava, ma sano e salvo. Scompare la paura e la Nonna attacca la solita tiritera, approfittando dell’occasione per redarguirlo aspramente. Lui come al solito, abilissimo nel cogliere il momento favorevole del rilassamento della tensione, ignorando la concione, si rigira dall’altra parte riprendendo all’istante a dormire, come se nulla fosse accaduto. I binari centrati dalle esplosioni si sono sollevati in verticale per parecchi metri, a dimostrazione della potenza esplosiva delle bombe, mentre la ben solida struttura della stazione, vicinissima, ha solo subito uno scossone ed un forte spostamento d’aria, per fortuna per il Nonno. Un giorno un mitragliamento aereo colpisce sei vagoni in sosta nello scalo merci pieni di munizioni. Il piccolo convoglio va a fuoco e, per tre giorni e tre notti, dal centro del paese si assiste ad una serie pressoché continua di esplosioni con tracce di proiettili lanciati verso il cielo come fuochi artificiali. Poi tutto tace ed agli ardimentosi che si recano a vedere, si presentano i piazzali completamente ricoperti di bossoli d’ottone e schegge, materiale in parte raccolto da piccoli incoscienti per farne oggetto di gioco o di commercio. Per fortuna questo episodio avviene quando noi non abitiamo più nella stazione. Infatti dopo l’armistizio la situazione si è fatta sempre più pericolosa; la stazione è presidiata da un piccolo nucleo di militari tedeschi, con un comandante piccolo e cattivo con tutti (“il tedeschino”); le incursioni aeree sono pressoché giornaliere per cui il Babbo ci trasferisce tutti nel castello al centro del paese, ottenendo dal Comune di occupare come sfollati una grande aula scolastica (molte sono vuote poiché la scuola funziona in modo precario) e portando con noi il maialino che stiamo allevando e che ovviamente non può rimanere senza assistenza ed in pericolo alla stazione, anche perché costituisce, in prospettiva, l’unica

risorsa di sostentamento alimentare. La zia Luciana, che ovviamente è venuta con noi, tanto fa che riesce a sistemarlo in un pertugio ricavato in fondo al lungo e stretto terrazzino prospiciente la grande stanza che costituisce l’unica nostra abitazione, sullo strapiombo della murata medievale del castello, circondato dal fossato. È riuscita nel suo intento di aver vicino il maialino e continuare ad averne cura amorevole. Come fa sempre con tutti gli animali, si affeziona in maniera viscerale anche a quel porcellino fino quasi ad amarlo. Quando si avvicina al suo recinto, dopo qualche manifestazione di gioia espressa con ripetuti scodinzolamenti di quella specie di cavatappi che ha al posto della coda, il porcellino si rovescia con le gambe all’aria per farsi grattare sulla pancia emettendo dei piccoli grugniti di soddisfazione ed ignorando per qualche attimo il cibo. Quando per il maialino diventato adulto verrà il momento di essere trasformato in indispensabili derrate alimentari, la zia Luciana intonerà la solita tragica litania di disperazione, poi, non essendoci alternative, si allontanerà da casa per alcuni giorni, andando a dormire da amici in campagna e tornerà ad operazioni avvenute. Naturalmente non entrerà nella stanza dei salami appesi ad asciugare per nessuna ragione e si rifiuterà di mangiare carne di maiale anche quando non c’è altro. Bisogna proprio dire che non manca di coerenza. A questo punto non possiamo esimerci dal menzionare due aneddoti rimasti indelebili tra i ricordi del periodo da sfollati, legati a quel lungo terrazzino, ed a quella ringhiera non troppo alta che lo cingeva, sul baratro della fossa, a circa 20 metri d’altezza, cui c’eravamo avvicinati con paura e circospezione. Poi diventerà il nostro punto d’osservazione degli alberi e folti cespugli e dei vari animali ed uccelli che la frequentavano. IL PORCELLINO Il maialino dopo alcuni mesi è diventato alquanto grosso, al punto che improvvisamente non passa più dalla porta, tra la disperazione della Zia ed il panico del Babbo che non sa più che pesci pigliare, una delle poche volte che lo vediamo agitato, con la bestia che cresce ogni giorno a vista d’occhio. Per fortuna ci vengono in aiuto alcuni contadini e muratori (abituati a risolvere sempre qualsiasi problema) amici del Babbo, che ci suggeriscono di calarlo con delle lunghe grosse funi fino sul fondo. È necessario legarlo opportunamente affinché sia immobilizzato per evitargli possibili ferite, fargli scavalcare la ringhiera alta più d’un metro (pesa ormai circa 100 kg) e poi farlo scendere lentamente tra i grugniti emessi dall’animale e lo sforzo sovrumano di tutti. ....segue

Numerosi i presenti in piazza, davanti al muro della fossa, attirati dai versi dell’animale e dalle grida degli operai, che forse avevano un po’ sottovalutato l’operazione. Non credono ai loro occhi nel vedere una grosso maiale, legato come un salame con terribili grugniti, scendere dall’alto lungo l’alta murata del castello fino in fondo. Quando tocca terra e viene slegato, l’applauso è generale.

IL PASSAGGIO DEI RATTI Si tratta della scoperta fatta casualmente, guardando dai vetri della finestra, ad una certa ora della notte, che in seguito accertiamo essere puntualmente sempre quella. Poco dopo l’imbrunire si poteva notare un certo qual movimento, non ben identificato, all’altezza del corrimano della ringhiera del terrazzino. Spente le luci nella stanza e nel silenzio e buio assoluti, vediamo chiaramente con grande stupore e non senza paura, il passaggio lungo la balaustra di grossi topi, uno in fila all’altro, provenienti dal muro laterale, diretti verso il lato opposto. Almeno dieci o venti animali (il passaggio dura diversi secondi), con quelle code lunghe e quei musi coi baffi, ignari della nostra presenza, ma pur sempre furtivi, ci passano davanti e dopo un’ora circa tornano indietro, sempre tutti in fila, da dove sono venuti. Molte erano le dicerie sui danni e pericoli derivanti da quegli enormi roditori, forse delle leggende legate alla storia del castello medievale, che incutevano terrore. Accertiamo che i vetusti muri laterali in mattoni pieni, a strapiombo dell’alta facciata del maniero, presentano dei fori vicino al punto dove va ad infiggersi la ringhiera. È chiaro che il nido deve essere assai vicino e che il passaggio, ormai abituale, costituisce il percorso per andare a procurarsi il cibo, magari anche dai resti avanzati dal maialino. Non sappiamo come ed a chi è venuta l’idea per disinfestare quelle bestie, probabilmente da qualche contadino abituato a convivere con quei problemi, a cui si è rivolta la Zia Luciana preoccupata del suo porcello. Fatto sta che vengono poste lungo la ringhiera, più o meno nella parte centrale, delle sottili assi di legno larghe circa dieci centimetri per una lughezza totale di circa sette metri, legate in modo da rimanere solidali al corrimano fin tanto che non viene sganciato un fermo a mezzo di una cordicella dall’interno della stanza, facendole ruotare su e stesse all’improvviso. I topi colti di sorpresa, non possono evitare di precipitare tutti assieme in un sol colpo, giù nella fossa, con un volo molto alto e morire all’istante. L’operazione dura molti giorni, segno evidente che i topi non passavano tutti ogni notte, ma a gruppi e forse anche più volte e che non si erano assolutamente accorti del trabocchetto, senza poter quindi attuare alcuna strategia di autodifesa o di riflesso condizionato, di cui sono superdotati tutti gli animali. Quando un giorno, dopo che saranno disinfestati completamente, andando giù nella fossa a controllare da vicino la situazione, con stupore ci renderemo conto che erano veramente tanti.


Il Babbo fa servizio in stazione praticamente senza soluzione di continuità: ormai la ferrovia è adibita quasi esclusivamente a scopi militari. È in questo periodo che purtroppo giunge da Isola della Scala la notizia terribile della morte di Giorgio, a diciannove anni. È il 18 febbraio del 1945, praticamente a guerra quasi finita. In genere il suo servizio consisteva in un innocuo giro di ronda militare, ma la sua generosità lo portava spesso ad interventi pericolosissimi, come quelli di disarmare i famosi bengala, dei piccoli ordigni muniti di paracadute che scendevano lentamente assieme ad una sorgente luminosa molto intensa, lanciati dagli aerei in incursione notturna, col duplice scopo di illuminare e trasformarsi in micidiali mine antiuomo. Quando giungevano a terra il corpo si configgeva nel terreno lasciando fuori solo quattro attraenti ali colorate. Bastava sfiorarle per far esplodere la carica mortale. Il disinnesco sarebbe compito esclusivo di artificieri specializzati, ma Giorgio è coraggioso e generoso, specialmente per l’incolumità dei cittadini, ed ha imparato ad estrarli. Sta facendo il suo rituale servizio quando lo chiamano perché nel cortile di una casa con bambini c’è un bengala caduto la notte, e non sa dire di no. Ne aveva disarmati tanti, contro gli ordini del suo superiore. Quella volta però la bomba gli scoppia tra le mani devastando all’istante inesorabilmente tutte le sue membra. Il funerale si fa a Sanguinetto. Un lungo tristissimo corteo di parenti ed amici disperati, rotto per alcune volte dalle incursioni aeree, lo accompagna per l’ultimo viaggio. Viene sepolto inizialmente nel cimitero del nostro paese nella tomba di amici, che la vedrà teatro di continue strazianti scene di dolore degli Zii provenienti da Milano in treno. Poi verrà costruita la tomba dei Serrantoni, dove tuttora riposano le sue spoglie assieme a quelle degli Zii ed altri parenti. La mamma di Giorgio, la zia Lina, rimarrà per sempre vestita di nero fino alla fine dei suoi giorni; per più di vent’anni non uscirà più di casa, se non per andare nel piccolo cimitero di Sanguinetto, né ascolterà più la radio o la televisione. Un eterno drammatico estenuante lutto. Noi frequentiamo la scuola che in qualche modo tira avanti con mille difficoltà, quasi rallegrati dalla novità di vivere tutti assieme in quella grande stanza adiacente alle aule scolastiche, come in uno strano sogno. Poi c’è il fatto di stare all’improvviso al centro del paese, dove la vita quotidiana è completamente diversa, quasi di città rispetto alla periferica stazione tra alberi e campi dove eravamo abituati a vivere. Anche gli innumerevoli giochi nella piazza sono relativi a quel periodo (vedi capitolo

Giochi in fondo al libro). Ci avviciniamo alla fine del conflitto; le truppe tedesche in ritirata cominciano a passare lungo il paese in lente carovane dirette verso il nord, sospinte dalle forze di liberazione che si avvicinano sempre più. Quasi tutti i soldati sono appiedati. Si verificano tanti spiacevoli incidenti dovuti a quei disperati che cercano cibo e qualsiasi mezzo per alleviare la fatica. Il Babbo rischia di brutto con un tedesco in fuga che lo ferma all’inizio del viale della stazione, mitra in pugno e lo accusa della sparizione del suo zaino. Approfittando di un momento di distrazione del soldato, si infila in una casa dove stanno vegliando il maniscalco Menotti, morto il giorno prima ad opera del cannone che spara dal Po. Il Babbo si toglie il cappello da ferroviere e si inginocchia tra i parenti, vicino alla salma. Il tedesco si affaccia sulla porta, guarda per un po’.... e poi se ne va. Il Nonno di Gabriella, ha un negozio di biciclette e con grande coraggio affronta un soldato armato che vuole entrare, buttandolo fuori dal negozio. Provengono tutti da Ostiglia, sulla statale Bologna-Verona, a circa venti chilometri da Sanguinetto, una città in riva al fiume Po che divide la regione Veneto dalla Lombardia, nelle cui vicinanze è stato realizzato una specie di guado che le truppe in fuga cercano di usare per passare da questa parte. Il grande ponte sul Po è stato bombardato ed è inagibile. È una ecatombe di soldati tedeschi sbaragliati, disperati, appesantiti dalle uniformi e dalla stanchezza, che muoiono annegati ed i cui corpi galleggiano per giorni fino ad ammassarsi a centinaia su una delle isolette del fiume. Gli alleati sempre ad Ostiglia hanno anche costituito una specie di testa d’urto con l’installazione di un grande cannone a lunga gittata. Serve per bombardare tutto quanto è sotto il raggio di tiro per fare terra bruciata intorno alla ritirata dei tedeschi e quindi strade, ponti, ferrovie, caserme. E Sanguinetto è proprio sotto questa traiettoria. Il cannone continua la sua opera per giorni. Molti abitanti del centro del paese devono, per sicurezza, lasciare le case ed adattarsi a convivere stipati in lunghe file di brande o giacigli improvvisati nel sotterraneo del Castello, in un salone col soffitto a volta Nelle pagine seguenti: Carrellata di folli Slogan dell’epoca fascista, alcuni dei quali tragicamente tornati in auge nell’attuale quasi ventennale dittatura Berlusconiana, Foto varie dei due schieramenti in lotta, Foto varie delle devastazioni prodotte dalla Seconda Guerra Mondiale. La Guerra

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e il pavimento di terra (dove poi sorgerà, anche per iniziativa di Gian, la sede della corale del paese), freddo e umido, ma protetto dalle enormi mura del maniero, dove si sentono passare in alto i proiettili con un lungo sibilo e poi il boato lontano delle esplosioni. I bambini sono terrorizzati dalle cannonate, ma anche divertiti di quella novità, dell’originale strano accampamento che consente loro di rimanere assieme anche di notte. Dai volti dei grandi invece, ad ogni sibilo, traspare evidente la trepidazione per qualche cannonata, magari difettosa, nelle vicinanze delle loro case. L’ultimo fischio segna la fine attiva della guerra, ed è salutato con grande gioia da tutti i rifugiati per il pericolo scampato. Non per noi però perché l’ultima cannonata, proprio l’ultima, colpisce l’angolo superiore Ovest della stazione, per fortuna con l’unico danno personale della distruzione della biciclettina rossa di Gil, rimasta sfortunatamente nello stanzino attiguo allo scoppio. Purtroppo le riparazioni dell’edificio ritardano di qualche mese il ritorno nella nostra casa, che ormai anelavamo sopra ogni cosa: la novità della grande aula, dei giochi in piazza, del rifugio nelle segrete del castello, erano svaniti e sostituiti dalla voglia di tornare in casa nostra ed ai nostri giochi. Dopo alcuni giorni possiamo assistere di sera al grande incendio di Isola della Scala che illumina tutto l’orizzonte e chiude la ritirata delle truppe tedesche con l’arrivo di quelle di liberazione. Possiamo quindi partecipare al passaggio lungo tutto il paese dei carri armati e dei mezzi degli alleati: americani, canadesi, nord europei, russi, cosacchi a cavallo, coi soldati che distribuiscono cioccolata, caramelle e sigarette tra l’entusiasmo di tutti. Si sente finalmente nell’aria qualcosa di nuovo, il sentore di un profumo di ottimismo dimenticato, definitivamente a casa all’inizio dell’estate, nel periodo più bello dell’anno. Finalmente si comincia ad avere il pane bianco e qualche derrata in più: la famigerata tessera per avere il cibo sta per essere eliminata. Comincia la ricostruzione e con la speranza riprende la vita.


Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi, se mi uccidono vendicatemi

Quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende Il vomere e la lama sono entrambi di acciaio temprato come la fede dei nostri cuori

Dio, Patria. Ogni altro affetto, ogni altro dovere viene dopo

Se il destino è contro di noi... Peggio per lui!

Dio, Patria. Ogni altro affetto, ogni altro dovere viene dopo Nessun fenomeno al mondo può impedire al sole di risorgere La disciplina deve cominciare dall’alto se si vuole che sia rispettata in basso

Lavoratore, ricorda che anche tu sei soldato, che il tuo lavoro è la tua trincea

Non basta essere bravi bisogna essere i migliori

Chi osa vince!

Anche se tutti, noi no!

beffo la morte e GhigNo

Memento audere semper

Siam fatti così! Credere, obbedire, combattere

Vincere e vinceremo

ARDISCO AD OGNI IMPRESA

Le radici profonde non gelano mai








IL DOPOGUERRA La famiglia abita al piano superiore della stazione, nell’appartamento lato ferrovia costituito da quattro stanze in fila: la cucina, il soggiorno, una prima camera da letto matrimoniale ed una seconda con i due letti di Gil e Gian. Quest’ultima è per molti anni il teatro quotidiano di giochi e scontri fisici di tutti i tipi, litigi, zuffe, grida e quant’altro. Purtroppo la Mamma, nelle giornate torride estive, non li fa scendere a giocare obbligandoli per un’oretta a stare in camera; ed è una sofferenza atroce, almeno per Gil. Finisce sempre in uno scontro fisico rumorosissimo. Di sotto il Babbo con una pazienza da santo, esce fuori dall’ufficio e grida: “Bambini, basta!”, una due tre volte. E loro zitti per tre minuti e poi via di nuovo e sempre peggio. La cosa va avanti per settimane, finché al Babbo la pazienza si esaurisce d’incanto: esce di corsa dall’ufficio imbestialito, passa a grande velocità dal “MagazzinoPiccola-Velocità” (!), brandisce la prima canna da pesca che gli capita a tiro e salendo le scale la spezza in parti formando una specie di frusta; arriva furioso in camera da letto mentre gli ignari stanno combinando un finimondo. E lì comincia il massacro, perché, cieco di furore, inizia a darle di santa ragione. A questo punto, come da copione, arriva la Mamma, che un attimo prima se l’è visto passare davanti come un razzo tutto infuriato, anche se con la lingua fuori per le scale fatte a quattro gradini per volta, senza riuscire a fermarlo; cerca invano di mettersi in mezzo per limitare i danni e qui accade la solita tragicommedia: Gian approfitta del momento per nascondersi prima sotto il letto, sospendendosi ai tiranti della rete, al fine di evitare le frustate che il Babbo semina alla cieca e poi per scappare fuori dalla stanza, giù per le scale e via nel campo di granoturco al di là dei binari. Il Babbo, vedendoselo sgusciare come un lampo da sotto il naso si sfoga su Gil, che rimane lì impietrito, a prendersi la giusta punizione, un po’ attenuata dalla presenza della Mamma: “Ma Paolino, cerca di calmarti, vuoi fargli del male?” Verso sera Gian ancora non è rientrato e avanzano le prime ombre. Allora la Mamma ed il Babbo, che ormai si è normalizzato, preoccupati, cominciano a chiamarlo a gran voce, rassicurandolo che è tutto finito. Ma lui zitto e fermo, finché Gil non va a prenderlo. Come al solito è nel bel mezzo del campo a sgranocchiarsi beatamente una pannocchia di granoturco, come se niente fosse successo (se l’è sempre cavata a buon mercato, quel demonio, birbante e furbacchione).

LA STAZIONE ed il teatro dei giochi La linea ferroviaria Mantova-Cerea è stata attivata nel 1886 (già c’era la Cerea-Legnago), quindi la Stazione di Sanguinetto è probabilmente di quel periodo: rimane strutturalmente la stessa, fatta eccezione per un bel re-styling esterno degli anni ‘50. L’edificio è un bel parallelepipedo con muri spessi, grandi finestre con davanzali e contorni ad arco in marmo lavorato, persiane scorrevoli a rientrare in spazi che sono dimora abituale di stormi di pipistrelli, e le facciate costituite da specchiature d’intonaco colorato spruzzato di eccelsa qualità di esecuzione: a tutt’oggi incredibilmente integro. Sotterranea l’ampia cantina, scura e misteriosa, inagibile perché allagata per buona parte dell’anno. Risalendo una rampa di scale, un pianerottolo dove viene installata la pompa manuale per il carico del serbatoio dell’acqua posto nel sottotetto: è una pompa aspirante-premente con una leva di circa cinquanta centimetri che trae l’acqua dalla falda sottostante a circa quindici metri e la spinge fino in alto. Qui Gil e Gian pompano quasi tutti i pomeriggi della loro gioventù (Gil soprattutto poiché Gian, più piccolo e certamente più furbetto si stanca quasi subito). Prima di tale impianto l’acqua veniva presa e trasportata a secchi da una pompa esterna, della vicina abitazione degli Spoladori. Al piano terreno: ad ovest ingresso per il vano scale (appena dentro, a destra, locale-pollaio); a nord cinque ingressi rispettivamente di Magazzino Piccola Velocità (il significato è tuttora inesplicabile!), Movimento Colli, Biglietteria e Telefono, Ufficio Assuntore, Sala d’Apetto; a sud ingresso per i viaggiatori in un ampio atrio con pavimento in pietra dura (teatro di incredibili scorribande con una panca sopra un carrello con ruote ricavate da cuscinetti e un frastuono incredibile, pazientemente sopportato dal Babbo), con Bancone Ritiro Colli, Biglietteria, accesso alla Sala d’Aspetto, porta della LAMPISTERÌA, piccolo e misterioso antro vietato ai minori, con materiale vario di manutenzione tra cui olii e solventi esalanti un odore acre ed intenso dagli effetti allucinogeni: dalla sua finestra, nelle serate estive, si assiste all’uscita di centinaia di pipistrelli. Si salgono tre rampe di scale e sul pianerottolo ci sono tre porte: a sinistra l’appartamento dell’Assuntore, di fronte un corridoio che porta ad un altro appartamento, a destra il bagno dell’Assuntore (d’inverno, stessa temperatura che all’esterno !). Una rampa di scale porta ad un primo pianerottolo, con finestra verso ovest, che viene battezzato “granaìno”, postazione per alcuni giochi (il telefono con bussolotti e filo, fino in fondo all’orto a circa 50 metri, la spia, in dialetto detta stria, con pezzetto di specchio ed il sole della sera, lancio di aeroplanini di carta, punto di guardia per controllare tutta la zona prospiciente). Una successiva rampa conduce al secondo pianerotto e da lì nel sottotetto, che viene chiamato “granaio”: due grandi vani infestati da qualche milione di topi, il primo dedicato al serbatoio dell’acqua e, una volta l’anno, al grande presepio tecnologico allestito da Gil; il secondo dotato del banco da falegname che Gil si è fatto regalare per una Santa Lucia; sotto un piccolo abbaino (dal quale possiamo ammirare nelle giornate limpide, le cime dei monti Baldo e Carega) un tavolo e sedie per giochi vari, tra cui qualche pockerino quando l’età e le finanze dei fanciulli lo consentiranno (Gian vince quasi sempre e ciò in contrasto con la sua atavica tirchieria che in un gioco d’azzardo come il pocker non avrebbe dovuto favorirlo). Ospite abituale oltre ad un enorme barbagianni, a cui diamo da mangiare pezzetti di carne varia (probabilmente si nutre di piccoli topi) anche un grosso gatto selvatico temuto da tutti: comincia a soffiare appena saliamo la seconda rampa: è un problema accedere quando lui è sull’ultimo pianerottolo. All’esterno, a nord, due binari per il transito più altri tre per la manovra dei treni; poi una scarpata verde ed umida, un fossato con acqua perenne pieno di rane e qualche pesce, con milioni di lucciole d’estate, ed in basso i campi con lunghi filari di gelsi. Ad est un giardinetto con fontana a forma di ellisse in cemento costruita dal Babbo, un grande sedile di pietra massiccia (il “muretto” della Banda della Stazione), un filare di profumatissimo sicomoro, un grosso tronco di platano alto circa quattro metri che ospita, in cima, occasionalmente, un membro della Banda per l’osservazione o la meditazione. A Sud il piazzale comunale con alcune case e il lungo viale di tigli (Via Roma). Ad Ovest i piazzali dello Scalo Merci con tre binari morti, terrapieno per il carico-scarico, grande Magazzino che ospita la famosa legna di rovere, orto per pomodori e casa sotterranea, con pergola di uva bacò e mitico albero tri-frutti di albicocche, prugne, susine, nonchè capanna aerea; per finire i cessi FFSS, la cosa più mefitica che mente umana possa concepire, ma con stupendi graffiti porno !

Davanti alla stazione c’è un gran piazzale e poi un lungo viale di tigli altissimi (quel profumo quando vanno in fiore rimarrà nella memoria per tutta la vita, come pure quando, d’inverno, si ammantano di meravigliosi arabeschi di brina, tramutandosi in fantastici immobili giganti bianchi e luccicanti, proprio come nelle favole) che costituiscono il campo-giochi della piccola banda “della Stazione”. Le automobili sono pochissime e quinNelle immagini: Cartella clinica e diagnosi Ospedale Nogara Gian Il Dopoguerra

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di è naturale sfruttare quegli spazi che sembrano essere stati creati apposta. Il piazzale per il calcio e lo s-cianco, gli alberi dai grandi tronchi e le panchine di pietra massiccia per il nascondino, che sono i giochi di tutti, maschi e femmine, per molti anni. Sono pochissimi quelli che vanno in vacanza in quegli anni e quindi le giornate estive o i pomeriggi prima dei compiti, vengono completamente riempite da tanti passatempi spesso chiassosi che, contrariamente a quello che pensano quasi tutti i “grandi”, magari infastiditi dalle grida, sono importantissimi per una buona crescita in aggregazione e, perché no, in competizione.


Le panchine e quei vecchi e cari tronchi, naturalmente, diventeranno poi il luogo d’incontro dei primi amori, anche questi indimenticabili (nota di Gil: quel viale della stazione mi è rimasto dentro l’anima come nessuna altra cosa al mondo). Gian da più di un anno, tra lo stupore di tutti, ha imparato a leggere e scrivere da solo con l’aiuto di una grande, vecchia carta geografica appesa al muro dell’ufficio del Babbo. È stata infatti MARE MEDITERRANEO la prima parola scritta. Dopo i giochi estivi, a ottobre, inizia l’anno scolastico e lui può tranquillamente frequentare la seconda classe, recuperando così all’istante l’anno perduto per essere nato in dicembre. Potrebbe andare benissimo in terza considerando che in prima classe si perde tutto l’anno per fare le cosiddette “aste” (righe, cerchietti e segni vari, propedeutici alla “bella calligrafia”) con cui si riempiono decine e decine di pagine: la scrittura vera e propria comincia in seconda. Gil inizia la quarta, con i suoi compagni. Iniziano le prime scaramucce in casa, con le differenze di carattere sempre più marcate. Gil è servizievole e generoso, mentre Gian sempre scansafatiche, anche nelle piccole cose, agevolato dal fatto di essere più piccolo. In realtà Gian soffre segretamente il complesso del figlio non emancipato ed incapace. La sindrome del “passami il martello”, quando deve aiutare il fratello maggiore in posizione subalterna, e del “vai dalla Gina e dille: ha detto così la mamma di darmi ....” quando deve andare a fare la spesa, lasciano tracce profonde nel timido ed impacciato bambino, che a volte si difende eseguendo volutamente male le disposizioni e peggiorando ulteriormente la situazione (“Dai Gil, vacci tu che sei più bravo di tuo fratello!” è solita dire la Mamma), ed il suo complesso del “poer nano” (Vedi Caino e Abele di Dario Fo). Si litiga per tutto: sul tavolo nel fare i compiti, a voce alta o bassa nel leggere, a tavola per mangiare. Qui bisogna ricordare un diverbio che poi andrà avanti per alcuni anni. Quando si mettono a tavola, ogni tanto Gian vuole assolutamente sedersi al posto di Gil insistendo che è migliore e non è giusto che tocchi sempre a lui. Pianta delle tigne incredibili che alla fine, per quieto vivere e anche per poter mangiare in pace, lo vedono accontentato. Finalmente il Babbo, come al solito dopo molta pazienza e questa volta con diplomazia, interviene d’autorità e mette definitivamente Gian al posto scelto, che In questa pagina: Schizzo descrittivo del “teatro dei giochi”, ritrae la stazione, il piazzale e il viale della stazione come erano nel 1951. 55

Il Dopoguerra


poi non doveva più cambiare. Gian, dopo lunga riflessione, guardandosi intorno con circospezione, si mette di fronte alla finestra e Gil di conseguenza dall’altra parte. E per un po’ di tempo la cosa pare definitivamente chiusa, anche se trapela una certa inquietudine furbescamente celata. Un giorno però viene a mangiare da noi un amichetto, il che richiede ovviamente lo scambio dei posti. La sera scoppia di nuovo la rissa, perché non vuole più tornare al suo posto. Dopo qualche anno la disputa riprende energicamente, in occasione del manzo bollito col midollo, alla domenica. Purtroppo la sua dislocazione a tavola gli assegna il terzo “turno”, poiché prima viene il Babbo a destra della Mamma, poi Gil e poi ultimo Gian, posto che lui ha scelto (il destino saggiamente ha reso giustizia). Ma lui ritiene che non sia giusto essere l’ultimo; e poi la quantità di bollito e di midollo lo svantaggia! Tra giochi e scuola, soprattuto i primi, si giunge alla fine della 5^ classe e per Gil c’è l’incubo degli esami per accedere alle Medie. C’è il corso di preparazione con la maestra Fiorio, terrore anche per i più bravi, e poi l’esame di ammissione. Se va male si deve inesorabilmente ripetere la 5^ (Quelli erano tempi!!! Per forza ora ci sono tanti asini che escono dall’Università e non sanno ancora scrivere correttamente).

Gil riesce a cavarsela, anche se per un pelo, e viene iscritto alla 1^ Media della Scuola Cavalcaselle di Legnago, con, al di là della strada, i giardini pubblici circondati da un’ampia pista in terra battuta usata per il podismo e qualche volta anche per i cavalli al trotto. Gian va in quarta convalidando le sue eccezionali predisposizioni allo studio; legge e scrive con avidità, sorretto da una memoria incredibile e da una vocazione naturale, oltre ad essere ordinato e preciso. Si cominciano a delineare le attitudini dei due rampolli, Gil portato più alle attività materiali e Gian intellettuali, anche se quest’ultimo, durante le vacanze estive del 1949 dopo gli esami assai brillanti di 5^ classe, si cimenta nel lavoro. Va “al tabacco”, come allora si diceva, con tanti altri ragazzi in bicicletta a Concamarise, un paesino a qualche chilometro di distanza, regolarmente retribuito, riuscendo a sopravvivere incredibilmente all’impatto. Per Gil invece si consolida la propensione alle attività materiali, oltre naturalmente ai giochi, sempre predominanti. Iniziano anche ad andare alla spigolatura nei campi, dopo la mietitura del frumento e la raccolta meccanizzata dei piselli. L’inizio delle vacanze di quell’anno vede Gil coinvolto in un infortunio di gioco. Tra le attrezzature della stazione c’è un pontile lungo circa dieci metri, con due ruote al centro, una specie di grande bascula, che serve da piano inclinato mobile per far salire o scendere il bestiame dai carri o dalla banchina prospiciente il magazzino. Gil e Gian usano quella bascula come una specie di dondolo a terra, mettendosi ai lati ed andando su e giù spostando il peso avanti e indietro con un frastuono infernale. Un grande divertimento, ma il Babbo raccomanda continuamente di non usare quel carro, molto pesante quindi assai pericoloso: “Bambini basta che vi fate male!”, ma i discoletti non mollano. Un giorno Gian scende di scatto dalla sua parte facendo abbassare all’improvviso l’altra dove è seduto Gil con le gambe a penzoloni. Uno strappo incredibile al polpaccio destro gli procura una profonda ferita fino all’osso di circa sei centimetri per due di larghezza. Il Babbo, anche se ormai è quasi buio, mette Gil seduto sul manubrio della bicicletta da donna e lo porta a Casaleone a circa In questa pagina: Gian [1946], Gil e Gian con Priulin a Venezia [1956] Il Dopoguerra

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quattro chilometri di distanza, dove è ancora in ambulatorio il dr. Nascimbeni di Sanguinetto, un bravissimo medico che con tre bei punti non troppo tirati (perché il muscolo deve ricomporsi senza rimanere menomato) rimanda a casa l’infortunato con una bella fasciatura e la raccomandazione di avere grande attenzione ed igiene della ferita. L’estate è molto calda e tutti i ragazzini vanno regolarmente a fare il bagno in “Sanóa” (Fossa Donne o Sanùda) e così dopo molte insistenze il Babbo si arrende, anche perché la ferita è ormai quasi cicatrizzata, e dopo aver praticato una stretta fasciatura con una benda gommata, lo porta al fiumiciattolo cercando di tenergli la gamba fuori dall’acqua, pur limpidissima. L’imprudenza è fatale: la ferita, anche se leggermente, si bagna. In poche ore è completamente slabbrata e piena di pus. Situazione tragica, senza gli antibiotici. Ospiti di un conoscente meridionale del Babbo, un commerciante di olio d’oliva, si va, in treno, al mare (che Gil e Gian vedono, con grandissima e irripetibile meraviglia, per la prima volta, ed anche ultima per molti anni) a Molfetta, vicino a Bari, con grande sacrificio per tutti (in quel grande salone dove in parecchi ci si mette a tavola, scoprendo tra l’altro le squisite “bruschette”, in una parete c’è una nicchia, appena protetta da una tendina, con dentro una grossa anfora che costituisce l’unico cesso della casa, il famigerato “zibeppe”, che sarà per anni un ricordo terribilmente imbarazzante per tutti). In quindici giorni di bagni Gil torna perfettamente guarito, il mare fa il miracolo.


A ottobre del 1949 inizia l’anno scolastico che vede i due rampolli andare assieme alle medie di Legnago: per Gian c’è l’emozione della prima volta avanti e indietro in treno, l’inizio dell’emancipazione. Passa il solito inverno di freddo, neve, brina e nebbia a non finire. La primavera del ‘50 vede all’orizzonte l’incubo per Gil degli esami di 3^ media, che supererà appena appena, mentre Gian completa la 1^ come sempre brillantemente. E’ capitato con un professore di lettere, anche lui alle prime armi, assolutamente straordinario, Rodolfo Verga, il cui fratello alpinista è da poco precipitato da una parete delle Tre Cime di Lavaredo. Il professore ha appeso dietro la scrivania un grande poster delle Tre Cime, tutto meticolosamente quadrettato. Tanti sono i ragazzi della classe, altrettanti spilloni con bandierine vengono posizionati alla base della montagna: è la “scalata” della classe dove ogni studente guadagna posizioni in verticale secondo i voti conquistati. Gian compete direttamente con il più bravo, Giuseppe Gobbi. E’ lotta serrata tutto l’anno, ma alla fine il Gobbi conquista per primo la vetta ed il primo premio: uno scarponcino da appendere ai passanti dei pantaloni. La delusione di Gian è però subito annullata dal secondo premio, una stupenda ed invidiatissima medaglia con il viso in bassorilievo di Fausto Coppi, l’eroe sportivo di quasi tutti i ragazzi. Gil comincia ad appassionarsi alla pesca aiutato le prime volte dal Babbo tra un treno e l’altro, lungo due piccoli corsi d’acqua limpidissimi, la Sanùda a est ed il Tregnón ad ovest rispetto alla stazione. Tutta l’attrezzatura è quasi completamente auto-preparata: le canne da pesca vengono realizzate con canna d’india, rigogliosissima nell’angolo del giardino dei Pilati; se necessario vengono raddrizzate a caldo con la fiamma di una candela. Poi il filo di nylon e gli ami che cominciano a trovarsi con facilità; i pesi sono ricavati dal piombo avanzato dai sigilli dei vagoni resi piatti come sogliolette ponendoli sui binari prima del passaggio del treno e poi ritagliati in sottili fetuccine da arrotolare intorno al filo. I galleggianti in sughero e la classica penna di gallina sono a portata di mano. Sotto la lastra di pietra ai piedi della pompa dell’acqua degli Spoladori si possono trovare i lombrichi anche d’estate. Bicicletta con legata la canna e via lungo il sentiero che costeggia la ferrovia fino ai corsi d’acqua. Quasi sempre Gil torna mostrando con grande orgoglio un bel numero di pesciolini (scardole, vaironi, alborelle) infilati in una frasca di salice. 57

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Per Gian invece (estate ‘51) c’è un tremendo guaio per la salute, una peritonite che gli fa rischiare la vita e lo costringe per alcuni mesi a letto (vedi aneddoto). Unico vantaggio per lui è l’incremento dell’attività intellettuale, lettura, scrittura e pittura, oltre ai primi approcci con la musica, che lo vedranno cimentarsi con l’ocarina di terra cotta e l’armonica a bocca.

Nella pagina a fianco: Quadro ritraente la Casa dei Pètene

QUASI LA MORTE È sabato 9 giugno 1951, un caldo pomeriggio semi-festivo. In preda ad una crisi di solitudine, Gian si aggira per la campagna di fronte alla Stazione, oltre la ferrovia, all’ombra di un lungo filare di gelsi. In quel tempo i campi venivano delimitati da questi alberi che, potati adeguatamente solo verso l’alto, si prestavano alla raccolta delle foglie destinate all’alimentazione dei “cavaléri”, cioè i bachi da seta, il cui allevamento era spesso parte integrante dell’economia agricola. Le “more” sono mature al punto giusto e la scelta è ampia. Gian si arrampica su un albero di “rossanèlle”, le migliori di tutto il filare, e, un po’ per l’ottima qualità dei frutti, un po’ per compensare la malinconia, quella che doveva essere una semplice merenda si trasforma in una spaventosa abbuffata; praticamente alla fine rimane solo il cibo dei cavaléri ! La sera male di pancia. Il mattino seguente febbre a 40 e dolori fortissimi. Le cure del medico condotto (il Dr Luigi Zaffani non era affatto un cattivo medico, ma a quei tempi la decisione di ricorrere all’ospedale veniva presa, per prassi, solo quando il paziente stava per morire) sono assolutamente inefficaci, finchè il 13 giugno l’ambulanza porta il malcapitato all’Ospedale “Stellini” in località La Raffa di Nogara: il lungo e stretto viale di alti pioppi dell’”ultimo miglio” rimarrà scolpito nella mente del malato. Ricovero in Pediatria (dove si deve portare da altro reparto un letto di lunghezza adeguata), diagnosi di tifo, nove giorni in osservazione: quasi un caso di malasanità. Poi si pensa ad una “peritonite diffusa” e si decide di aprire e guardare dentro. Sergio, l’infermiere della sala operatoria, un gigante buono, porta in braccio il ragazzino al piano superiore, sul tavolo operatorio. È tutto tremendamente suggestivo: le luci del grande “lampadario” centrale, gli odori di disinfettante, l’abbigliamento del chirurgo (il Prof. Girotto, Primario di Chirurgia). L’anestesia, fatta gocciolando etere sulla mascherina (nonostante la Cartella Clinica parli di Protossido di Azoto!), porta rapidamente ad una sorta di estasi con il suono dei ferri trasformati in celestiale musica di vibrafono. Nell’intervento, vista la situazione altamente settica, non si può procedere al cosiddetto sciorinamento dell’intestino (tipo l’operazione che fa il gommista per cercare il buco in uno pneumatico), ci si limita ad una sorta di grossolana bonifica della cavità addominale ed i genitori di Gian, in attesa davanti alla Sala, assistono con sgomento al trasporto del materiale infetto. Poi nell’incisione viene inserita una sonda di drenaggio ed il paziente viene “allettato” in Chirurgia, in una delle grandi camere con 12 letti (il letto di fronte, con il numero 47, per la cabala “morto che parla”, ospita un vecchio male in arnese che di lì a poco se ne va al creatore), con la raccomandazione dell’immobilità e con altissime probabilità di seguire la sorte del collega 47. Gian, a cui vengono abilmente tenute nascoste lacrime e manifestazioni di disperazione dei genitori, non è ovviamente consapevole della situazione e trova addirittura piacevole, oltre all’assenza di dolore, il clima goliardico dell’ambiente con ragazzi che scherzano amabilmente con le formidabili infermiere. Gli antibiotici disponibili, Pennicillina e Streptomicina, non sono granchè efficaci. ...segue Il Dopoguerra

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Vengono fatte arrivare dall’estero Aureomicina e Terramicina, ma ahimè a spese degli interessati! Passano i giorni e il moribondo insiste nel rimanere tra “i meno”; la sonda continua ad espellere sostanze indesiderate, lo stato febbrile persiste, Gian, sempre rigorosamente immobile, secondo prescrizione medica, comincia a sognare piscine piene di aranciata fredda ed immersioni con grandi bevute. Poi le cose cominciano ad andare per il verso giusto, tanto che a 24 giorni dall’intervento si decide di togliere il drenaggio: è quasi fatta! Passa ancora qualche giorno ed il medico porta l’annuncio tanto atteso: ”Puoi alzarti”. Gian emozionatissimo si mette subito in verticale, ma si accascia immediatamente a terra come uno straccio. Il mattino dopo, una specie di miracolo: gli viene praticata una iniezione con un liquido rosso non meglio identificato e, di lì a poco, riesce a fare i primi passi. Le piante dei piedi hanno perduto qualsiasi callosità e l’appoggio a terra risulta molto doloroso, ma, con l’aiuto del bastone, comincia la riabilitazione. Gian passeggia per il reparto (scopre da un finestrone la veduta della piccola chiesetta dell’Ospedale, e la ritrae su un cartoncino con le matite colorate), ricomincia a mangiare, riprende piano piano le forze ...... e, finalmente, viene dimesso: è il 29 Luglio, 46° giorno di permanenza (Altezza: 180 cm, Peso: 31 kg). Nella fase dei saluti (allora si usavano) il Primario preconizza, di lì a sei mesi, passato l’effetto degli antibiotici, l’infiammazione dell’appendice e la conseguente necessità di asportazione; ma i sei mesi passano, poi ne passano altri sei.

Il Primario chiede di poter riaprire l’addome di Gian, così, giusto per capire. La famiglia Gagliardi declina educatamente l’invito. A quei tempi con la peritonite si moriva (con la collaborazione, a volte, di una scienza medica abbastanza inadeguata). Nessuno, fra quelli che non la possedevano, incontrò la luce della Fede in seguito all’episodio. Certo che, tra i mille pezzetti di carta che il Babbo aveva nel portafogli quando se n’è andato, c’era anche un santino dedicato a Santa Rita ..... 59

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A questo punto del racconto, è d’obbligo inserire un capitolo dedicato all’amicizia fraterna dei due protagonisti con Giulio. Una storia nella storia che li ha visti legati reciprocamente da un profondo affetto nei giochi quotidiani e nei rapporti interpersonali, che hanno coinvolto anche i famigliari.

GIULIO CESARE POLETTINI Nel 1948 o giù di lì arrivò a Sanguinetto per le vacanze, proveniente da Milano, un ragazzetto dagli occhi turchesi, bello esuberante e pieno di fantasia: Giulio. Veniva in paese da nonna e zia nella casa di famiglia, una delle più antiche di Sanguinetto; legammo subito divenendo per alcuni anni, anche se nel periodo estivo, inseparabili amici. Esuberante, molto intelligente, un po’ sfrontato e qualche volta irriverente per vivacità, buonissimo, non conosceva l’arroganza, mai dalla parte dei prepotenti, un fedele amico. Il Babbo gli voleva bene considerandolo a tutti gli effetti uno di noi (forse perché aveva i genitori separati, vivendo con la mamma a Milano lontano dal padre che abitava a Verona); Giulio ebbe per il Capo una stima ed una riconoscenza infinite. Il liceo classico e l’università, che naturalmente Giulio fece a Milano, lo portarono a Sanguinetto meno regolarmente. Così pian piano si allentò il loro sodalizio estivo, proprio nel periodo più bello della vita, quello che segue l’adolescenza. Chissà quante ne avrebbero combinate. Con Gil si sono rivisti poche volte e sporadicamente, senza però che il loro affetto ne abbia risentito. “Nell’aprile del 2008, dopo moltissimi anni, Gil si reincontrerà con lui e ricordando quei bellissimi tempi e parlando del Babbo non potrà sfuggirgli un luccichìo di commozione nei suoi occhi.” Oltre agli episodi del pollaio pensile e quello sotterraneo, descritti in dialetto da Giulio per “la nostra storia”, seguono alcuni aneddoti con i quali Gil vuole ricordare il loro grande affiatamento.

IL POLLAIO PENSILE

di Giulio Polettini [Ricordi de monàde dei fratelli bandiera (2 + 1 quasi-fratello) gil-gian-giul] Sèrimo tri butelòti, mi e i dó fiói del capostassión de Sanguiné, sempre insième, come el cul ne le mudande. A noialtri s’èra compagnà anca Giancarlo Pesavento, el fiól del marassiàl dei carabinieri, assè più picinìn de noialtri, me par de un par de ani, cussì paréimo i quatro moschetiéri. Gavì da savér che in stassión, ne l’ortesèl, gh’èra un margulàn, bastansa grandòto, con de le rame bele grosse. No me ricordo piu’ ci le stà a ‘vérghe la bela pensada de farghe ‘na piataforma de soravìa (penso sens’altro el Gil, tra mi e lu le monade le vegnéa fóra spontaneamente). Déto e fato: in un par de giòrni émo catà su un poche de asse, di ciodi, anca stòrti che pó émo indrissà, du martèi, e via che l’émo fata. ‘Na volta finìa, dal de sóto no la se vedéa mia, par via dele frasche. Alora mi go pensà: “E se ghe faséssimo anca i muri?” E Gilberto: “Alóra anca la portesèla e ‘na finestrèla”. Anca staòlta, déto e fato, sémo ‘ndè sul binario morto, dove gh’èra un vagón abandonà dai tedeschi, cissà da quanto tempo, e a fòrsa de smartelè e palanchinàde, émo recuperà dele asse, anca se mèze marse, che ne servéa. La costrussión (se fa par dir) le vegnùa su (sempre se fa par dir) che l’èra ‘na beléssa, ma adesso se tratàva de far el cuèrto. Asse no ghe n’avéimo più gnanca una, alóra mi go avùo ‘na pensada: “Se ‘ndémo da Nelo Passarìn (che alóra el staséa in campagna, prima de far el becàr) e se fémo dar na bala de paia, ghe la metémo de sóra al posto del cuèrto, e sémo a posto. Déto e fato, émo ciapa’ la bicicleta da dòna de so muiér del capo, parché me nòna, quéla de me sìa la me le inciavàva via, parché la diséa che ‘ndaséa distante e ghé consumava le góme. Mi, Gil, Gian, e a drìo anca Giancarlo, el fiól del marassiàl, sémo ‘ndè a Ca’ de Michéi e se sémo fati dar (gnanca dirlo a gratis) la famosa bala de paia, e pó de òlta a pié. E la bala che ogni tri passi la cascava o de qua o de là, e adesso toca ti sburtàr la bici, no mi l’ho za fato e te toca ti, insoma, come dio ha volù, sémo rivè in stassión. Intanto s’èra fata séra, e no se ghe vedéa più anca se gh’èra le luci dela stassión (pó mi e Giancarlo iémo ciapè, parché sémo rivè tardi a zéna), e a vedarla sul casotìn su l’àlbaro, sia da drénto che da fóra, la paréa bòna. Nel fratempo, era vegnùo l’autuno e ha scominsià a piovar, no soltanto de fóra, ma anca de drénto. Quando ha desmesso de pióvar, émo desfà el cuèrto, e émo fato le inclinassión, in maniéra che l’acqua la ‘ndesse zó, sensa fermarse de soravìa (mètodo Ing. Gil). Prima del colaudo final, son ‘ndà a casa mia, e ho tolto na stuéta parigina, e l’émo messa su col so tubo de fianco, parvìa che se lo metéimo drito, o ‘l se impenìa de acqua o se brusava la paia. Nel fratémpo èra scominsià a far frescòto. Quando lé stà el momento de provarla, èrimo i soliti quatro, ma Gian, che l’èra el più assè rompicoióni che ghe fusse, l’ha scominsià a dir: “Mi qua me ingiasso el cul, spetè che me sposto de là, e ti métete qua”, ma ancora no ghe ‘ndaséa bèn, e dai a pirlàr n’altra ólta. “Ti métete qua che mi me meto là e ti metete lì”, tanto che ala fine Gil el s’ha roto i coióni e el ga dito a so fradèl: “O te te chièti e te stè bòn, o se no te vè fóra dai óvi. Grande uscita del sudéto, e finalmente émo còto su la stuéta le castagne, le patate e, par zónta, anca un dó o tri pómi. Paréa che tuto ‘ndesse bèn, via che essendo quasi rivà l’inverno, le fóie le cascava giòrno par giòrno, e partanto se vedéa el casotìn su l’àlbaro. Riva che un giòrno el capo riceve un fonograma, che diséa perentoriamente: “ABBATTERE IMMANTINENTEMENTE POLLAIO PENSILE ALTRIMENTI SARANNO PRESI SERI PROVVEDIMENTI DISCIPLINARI”. Podarì anca imaginarve el casìn che ghe vegnù fóra. El capo l’ha dito: “Volìo farme paràr via da le ferovie? Desbroiè subito l’albaro”. Con la morte nel cór, émo butà zó el polàr pensile. Via che Gil, l’ha dìto: “A primavéra farémo el polàr sóteraneo”. Arivédarse a primavéra .

Giulio e Cesare Polettini

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La SVEGLIA UMANA

IL RIFUGIO SOTTERRANEO di Giulio Polettini

[memento Juventutem e monàde de Giulio Polettini] L’èra finalmente tornà la primavera e, mèmori de la proméssa de l’ano adrìo, mi, el Gil, el Gian e Giancarlo Pesavento, el fiol del marassiàl dei carabinieri, mésse man ai baìli, émo scominsià a far el buso partèra, sempre ne l’ortesèl de la stassiòn de Sanguiné, sóto el famoso margulàn. Gh’avarémo messo ‘na diesìna de giòrni e anca de più, de fadiga da copàrse, anca parché, gh’avarì da savér, che l’acqua de la cisterna de la stassiòn, bisognava pomparla a man. El capo l’avéa dito: “Prima se impenisse la cisterna, e prima podì sbailàr (el pompava anca lù!). Alóra, par far più assé in prèssia, ghe daséimo ‘na man a pompar, sinquanta pompade a testa par dó òlte, e la cisterna l’èra impenìa (se me ricordo bèn). Nel fratémpo Gian el m’avéa sbusà ‘na spala col palanchìn de le ferovìe, che’l pesava no se sa quanto. El capo, par no far che me nóna la savésse, el me medicava tuti i giòrni, fin che el buso el s’ha stupà e són guarìo (me resta el segno). Nel fratémpo l’èra rivà el momento de cuèrzar el buso del polar soteraneo, ma le asse che gavéimo le èra tute curte. Sémo alóra tornè al famoso vagón, meso marzo, che nel fratémpo el sèra smarzìo quasi del tuto. Sémo riussìi, con grandi sforzi e l’aiuto del palanchìn “sbusa-spàla”, a desfàr quel che ghe restava del caromerci cuèrto. Elenco del recupero: • una spècie de assa che la traversava el colmo del caro, che la paréa bòna, gròssa e spéssa, giusta che la rivava da un cao a l’altro del buso in tèra, • du lamieróni, giusti giusti, che, ‘na òlta un s-ciantìn sovraposti, i cuerzéa el buso, • ‘na scaléta de fèro, che la rivava giusta giusta in fondo al buso. Méssa in opera l’assa e i du lamieróni, sóto el fil de tèra ‘na spana bòna, émo scominsià a butarghe su tèra (naturalmente l’Ing l’èra el Gil). Mentre èrimo in fase de ultimassión e rifinitura, Gil l’ha dìto a Giancarlo Pesavento de ‘ndar de sóto a vedar se vegnéa zo tèra. Lu el ghé ‘ndà e, mentre l’èra sóto, Gian el saltava de sóra la tèra par vedar se l’èra stabile, e a mi m’è vegnùo un pensiér, come ‘na previsión. Ho ciamà Giancarlo e gh’ho dìto de vegnar fóra; lu lé vegnùo dove gh’èra el buso de la scaléta e, al momento che’l sa facià, el tuto col Gian nel mèzo, s’ha sprofondà. Émo tirà fóra de péso el Gian che’l bastiemava come un turco. El fato l’èra che l’assa spéssa che la paréa bóna, la s’èra spacà in mezo, e alóra zó tuto. Gian l’é vegnùo fóra con un tòco de carne (sua) in man che la s’èra destacà vizìn al zenòcio. Col tochéto de carne in man, e noialtri drìo, lé ‘ndà in casa e l’ha ciamà so mama. Quando questa lé rivà, el g’ha fato vedar el tòco de zenòcio che el tegnéa con du dièi; me ricordo che la poaréta lé ‘ndà in sveniménto. Nel fratémpo lé rivà anca el capo, e se quéla òlta el Gian no li ha ciapè, lé sta parché l’èra ferìo. Risultato: fine del polàr soteraneo, che lé sta pó doparà come luamàr. Gran spegasso par tuti e fine de carriéra ingenieristica del Gil.

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Giulio e Cesare Polettini

Ci legava una grande passione per la pesca ed in quel periodo era in voga la torbiera di Asparetto a qualche chilometro di distanza, un laghetto di acqua nera rimasto dall’estrazione della torba, un combustibile vegetale usato negli anni passati, prima che il basso costo del petrolio lo rendesse antieconomico. Si pescavano i pescegatti, che noi chiamavamo impropriamente “barbi”, con lunghi baffi neri che circondavano la grande e vorace bocca larga quanto tutta la testa. Per prendere quelli più grossi bisognava essere sul posto all’alba e quindi partire col buio, usando una bicicletta da donna sulla quale a turno uno pedalava e l’altro stava seduto sul manubrio tenendo ben strette le lunghe canne. Il problema più grosso non era il mio, dato che la Mamma era già alzata da almeno un’ora, ma di Giulio che non poteva puntare la sveglia per ordine assoluto di sua nonna. Con una sfrenata fantasia, che certamente non ci mancava, ricorremmo ad uno stratagemma geniale: poiché Giulio dormiva nella stanza che dava sulla strada, decidemmo di legare un filo alla spalliera del letto e farlo pendere giù dalla finestra in modo da poterlo svegliare nel più assoluto silenzio, con qualche semplice tocco. A letto presto a dormire, con tutta l’attrezzatura pronta (costituita da quattro o cinque lunghe canne di bambù munite di lenza), lombrichi compresi. Sventura volle che verso mezza notte passassero alcune persone che tornavano dal cinema e notando per caso pendere quel sottile cavetto gli dettero uno strattone. Dopo alcuni minuti Giulio, inconsapevole che mancava poco a mezzanotte, uscì dal portone con tutte le sue canne a spalla chiedendo ai passanti: “Indoelo Gil?”, tra l’ilarità generale (tra noi parlavamo in italiano, come del resto in casa nostra, ma quando ci si rivolgeva agli altri paesani si usava il dialetto). Lo stratagemma non aveva funzionato. Inoltre il filo troppo sottile si era spezzato. Allora Giulio ebbe un’idea formidabile: usare uno spago più resistente che legato al dito di un piede, per garantirgli di sentire all’istante il richiamo, poteva pendere di fuori sufficientemente alto dalla strada affinché si potesse raggiungere solo salendo sulla sella della bici e quindi al sicuro da sorprese. Poi ci rendemmo conto del pericolo rappresentato dallo spago legato al dito fino sulla strada. Ci voleva un fermo di sicurezza che realizzammo facilmente, non senza un sorriso di compiacenza, mediante alcuni nodi ripetuti sul cavo che poteva così bloccarsi contro il cardine attraverso il quale scorreva, in caso di uno strattone un


po’ troppo forte (ci facevamo scherzi in continuazione e quindi eravamo smaliziati). A letto presto, questa volta sicuri del buon funzionamento della nostra “sveglia-umana”, come potevano chiamarla solo due esaltati come noi. Purtroppo il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi. La sella della bici della Mamma era stata abbassata a mia insaputa (non ci giurerei, ma era per far andare Gian), così non riuscivo ad agguantare il filo. Allora con una rincorsa di alcuni metri, puntando il piede sulla sella, presi lo slancio sufficiente a brandire con due mani lo spago, trattenendolo ben stretto, fino al ritorno a terra. Purtroppo il cavo non si era bloccato sul cardine, vuoi perché lo strattone era stato tale da far superare l’ostacolo ai nodi, vuoi perché Giulio, forse un po’ stanco dai giochi nevralgici del pomeriggio, durante la stesura del cavo prima di legarselo al dito e coricarsi, aveva messo ingenuamente i nodi al di fuori del cardine anziché all’interno. Un urlo agghiacciante eccheggiò nella notte, tanto che si aprirono alcune finestre delle case di fronte, mentre voci concitate provenivano dalla camera di Giulio. Il nodo sul dito era stato fatto troppo bene e lo strattone lo tirò assieme al letto, fino a metà stanza, tra grida di dolore e grandissima agitazione della nonna e della zia che, accorse preoccupate, non riuscivano lì per lì a capire cosa ci faceva Giulio nel letto là in mezzo alla stanza. Rimase per alcuni giorni punito in casa, con l’alluce paonazzo e dolorante.

I PANTALONI NUOVI I tempi erano duri per tutti ed allora non c’erano i blujeans: quando i pantaloni erano consunti, la Mamma ce ne cuciva un paio con qualche scampolo di basso costo. Quella volta tra noi c’era anche Giulio ed il Babbo chiese che ne venisse confezionato uno anche per lui. Così la Mamma, lavorando di notte, ci permise dopo alcuni giorni di uscire con i nostri pantaloni nuovi stirati di tutto punto. Purtroppo era una giornata ideale per i barbi e ci prese la frenesia della pesca: senza pensare ai pantaloni, tanto eravamo scatenati, montammo in bici ed andammo in torbiera. Le canne erano tutte posizionate con i galleggianti in bella vista, in attesa dei primi segnali. La tecnica era questa: quando il pesce iniziava a mangiare l’esca, il galleggiante dopo alcuni leggeri piccoli sussulti, cominciava a muoversi, a conferma che il barbo

aveva abboccato, e c’era tutto il tempo per tirarlo su. Fu in quel momento che uno dei galleggianti dopo un salto sparì all’improvviso sott’acqua e la canna prese a muoversi verso il largo trainata dalla lenza. “Deve essere un bestione”, disse Giulio, correndole dietro esagitato per prenderla ed entrando nel laghetto nero come la pece, senza saper nuotare. Per fortuna riuscii ad agguantarlo miracolosamente, non senza evitare che si bagnasse fino alla cintura, mentre la canna viaggiava a tutta velocità sulla superficie dell’acqua. I suoi pantaloni nuovi erano diventati marrone e quando ce ne rendemmo conto ci prese lo sconforto, acuìto anche dalla perdita della canna e di quel grosso pesce. Dalla torbiera a casa, raccontando a tutti la nostra avventura per giustificare quei pantaloni malridotti, il pesce era aumentato a dismisura superando i dieci chili (i barbi al massimo arrivavano a qualche chilo). Giulio cercò in tutti i modi di lavarli e a dir il vero ci riuscì usando dell’acqua bollente, ma in quel modo la stoffa si ritirò accorciando di alcuni centimetri i pantaloni: “El crésse a vista d’òcio ‘stó bòcia”, disse la zia Lisetta. Riuscimmo con tante bugie, a tenerlo nascosto alla Mamma per lungo tempo.

L’UOVO Caldo La fantasia di Giulio era infinita, costretto a fare di necessità virtù. Avevo notato che prima delle nove era introvabile. Gli chiesi spiegazioni e lui mi disse: domattina alle otto, senza farti accorgere, vieni nel cortile della nonna e vedrai. L’indomani con circospezione andai all’appuntamento. Facendomi cenno di non parlare e di non fare il minimo rumore, ci avvicinammo al pollaio. Giulio con incredibile delicatezza infilò un braccio in un buco e rimase più di mezz’ora immobile come una statua, finché ad un certo punto lo tirò fuori con in mano un uovo appena fatto, ancora caldo. Lo bucò da entrambe le parti e se lo bevve d’un fiato, dicendomi: la rossa, che si accuccia qui vicino (ho fatto il buco mentre era fuori a razzolare), a volte lo fa anche di sera. La zia e la nonna di Giulio non si rendevano conto dell’appetito di quell’adolescente scatenato e, senza volerlo, lo tenevano un po’ a stecco, e così lui cercava di arrangiarsi come meglio poteva. La cosa che più mi aveva meravigliato era di come potesse stare immobile per più di mezz’ora, con la mano sotto al culo della gallina, lui che non stava mai fermo nemmeno quando dormiva. Giulio e Cesare Polettini

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l’uva del prete Era imprevedibile e sfrenato: bastava guardare in su verso l’alta recinzione del cortile della chiesa quei grossi grappoli d’uva bianca matura, vanto di Don Antonio Romagnoli Arciprete di Sanguinetto, detto “Ocio bianco”, quasi a dire: “Che peccato non arrivarci”, che lui si arrampicava subito come un gatto facendo man bassa di enormi grappoloni maturi che gettava di sotto, senza nemmeno curarsi se c’era qualcuno che lo vedesse. Entrerà poi nelle simpatie dell’anziano prete, che nonostante tutto riconosceva le sue doti d’intelligenza e simpatia (“Dividi quanto possiedi col prossimo tuo e ti saranno aperte le porte dei cieli” rispose a Don Antonio, che lo aveva convocato in canonica). Il saggio prete gli rispose con la benedizione apostolica, aggiungendo: “Ora che sei pronto per il viaggio torna subito a Milano e non venire mai più a Sanguinetto nel periodo della vendemmia”.

il culo del baéTO Un giorno d’estate c’era il “Baéto”, un ortolano grassotto ed amante del vino, piegato in due che stava curando l’insalata dell’orto che era stato autorizzato a coltivare nella fossa del Castello. Un bel sederone orientato verso di noi, con la stoffa dei pantaloni tirata per contenerlo in quella posizione. Io avevo in mano il fucile ad aria compressa del fratello di Gabriella e a quella vista dissi: “Che bel centro sarebbe”. Non finii la frase che Giulio mi strappò il fucile dalle mani prese la mira e colpì il fondoschiena del Baéto con un pallino di piombo. In occasioni come quelle Giulio non riusciva a contenere il suo istinto, spinto da un irrefrenabile senso umoristico, diventando anche pericoloso. Un urlo rimbombò nella fossa, seguito da una serie interminabile di bestemmie; guardò in su facendo in tempo a vedere Giulio. Si mise a correre all’impazzata per salire: se lo avesse preso non so come sarebbe finita. Giulio non si fece più vedere in paese per tutta l’estate, finché negli anni a seguire riuscì ad ammansirlo, a scapito naturalmente di un bicchiere ad ogni incontro.

l’occhio bucato Venne il periodo delle pistole ad elastico con il lancio di grani di mais, gioco divertentissimo che ci vedeva impegnati per intere giornate, nonostante il divieto assoluto del Babbo che ne intuiva il pericolo, poiché io mi ero specializzato nel costruirle sempre più sofisticate, po-


tenti e precise. Poteva capitare a chiunque, ma guarda caso toccò a Gian che riuscì a bucare un occhio a Giulio. Fu una tragedia poiché dopo la scomparsa del bianco che aveva invaso per congestione tutta la pupilla tra la disperazione generale, si notò chiaramente di fianco all’iride una piccola mezza luna nera, cioè una fessura laterale che comportava il passaggio della luce e quindi lo sdoppiamento dell’immagine, danno che purtroppo gli rimase per sempre. In questa circostanza potemmo avere la conferma della bontà d’animo di Giulio (che cercò di tenerlo nascosto in casa) e dei suoi famigliari, che non solo non pretesero alcun risarcimento, ma non ci fecero mai pesare l’incidente, come invece avrebbe potuto richiedere la sua gravità.

dopo quarantanni Dopo molti anni, credo più di quaranta, decidemmo di rivederci a casa sua in un noto paesino del Pavese. Qualche anno prima rimase tragicamente vedovo della moglie, colta da un male incurabile e repentino. Pianse e si disperò. Ma la sua natura esuberante ed estroversa ebbe il sopravvento e non passò molto tempo che si risposò. Quando ci mettemmo d’accordo telefonicamente di incontrarci, mi raccontò in breve la sua recente storia, mi disse che la sua nuova moglie, con cui andava assai d’accordo, era più giovane di oltre vent’anni. Conscio che avremmo ricordato i bei giorni della nostra spensierata gioventù mi pregò caldamente di evitare l’argomento dell’occhio bucato in presenza di sua moglie. Io, che lo conoscevo meglio di me stesso, non gliene chiesi la ragione tranquillizzandolo in merito. Dato che l’episodio andava tutto a suo onore, ero più che sicuro sicuro che della mezza luna nera sulla sua iride sempre turchina, avrà raccontato chissà quale bugia, magari per conquistare la sua nuova mogliettina. Ci incontrammo, andammo a cena assieme alle nostre mogli e poi a casa, a commuoverci come due ragazzini nei ricordi dei tempi che furono, ancora verdissimi nella memoria. Piangemmo e ridemmo. Ad un certo punto la mia propensione all’umorismo ed alle burle, collante su cui si era fondato il nostro sodalizio giovanile e suggello della nostra amicizia, ebbe il sopravvento sui freni inibitori che mi consentivano di mantenere la parola data. 63

Giulio e Cesare Polettini

Sul più bello della conversazione, non senza enfasi, zittii tutti e dissi: e ora vi raccontiamo l’episodio più toccante, vera pietra miliare della nostra storia giovanile, anche perchè il fatto riguarda ciò che di più bello ha sempre avuto Giulio da ragazzino, gli occhi. Qualche goccia di sudore iniziò ad imperlare la sua fronte. Si alzò con una scusa, andò dietro la moglie e con gesti da teatro dell’arte con le mani fra i capelli e gli occhi spalancati, mi fece degli incredibili cenni di disperazione e di supplica, che camuffava improvvisamente quando la moglie si girava di scatto nel tentativo di cogliere la ragione del variare dei miei sguardi. Dopo alcuni attimi di silenzio, durati per Giulio un’eternità aggiunsi: si l’aneddoto riguarda prorio i suoi occhi perchè furono quelli che fecero innamorare la ragazzina che io corteggiavo assiduamente. Quando da veri amici ce lo confidammo con un abbraccio fu sancito all’istante di troncare immediatamente ogni cosa tutti e due. Solo un vero grande ineguagliabile amico poteva fare una cosa del genere. Giulio, che dalla disperazione era andato in cucina con la scusa di prendere da bere ed era rimasto con l’orecchio incollato alla porta, entrò in salotto, mi venne incontro, mi abbracciò vigorosamente ed avvicinandosi all’orecchio mi disse: brutto stronzo, non sei proprio cambiato per nulla, vuoi farmi morire d’infarto?




Il 15 novembre 1951 rompe gli argini a Pontelagoscuro creando una immensa alluvione che allaga tutto il Polesine. Le scuole vengono subito chiuse, anche perché una moltitudine di sfollati polesani, rimasti senza nulla, è destinata ad essere ospitata nei vari edifici pubblici. La solidarietà è eccezionale: molte famiglie si fanno carico di prendere in casa più persone dando loro vitto ed alloggio per parecchi mesi, anche se ce n’è assai poco per tutti. E’ un grandissimo esempio di bontà ed umanità, di cui vanno ancora giustamente fiere tutte le popolazioni venete e basso lombarde. Dopo alcuni giorni e precisamente il 21 novembre ci lascia il Nonno Umberto, a 65 anni e quindi ancora giovane , che da un po’ è venuto ad abitare da noi con la Nonna, entrambi ammalati.

GIL ALLE SUPERIORI Il periodo della scuola superiore vede Gil impegnato in moltissime attività oltre allo studio: i giochi (descritti in fondo al capitolo) con Gian e gli amici, le esperienze di lavoro (elencate anch’esse in fondo) in aiuto alla famiglia, le sue attitudini artigianali, i primi amori, l’incontro con Gabriella, una storia d’amore intensa e meravigliosa che durerà per sempre incontaminata e rafforzata. Si ritiene opportuno, quindi, proseguire con le vicende scolastiche fino alla maturità, per poi tornare indietro e riprendere il racconto con gli aneddoti che hanno caratterizzato questo arco temporale, che hanno accompagnato Gil dall’adolescenza, migliorando il lato esuberante ed estroverso del suo carattere senza riuscire purtroppo a smussare più di tanto quello negativo dell’emotività e conseguente agitazione e nervosismo, tollerati per fortuna da chi gli vuole bene. La spensieratezza comincia leggermente a vacillare: si profila all’orizzonte la scuola superiore. Mantova è più vicina

e comoda di Verona poiché la linea ferroviaria è diretta e poi il Preside dell’Istituto è un amico del Babbo (d’estate viene sempre a Sanguinetto impegnato nella campagna dello zuccherificio). Così il nuovo anno scolastico porta un primo importante cambiamento nelle abitudini. Prima i due rampolli andavano entrambi a Legnago e quindi partivano e tornavano assieme, mentre ora Gil va a Mantova, dalla parte opposta e anche con orari completamente diversi. La separazione della mattina non cambia però le abitudini che li vede sempre assieme nel teatro pomeridiano dei giochi. L’anno scolastico va discretamente: Gil è promosso a Giugno, anche se con alcuni sei. Si affaccia il nuovo anno scolastico. L’autunno, dopo il primo mese di scuola, vede un avvenimento importante. Dopo le piogge abbondanti di fine estate, i fiumi sono tutti al massimo livello; il Mincio coi tre laghi di Mantova ha l’acqua che sfiora i muretti perimetrali della città, l’Adige a Verona e a Legnago sta per esondare. Il Po, con l’acqua al massimo livello che lambisce gli argini e le strutture del grande ponte in ferro di Ostiglia, trova al suo delta il mare con una forte onda verso terra: le due coincidenze sono fatali. Gil alle Superiori

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L’estate del 1952 non passa senza traumi: giocando a “carampana” con le amichette Gil si infortuna seriamente ai legamenti di una caviglia, che gli rimarrà per sempre semislogata; inoltre deve subire l’operazione di appendicite che lo vede andare in sala operatoria con la gamba ingessata (anche per lui inizio di peritonite, fortunatamente subito sventata dall’intervento chirurgico). Purtroppo per buona parte di queste vacanze estive dovrà assistere ai giochi stando seduto, poiché l’ingessatura, probabilmente fatta male, non gli permette di appoggiare il piede per terra. Riaprono le scuole. Gil frequenta, non senza orgoglio, la 2^ Geometri e va discretamente, ma il suo DNA non gli consente una vita tranquilla. Per lui gli imprevisti e le sorprese sono una normalità, alimentati dal suo carattere insofferente, esagitato e forse un pò nevrotico. Durante l’intervallo, scherzando con un compagno, rompe il vetro di una porta interna della scuola. L’insegnante di Italiano e Storia, che è anche vicepreside, non vuole sentire ragioni e lo sospende per due giorni con l’obbligo di tornare accompagnato da un genitore. D’accordo la vivacità, un certo caratterino (la zia Luciana da piccolo lo aveva soprannominato Gillo Brillo Schiattarabbia), ma i vetri sono pericolosi: torna a casa in anticipo con una bella lavata di testa e qualche scappellotto. Dopo due giorni, lo accopmpagna la Mamma, che si lascia prendere la mano e insulta pesantemente e molto coerentemente la Preside. Conseguenza: in prima Gil aveva finito l’anno con sette in Italiano e sei in Storia (scrive benino ma non ha memoria). Alla pagella di metà anno ha ancora sette in Italiano e sei in Storia. Subito dopo il fattaccio iniziano a fioccare i brutti voti. Alla fine dell’anno è rimandato ad ottobre con quattro in entrambe le


materie. Lui vuole fare gli esami di riparazione a Verona per non correre rischi, ma il Babbo, sempre garantista ed anche perché il Preside suo amico lo rassicura (“Non preoccuparti Gagliardi perché in commissione il mio voto vale due punti e poi quella quest’anno va in pensione e così finirà di far danni”). Esami di riparazione ad ottobre: tre in storia e tre in italiano. BOCCIATO, senza appello. Il voto del Preside non è servito, né sono servite le sue scuse a riportare un po’ di serenità in casa: la Mamma si sente responsabile. Passata la rabbia del momento Gil vuole esprimerle però la sua totale riconoscenza e solidarietà: “Cara Mamma sono molto orgoglioso di come ti sei comportata; vorrei che tutti potessero avere una Mamma come te”. Quell’insegnate da strapazzo, rimane al suo posto in quella scuola ancora per qualche mese dell’anno seguente, ma poi deve ritirarsi per ragioni di salute. La Mamma ha colpito, ma Gil ha dovuto studiare molto, durante tutta l’estate, purtroppo inutilmente.

A Mantova sospeso da scuola per due giorni Trascorsi I due giorni di sospensione, Gil deve essere riaccompagnato a scuola: il Babbo non può e ci va la Mamma, purtroppo! Arrivano all’Istituto ed il bidello fa attendere Gil vicino alla porta, pregando la Mamma di entrare dalla Preside, che la sta aspettando. La porta è chiusa, la Mamma bussa ma non avverte alcuna risposta. Bussa di nuovo: silenzio. Allora entra lentamente e vedendo la Preside girata di spalle rivolta verso la finestra di fronte, la saluta: “Buon giorno signora Preside, sono la mamma di Gagliardi”. E quella signora (ovviamente è un eufemismo), sempre senza girarsi, con voce sgraziata risponde: “Suo figlio è un gran maleducato e lei dovrebbe insegnargliela meglio l’educazione, dato che è un suo preciso compito”. Gil, dietro la porta, riuscendo ad ascoltare in qualche modo è letteralmente impietrito, ed a quelle parole gli prende un colpo. Infatti dopo alcuni attimi di silenzio la Mamma, con voce tranquilla e per nulla emozionata risponde: “Qui, in questa scuola, se c’è qualcuno di veramente maleducato, è proprio lei signora! Prima di tutto quando si ospita qualcuno nel proprio ufficio lo si riceve aprendogli la porta, porgendogli i saluti e presentandosi. Poi quando si viene salutati bisogna almeno avere la cortesia di rispondere; terzo gli interlocutori vanno guardati in viso e non girata di spalle. Chi crede di essere per potersi permettere una simile arroganza e scorrettezza. Ed ha il coraggio di parlare a me di educazione! Lei non sa nemmeno dove stia di casa. Si vergogni e cambi mestiere”. Girati i tacchi e senza aggiungere altro, esce sbattendo la porta. Poi rivolta verso Gil: “E tu va in classe e cerca di non fare altri danni !!!”.

Inizia il nuovo anno che lo vede, naturalmente, a Verona nella nuova scuola Istituto Tecnico e Commerciale Anton Maria Lorgna. Inizia così il ciclo della scuola veronese col tragitto in treno completamente diverso da quello per Mantova. Infatti mentre prima saliva sulla littorina (nome derivato da “fascio littorio” nel 1933 per una Automotrice Leggera della Fiat, prima a nafta poi a metano), fino al bellissimo Capoluogo della provincia lombarda, ora scende a Nogara dopo sette chilometri per salire sul treno della linea Bologna Verona, un lungo convoglio di carrozze a scompartimenti pieni di studenti e lavoratori. Con l’abbonamento AO delle ferrovie ha il privilegio di viaggiare in seconda classe, con compagni di famiglie più abbienti che si possono permettere un posto a sedere, mentre la gran parte dei viaggiatori col biglietto di 3^ rimane in piedi fino a Verona. Lungo il percorso in treno ed il tragitto a piedi fino alla scuola, ne succedono ogni giorno di tutti i colori. Nella pagina a fianco:

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Gil alle Superiori

Gil inizia a Verona ripetendo il secondo anno d’istituto. Anche se la bocciatura pareva essere ormai metabolizzata, il vedersi bruciare in quel modo un quinto del tempo necessario per le superiori, lasciare i compagni e ricominciare da capo, ha influito non poco sul suo approccio allo studio: con discreti voti in italiano, disegno, chimica, matematica e scienze, non è però riuscito ad evitare di portare a settembre la storia, materia che per fortuna termina in quell’anno. L’episodio conferma quali danni può provocare un insegnante incapace, nell’evoluzione e nel rendimento dello studente, sia quella sciagurata di Mantova che l’attuale professore di lettere, che non vuole rendersi conto della sua incapacità di apprendere quella materia, su quell’inutile libro di testo, di quattrocento pagine a caratteri microscopici. La totale inadeguatezza di quel professore, che facendo studiare sul libro senza mai un aneddoto, una citazione o una curiosità denunciava la sua assoluta incapacità, gli fa odiare sempre di più quella materia: pretende che Gil impari a memoria un paio di pagine qualsiasi di quel maledetto librone, come con saggezza ed opportunismo hanno fatto tutti


In treno per Verona Il divertimento più comune è la “savanàda” che consiste nel tirare dentro nello scompartimento all’improvviso lo sprovveduto di turno che passa nel corridoio per cercarsi un posto, assalirlo ed immobilizzarlo in otto, togliergli nel migliore dei casi i pantaloni, per poi rimandarlo fuori con gli indumenti in mano. Oppure appiattirsi tutti ammucchiati in alto sopra le reti portabagagli, con gli occhi sgranati di chi si affaccia e trova lo scompartimento praticamente vuoto, considerando che il corridoio è sempre zeppo di gente in piedi, salvo poi trovarsi lì come un salame, mentre sta per sedersi, circondato da otto buontemponi che scesi all’improvviso con un boato, occupano all’istante tutti i posti. Oppure appena partito il treno, stiparsi in sei o sette come sardine nel piccolo bagno della carrozza per poi gustarsi le facce di quelli che sono fuori ad aspettare, vedendoli uscire uno alla volta quasi senza soluzione di continuità, con il rumore dello sciacquone, languidi sospiri e le mani a serrare la cintura dei pantaloni. Cori ad altissimo volume, grida, risate, schiamazzi a non finire, sbattimento rumoroso dei braccioli. Diventano il bersaglio dei controllori che spesso, attirati dal pandemonio, accorrono aprendo di scatto la porta dello scompartimento per sorprenderli, trovandosi però davanti otto angioletti, con in mano un libro attenti alla lettura o in meditazione nel più rigoroso silenzio, quasi infastiditi da quella apparizione, che con un tempismo da campione il palo ha segnalato. Spesso, i più intraprendenti di quei ferrovieri, ritirano qualche abbonamento, con la conseguenza che i malcapitati devono presentarsi al Capo Stazione Titolare di Verona, che prende loro le generalità e qualche volta sequestra il documento. Ma quei poveri controllori esasperati e volonterosi, purtroppo, non hanno fatto bene i loro conti perché il perseverare noncurante degli sciagurati ha una precisa spiegazione: a Nogara ogni tanto sale un alto funzionario delle ferrovie, Capo Compartimento di Verona, che conosce e stima molto il Babbo ed ha preso a benvolere Gil, tanto da diventare un amico personale oltre che dell’intero gruppo. Spesso li raggiunge dalla prima classe per viaggiare con loro, cantare e divertirsi come un ragazzo. Un compagnone di quasi sessant’anni, che interviene sempre, con la massima discrezione, recuperando gli abbonamenti ritirati e restituendoli nelle mani di Gil, facendolo automaticamente diventare famoso ed importantissimo tra gli studenti scapestrati. Una volta durante una savanàda, vengono appesi fuori dal finestrino i pantaloni del malcapitato di turno, che arrivato a Verona in mutande se li ritrova stecchiti dal freddo come un grande stoccafisso brinato. Ben sapendo che è malaticcio, Gil gli da i suoi andando a scuola con in mano quel pezzo di stoffa gelata e sotto al paltò solo le mutande. Dalla stazione c’è un bel po’ di strada e lungo quel percorso combinano sempre di tutto, arrivando spesso a scuola accaldati anche d’inverno. Uno dei divertimenti di Gil arrivato ai giardinetti di Valverde (circa metà strada), divenuto praticamene un’abitudine quotidiana e di cui ancora si favoleggia, è quello di lanciare in alto dopo alcuni giri, come fa il discobolo, la cartella di pezza (cucita e riparata in continuazione dalla Mamma) piena di libri e farla passare con precisione sopra una stele munita di statuetta, alta circa sette metri, per poi riprenderla dall’altra parte. Un errore significherebbe la distruzione della borsa e del suo contenuto, ma per fortuna va sempre bene. Anche questa volta Gil entra nell’Istituto un pò accaldato, con in mano quei pantaloni ridotti ad un pezzo di stoffa indurita che si stava scongelando, li appoggia all’attaccapanni e si toglie il cappotto, rimanendo però in mutande tra l’ilarità generale (ci sono due femmine in seconda). Tutti pensano ad uno scherzo, compreso il capo dei bidelli a cui Gil è molto simpatico, che si mette a ridere come un matto, approfittando dell’assenza del Preside. Il viaggio di ritorno invece è di solito completamente diverso perché spesso c’è lezione anche il pomeriggio e quel treno è meno affollato. Una volta, attardatosi a giocare al pallone nei giardinetti sulle mura della città, Gil arriva alla stazione in ritardo vedendosi partire il treno sotto il naso e per non perderlo (voleva dire tornare alle sette di sera con la Mamma allarmata), lo prende al volo con enorme pericolo, salendo nella garitta del frenatore dell’ultimo vagone bagagli, che normalmente chiude il convoglio delle carrozze. Lì rimane fino a Nogara, per circa quaranta chilometri, sballottato ed affumicato e quando scende corre il rischio di essere arrestato per la segnalazione arrivata da Verona di “clandestino a bordo”. Anche qui il grande amico dirigente interviene, non senza una grossa sgridata questa volta, che però lo salva da gravi conseguenze. Naturalmente si guarderà bene dal ripetere simili scempiaggini, di cui il Babbo probabilmente non è mai venuto a conoscenza. Un’altra cosa che fa impazzire Gil dal divertimento è quella di approfittare della confusione creata da più di duecentocinquanta viaggiatori che escono contemporaneamente dalla stazione di Verona, all’arrivo contemporaneo dei due treni da Bologna e Brescia. Ci sono, tutti in fila ben allineati davanti all’edificio, otto o dieci carretti a due ruote in legno per il trasporto dei bagagli: come il fulmine, sorprendendo i facchini che ormai smaliziati sono attentissimi, salgono su un paio di quei mezzi scorrevoli e leggerissimi in tre o quattro, con uno davanti alle stanghe ed uno dietro a spingere e via in mezzo alla strada a tutta velocità a fare la gara per chi arriva prima sotto porta Nuova, lontana circa trecento metri; e dietro tutti i facchini che li rincorrono, imbestialiti e urlanti. Lo scherzo verrà bruscamente interrotto da un agguato teso dai facchini. Una mattina in sei si nascondono dietro alcune baracche e li sorprendono appena partiti brandendoli per le orecchie. Finisce bene lo stesso perché, non privi di disinvoltura e certamente svegli, riescono ad impietosirli con qualche frottola (“Lo facevamo per divertire un nostro compagno poliomielitico”. In effetti uno studente di Sirmione, tutte le mattine uscendo dalla stazione, si finge sciancato, camminando con una gamba stecchita fino dopo Porta Nuova) e con tanta simpatia: un amico che viene da Peschiera e parla con abilità tutti i dialetti, individuata la provenienza del più anziano e bonaccione dei facchini, nostalgico della sua Modena, apostrofandolo con un soprannome dialettale in perfetta dizione (di ben sò jusfen ....), lo fa sbollire immediatamente. Con due di quei facchini diventano anche molto amici e non passa giorno che offrono loro, sacrificando i pochi spiccioli che si ritrovano in tasca, qualche bianchino al bar della stazione. La cosa va avanti così fino alla fine degli studi. I carretti ovviamente non verranno più toccati, anche perché Gil con un compagno ne diventano attenti custodi. Dopo qualche anno finita la scuola, andando a Verona occasionalmente col primo treno, Gil se li ritrova davanti quasi tutti con le loro divise, lo stemma delle ferrovie e magari un po’ più di pancetta: abbracci e pacche sulle spalle, felici di rivedersi, tra la meraviglia generale.

gli altri compagni di classe. La cosa è talmente fuori da ogni logica che a Gil non va giù e va a settembre senza nemmeno toccare quel libro, scelto da incapaci e scritto da incompetenti, libro che distrugge con grandissima soddisfazione appena tornato dagli esami (conserva ancora tutti gli altri): per la sua irresolutezza ha rischiato veramente tanto: cocciuto o di carattere? Certamente non abbastanza furbo. Con la terza classe (delle due seconde A e B se ne forma una sola di 26 alunni, per dire come sono stati selettivi i primi due anni ) iniziano le materie tecniche fondamentali, Costruzioni, Topografia, Estimo catastale, Agrono-

mia oltre naturalmente all’Italiano, che va considerata a tutti gli effetti essenziale per una buona preparazione. In Costruzioni insegna un bravissimo professore: un ingegnere progettista di importanti opere edili e titolare del laboratorio per le prove sui materiali, attiguo all’aula di costruzioni. Fino alla fine della scuola per tutti e tre gli anni non c’è mai stato bisogno di aprire i grossi tomi di questa materia, tra l’altro acquistati con tanti sacrifici dal Babbo e dalla Mamma, (sono libri di grande valore, come Gil ha avuto modo di constatare molte volte per averli ripetutamente consultati durante la sua carriera lavorativa) perché quelle lezioni sono eccezionali, Gil alle Superiori

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semplicissime, esaustive ed interessanti. La materia gli è congeniale e lo appassiona immediatamente, come pure il Diritto, l’Agronomia e la parte di Topografia che riguarda gli strumenti ed il rilievo dei terreni. Non riesce invece ad assimilare la Trigonometria, poiché anche in questo caso l’insegnante (un ingegnere meridionale che ha fatto il professore per sopravvivere) fa studiare solo sul libro di testo: ”da paggina a paggina” diceva e “la prossima volta vi interrogo tutti: ditelo a Mammà e Papà, che non siete adatti a diventare geometri”. In tre anni non ha mai fatto una lezione degna di questo nome, occupando tutta l’ora solamente a fare domande e dare i voti, spesso insufficienti. Da non dimenticare


Nelle foto: Gil sul Canal Bianco [1955], Gil e Gabri [1955], Gil e Claudio Ambrosi [1954], Giro in Bici [1955], a째 Giro del Garda [1955]

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Gil alle Superiori


le esercitazioni esterne con lo strumento, il teodolite, per la triangolazione nei rilievi dei terreni. I picchetti erano sempre quelli da anni e tali anche le letture dello strumento. Una volta, la sera antecedente l’uscita, Gil e Delfo Calvi, ripetente da alcuni anni sempre pronto agli scherzi, vanno a spostarne un paio con la tragica conseguenza che non tornano più i conti e quel pseudo insegnante non sa più che pesci prendere, poiché tutti hanno fatto le letture corrette, o meglio simulate, ma la chiusura della poligonale non avviene per alcuni metri, una misura enorme. Quasi tutti in classe, anche tra i più bravi, nell’ultimo anno sono stati costretti a prendere delle lezioni private. In terza, quindi, Gil va ad ottobre in Topografia. Nella primavera di quell’anno, la sua vivacità gli fa un brutto scherzo. Ha imparato ad andare in bicicletta seduto sul manubrio anziché sulla sella, praticamente all’indietro; non erano sufficienti tutte le solite evoluzioni in bici, spesso ai limiti della sicurezza, ma ci voleva qualcosa di sempre più difficile ed emozionante. Forse la psicanalisi potrebbe confermare se si trattava di una sfida inconscia a quella materia che non riusciva a digerire. Così va sempre in quel modo strampalato, anche a tutta velocità, tra lo stupore generale. Un giorno a Verona durante l’intervallo di una partitella di calcio, per fare lo spaccone con una ragazzina, le chiede la bici ed inizia il suo spettacolo avanti e indietro tra i paracarri della piazza. Non era mai caduto, nemmeno imparando, ma quella volta sia per l’emozione sia per evitare un bambinetto in triciclo, gli si rigira la ruota anteriore e cade all’indietro. Pronto soccorso, rasatura di mezza testa, quattro punti sulla nuca ed una macrofasciatura tipo turbante fin sugli occhi, appositamente esagerata dagli infermieri che avevano appreso l’accaduto. Potete immaginare la paura della Mamma, vedendolo scendere dal treno in quelle condizioni ed apprendendo che sotto le bende c’era un bel taglio suturato: un “incidente di gioco” le dice, per non prenderle. Il Babbo ne intuisce immediatamente la vera causa, con qualche piccola sanzione: Gil non userà più la bici in quel modo. Come sempre impara a proprie spese, anche se molto lentamente. Il quarto anno vede Gil promosso a giugno (la seconda ed ultima volta dei suoi studi). In quinta va discretamente verso gli Esami di Stato (come si chiamavano allora), ai quali è stato ammesso bene senza alcuna insufficienza: la strada per la maturità è tranquillamente in discesa,

tuttavia studia moltissimo in quell’ultimo mese, facendo finta di non sentire le grida di Gian ed amici che giocano allegramente tutto il giorno. Arrivano finalmente gli esami con la convinzione che l’incubo stia per finire, ma è un vero disastro: improvvisamente Gil ha dimenticato tutto, non riuscendo a rielaborare le nozioni più elementari; l’emotività ha preso il sopravvento. Riesce a far molto bene solo il compito di Costruzioni, sbagliando però in orale la lettura del goniometro che è la sua specialità. Forse poco abituato a studiare intensamente o per l’innamoramento di Gabriella, rischia di essere respinto a Luglio. Lo salva l’insegnante di Costruzioni, l’Ing. Cecchini, che da Commissario Interno, perora la sua causa. Con molta fortuna e con quell’angelo custode va a a settembre, anche se con quattro materie: Topografia, Estimo, Diritto e Italiano: sì anche l’Italiano, purtroppo. Ha fatto un compito eccellente ma secondo gli esaminatori l’ha copiato, poichè in orale ha fatto scena muta. Si sono ben guardati di andare a controllare i compiti in classe dei vari anni. Studia tutta l’estate, aggiungendo però ben poco al bagaglio della sua preparazione. E’ come svuotato, impaurito, ansioso e senza concentrazione. Gli esami di riparazione non vanno bene e molte sono le notti insonni in attesa degli scrutini. Ha molta fortuna: lo promuovono forse per pietà o perché si sono resi conto che è letteralmente andato in tilt, ma certamente per quel caro professor Cecchini che rimarrà sempre nel suo cuore. Dopo molti anni l’ha rivisto un paio di volte in occasione della cena conviviale che i diplomati del 1956 tengono ogni anno a Verona. Si ricorderà subito di quell’episodio, aggiungendo: sei migliorato o sempre con quel caratterino? Era già molto anziano, ma sempre con una eccellente memoria. Il giorno dell’esposizione dei risultati Gil, angosciato e depresso, si incontra con Vittorio Pasetto (che veniva da Peschiera) suo compagno ed amico uniti nella stessa sciagura, gli unici due a settembre con quattro materie importanti, ma assieme ad altri sette rimandati. Per la strada, dalla stazione, incontrano un compagno che dice: evviva tutti promossi. In tre minuti di corsa sfrenata sono entrambi davanti ai tabelloni. Poi subito al bar della stazione: è la loro prima sbronza: rimangono lì ubriachi di vino, ma specialmente di gioia, fino alla partenza del treno. Vi lasciamo immaginare l’arrivo a Sanguinetto, con tutti sulla banchina o alla finestra ad attenderlo ed applaudire. E’ certamente uno dei giorni Gil alle Superiori

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più belli della sua vita. La passione per la falegnameria prende Gil più di ogni altra cosa. Riuscire a realizzare un manufatto in legno, che poi è la “materia” per eccellenza, la prima che la natura ha dato all’uomo, lo lascia felice e soddisfatto. Il primo regalo importante chiesto alla Mamma ed al Babbo per Santa Lucia, giorno dedicato ai doni di Natale nel veronese, è stato il banco da falegname e qualche attrezzo indispensabile come un paio di pialle, la sega con la limetta a triangolo per l’affilatura, la raspa, un paio di scalpelli con la pietra ad olio per il filo, il martello e la tenaglia. Il laboratorio viene realizzato in solaio, sotto l’ampio abbaino che dà la luce necessaria. Il primo lavoretto importante è la costruzione di un piccolo mobiletto alto circa trenta centimetri, che serve per contenere le spazzole ed il lucido, oltre ad avere il coperchio apribile inclinato per appoggiare le scarpe. Ha usato del legno massiccio di faggio, dello spessore di circa 3 centimetri, quello che avevano smontato dai vagoni, con incastri a coda di rondine, senza un chiodo (era un po’ il suo pallino, convinto che la colla di pesce usata dai falegnami fin dall’antichità, poteva rendere solidali in eterno due pezzi di legno, se ben combacianti, assai più dei chiodi, che arrugginiscono). Quello sgabello, costruito circa nel 1950, purtroppo sparisce nel 1990 in occasione dello svuotamento della casa della Mamma. E’ sempre stato perfettamente integro ed efficiente e chissà per quanti anni ancora sarà rimasto tale. Interessante è anche la costruzione del cancelletto a due ante in legno non pregiato, che chiudeva l’orto, anch’esso solo con incastri incollati, durato per oltre 25 anni, tantissimi considerando che era all’aperto. Da più grande, presso un amico falegname, può disegnare e costruire due mobiletti in teak massiccio, col ripiano inferiore bordato ed inclinato per le riviste, di discreta fattura, che Gil usa tuttora nella sua casa come comodini. La pesca diventa più sofisticata, con canna corta da lancio e mulinello. Lo affascinano il branzino detto anche boccalone ed il luccio, incredibile predatore anche se poco scaltro; riesce a prenderne alcuni esemplari piuttosto grossi, andando in bicicletta nei canneti di palude lungo il Canal Bianco, un corso d’acqua artificiale nato per la bonifica agraria del basso Veronese e Mantovano, a circa quindici chilometri da Sanguinetto. A Gli piace sempre molto giocare al calcio, anche se non ha alcun talento: ah! se fosse stato come il Babbo da ragazzo! Tuttavia gioca sempre in ogni occasione fa-


Nelle foto: Gil a Villimpenta [1957], Gil a Stelle Alpine [1957], Gil e Gabri sul po [1956], Gil e la Vespa [1956], 2째 Giro del Garda [1956], Gabriella [1957]

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cendo parte delle varie squadrette improvvisate che si contrastano nel circondario di Sanguinetto. Quando torna a casa da scuola col treno, da Mantova, affronta con entusiasmo il rito quotidiano del “rigore” (vedi Campo dei giochi). Di cosa si tratta? Questo è lo scenario: smonta di lena dalla littorina per primo, esce dal passaggio laterale della stazione, getta a terra la cartella, corre all’impazzata nel piazzale verso il grande cancello aperto dei binari di manovra, che funge da porta. Lì pronto, piazzato dagli amici che sospendono temporaneamente all’uopo la loro partitella, trova immancabilmente il pallone a distanza regolamentare di nove metri ed il portiere di turno: e via con un calcio potentissimo che non sempre centra la porta. Poi, comunque soddisfatto del tiro, riprende la cartella e va in casa a mangiare, affamato più che mai, mentre gli amici riprendono la partita. Una bel giorno, nell’eseguire quel rituale da esibizionista, non si accorge che gli “amici” sono stranamente numerosi e lo incitano più del solito; scaglia una cannonata che avrebbe dovuto gettare in gol anche il portiere, ma ahimè il pallone si sposta solo di pochi centimetri mentre un dolore lancinante al piede lo fa quasi svenire: quegli sciagurati di Gian e soci l’hanno riempito di sassi. Il rumore ha dato l’illusione tragica della caviglia che si disintegra, mentre in realtà è dovuto alle dimensioni molto piccole dei sassi, che per fortuna hanno smorzato l’impatto. Rimane contuso per parecchi giorni, sufficienti tuttavia a far sbollire il proposito di dare loro una bella ripassata. Superata l’ira iniziale, come sempre, non è capace di mantenere l’astio, né gli appartiene la vendetta, due sentimenti a lui estranei. Gil è scatenato, mai stanco, forse per sfruttare tutte le ore di luce che l’estate delle vacanze gli concede abbondantemente. A casa solo per dormire e mangiare: la Mamma chiama dall’abbaino della stazione con una voce potentissima, che si sente fino oltre il viale: “Bambiniiii il mangiare è in tavolaaaaa!”. Non fa in tempo a scendere le scale che già loro sono seduti, sempre con un grandissimo appetito. I tempi sono duri e la retribuzione del Babbo purtroppo sempre insufficiente. Ai vari piccoli lavoretti occasionali (vedi Attività Lucrose in fondo al volume) o stagionali bisogna dar corso a qualcosa di più consistente. Così Gil inizia il lavoro vero con la campagna della raccolta delle bietole, in zuccherificio. Siamo alla fine di agosto di quell’anno, quando ha la storia da riparare a settembre. E’ una occupazione regolare “a libretto” con i versamenti dei contributi, che gli gioveranno moltissimo nel

Gil lavora allo zuccherificio Lettere di vettura in magazzino

Primo incarico in magazzino, a fare le lettere di vettura per la spedizione dei carri ferroviari. Il responsabile è Gelmini (detto Gino della Porsia, sua moglie) da sempre impiegato in zuccherificio e padre di alcuni nostri amici; un personaggio, singolare, magro, dinoccolato, passi lunghi, scattoso e originalissimo che è solito intercalare ogni parola con una serie di invettive strampalate, colorite e blasfeme. Questo modo di parlare è diventato il suo normale mezzo di comunicazione con tutti, salvo mutarlo d’incanto, con riflessi degni di un tiratore di piattello, quando si trova all’improvviso davanti al direttore, un pio democristiano, soprannominato “manina santa” a causa di una poliomielite giovanile, ben inserito nel contesto d’elite clericopolitica del paese, tutto chiesa, casa, lavoro e raccomandazioni. Parlando con lui ci si aspetta sempre di vedere la sua manina alzarsi per una benedizione, pur sapendo che potrebbe nascondere una sciagura. In quel magazzino trova, per imparare, Giovanni Castaldelli, detto Gion, che fa quel lavoro da qualche anno. Un buon ragazzone alto e gioviale, che è stato capo della banda del Cao de Sora in lotta perenne con quella del Cao de Soto (divenne mitico quando, durante uno scontro, catturò il ben noto imprendibile “Scriciolo” che fu legato ad un palo con minaccia di rogo fino a fargli confessare i programmi segreti dei compagni, ponendo termine alle ostilità, anche perché quei ragazzi ormai erano diventati improvvisamente quasi adulti). Gion, abbastanza giovane, era rimasto orfano di entrambi i genitori, titolari dell’albergo ristorante Roma con annessa balera, alla fine del viale della stazione. Senza parenti, aveva avuto come severo e parco tutore il suddetto “manina santa”. Diventerà un valido giornalista all’Arena, quotidiano Veronese, fino alla pensione.

Gil 2° anno zuccherificio pesa tare

Secondo anno di zuccherificio, assieme allo studio per riparare la topografia a settembre. Questa volta Gil è alla pesa tare, ultimo atto che i mezzi compiono con la consegna delle bietole. Iniziano dalla pesa d’entrata sul viale della stazione, dove viene indicato su un bollettario il nome del coltivatore ed il peso lordo col rilascio del tagliandino. Poi vanno nel piazzale dei binari morti della stazione, dove i facchini con grandi forconi speciali dai denti bombati, spalano le bietole sui vagoni. Durante questa operazione viene prelevato un campione che va al laboratorio chimico, dove in tempo reale viene analizzato il tasso zuccherino, che determinerà il prezzo unitario. Una volta scaricato, il mezzo vuoto giunge alla pesa tare, dove arrivano anche tutti i bollettari. In quel cosottino sono in quattro: il Professor Fantoni (detto Penelope), insegnante di matematica alle Medie, capo pesa; Zinetti, papà di un nostro amico e dipendente fisso dello zuccherificio, addetto alla pesatura, che esercita con una precisione infallibile, scrivendo sul famoso bollettario il peso del mezzo vuoto; Zeno, invalido, reduce di guerra e zio di Gabriella, abilissimo nel gioco della dama imparato in prigionia, che controlla le operazioni per l’Associazione dei Coltivatori; Gil che esegue le operazioni sui bollettari, dopo la tara inserita da Zinetti, facendo a mano il calcolo del peso netto, per rilasciare il tagliandino al trasportatore o coltivatore. L’ultimo carro passa molto tardi poiché gli scaricatori sono stanchi ed i vagoni vanno completati e stipati con cura. Solo dopo l’ultima pesata vanno fatti i conti finali, con numerose somme in ogni bollettario, che devono confermare le operazioni parziali delle bollette: tutte cifre di migliaia con tre decimali, senza calcolatrice. I carri passano lentamente e tra una pesata e l’altra si gioca a dama: naturalmente Zeno che è un campione (li ha iniziati a quel gioco con le mosse più importanti ) vince sempre. Verso la fine della campagna qualche volta Gil l’ha battuto, quasi sicuramente per stanchezza. Spesso i totali non tornano: possono essere sbagliati i parziali o i riporti o le somme stesse sui numerosi bollettari, ognuno dei quali aveva circa cinquanta righe. Allora cominciano le solite identiche discussioni: colpe, minacce, accuse, insulti velati, insinuazioni, brutte conseguenze se errato è il peso netto della bolletta consegnata al coltivatore. Non si può lasciare la pesa se non sono completate le operazioni sui bollettari che Zinetti deve portare agli uffici centrali. Prima di iniziare i controlli, che richiedono a volte anche più di un’ora, facendoli uscire senza straordinari molto tardi (per fortuna Gil non aveva più l’appuntamento con il bietolaio), c’è la solita scommessa: chi ha sbagliato l’indomani mattina offre per tutti il panino con il formaggio gorgonzola ed il bicchiere di clinto, che Gil va a comperare a credito fino al giorno di paga, appena sfornato nel negozio in fondo al viale della stazione. Velo pietoso sull’ilarità generale che sgorga spontanea quando salta fuori chi ha sbagliato: è quasi sempre Penelope il prof. Fantoni, assai distratto come quasi tutti i matematici. Grandi risate a crepapelle e lui arrabbiato perché oltre allo scorno deve subire anche la beffa di pagare lo spuntino. Il terzo anno Gil farà sempre la campagna delle barbabietole in pesa tare, ma non ci sarà più la complicità, l’allegria e l’armonia di quest’anno, anche perchè cambieranno alcuni componenti.

computo degli anni per la pensione. Il primo stipendio vede Gil arrivare in cucina all’ora di cena, con in mano una pacchettino di banconote, che getta per aria in segno di esultanza. Primo tangibile contributo all’economia familiare, completamente versato nelle casse di casa, con grande orgoglio e gioia. Anelato da sempre finalmente è arrivato questo momento. Al lavoro quindi con grande entusiasmo, ma con altrettanto al ritorno in stazione, poiché verso sera aspetta Gil alle Superiori

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ansioso l’arrivo del treno merci detto “bietolaio” un lungo convoglio di carri vuoti con la locomotiva a vapore 540.001, da 1.500 cavalli alla velocità massima di 65 chilometri-ora. Proviene da Monselice, Cologna Veneta, Minerbe, Legnago, tutte località con zuccherifici attivi, dove ha trasportato le barbabietole caricate lungo il percorso. Durante le lunghe manovre, Gil diventa amico del fuochista ed impara a guidare la locomotiva, fatto effettivamente eccezionale per un ragazzo di sedici anni, compiendo tutte le lunghe manovre serali, che a


Gil conduce la locomotiva del bietolaio A Sanguinetto il bietolaio fa una lunga sosta, a volte anche di ore, con complicate manovre organizzate magistralmente dal Babbo, necessarie a creare il convoglio nel giusto ordine per l’alba della mattina successiva. La stazione è una delle poche dell’intera linea ad avere otto binari a disposizione, indispensabili per quella complicata movimentazione dei carri. In locomotiva l’anziano macchinista, con gli occhi semichiusi dalla stanchezza ed il fuochista Gino, un ex alpino di quasi due metri (unico nella sua compagnia a trasportare sulle spalle un obice da 100 kg fin sulla cima), con la forza da ercole e sempre di buon umore, ancora pieno di energia anche se dal mattino ha già spalato quasi cento quintali di carbone. Nota subito l’ interesse viscerale di Gil e le sue attenzioni maniacali per quella macchina sbuffante così potente ed in fondo semplice. Gil si è documentato dal Babbo sul suo funzionamento e sulle sue caratteristiche e quando Gino gli fa qualche domanda, facendolo salire sulla locomotiva, rimane stupito delle sue cognizioni. Scatta subito la scintilla e diventano grandi amici. La sua presenza in macchina è sempre più frequente, specialmente durante le noiose interminabili manovre: Gil gli chiede continue informazioni su questo e su quello e lui non finisce mai di istruirlo. Pian piano prende confidenza con i vari comandi; tira il fischio ogni volta che si passa dal passaggio a livello o cambia la marcia per la spinta dei vagoni nei binari morti, scarica il vapore quando la condensa aumenta, attacca la pompa ausiliaria dell’aria compressa dei freni mai abbastanza a regime nelle manovre prolungate, verifica la pressione del vapore e gli “chiede” il carico del carbone quando la stessa tende a diminuire; nel frattempo comincia a fare qualche frenata rapida ed alzare la pesante leva per il movimento. La reciproca simpatia aumenta sempre più ed anche la loro confidenza, specialmente dopo la “sfida della pompa” in cantina. A questo proposito dovete sapere che l’approvvigionamento idrico della nostra abitazione è assicurato da un pozzo di acqua potabile, collegato con una pompa a mano aspirante e premente da azionare in due tanto era dura, con la quale si può riempire un serbatoio in solaio, con circa duecento pompate ad intervalli di cinquanta. Le Ferrovie non avevano voluto installare una pompa elettrica: era già molto aver perforato il pozzo e fatto l’impianto in casa, poiché prima l’acqua veniva presa col secchio alla fontana degli Spoladori nel piazzale. Un giorno mentre Gil sta pompando alacremente con Gian, arriva l’amico Gino e vedendoli alquanto sudati, scherza sui loro muscoletti, dei fuscelli in confronto ai suoi. Gil sapeva per esperienza che quel movimento orizzontale fatto per la prima volta risulta quasi impossibile per chiunque, e lo sfida; “se non riesci a fare più di trenta pompate senza fermarti, con un solo braccio, da domani mi promuovi macchinista capo”. Con un benevolo sorriso accetta la sfida, alla presenza degli altri ferrovieri divertiti dall’insolita situazione di Davide contro Golia. Inizia a pompare con grande ritmo, ma dopo poco rallenta sensibilmente fino a fermarsi, stupito e incredulo, a venticinque colpi, lui che aziona la pesantissima leva del vapore centinaia di volte. Perde la sfida tra l’ironia dei presenti. Da quel momento la presenza di Gil in macchina diventa quotidiana; col cappello nero sdrucito e semilucido da fuochista regalatogli da Gino, qualche macchia di carbone in viso ed il caratteristico straccio scuro sempre in mano, guida la locomotiva come un giocattolo, con delicatezza e precisione: quei millecinquecento cavalli al suo servizio, gli permettono di fare tutte le manovre alla perfezione, tra la meraviglia generale e l’invidia degli amici che vengono a vederlo davanti alle sbarre del passaggio a livello. Gino si fida ciecamente al punto di rischiare il posto per fargli condurre quella enorme macchina in manovre ufficiali. E’ stato uno degli amici che ricorderà per sempre. Credo che mai nessun ragazzo a sedici anni abbia fatto una esperienza del genere. E’ una cosa entusiasmante ed esaltante che purtroppo finisce con la campagna della raccolta delle bietole e non potrà essere ripetuta l’anno successivo poiché cambieranno i macchinisti. Il grande sogno dura una sola estate.

volte si protraggono fino a notte.

te e famoso dell’intera linea Mantova Monselice.

Quell’anno in stazione c’è una nuova presenza, Friz, un cane bastardino buono e menefreghista che mangia come un molosso e non è di nessuna utilità: non fa la guardia, dorme di giorno e ulula alla luna di notte, non gioca, va d’accordo con tutti, gatti topi e rane compresi, non impara a far nulla, sempre svogliato, mite e paziente. Una volta il manovratore del bietolaio, un piccolo mantovano divenuto crudele forse a causa del suo lavoro tra i respingenti dei carri in movimento, gli lega uno spago alla coda con attaccati diversi barattoli. E’ uno scherzo terribile, poiché i cani sentendo i barattoli sbattere dietro, corrono sempre più in fretta, fino all’infarto. Friz, dopo alcuni metri, si ferma, gira le testa, torna sui suoi passi, si siede sul primo barattolo che incontra e come se nulla fosse guarda annoiato il suo carnefice. Il manovratore tempestato di facezie, diventa lo zimbello del bietolaio. Friz d’incanto diventa il cane più intelligen-

Alla fine di settembre, finita la campagna dello zuccherificio, data storica 1953: con un piccolo premio straordinario, Gil e Gian vanno a Venezia con Priulìn più grande di loro di alcuni anni. E’ il garzone del calzolaio Ervino Spoladori, che ha il piccolo laboratorio nella ex pesa, all’angolo del piazzale. Prima uscita da casa da soli e per giunta con pernottamento nella città lagunare. Vanno a dormire in una stanza, con finestra sul campiello, di una modesta pensioncina: tutte donne che li accolgono come figli per quattro soldi offrendo loro anche un piatto di minestra in brodo. Alcune sicuramente erano prostitute. L’indomani mattina all’alba quei due briganti Nelle foto: Gil a Verona grande freddo [1954], 1° Giro del Garda [1955]

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senza coscienza e men che meno riconoscenza, scappano dalla finestra senza pagare, mentre Gil non se la sente e lascia sul cuscino la sua parte. Quell’anno 1954 vede due importanti avvenimenti: il territorio libero di Trieste, il 20 Ottobre torna all’Italia dopo moltissime manifestazioni, anche studentesche, che per Gil sono solo motivo di vacanza e l’inizio delle trasmissioni della televisione italiana, da ammirare presso il Caffè Manzini in piazza, uno dei pochi televisori pubblici. Ci sono i mondiali di calcio in diretta dalla Svizzera, primo avvenimento assoluto, che vede il locale riempirsi con un entusiasmo inverosimile, due ore prima della trasmissione. Vince la Germania contro l’Ungheria 3 a 2, ma si metterà in evidenza l’Uruguay nelle qualificazioni con un gioco velocissimo ed avvincente sconosciuto a quasi tutti. Gil comincia ad essere più posato e studioso ed iniziano i primi approcci amorosi. Con Claudio Ambrosi e la sua Topolino FIAT balestra lunga, praticamente la prima serie e Romano Scarpolini, battono i paesi del circondario alla ricerca di fidanzatine. La sera dell’ultimo dell’anno, dopo trattative durate mesi, si sono accordati con tre ragazze di Asparetto, a sei chilometri dal paese, di andarle a trovare in assoluto incognito perché sole in casa, verso mezzanotte, per festeggiare il nuovo anno. Alle undici e mezzo sono in macchina, tutti eleganti e pieni di en-

tusiasmo, quasi certi dell’orgetta. Claudio al volante con i guanti di camoscio, il bocchino di osso bianco in bocca con la sigaretta infilata, il cappotto nuovo di zecca color panna; Romano con due dita di brillantina e l’occhio già dilatato; Gil tutto emozionato per l’avvenimento, che si prospetta storico. Partono che sta nevicando ed arrivano alle porte di Asparetto. Claudio ferma la macchina, un bel sospiro e accende con calma la sigaretta; poi, dopo essersi aggiustate le sopracciglia e corretto il ciuffo col dito medio , si sistema i guanti e via quatti quatti in paese. Ad un certo momento, quasi arrivati davanti alla casa delle amiche, si sente un baccano infernale, con la macchina che si riempe di fumo: la marmitta si era di nuovo staccata. Numerose finestre si spalancano dalla curiosità, pensando ai primi botti in anticipo. Claudio, sempre col bocchino in bocca e sigaretta accesa, senza fare una grinza tira fuori il filo di ferro costantemente a portata di mano, sguscia sotto la macchina con i guanti infilati ed il cappotto nuovo, per fare la riparazione. Gil comincia a ridere come un matto, con convulsioni che non riesce a frenare nonostante le insistenze di Romano che vede pregiudicato l’appuntamento e le invettive di Claudio che al buio non riesce a legare la marmitta e non capisce né sopporta la sua ilarità. Dopo cinque minuti mezzo paese è alle finestre, la porta delle amiche naturalmente non si apre e i tre galletti scornati devono tornare con le pive nel sacco a Sanguinetto, finendo tutti eleganti in una cupa e fumosa osteria a brindare per il nuovo anno, soli, delusi ed amareggiati. Le tre ragazze non li hanno più voluti vedere. Il 1955 è l’anno per Gil assai fortunato come diremo dopo; la scuola va bene e durante l’estate, prima dello zuccherificio, che lo vedrà sempre alla pesa tare, è con Claudio in giro per mercati a vendere tessuti come riferito nell’apposito racconto delle attività lucrose, in fondo al capitolo. In agosto Gil realizza un sogno: il giro del Lago di Garda in bicicletta, che poi verrà ripetuto l’anno dopo, con la variante che conduce al laghetto di Ledro. Si diceva prima dell’anno fortunato. Infatti in settembre Gil e Gabriella si innamorano perdutamente. E’ un amore puro e profondo che durerà per sempre e li vede insieme tutti i giorni a tutte le ore, dato che Gil

Si devono fermare alcune volte: per la stanchezza, per la cena in campagna con un fornellino da campo col beccuccio che si ostruisce continuamente e anche per riparare due forature nella camera d’aria piena di pezze della bici di Gil. Dopo aver perfino toccato Sirmione, arrivano a Salò che è notte, dopo quella salita estenuante e senza allenamento, alla ricerca di un letto per riposare. Gil purtroppo ha delle piaghe tra le cosce per lo sfregamento contro la sella dovuto ai pantaloncini troppo corti e dubita di poter ripartire la mattina dopo, tra lo sconforto generale. Pochissimi soldi in tasca, ma per fortuna trovano un alberghetto, non troppo caro, che dà loro una stanza con un letto matrimoniale ed uno singolo. Tutti vogliono il singolo e nessuno stare in mezzo nel matrimoniale quindi discussioni a non finire: io sono il più anziano, lui il più il giovane, ma tu sei più piccolo, lui russa, l’altro col tandem è stremato e così via finchè vengono interrotte dal problema delle piaghe di Gil. Ad un certo punto, ad uno dei quattro incoscienti, viene in mente che un rimedio veramente efficace, usato anche dai corridori ciclisti, è quello di fare degli impacchi con acqua e aceto. Ormai i negozi sono chiusi e le piaghe insopportabili. “Ma abbiamo l’aceto dei peperoni” dice Giulio, “aceto buonissimo fatto in casa!”. Preso un catino, versano una buona parte dell’aceto del vasetto ed aggiungono un po’ d’acqua, poca affinché l’effetto sia maggiore. Gil si spoglia e senza mutande si siede sul catino in modo da inondare le piaghe per aumentarne l’effetto. Con un urlo bestiale, un dolore allucinante lo fa schizzare in piedi, costringendolo a correre all’impazzata fuori dalla stanza per le strade di Salò, alla ricerca di alleviare il bruciore. Dopo circa dieci minuti di corsa e lamenti, con dietro Claudio e Giulio preoccupatissimi perché faticano a raggiungerlo, si ferma di scatto: il dolore sta diventando più sopportabile, segno che fa effetto l’aceto. Tornano in stanza per fare altri impacchi, poi a letto, distrutti dalla fatica, senza più discutere per il posto poiché si addormentano immediatamente. La mattina il risveglio porta la bella sorpresa che le piaghe sono sparite completamente, come per magia: sul tavolo, il vasetto dei peperoni fatti in casa, quasi asciutto, ha una etichetta con su scritto: “attenzione peperoni piccanti”. Il giro continua, praticamente senza soldi poichè Gil ha dovuto comperare una camera d’aria nuova, ma hanno ancora il fornellino per i pasti e qualche scorta alimentare, che integrano con grappoli d’uva e bottiglie di latte oggetto di “prelievo proletario”. ...segue

Nelle foto: Gil al Castello di Sanguinetto [1957] Gil alle Superiori

I giri del Garda in bici [Agosto 1955] Per Gil si realizza un sogno: il giro del Garda in bicicletta, con Gian, Giulio Franceschetti e l’amico Claudio Ambrosi. Partono da Sanguinetto, Gian e Giulio in tandem, un discreto ma pesantissimo mezzo prestato dai commercianti di stoffe datori di lavoro di Gil e Claudio, ( iniziano quasi subito a litigare poiché Gian vuole stare sempre dietro spingendo poco sui pedali e suonando l’armonica), Gil con una bici sportiva prestatagli da un amico di Nogara e Claudio con una bici da corsa di suo cugino.

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A Torri del Benaco devono fermarsi per la notte: non è rimasto altro che andare a dormire in un pagliaio, grazie alla bontà del Parroco a cui Giulio si rivolge ostentando la sua tessera dell’Azione Cattolica. Fanno una dormita fino alle nove del mattino seguente, poi bagni, sole e rientro strepitoso, dopo 300 Km di bici, adeguatamente dopati con zollette di zucchero, Gil ripete il giro l’anno dopo, solo con Giulio e Claudio. Giulio con una bici da città con dietro sul piccolo portapacchi legata una cassa di legno contenente la tenda, i viveri ed i ricambi. Gli altri due con bici sportive in prestito. Succede di tutto, anche perché Giulio, sulla salita che porta al lago di Ledro, massacrante specie per lui, passando da un paesino si ferma e vuole dare forfait: ha sentito alcuni ragazzini urlare: “ davanti i campioni e dietro il musso col basto”. Lo convincono, con notevole diplomazia e dopo una lunga discussione, che quei ragazzini maleducati, avevano male interpretato il suo grande spirito di abnegazione. Completano il giro in altri due giorni, con anedotti che a raccontarli tutti ci vorrebbe un libro, come la lunga conversazione che Giulio fa alle cinque di mattina, appena fuori della tenda svegliando tutti, con un tedescone bianco e rosso: lui in dialetto veneto ed il teutonico in arido bavarese. L’impresa comunque è stata eccezionale e Giulio ha avuto il giusto riconoscimento.

trascorre delle intere giornate presso la sartoria dove lavora. Gabriella è bellissima, sedici anni di fragrante freschezza, un bocciolo in fiore, certamente la più bella del paese. Per Gil è il primo vero grande amore. E’ un momento magico di grande felicità, irripetibile, inimmaginabile che li vede sempre assieme in ogni momento. Inizia l’ultimo anno di scuola con la gioia nel cuore. Oltre all’amore ed allo studio, Gil si diletta con il calcio balilla e col biliardo. Il 1956 scorre veloce, ma comincia l’incubo degli esami, un trauma anche per i più bravi. Inizia ad essere irrequieto e confuso. Con Gabriella decidono, entrambi con le lacrime agli occhi, di prendere una pausa per prepararsi meglio, fino alla fine degli esami. Errore gravissimo: l’ansia aumenta sempre più, col dolore nel cuore ed il cervello annebbiato. La separazione dura pochissimo perché dopo gli esami si rimettono immediatamente ad amoreggiare, rubando però tempo prezioso e concentrazione alla riparazione di settembre. Fortunatamente tutto finisce nel migliore dei modi completando, con l’autunno del 1956, il primo ciclo importante della sua vita, denso di momenti di grande pathos ed immensa felicità.








Gian alle superiori Settembre 1952: Gian, superata la Scuola Media brillantemente, entra al Liceo Classico “Giovanni Cotta” di Legnago (i primi due anni si chiamano ancora IV e V Ginnasio per il mancato adeguamento di una legge del 1859 ! ). Classe interamente maschile, molti compagni della exterza media. L’orizzonte si presenterebbe tutto sommato tranquillo, se non ci fosse un problema: la memoria quasi prodigiosa che lo aveva sorretto fino a quel momento, come d’incanto se ne è andata, e Gian si trova improvvisamente non più “attrezzato” nei confronti di certe materie come Storia, Geografia, Letterature varie. L’insegnante di lettere, Prof.sa Zamboni, detta “la civetta” per le sue sembianze da piccola vecchia strega, comincia ad appioppargli delle sfilze di tre, addirittura senza neanche interrogarlo: “Facciamo Storia, Gagliardi-tre, venga un altro....” La situazione è veramente critica, bisogna fare qualcosa. Quando è di turno alla stufa (il riscaldamento è a legna, con quelle stufe di terra refrattaria, le Bechi, a corpi sovrapposti), d’accordo con i compagni, Gian carica legna a tutta birra provocando un insopportabile rialzo di temperatura. La “civetta” si alleggerisce via via degli abiti e, sul più bello, Gian apre tutte le finestre “per cambiare aria”. Dopo meno di due settimane di questo trattamento la profe è a casa con un principio di bronco-polmonite. Mandano una supplente, la Belluzzo, giovane e quasi carina a paragone della vecchia megéra, soprattutto molto buona, che, con grande impegno, riesce a far rimediare le insufficienze di pressoché tutti i malcapitati. Sta per finire l’anno e la Belluzzo informa che l’ultima settimana rientrerà l’insegnante titolare per interrogare i più incerti (es. Gian in Storia!). Non si sa come, Gian riesce a farsi fare un certificato medico per un piede rotto: resta a casa e finisce l’anno promosso! In quinta va un po’ meglio, forse perchè è scomparsa di scena la famigerata “civetta”. Ci sono gli esami di ammissione alla prima Liceo. Il Prof. Barbesi, che gode fama di omosessuale, è nella commissione di esami e cerca di convincere Gian a trasferirsi a Verona, dove lui andrà ad insegnare. Gian non dice di no, viene promosso, ma poi resta a Legnago (e integro).

Il Liceo rappresenta forse il momento più entusiasmante nella vita scolastica di Gian. E’ decisamente un periodo di grande e stimolante maturazione intellettuale, per cui tra compagni nascono infinite discussioni sui grandi temi della vita: si parla molto di religione, di filosofìa e di politica. Inoltre c’è la tempesta ormonale e c’è, per la prima volta, la classe “mista” che genera continue provocazioni (siamo sempre molto sul platonico). Senza particolare impegno i risultati scolastici sono buoni, soprattutto perchè Gian si porta dietro dalle Medie la fama di “bravo”. C’è un solo problema, la Storia, che continua ad essere indigeribile, anche grazie ad una insegnante, la Prof.sa Verdolini, che sarà nei suoi riguardi una sorta di torturatrice nazista per tutto il percorso liceale, un incubo che ha macchiato quella formidabile stagione. Il resto degli insegnanti è abbastanza valido, con alcune punte di eccellenza, come il Prof. Bòn di Greco, ed una sciagurata eccezione, la Prof.sa Gràmola (detta la Pita), una anziana insegnante di Scienze assolutamente inadeguata, con tanti problemi personali, forse mentali, oltre che familiari, di cui i “bravi” studenti si approfittano in modo indecoroso, trasformando l’ora di Scienze

in una baraonda di scherzi, battute e “caciàra” di cui, col senno di poi, c’è solo da vergognarsi. Tra le tante stupidate, vale la pena ricordare le interrogazioni di Sergio Furini (detto Marte per la sua testa esagerata), furbo ed intelligente, che riesce, per scommessa, a portare regolarmente l’argomento sulla Formula Uno, sempre con la massima compiacenza dell’insegnante che lo adora. Conseguenza di una di queste giornate “eroiche” sarà per Gian l’esame di riparazione in Fisica, come punizione inflitta dal Prof. Fantoni (detto Penelope) di Sanguinetto, amico di famiglia, che, entrando improvvisamente in aula durante l’ora di Scienze, ha sorpreso l’interessato in atteggiamento non consono. Gian, che da sempre ha un po’ il vezzo di scrivere rime (e purtroppo non è il solo in famiglia), in questo periodo scrive le vite dei grandi filosofi (più che altro per memorizzare i dati salienti per le interrogazioni) e una invettiva contro la Storia (Historia Matrinia Vitae), con cui sfoga tutto il suo odio per quella importantissima materia con cui, a malincuore, in nessun modo riuscirà mai a fraternizzare. Piccola dolorosissima parentesi è l’asportazione delle


LA CENSURA ANNI ‘50 Non deve essere facile, per chi non l’ha vissuta, comprendere la censura “morale” che, soprattutto nella musica e nella neonata Televisione, veniva esercitata dalle nostre bigotte istituzioni in nome di un malinteso senso comune del pudore. Qualche esempio può essere di aiuto. 1955: Il brano “La pansè” di Pisano-Cioffi, interpretata da Renato Carosone, a causa dei sui contenuti ammiccanti, viene bandito dalla trasmissioni radiofoniche e dalla neonata Tv. Ciò nonostante, la canzone si diffonde attraverso i dischi, i “juke-box” ed i numerosi locali pubblici dove si esegue musica dal vivo, provocando qualche controllo “a sorpresa” delle forze dell’ordine. Ad evitare problemi, in molte balere viene esposto il cartello: “In questo locale non si eseguono brani come La Pansè o simili trivialità”. La canzone di Domenico Modugno Vecchio frack, l’unica sua canzone in italiano di questo periodo e forse la più riuscita (anche se quando viene incisa nel 1955 passa inosservata), procura all’autore il primo problema con la censura: infatti il verso Ad un attimo d’amore, che mai più ritornerà gli viene fatto cambiare in Ad un abito da sposa, primo ed ultimo suo amor, in quanto non era possibile citare, in una canzone, un attimo d’amore. Nelle incisioni della canzone realizzate anni dopo, il cantautore pugliese utilizzerà poi il testo originale senza problemi. 1957: Resta cu’mme di Domenico Modugno viene censurata dalla RAI per il verso “Nun me ‘mporta d’o passato, nun me ‘mporta ‘e chi t’avuto...” per l’evidente contrasto con la corrente morale di stampo cattolico che attribuiva grande valore ed importanza alla verginità della donna. 1959: Jula de Palma, al Festival di Sanremo, propone Tua di Pallesi-Malgoni, classificandosi al quarto posto. Più che il testo è l’interpretazione della de Palma a dare scandalo e la sua esibizione al festival non verrà trasmessa dalla RAI in quanto giudicata troppo lasciva. Abbe Lane. Giovanissima (aveva solo diciannove anni), si sposò nel 1952 con il musicista e direttore d’orchestra spagnolo Xavier Cugat, dedito prevalentemente a ritmi latinoamericani come ad esempio mambo, rumba e cha-cha-cha. Affermatasi come “femme fatale”, ebbe grande popolarità in Italia, dove recitò in diversi film e partecipò, fin dal 1955, generalmente in coppia con suo marito, ad alcuni show televisivi di successo. In quegli anni raccolse, accanto ai consensi del pubblico maschile, anche qualche critica per la sensualità prorompente che esprimeva, considerata eccessiva per i costumi dell’epoca. Quando arrivò in Italia, nel 1954, i giornalisti entusiasti la chiamarono «statua di carne». Era una danzatrice dalle mosse arditissime: “cantava con il corpo». Una trionfale tournée la consacrò regina del «cha cha cha” (e di ogni ballo sudamericano) anche in televisione. La trasmissione Casa Cugat (1955), di cui era protagonista accanto a suo marito, divenne ben presto un appuntamento irrinunciabile e dal sapore trasgressivo per migliaia di telespettatori. Nel 1960 la coppia Lane-Cugat tornò in tv con Corrado nella trasmissione Controcanale; negli show l’ordine (per i cameramen) era di inquadrarla di fronte e in primissimo piano o in campo lungo.


GINA LOLLOBRIGIDA In quel periodo fu invitata in TV Gina Lollobrigida già famosa come diva cinematografica dal grande sex-appeal. Poiché esibiva un seno formidabile, la costrinsero a presentarsi con tre rose infilate nell’ampia scollatura al fine di contenere la “inopportuna” esposizione. Per l’occasione Gian adattò un modestissimo testo ad un classico della canzone italiana, Come le rose..., scritta negli anni ‘20 e rilanciata da Nilla Pizzi negli anni ‘40, che la Mamma cantava spesso, ammiratrice com’era della cantante che considerava sua omonima (ma la Pizzi si chiamava Adionilla!). Queste tre rose rosse olezzose a coprirti non servon giammai ci vorrebbe una sporta di rose per coprire le tette che c’hai. Ma le rose non sono abbastanza e si vede qualcosa laggiù ti si vede perfino la panza la censura non vuole di più. Ah, queste tre rose rosse ah, ah se fosser più grosse ma noi da bravi figlioli compriam girasoli e a te li doniam.

unghie degli alluci, inverosimilmente incarnite, trascurate e tenute nascoste da Gian per pigrizia e per paura: sarà costretto ad indossare “noni” (così venivano chiamate le pantofole dei vecchi) senza puntale per varie settimane. Poi, alla ricrescita, terrorizzato, farà milioni di bagni in acqua calda e sale, riuscendo tenacemente ad evitare le recidive. La vita in paese è molto provinciale: un bel gruppo misto di quasi coetanei a fare vasche su e giù per la lunga via principale (disponibilità di mezzi di trasporto privati zero, libertà di movimento delle femmine quasi zero), qualche cinema, qualche festicciola da ballo con molti “lenti” quando la sorte è favorevole e salta fuori un posto idoneo (un capodanno è stata usata perfino la sala d’aspetto della stazione!), qualche scampagnata, i “tè danzanti” organizzati nel Teatro Zinetti la domenica pomeriggio con il complessino “Mood Five” di Gian e Sandro Perini e, una volta all’anno, il veglione “ad inviti” (o festa degli studenti) che vede tutto il gruppo maschile super-impegnato nell’addobbo del Teatro con scenografìe di Giulio Galetto, imponenti scene di carta e cartone disegnate e dipinte a mano dai più dotati (Gian e Franco Zinetti), effetti-luce speciali ad opera dei super tecnici Gil e Mario Zinetti, e, alla fine, impegno personale nei servizi ai tavoli, con abiti scuri e papillon (Gaetano Dionisi è sempre Direttore di sala).

ARISTOTELE [Gian 1955]

HISTORIA MATRINIA VITAE [Gian 1954]

Nel trecentottantaquattro a Stagìra, o giù di lì, venne al mondo, bene o male, Aristotele il sapiente che, come ciascun mortale, nacque, visse, e poi morì, concludendo poco o niente.

O sommo padre, onnipotente Giove vorrei sapere come, quando e dove avesti come figlia una tal Clio che rovinò l’onore e il nome mio. Di nove muse, tutte fresche e belle, di nove dolci e splendide sorelle, una sola ve n’è piena di boria: è Clio, perfida musa della Storia.

Nicomàco, suo parente, alla corte un gran dottore, muore presto dal dolore d’esser padre di un demente e Aristotele orfanello, anzichè far lo speziale, con stupore generale fa il filosofo bel bello.

Il dì ch’ella fu messa nella cuna segnò il cadere della mia fortuna e d’allora la mia peggior nemica è la Storia (moderna come antica). ....................................................? O Giove Pluvio, onnipotente dio, dimmi che colpa in fondo ce n’ho io se Federico aveva il pizzo rosso e nel centonovanta andò nel fosso.

Alla scuola di Platone lo chiamarono “la mente”, però poi ‘sto deficiente del Liceo fu il fondatore e per questa brutta azione irritò tanti studenti che per poco andò in prigione.

Che cosa gliene frega al sottoscritto se Attila tirava sempre dritto finchè incontrò quel tal papa Leone che, in fin dei conti, gli tirò un bidone? Che cosa importa a me se iconoclasta vuol dire “rompo immagine”? E poi basta!

Quindi a Calcide lui venne e, per far tutti contenti, quasi nel trecentoventi ivi ci lasciò le penne. Il gruppo è solo maschile nelle lunghe giornate al biliardo o al bar, specialmente in tarda serata. Il Liceo passa velocemente, con qualche simpatica gita scolastica, qualche scontro fisico con gli odiati nemici dell’Istituto di Ragioneria (ci rimette sempre Gigi “notaio” Alberti ed il suo montgomery nero, che deve essere ricomprato nuovo ogni stagione), qualche grande manifestazione-sciopero (per Trieste italiana), qualche bel convegno al Teatro Salieri (con Lacedelli e Compagnoni dopo la conquista del K2) con Inno “Dove vai liceale amoroso” arrangiato da Gian. Poi qualche flirt, qualche “festina” da ballo, qualche “berna” (salto autogestito della giornata scolastica), e le prime sigarette, rigorosaNella pagina precedente: 1958 Teatro Zinetti: festa da ballo “Paris by night”

Gianl alle Superiori

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Viva la pace limpida dei monti senza principi e duchi, e senza conti. Viva l’amenità delle convalli senza feudi e castelli con vassalli. Evviva il mare e il sole dell’estate senza quei nomi, senza quelle date. Evviva il vino, le donne e la baldoria, viva nel mondo tutto ciò ch’è buono, e abbasso i tre volumi della Storia! mente dopo il compimento del diciottesimo compleanno, secondo le disposizioni paterne. Il risveglio è piuttosto amaro e si chiama MATURITÀ. L’esame è durissimo e presuppone, oltre ad una consolidata preparazione sui programmi di tutti e tre gli anni, anche una particolare lucidità mentale, due cose che, in quel momento Gian non possiede. E’ una mezza catastrofe. Gian, completamente in barca, svolge un tema su Leopardi, mentre doveva essere sul Foscolo! Quattro materie e bocciato a settembre. In famiglia grande crisi e grandissima delusione.


El mato Berardo Sanguinetto, estate ‘56: si parla di uno strano personaggio, un campagnolo di mezza età che, a volte, compare in paese nei pomeriggi domenicali e, se non si ferma nella storica Osteria “spagnola” di Sbècola, passa in piazza intrattenendosi con qualche conoscente, su argomenti, sembra, un po’ strampalati. Un nostro coetaneo che bazzica intorno alla sua abitazione per via della figlia molto carina, racconta che vicino al pulsante del campanello c’è, disegnato a mano, un rettangolino, dentro il quale c’è scritto REMITE. L’interpretazione data in prima approssimazione, conoscendo la stravaganza del padrone di casa, è che voglia dire ENTRATE o qualcosa del genere. Il piccolo mistero comincia a chiarirsi quando un amico, una domenica ovviamente, ci fa avere un primo contatto con questo strano signore. Egli infatti dichiara di chiamarsi non tanto Berardo, come registrato all’anagrafe comunale, bensì RÈMITE ELÌA SEMENZINO, una sorta di profeta, così almeno ci sembra di capire, in grado di comunicare al prossimo alcune sorprendenti verità, a patto che niente venga trascritto o registrato, che gli interlocutori stiano schierati tassativamente di fronte a lui e, soprattutto, che nessuno si permetta di fare quello che lui definisce SCALAMITRÌN, cioè risa o prese-in-giro nei suoi riguardi. Noi, una decina di giovani studenti squattrinati e sfaticati, recepiamo il messaggio e diventiamo a tutti gli effetti il gruppo dì ascolto di riferimento per il nostro Rèmite per quasi tutte le domeniche di quell’estate (a chi dovesse pensare che avremmo potuto occuparci di ben altro, faccio subito presente che in quegli anni veramente non si poteva fare molto più che passeggiare su e giù per il paese ed organizzare qualche festicciola in casa). Quasi tutte le domeniche di quell’estate le passiamo quindi, per almeno un paio d’ore, in semicerchio davanti al narratore appoggiato alla sua vecchia (anzi ANTIBIRBITICA, come dice lui) bicicletta, a sua volta accostata a qualche muro di Piazza della Vittoria per proteggere le spalle. Lui, pur essendo abbastanza dimesso, porta sempre camicia bianca e stranissime cravatte da lui stesso ritagliate da “pissotto” (credo fosse il tessuto usato per fare i pannolini ai bambini) e dipinte con disegni fantasiosi dallo stesso: infatti il Rèmite è pittore. La storia drammatica che costituisce il leit-motiv dei suoi racconti si rifà a quando frequentava l’Accademia. Era compagno di corso del Sindaco Accordi, emerito autore di litografie e tele ad olio, e fu proprio questo collega, a suo dire, che, preso da invidia per il suo valore artistico, gli sottrasse il diploma e cospirò per eliminarlo (!!). Infatti venne fatto cadere da una scala e ricoverato all’ospedale per le fratture riportate. Qui si tentò di sopprimerlo somministrandogli COSTAMICO ROSA e sottoponendolo a forti trattamenti con LENTRICITI dalle quali il poveretto riuscì a salvarsi solo proteggendosi con un quadro di non-ricordo-quale madonna, che intercettò le radiazioni ed operò il miracolo. Potè evitare così lo SVIEN-KÒ, che come tutti avranno capìto, è la morte; ma non potè rientrare in possesso del meritato diploma, che restò nelle mani del famigerato avversario. Rimasto fortemente impressionato da quella dolorosa avventura era diventato molto sospettoso e cauto, tanto da rifiutarsi di salire qualunque scala. In proposito, volendo dipingere l’immagine della madonna che l’aveva salvato sulla facciata della sua abitazione, nella parte più alta, protetta dal tetto sporgente, si narra che abbia realizzato l’opera da terra, con un lungo bastone all’estremità del quale era legato il pennello. Il “nostro” non ha fatto molto più che qualche classe delle Elementari, ma vanta una grande cultura. Dice di conoscere praticamente tutte le lingue della terra e, a richiesta, “traduce” sfacciatamente qualsiasi parola con uno dei suoi insani termini, improvvisati in modo patetico. Dove non improvvisa è nella spiegazione dell’origine della sua sconfinata cultura. Infatti, nei suoi viaggi per il mondo (credo sia stato solo in Albania da militare e forse proprio lì ha subito traumi neurologici) ha avuto modo di raccogliere i 200 libri dell’AKLANTENASDEIDE dove si compendia il sapere universale. Per far capire l’importanza di tale raccolta di testi, spiega: “I medici studiano sulla META-OSE, mentre io ho studiato sulla PLENA-OSE” (chiaro?). A questo punto l’amico Sandro, al secondo anno di medicina a Padova, non può che confermare. Il grande Semenzino è anche inventore. Tre sono le più importanti invenzioni: il LÈZIMA ALFA (macchina da cucire), l’ÈSPLOCO DELLA SÌSAL (un apparecchietto prodigioso che, esposto sul davanzale della finestra al VÈSSIMO notturno, anticipa i risultati della schedina del Totocalcio; è ancora da perfezionare e non garantisce per ora più del Dieci) e nientepopodimenoché la LETEVÌSERNE, LANASHÙBERNE in svizzero, ovvero la televisione! Su quest’ultima scende anche in particolari costruttivi, come le VALVOLE CILINDRATICHE ed il sistema fondamentale, o ESPLOCO SIMILATRICO, ma soprattutto esprime un concetto profondo e chiarificatore: “La differenza tra la radio e la televisione è che la prima è un APPLICATO, mentre la seconda è un DESPLICATO”. Le reazioni dell’auditorio sono le più svariate: da Fazion che ogni volta si rotola letteralmente per terra dalle risate, accuratamente nascosto dai più seri, a Grisotto che arriva ad affermare che le parole del Rèmite esistono veramente, tant’è che di fronte a casa sua c’è un manifesto con su scritto, a lettere cubitali, ESIMO (si accerta subito che è la pubblicità del film L’incantesimo con Kim Novak, parzialmente coperto...). Certo che per molti anni a venire parliamo di LANASHUBERNE (che nel frattempo per noi è diventato il pullover) e di ESMIFERO ERBATICO (l’asino). Fino a pochi anni fa ci salutavamo ancora con un cordiale KLAIMASZE! (ciao!): vai a capire chi erano i matti.

Magoni, Reani, Doati In una struttura nata durante il fascismo, con una grande tettoia per le “colonie solari” e due casette ai lati, di fronte al campo sportivo, abitavano rispettivamente i Magoni ed i Reani. Il Magoni era motorista borghese al Deposito dell’aeronautica. La moglie, una grassa popolana dal linguaggio disinvolto, peraltro simpaticissima, faceva la custode del campo e gestiva gli spogliatoi durante le partite e gli allenamenti. Avevano due figli, più o meno nostri coetanei: il più piccolo (Edi), dal carattere allegro e ridanciano, sempre di ottimo umore e con spiccato senso dell’umorismo, diverrà un abile meccanico d’auto. Un aneddoto fra i tanti: applicò ad una automobile con guida a destra un finto volante sul lato sinistro aggirandosi, in paese e fuori, alla guida di questa macchina, celando il vero volante con una giacca, simulando perfettamente di essere il passeggero distratto di una auto senza il guidatore! Il più grande (Gianni) era una specie di energumeno selvaggio, simpatico ed irriverente, abilissimo raccontatore di barzellette che coloriva con sequenze senza fine di invettive blasfeme con incredibile fantasia (era famoso per non ripetersi mai). Diventerà capo della famigerata tifoseria dell’Hellas-Verona ed avrà in beneficio dal Comune, non si sa bene come, una licenza per vendere verdura in Piazza Erbe (fatto assolutamente eccezionale allora) divenendo in breve tempo famosissimo con il banco sempre pieno di clienti. Gianni giocava nella squadra di calcio del Sanguinetto (seconda e prima divisione), con la peculiarità di non voler indossare i regolamentari scarpini con tacchetti, e quindi perfettamente scalzo. Riusciva a giocare così a piedi nudi, peraltro tirando delle vere cannonate e di punta. La madre assisteva regolarmente alle partite, vicino alla recinzione, seduta a gambe larghe su una bassa seggiolina non adeguata alla sua mole, facendo in continuazione apprezzamenti assai coloriti di tutti i tipi, con una voce squillante e simpatica, da venditore di mercanzia, che si sentiva da una parte all’altra del campo. Quando il figlio sbagliava il tiro in porta, il suo grido sovrastava il brusìo dei tifosi: “Gianiiiii, fiòl de ‘na trooooia !” . I Reani occupavano la seconda casetta con due figli, anche loro nostri coetanei. Il più grande fu sempre chiamato “Il Tedesco” o “Franz” per la completa mancanza di elasticità mentale (ironia della sorte da grande andrà a lavorare in Germania integrandosi perfettamente). Il più piccolo, detto “El Recia” per le sue grandi orecchie a sventola, era in assoluto l’essere più abile e astuto che noi abbiamo mai incontrato. Fin da giovane il miglior giocatore di calciobalilla, di biliardo e di pocker, risolveva a suo favore qualsiasi situazione con geniali escamotage. Gli andò male solo con la “balistite”, il potente esplosivo che costituiva la carica di lancio delle munizioni di artiglieria (il territorio ne era ancora pieno ed i ragazzi ci giocavano). Se ne era letteralmente riempito l’interno del “paltò”, cosa di cui spesso andava fiero, ma una disattenzione fece incendiare la santa barbara trasformandolo d’un tratto in una torcia umana. Sopravvisse per miracolo, ma il suo corpo, dal collo in giù, rimase per sempre straziato dalle cicatrici. “El Recia” faceva coppia fissa con “El Cisto”, uno dei figli della Signora Doati, detta “La Bottegona” dal nome del negozio di tessuti che conduceva (da quel negozio di notte uscivano innumerevoli capi che consentivano il quasi quotidiano allenamento dei due amici inseparabili con la matura prostituta del paese, la Fedora, detta “nave scuola” avendo avviato al sesso diverse generazioni). Smilzo come un’acciuga, si guadagnò il secondo soprannome di “muscoloni” per il suo finto incontro di boxe fatto con un nerboruto gigante locale di fronte alle telecamere a circuito chiuso che, prima del ‘54, battevano i paesi per lanciare la Televisione (di lì a poco avranno inizio le regolari trasmissioni). Erre moscia, leggera balbuzie, andamento un po’ scoordinato, mozzicone di sigaretta sempre all’angolo della bocca, si atteggiava al James Dean di Gioventù bruciata (mitico film del 1955): jeans, maglietta bianca e giubbino di nylon rosso. Parcheggiava davanti al bar la sua Fiat 500 decapottabile (era uno dei pochi a permettersi un’auto), entrava dinoccolato, con un’aria vissuta di grande sufficienza, nel Caffè Margotto e al banco ordinava: “’N..n....’na tazza d..d..de bianco!”. El Recia diventerà un bravo vigile negli uffici del Comune di Milano, mentre El Cisto dovrà purtroppo andare incontro a problemini di varia natura.


C’ERA UNA SVOLTA ( la band ) Scorreva (proprio così: scorreva, lento e noioso) l’anno 1957 e quell’anno, esattamente alla fine di agosto, ci attendeva un evento che osavamo definire “storico”. Qualche anno prima avevo cominciato a dedicare una parte, anche consistente, del mio tempo libero ad un’attività che ancora oggi considero tra le più interessanti occupazioni dello spirito: la musica. Fin da bambino strimpellavo una sgangherata armonica con la quale deliziavo (?) i vicini che nelle sere d’estate facevano “filò” seduti davanti alla porta di casa e, negli afosi e tediosi pomeriggi estivi, assistevo un calzolaio-compositore (Ervino Spoladori) che, senza interrompere il lavoro, improvvisava le sue creazioni canticchiandomi il motivo che io riproducevo con lo strumento ricavandone una prima approssimativa scrittura musicale, perfezionata dall’autore in altra sede e in altro momento. Fu quella piccola, insufficiente armonica a consentirmi di conoscere Sandro e di provare il piacere di fare musica in gruppo: e’ una cosa che mi sento di consigliare a tutti coloro che ne hanno la pur minima opportunità per la benefica emozione che tale esercizio può procurare. Sandro suonava la chitarra, sapeva scrivere e leggere la musica, aveva spartiti di tutti i tipi e aveva buon gusto; scoprimmo subito di gradire lo stesso tipo di musica, gli stessi autori, gli stessi brani. Resomi presto conto della inadeguatezza del mio modesto strumento, riuscii, non senza fatica, a comprare una “chromonica” (armonica dotata di un tasto che rende possibile l’effettuazione di tutta la scala cromatica e quindi di qualsiasi brano musicale) e poi ci dedicammo anima e corpo alla messa a punto di pezzi che presentavamo alle “serate del dilettante” (Vedi foto Duo Sandro&Gian - 1956) in gran voga in quel periodo. L’insuccesso era una costante: i nostri brani, presi dal repertorio dei grandi jazzisti degli anni cinquanta, venivano inesorabilmente sconfitti dalla “Voce di Tajoli” o dal tenorino di turno, ma questo non ci creava particolari problemi tanto eravamo presuntuosamente convinti che la nostra fosse l’unica vera buona musica, soprattutto ci divertivamo come i matti. Ma la cosa non poteva fermarsi lì: in due non si riusciva a concludere più di tanto e cominciavamo a sentire il bisogno di allargarci, di fare qualcosa di più completo e consistente: un complessino musicale (oggi si direbbe una band). Il progetto si presentava tutt’altro che semplice; la scarsità di musicanti “allineati” e di mezzi finanziari era disarmante, ma per fortuna la testardaggine ci sosteneva adeguatamente. Non ricordo come, venimmo a sapere che in un casolare di campagna si poteva recuperare una vecchia batteria in disuso (nella grancassa il contadino ci teneva le patate); per due soldi fu nostra. Ci costò un occhio invece una pelle di chissà quale nobile destriero per rimettere in sesto un tamburo sfondato dal peso dei tuberi. Nel frattempo dal magazzino del Comune, tra i resti dell’attrezzatura della ex-banda musicale, era saltato fuori in ottime condizioni un contrabbasso. Non si e’ mai riusciti a capire che cosa ci facesse un contrabbasso in una banda, ma questo era assolutamente secondario; l’importante è che ci venne affidato dalla benevolenza dell’Amministrazione Comunale in comodato d’uso gratuito a tempo indeterminato. Sandro aveva “elettrificato” la sua vecchia chitarra, io prendevo via via confidenza con la batteria, mentre alcuni amici che simpatizzavano con la nostra iniziativa smanettavano più o meno maldestramente sul contrabbasso…. ora ci voleva un pianista. Il primo tentativo con un blasonato locale non andò a buon fine: molto Conservatorio e poca umiltà; al secondo colpo però centrammo l’obiettivo. Dino era proprio quello che faceva al caso nostro: tocco morbido, gusto moderno, discreto swing, disposto ad imparare e crescere assieme a poveri autodidatti come noi; purtroppo abitava a chilometri di distanza (Bionde) e, poiché il mezzo di locomozione più avanzato di cui potevamo disporre era una vecchissima Vespa, ricostruita dalla grande abilità di mio fratello (quando serviva un manufatto si ricorreva inesorabilmente alla sua geniale manualità), ci ritrovavamo a provare solo con chitarra e pianoforte a casa di Dino, oppure con chitarra, basso e batteria nella nostra sede, un pericolante magazzino di mercerie in disuso, occupato quasi abusivamente. Soltanto nelle esibizioni riuscivamo a mettere assieme tutti gli strumenti disponibili ed era quindi tutto sommato prodigioso se ne usciva qualcosa di appena accettabile. In tempi brevi il gruppo riuscì a mettere assieme una serie di brani quasi decente, ma secondo noi (incontentabili!) l’assetto ideale per il programma che avevamo in mente esigeva l’inserimento di uno strumento a fiato, tipo clarino o sassofono, e questo fu l’aspetto più problematico, in un certo senso mai risolto, della nostra avventura. Tra i vari tentativi il più disastroso fu sicuramente quello di un giovane sassofonista di un paese vicino (tale Vittorino di Maccaccari) che se la cavava discretamente, ma, secondo il parere di un comitato di saggi consultato, era di una tale bruttezza che una sua presentazione in pubblico avrebbe potuto avere effetti deleteri su qualsiasi nostra velleità di successo. Già abbastanza sensibili ai problemi di marketing (anche se il termine era allora assolutamente sconosciuto), commissionammo a mio fratello un particolare leggìo che nascondesse adeguatamente il nostro (stavo per dire il mostro) alla vista del pubblico. L’attrezzo di legno smaltato aveva il profilo di una clessidra e portava sulla superficie anteriore un pentagramma con la scritta MOOD FIVE (uno studio di mercato aveva consigliato questo nome per dare il senso immediato del nostro stile: nessuno ci diede mai la soddisfazione di capirlo!). Il nostro sfortunato amico doveva suonare stando diligentemente seduto dietro questa specie di paravento. Alla prima esibizione tutto stava procedendo nel migliore dei modi quando, preso dall’euforia nell’assolo di ROCK ‘ROUND THE CLOCK, perse il controllo, dimenticò le disposizioni ricevute e si alzò mostrandosi alla gente sgomenta: fu subito rimosso ed in seguito sostituito con un ragazzetto molto simpatico ed elegante che non sapeva assolutamente suonare il clarino. Riuscimmo a fare un certo numero di esibizioni (a volte addirittura pagati ). Mentre nei pomeriggi domenicali (si chiamavano tè danzanti) il pubblico giovane e colto ci dimostrava un certo apprezzamento, nelle serate in balera il successo era più tiepido: in pratica rischiavamo quasi sempre il linciaggio. Solo una volta riuscimmo a farla franca: suonavamo al dancing VALLECHIARA di Maccaccari; una bufera di neve aveva rischiato di mandare a monte la serata (e relativo compenso); piano piano il locale si era però riempito e verso le dieci, ricevuto il via dall’organizzatore, si librarono nella sala le note della nostra sigla TEA FOR TWO. Suonammo sei pezzi prima di renderci conto che nessuno ballava ed i più ci stavano osservando con evidente ostilità. La fortuna volle che, tra gli amici al seguito, c’era una ragazza (Marisa detta “Farfalla Impazzita”) abbastanza dotata sia fisicamente che musicalmente, che con grande slancio ci venne in aiuto. Con tre brani, LA CASETTA IN CANADÀ, IL VALZER DELL’ORGANINO e non ricordo quale altra oscenità (*), ripetuti all’infinito, suonammo fino alle due di mattino con un pubblico osannante che implorava il bis (!): un trionfo. Le cose procedevano così, piacevolmente ma senza acuti, tanti e tali erano i nostri limiti, quando arrivò la grande notizia: grazie all’intercessione di un grande “musicante” locale amico di Sandro, l’ultima domenica di agosto avremmo suonato alla Cascina del Parco di Legnago (comunemente conosciuta come IL GRILLO) a titolo di audizione per un contratto stagionale: la svolta! Avremmo potuto suonare due volte la settimana per sei mesi con entusiasmanti entrate finanziarie e relativo acquisto di materiale ed attrezzature necessarie ad ottimizzare le nostre performance. Quando, dopo alcuni giorni, smise di girarci la testa, entrammo in fibrillazione: pensammo di presentarci con un quartetto, ma per avere qualche probabilità di successo dovevamo assolutamente inserire il famigerato strumento a fiato suonato da un elemento maturo di buona professionalità, che potesse fare aumentare il nostro credito: uno scherzo da ragazzi ! La ricerca fu spasmodica, data l’urgenza e l’importanza della cosa. Il tempo scorreva inesorabile senza risultati. Una sera, sull’orlo della più nera disperazione, decidemmo la peggiore delle autopunizioni: serata popolare di liscio al vecchio Teatro del Castello. Di peggio c’era solo l’assunzione di barbiturici. Sul palco la solita orchestrina tipo “romagna-mia” ci saturò presto di valzer, mazurche, polche e saltarelli vari, quando, ad un tratto, avvenne una specie di evento prodigioso, che fece scattare le nostre antenne ormai afflosciate: il fisarmonicista del complesso, abbandonato per un momento lo strumento, aveva estratto dalla custodia seminascosta tra le quinte, una luccicante tromba-a-tiro, quella di Glenn Miller per intenderci, e con uno stile, un garbo, un tocco da grande maestro, aveva attaccato l’assolo di SMOKE GETS IN YOUR EYES: assolutamente celestiale! Restammo ad ascoltarlo in apnea guardandoci negli occhi senza parlare; le arterie, pur ancora non compromesse dall’età e dagli stravizi, ressero a malapena lo sbalzo di pressione: avevamo trovato l’uomo, doveva essere nostro a tutti i costi. Velocemnte organizzammo una strategia: un breve, apparentemente casuale, contatto durante l’intervallo poi, al termine della serata, l’attacco frontale da parte di un comitato formato dai migliori persuasori della compagnia. In poco meno di mezz’ora l’artista, disorientato da sei voci che parlavano contemporaneamente e gli prospettavano fama e ricchezza, cadde nella rete accettando di essere dei nostri. Con il morale alle stelle bruciammo i pochi giorni che restavano. Portammo subito a Castelmassa, residenza del nostro salvatore, gli spartiti con le parti del programma che lo interessavano e ci immergemmo full-time nelle prove……e arrivò la fatidica domenica. Una grande Buic nera, residuato bellico che l’autonoleggiatore aveva alleggerito di 6 dei 12 cilindri in dotazione, ci caricò davanti al castello assieme a chitarra, amplificatore e ben 9 accaniti sostenitori che, strategicamente distribuiti nel locale, avrebbero dovuto “appoggiare” un benevolo riscontro da parte del proprietario. L’amico di Castelmassa ci avrebbe raggiunti con mezzi propri.


... segue Gli amici del bar ci salutarono come si fa per eroi che partono per una spedizione al polo e partimmo, ostentando sigari accesi fuori dal finestrino ed una grande sicurezza, in realtà emozionati come scolaretti agli esami. La serata era quasi autunnale, fresca e molto umida. Alle 21 echeggiarono nella deliziosa pista all’aperto del Grillo le note di TEA FOR TWO, la mitica sigla, e la presentazione blesa di Sandro: “Il Mood Quavtet è lieto di salutave il gentile pubblico…..” (ad onor del vero eravamo ancora in tre, perché il trombonista, che veniva in “mosquito”, era in leggero ritardo). Giunse comunque di lì a poco, un po’ teso per un problema tecnico al mezzo di locomozione e paonazzo per il freddo che aveva preso. Pensammo di lanciare immediatamente “FUMO NEGLI OCCHI” per conquistare la platea, ma all’assolo l’amico, ancora intirizzito, imbroccò due clamorose raccapriccianti stecche, una dietro l’altra, che furono due pugnalate al cuore. Confuso e mortificato lasciò la tromba, si accovacciò in un angolo con la fisarmonica e non ci fu verso di farlo ritentare con il più nobile strumento. A fine serata il proprietario ricevette Sandro nell’ufficio. “Chitarra, piano e batteria bene, ma quel trombone veramente disastroso, riprovateci un altro anno” fu la drammatica sentenza. Così si concluse l’avventura. Non ci fu la svolta: ognuno andò per la sua strada “normale”, chi fece il medico, chi il chimico, chi l’insegnante ed il bel sogno rimase a galleggiare nel ricordo dei tempi andati e nel dubbio che la nostra vita, per un nonnulla, avrebbe potuto forse avere un corso diverso. (*) la terza era “TIPE-TIPE-TIPSO COL CALYPSO”, rimossa per pudore.

L’anno dopo Gian ripete l’anno con molta fatica e pochissimo entusiasmo. Perduti quasi tutti i vecchi cari compagni, con i quali rimane un grande feeling (tanto che trentacinque anni dopo si inizierà una serie di simpatiche rimpatriate), e perduta ogni incosciente baldanza, Gian si impegna al massimo nello studio riuscendo alla fine a superare il tremendo scoglio. Per molti anni rivivrà in un ricorrente incubo notturno quell’impegno sovrumano. Presa visione del “cartellone” con i risultati, Gian , accompagnato da Romano Rossignoli con la sua mitica Vespa nuova fiammante, con due bicchieroni di passito trangugiati alla Bottega del Vino di Legnago, tira su una sonora sbornia che scoppia in casa di conoscenti (Marsiglio) dove viene raccolto dai genitori in condizioni quasi pietose. Ma ne vale la pena! (estate ‘58) In questa pagina: 1958 Teatro Zinetti: festa da ballo “Paris by night”, Prima riunione compagni di liceo [1992]

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Gian alle Superiori



Appendice


LE ATTIVITà LUCROSE Il nostro “salario” settimanale, che chiamavamo mancia, intorno agli undici, dodici anni circa e forse anche dopo, ammontava a circa 40-50 Lire. Era talmente scarso che a malapena poteva servire per le 25 Lire d’ingresso al cinema parrocchiale d’estate, per una o due granite (‘marene in dialetto) da 10-20 Lire cadauna, secondo la mistura; queste venivano servite spesso presso le bancarelle stradali che vendevano anche frutta e verdura. La nostra era quella di “Borcèla” all’inizio del viale della stazione: il verduraio, ortolano piccolo e mite, grattugiando con apposito attrezzo il pane di ghiaccio sporgente dal banco fino a riempire il bicchiere di neve bianca e sottile, aggiungeva un cucchiaino di amarena con una ciliegina oppure una o due spruzzate di sciroppo da appositi contenitori in alluminio provvisti di beccuccio, sempre esposti in bella vista, a base di menta, tamarindo, anice, limone e pochi altri. Ci pareva una sciccheria sedersi sulla modesta panchina all’ombra del chiosco e tra una chiacchera e l’altra sgranocchiarsi la granita, cercando di farla durare il più a lungo possibile, oppure gustare in un cono di carta paglia le brustoline (semi di zucca salati e arrostiti) o le galetine - bagigi (arachidi) o le fave (lupini) del costo di circa 5 Lire. Si potevano gustare anche i dolci di farina di castgna: il papasin, ricavato tagliando a piccoli blocchetti il contenuto di una teglia di alluminio, a 6 Lire o la gnoca, piccola a 9 Lire. Naturalmente Gian prendeva sempre il formato mignon di tutto, riuscendo incredibilmente ad accantonare qualche monetina a fine settimana, che aggiungeva al suo malloppo segreto introvabile (modesto secondo lui, ma enorme secondo l’immaginario collettivo); mentre Gil purtroppo finiva la mancia dopo un giorno massimo uno e mezzo. La formica e la cicala. Era quindi indispensabile, quando gli impegni della scuola lo consentivano e specialmente durante le vacanze estive, cercare di guadagnare qualche soldo sottraendo il tempo ai giochi. Vale la pena di ricordare approssimativamente il valore di alcuni beni di uso comune, per dare l’idea del potere di acquisto della Lira in quegli anni: Un cono di gelato dal triciclo di Mearina, illuminato la sera con lampada al carburo: 8 Lire quello piccolo e 15 Lire il più grande. Piccolo dolce al Caffè Manzini, ‘na pastina, 20 - 25 Lire , quale consumazione obbligatoria al bar, per chi non giocava al biliardo, teatro di epiche partite pomeridiane di “goriziana”. Un pacchetto di sigarette Alfa circa 80 Lire . Disoccupato: piccolissimo ciuccino di liquerizia della forma di un ometto di circa cm. 1,5 spesso uno o due millimetri e del costo di 50 centesimi cad.no ( c’era anche la cartamoneta del valore di mezza Lira). Si potevano acquistare anche a peso. Un caffè espresso al banco circa 20 Lire. Il pane 40 - 60 al kg. Un operaio poteva quadagnare da 20.000 a 30.000 Lire al mese.

Le attività lucrose

BARBABIETOLE Prodotto agricolo ad altissimo potere zuccherino, assai ricercato come mangime. Per venderle di contrabbando agli allevatori di animali da cortile, quando andava bene a 50 centesimi al kg, (molte famiglie avevano galline, oche, conigli, maiali, ecc), rubavamo le barbabietole da zucchero in due modi: 1. Dai vagoni ferroviari, i vagoni scoperti, dopo il carico e la pesatura, venivano cosparsi di calce in modo da notare subito se erano stati saccheggiati durante il deposito in un binario morto in attesa del treno, chiamato bietolaio, che passava di mattina presto e di sera tardi: noi prendevamo le bietole a campioni, scegliendo le più grosse, anche di 6-7 kg gettandole giù per la scarpata; poi ridavamo il bianco di calce (il secchio sempre pronto era nascosto tra le frasche del fosso sottostante) e non si vedeva nulla. Il famoso “calo fisiologico” del peso netto dei vagoni tra quello fatto alla fine del carico e quello alla destinazione, aveva subìto, rispetto alla media, un leggerissimo aumento, probabilmente per l’azione del sole implacabile, si diceva dopo molte congetture, quando erano chiamati in causa i compilatori delle lettere di spedizione dello zuccherificio. 2. Lungo il viale della stazione direttamente dai carri in movimento con cavalli o a motore diretti verso lo zuccherificio, sia a mano arrampicandosi sulle sponde dei mezzi e gettando giù a ripetizione le bietole che venivano raccolte e subito occultate, oppure, quando non c’erano appigli, con lo sfruncinòto: lungo bastone con in alto un grosso chiodo col quale venivano infilzate le barbabietole, che il contadino costipava a dovere per evitare i ladruncoli o di perderle per la strada, spingendole in alto fino a sfilarle dalla propria sede. Via la prima diventava un divertimento aggredire tutte le altre. Molti trasportatori, anche perchè si trattava di piccole quantità, chiudevano un occhio; solo i più gretti mettevano qualche ragazzo di guardia sul carro ed in quel caso il prelievo malandrino calava drasticamente. 90


Tabacco e zuccherificio

Burattini

Un po’ più grandicelli ci siamo dedicati ad altri lavori stagionali, questa volta remunerati regolarmente, sempre nei periodi di raccolta: Gian a circa undici anni, assieme ad altri ragazzi ed adulti andò “al tabacco”, come si diceva allora. Le foglie a giusta maturazione venivano raccolte dai contadini e portate alla lavorazione. Qui le donne provvedevano a cucirle dalla parte del gambo in mazzetti, e a disporle a cavallo su apposite aste di legno, dette “stanghette”. Queste a loro volta venivano trasportate (e questo era il compito dei ragazzi più giovani) ed appese dentro alte torri dai ragazzi più grandi e più abili che in acrobazia se le passavano in alto per diversi piani, in barba alla sicurezza sul lavoro ed allo sfruttamento giovanile. Poi venivano accesi fuochi alla base di questi essiccatoi per l’asciugatura. C’era poi la conciatura che veniva fatta a mezzo di grandi bollitori, con il vapore acqueo. Tutto questo procedimento avveniva alla presenza delle guardie della Finanza, trattandosi di prodotti controllati dai Monopoli di Stato. Era un lavoro abbastanza duro, ma che veniva regolarmente pagato, qualche migliaio di Lire a campagna. Si lavorava a Concamarise presso il “General” Parodi, antica famiglia di ricchi proprietari terrieri, al comando del “capo-uomini” Brisighella, molto amico del Babbo per le numerose spedizioni ferroviarie che si facevano ogni anno. Quando il Brisighella si rese conto che Gian non era molto adatto per il lavoro fisico, cercò di imboscarlo in ufficio dandogli dei tesserini di lavoro da timbrare. La grande ingenuità e lo scrupolo del povero bambino fece sì che le migliaia di tesserini furono timbrati accanitamente in un paio di giorni e Gian fu costretto a tornare nei ranghi di “porta-stanghette” fino alla fine della stagione. Gil, a diciasette anni iniziò a lavorare in zuccherificio, dove era cessata la produzione industriale dello zucchero e lo stabilimento si limitava a raccogliere le bietole portate dagli agricoltori, pesarle, analizzarle a campioni per determinarne il potere zuccherino e quindi il prezzo, caricarle direttamente sui vagoni ferroviari che il treno poi trasportava in altri zuccherifici più moderni e produttivi. Fu questo il primo lavoro “a libretto” come suol dirsi, della durata di circa quaranta, cinquanta giorni. Il primo stipendio importante ricevuto, di circa 25.000 Lire, fu un evento indimenticabile poiché il Babbo e la Mamma ne avevano tantissimo bisogno e a Gil non parve vero di essere finalmente d’aiuto, in modo consistente, alla famiglia, consegnando l’intera paga. Il primo incarico fu presso il magazzino dove venivano compilate le lettere di spedizione dei vagoni ferroviari; poi per altri due presso la pesa-tare, dove venivano pesati i carri vuoti e calcolato il peso netto. Appena in età, anche Gian fece un paio di campagne, sempre con gran divertimento per i personaggi e le situazioni.

A Bologna il teatro dei burattini, da non confondere con quello delle marionette siciliane, i cui pupi venivano manovrati dall’alto a mezzo di fili purtroppo visibili, era di gran lunga lo spettacolo più amato dai bambini e dagli adulti, tanto belle erano le scene, sempre nuove le storie e grande la maestria dei burattinai, che rimanendo sotto il palcoscenico con le braccia alzate, sulle quali erano infilati i burattini, con le mani, le dita e la voce facevano muovere e parlare gli attori. Questo tipo di spettacolo ci intrigava moltissimo, tanto che una volta le nostre cuginette bolognesi, venendo a trovarci a Sanguinetto, ci portarono le teste in terracotta dei personaggi più importanti: Sganapino, dottor Balanzone, Fagiolino, Fasolone, i gendarmi, ed altri. Scoccò subito l’idea: accomunando la ben nota abilità artigiana di Gil in falegnameria con l’altrettanto valido dono letterario ed artistico di Gian, e l’aiuto delle cuginette Bolognesi e di altre femmine amiche per i vestiti, in poco tempo allestimmo un teatro vero e proprio. Il portone del grande magazzino-merci della Stazione con le due ante scorrevoli lasciate un po’ aperte, costituì la struttura portante della torre scenica; due traverse in legno rivestite di tessuto, una superiore ed una inferiore, che sosteneva un telo scuro fino a terra, formarono la squadratura del palcoscenico alto quanto bastava per far muovere i burattini stando di sotto in piedi. Il sipario venne realizzato con un vecchio drappo di velluto trovato in soffitta, che poteva essere aperto e chiuso a mezzo del binario superiore a cui era agganciato con occhielli e fili per la manovra. Gian disegnò su vecchie tele dismesse, le quinte laterali fisse attraverso le quali entravano ed uscivano i burattini, e parecchie scene bellissime, che venivano calate dall’alto mediante funicelle e piccole carrucole. Era un palcoscenico profondo circa novanta centimetri con tre o quattro ordini di scene. L’effetto fu eccezionale. I vestiti dei burattini furono approntati con stoffe di fortuna, ma assai attinenti ai costumi originali bolognesi. Praticamente si infilava la testa cava del burattino sull’indice della mano, mentre il pollice ed il medio entravano nelle maniche che terminavano con piccole mani in cartone colorato; il vestito del corpo scendeva quanto basta per occultare il braccio dell’operatore. Potevamo muoverli con una tale grazia ed agilità da farli sembrare umani. Gian scrisse con incredibile bravura tutte le commedie e le canzoni rappresentate (in casa, per un po’ di tempo, divenne un tormentone una battuta, linguisticamente un po’ ingarbugliata, che Gian aveva messo in bocca al gendarme napoletano: “Annammo a ca’, nun se po’ acchiappallo, è massa furbe !”) . Oltre alla recitazione dei burattini, Gian con l’armonica fissata al traverso del palcoscenico faceva l’accompagnamento musicale, mentre Gil era addetto anche agli effetti speciali, rumori, luci, fumate, lampi, tuoni. Fu un successo perchè di sera venivano occupate le due o tre panchine disponibili da molti bambini, naturalmente a pagamento (con biglietto d’ingresso a 5 Lire, incassi di 100-120 Lire).

Legno pregiato Sugli ultimi due binari morti davanti alla stazione, giacevano in deposito una ventina di vagoni ormai fuori uso, tra i quali delle vetuste carrozze per passeggeri, lasciati lì in sosta perenne. All’interno c’erano ancora i sedili, gli schienali ed i rivestimenti in massello di legno pregiato: faggio, rovere ecc. Ci accorgemmo del valore di quel legname, perché assai ricercato dai vari falegnami locali. Gil riuscì a trovare il modo di aprire e richiudere le porte sigillate e un pò alla volta smontammo di nascosto tutto quel legname, con facilità perché era fissato solo con viti d’ottone, per poi darlo ai vari falegnami che ci ricompensavano con qualche aeroplanino o carrettino di legno, da noi assai vagheggiati. Molto fu usato anche da Gil per anni nei suoi lavori di falegnameria. Dall’esterno non si vedeva assolutamente nulla, ma all’interno dei vagoni c’era la desolazione: solo lo scheletro della struttura, la copertura ed i rivestimenti esterni. Non ricordiamo che il fatto abbia avuto delle conseguenze, poiché quei carri rimasero là per lungo tempo, con le porte regolarmente chiuse. 91

Spigolatura Si faceva dopo la mietitura del grano o la raccolta dei piselli eseguiti con grandi macchine agricole. Questo lavoro, perché tale si poteva chiamare a tutti gli effetti, consisteva nel raccogliere una alla volta le spighe di grano o i baccelli rimasti nel campo ed infilarli in una apposito sacchetto di tela allacciato in cintura. Alla fine della giornata, con la schiena dolorante, si riusciva a riempire un mezzo sacco da portare in parte a casa (piselli) ed il resto (frumento o grano turco) ai commercianti per la “giusta” mercede, consistente in pochi spiccioli (oggi sarebbe sfruttamento dei minori in nero).

Le attività lucrose


Gil va per mercati Altro modo di arrotondare le entrate estive fu per Gil quello di andare per mercati, come tuttofare, per conto di importanti commercianti di tessuti di Sanguinetto: i F.lli Rossato, riuscendo a ricavare anche 500-600 Lire a giornata. Il pomeriggio antecedente la fiera era dedicato alla pubblicità, cosa che oggi sarebbe di ordinaria amministrazione, ma per allora era un fatto straordinario di grande successo; Gil ed il suo amico Claudio Ambrosi, che già aveva la patente poiché aiutava il padre camionista, battevano tutta la zona con una grossa FIAT MILLENOVE diesel provvista sul tetto di altoparlante a tutto volume. Claudio guidava e Gil annunciava per il giorno dopo l’arrivo al mercato, in via del tutto eccezionale, di un grande banco di stoffe pregiate, che venivano svendute a prezzi incredibili. “Grande vendita a prezzi di realizzo di tessuti Marzotto; i primi saranno i più fortunati, gli ultimi forse forse così così, non perdete l’occasione! ” si sentiva echeggiare per ore nei paesi del circondario. Il giorno dopo nel punto centrale e più alto del mercato veniva allestito un banco coperto lungo trenta metri, unico per quei tempi. In quel frangente si verificava sempre una fatto comico: il padre dei Rossato, fondatore dell’azienda, ovviamente sempre presente da una vita, era abituato ad allontanarsi, appena il lavoro lo permetteva, con qualche scampolo sotto il braccio ed andare a trovare le sue donnine, che aveva in ogni paese. Gil e Claudio, incitatii dai figli non privi di senso dell’umorismo ma poco rispettosi del padre, appena arrivati nella piazza, prima ancora di aprire le porte del camion, tendevano un filo, su cui appendevano tutti gli scampoli disponibili e con l’altoparlante ne annunciavano la svendita, richiamando subito molte persone. Il vecchio, abituato all’esclusiva di quegli spezzoni di stoffa per lui preziosi, si vedeva defraudato del suo diritto e della sua autorità. Andava in bestia in un modo incredibile, anche perchè stuzzicato dai figli che abilmente fingevano di dargli ragione. Si calcava, per non perderlo, fin sulle orecchie il suo prezioso e datato cappello finto Borsalino, dal quale non si separava mai fin dal primo mattino appena alzato e, pieno di una collera incontenibile, inforcando in una mano le forbici e nell’altra il metro di legno, rincorreva all’impazzata i due giovani sfrontati aiutanti che scappavano attraverso i banchi del mercato in allestimento, tra l’ilarità generale: “Ti fiól del capo se te ciapo te cópo” gridava all’impazzata verso Gil, l’ultimo arrivato. Come sempre la sua andatura traballante gli faceva cadere, ignaro, il cappello che rimaneva per terra irriconoscibile tra la polvere, sul quale prima o poi inciampava e dopo averlo inconsciamente sputato e calpestato più volte preso dalla collera, con un calcio lo scaraventava via. Asciugandosi dopo poco il sudore della fronte, si rendeva conto all’improvviso che cosa era quello straccio che aveva preso a calci. Il collasso era vicino, ma l’apparizione di qualche scampolino, messo di mezzo appositamente dal più giovane dei due figli impietosito, e l’esaurimento della sua resistenza fisica, mettevano termine alla sceneggiata che si concludeva immancabilmente tra gli affanni con la solita frase: “Da doman, o mi o lóri“ ed il figlio maggiore Vittorio senza esitazione: “Lóri”, con la costernazione del patron Rossato ridotto all’ultimo posto nella scala dei valori dell’azienda. In realtà i figli lo portavano con loro tutti i giorni, su insistenza dell’anziana madre, che non lo voleva tra i piedi in casa tutto il giorno, anche perchè il vecchio, quasi ottantenne, non privo di una buona dose di libìdo ravvivata da qualche pasticca, la infastidiva continuamente. Lungo la copertura a pensilina dell’enorme banco veniva appesa una miriade di abiti confezionati e sugli scaffali dietro il bancone di vendita esposti in bella vista, come in un grande negozio, una imponente quantità di rotoli di tessuti variopinti a tinte degradanti. L’impatto audiovisivo della musica a tutto volume e dei colori sgargianti era tale da attirare una moltitudine di paesani e campagnoli dei centri vicini, che comperavano tutto fino all’ultimo pezzetto di stoffa; ed i tessuti Marzotto? Ce n’era uno solo che si guardavano bene dal vendere poiché costituiva la prova della pubblicità non ingannevole. Un giorno a Caorle, nonostante un temporale che aveva fatto scappare tutti i mercanti, furono venduti perfino i teli della copertura del banco, tagliati a strisce di novanta centimetri. Quei fratelli erano due demòni incomparabili.

Nella pagina a fianco: Veduta aerea di Sanguinetto Le attività lucrose

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I GIOCHI Guerra Giochino stupendo, giocato (una-tantum per ovvii motivi ) nella vecchia casa di campagna dei Bellani in Via Barbere, forse inventato dal cugino Claudio Cervellati, consistente nell’allestimento di una città fatta di piccole case di carta disposte sul pavimento. Si costituivano due nuclei di combattimento: l’Artiglieria con ammenicoli di legno a mo’ di cannoni, che si “caricavano” con degli elastici di gomma ricavati da vecchie camere-d’aria di bicicletta, e l’Areonautica con simil-aerei di legno da cui pendevano pezzi di gomma ottenuti come sopra. L’operazione bellica avveniva dando fuoco alle munizioni di gomma che, o lanciate dai cannoncini o rilasciando gocce di gomma infuocata dagli aeroplanini, andavano ad incendiare le casette di carta fino a completa distruzione della città. La vittoria era naturalmente assicurata agli sparatori senza alcun senso di pietà per i poveri abitanti della città senza alcuna voce in capitolo, secondo l’esatta riproduzione di chi, ieri come oggi, lancia veri proiettili su ahimè veri civili inermi!

Macchinìne & Navi (ovvero Finanzieri e Contrabbandieri) Luogo deputato era il mitico giardino della villa Pilati, in un’ampia striscia di terreno a cui la Signora Pilati aveva ormai rinunciato, ai piedi di una grande magnolia e di un imponente giugiolo alto e sottile, che faceva dei frutti eccezionali, chiamati in dialetto zinzole. Detta area veniva “trattata” per giorni dagli alacri giocatori fino a diventare un grande plastico con strade, abitazioni, canali, moli d’attracco per imbarcazioni, nonchè vari nascondigli per la merce di contrabbando (fiori appassiti di magnolia che rappresentavano pelli di camoscio!). I due gruppi (finanzieri e contrabbandieri) avevano una buona dotazione di mezzi in miniatura per il trasporto su strada e su acqua spostandosi con i quali cercavano, chi di scoprire, chi di nascondere, le preziose pelli. La soluzione finale del gioco vedeva sempre la vittoria della Legge che, togliendo l’acqua ai canali, metteva a nudo tutti i nascondigli normalmente realizzati sotto il livello dell’acqua e sequestrava la merce. Il campo del gioco veniva smantellato quasi sempre dopo alcune settimane, quando la pazienza dell’arcigno, ma in fondo buono, Dott. Pilati, direttore dello zuccherificio, scemava drasticamente, stanco di sopportare il vociare non certo a basso tono, di una dozzina di ragazzi, sotto le finestre del suo ufficio.

Ogaróle La Bassa Veronese è percorsa da una serie di fossi e fiumiciattoli che, traendo origine dalle risorgive, numerose a sud dei Lessini, hanno, e avevano, un buon flusso permanente di acque particolarmente pulite. Naturalmente in epoche in cui le piscine si vedevano solo nei film americani, costituivano ottime occasioni per bagni e nuotate (ogade) estive. Ma il fiume di per sè presentava una serie di piccoli problemi a cui i “clienti” cercavano di ovviare creando all’inizio della stagione, in punti strategici, la cosiddetta ogaróla. Primo: rimuovere dal fondo erbe, alghe e terriccio fino a mettere a nudo un bel fondale pulito di sabbia e argilla. Secondo: demolire parzialmente le sponde per togliere arbusti e sterpi e per creare un bacino di una congrua larghezza. Terzo: attrezzare la riva con simil-trampolini e postazioni per attività elioterapica. Tutto questo era ovviamente il massimo dal punto di vista degli aspiranti bagnanti, non altrettanto per i proprietari del fondo che (a dir il vero solo in casi di particolare grettezza) non approvavano la valorizzazione turistica del territorio e provvedevano a cospargere di vetri rotti il fondale delle “piscine”. Dopo l’allarme dato dai primi malcapitati, si correva ai ripari rifacendo il lavoro in terre più ospitali. Ovviamente la competizione c’era sempre, specie per il tuffo o per la nuotata sott’acqua più lunga: il campione mai battuto era un ragazzo con un arto inferiore più corto per la poliomelite infantile, ovviamente chiamato “gamba“. Non si riusciva a capire come facesse a prendere una incredibile rincorsa, con stranissime contorsioni per rimanere coordinato e poi spiccare un volo di parecchi metri, inabissarsi e rimanere sotto fin dopo la curva del corso d’acqua, a circa sessanta metri. Si era sparsa la voce e vennero molti competitori anche dai paesi vicini, ma nessuno riuscì mai a togliergli il primato.

S-cianco Si giocava quando il terreno era asciutto e il gruppetto sufficiente (4-6 unità) ed adeguato sul piano fisico (senza esclusione delle femmine che mediamente non soffrivano di alcuna inferiorità). Servivano: Il Campo: avevamo a disposizione il piazzale della stazione ed il lungo viale di tigli che conduceva verso il centro del paese, il tutto fortunatamente (!) in terra battuta e con un traffico limitato a qualche bicicletta, se si escludeva il giorno di consegna delle barbabietole allo zuccherificio adiacente alla stazione; in quella giornata la lunga teoria di carri agricoli si impossessava del nostro terreno di gioco che ci era perciò interdetto. La Mare (oggi diremmo la casa-base): al lato estremo della facciata della stazione una decorazione architettonica in pietra bianca, alta un metro e larga una settantina di centimetri, era l’ideale; veniva completata con un semicerchio tracciato a terra per delimitare la superficie di competenza.

I Giochi

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La Manèla: una sorta di piccola mazza costituita da uno


spezzone di ramo robusto e diritto, accuratamente scortecciato e levigato, lungo una quarantina di centimetri per uno spessore di tre. Lo standard delle dimensioni aveva un’importanza particolare poiché l’attrezzo serviva, tra l’altro, quale “metro” per la misura dei punti, come vedremo. Assolutamente fuori standard erano alcuni attrezzi giganteschi di cui si favoleggiava, usati da energumeni più anziani che tentavano così di entrare nella leggenda paesana. Lo S-ciànco: uno spezzone di ramo dello stesso diametro della manèla, lungo 13-14 centimetri, idoneamente appuntito (s-ciancà ?) alle due estremità, detto anche el gòbo. Ed ora il gioco: i due sfidanti facevano a pari-o-dispari: iniziando dal vincitore, venivano scelti progressivamente ed alternativamente i componenti delle due squadre. Chi aveva perso, batteva per primo. La battuta consisteva nel toccare la mare con la manéla dichiarando ad alta voce il punteggio fino a quel momento conseguito, seguito dalla richiesta di benestare alla battuta: zéro, vègna? La squadra avversaria si era nel frattempo disposta tatticamente sul terreno di gioco: se tutti erano pronti, il capitano rispondeva: végna! Allora il battitore, gettando lo s-ciànco a mezz’aria davanti a sé, cercava di colpirlo violentemente con la manéla per mandarlo il più lontano possibile, mentre gli avversari tentavano di catturare l’oggetto volante con le mani o con il berretto, prima che il diabolico legnetto toccasse terra. Motivi di eliminazione del battitore, con la conseguente alternanza di squadra alla battuta, erano: dimenticare di toccare la mare con la manèla, sbagliare la dichiarazione del punteggio, non attendere il vègna! di conferma dell’avversario, mancare lo s-cianco per tre volte consecutive, avere lo s-cianco preso in volo da uno degli avversari. Ripartiamo dallo s-cianco a terra con battuta valida: da quella posizione uno degli avversari (scelto dal capitano) lanciava il famigerato legnetto cercando di colpire la mare o almeno di farlo entrare nell’area di competenza (una manéla oltre il limite segnato). Da parte sua il battitore difendeva la base avendo facol-

tà di respingere con la manèla lo s-ciànco in movimento quanto più lontano possibile. Il battitore veniva eliminato se interferiva con il corpo oppure se lo s-cianco toccava o invadeva la base o se, una volta ribattuto, veniva catturato in volo. Lo s-cianco correttamente ribattuto e non catturato oppure caduto fuori dalla base, diventava oggetto, nel punto e nelle condizioni in cui era andato a finire, cioé senza alcuna possibilità di aggiustamenti, di tre battute “secondarie” consecutive consistenti nel fare sollevare il mitico legnetto con un accorto colpetto di manéla sopra una delle estremità e quindi nel colpirlo in volo con forza così da mandarlo sempre più lontano dalla mare (incombeva sempre la possibilità della cattura in volo e conseguente eliminazione). In questa fase il battitore correva il rischio forse peggiore, almeno dal punto di vista psicologico: quello di sbagliare il tocco per il rimbalzo colpendo il terreno: il grido tèra! degli avversari, travolgente ed umiliante, decretava l’eliminazione del maldestro battitore e lo lasciava in uno stato di profonda prostrazione. Se tutto procedeva senza intoppi, dopo i tre “rimbalzi” lo s-ciànco veniva a trovarsi ad una certa distanza dalla casa-base. Il battitore si andava a mettere sopra il legnetto, rivolto verso la mare, in atteggiamento di concentrazione: dopo alcuni secondi di studiata suspense “sparava” la sua valutazione di quante manèle intere stavano in linea retta tra lo s-ciànco ed il punto più vicino della mare. Questa era la prima di una piccola serie di dichiarazioni gridate dal battitore e dagli avversari, in rapida sequenza, senza la minima esitazione, pena l’inefficacia della richiesta. Dopo il NUMERO! il battitore aggiungeva subito SCAVALCANDO! se aveva notato l’interposizione di un ostacolo fisso sulla direttrice s-ciànco/mare. Immediatamente gli avversari, se il numero sembrava errato per eccesso, rispondevano MISURANDO! arrogandosi la facoltà di una verifica della misura. La risposta RADDOPPIANDO! con cui il battitore si riservava di raddoppiare il punteggio qualora la verifica gli avesse dato ragione, doveva essere gridata senza la 95

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minima esitazione. Con la massima fiscalità un componente della squadra avversaria effettuava la misurazione sul terreno, appoggiando e ruotando opportunamente la manéla, mentre la squadra del battitore vigilava (e contestava !). Il battitore veniva eliminato se la sua dichiarazione eccedeva la misura reale, altrimenti acquisiva la misura (eventualmente raddoppiata) come punti da sommare a quelli già guadagnati.......e si ripartiva. Le partite si dovevano concludere con il raggiungimento da parte di una delle due squadre del punteggio prepattuito. Onestamente nessuno riesce a ricordare una sola partita finita canonicamente. O il nobile legnetto finiva nella canaletta dello zuccherificio e spariva miseramente nei gorghi degli scarichi industriali, o capitava che l’ostacolo tra s-cianco e mare fosse uno dei grandi tigli del viale, e qui il battitore, con ghigno perfido e definitivo, dichiarava: UN MILION ! SCAVALCANDO ! ..... e tutti a casa. Nascondino Il luogo migliore era il viale della stazione, con tutti quei tigli maestosi, pilastri di portoni, siepi, muretti, piccole casette come quelle del calzolaio o la pesa pubblica, abitazioni, enormi blocchi di pietra usati come panchine, recinzioni non troppo alte, tutti adatti a nascondersi in pieno giorno. Chi stava sotto (a far la ciupa), eletto dopo interminabili liti sulla regolarità della “conta” che andavano avanti per decine di minuti di incredibile confusione, poneva la faccia contro un avambraccio appoggiato a qualsiasi punto da lui scelto (albero, pilastro, muro ecc., che costituiva la base) in modo da non vedere, contando ad alta voce i numeri fino a venti, trenta o di più a seconda dell’estensione del campo di gioco. Finita la conta, che aveva lo scopo di dare il tempo a tutti i giocatori di trovare un nascondiglio adatto, si girava di scatto: a parte qualche ritardatario che veniva subito facilmente individuato, iniziava la ricerca, tenendosi il più possibile nelle vicinanze della base perchè una volta scoperto un concorrente, doveva gridare ad alta voce il suo nome e cercare di toccarlo o correre alla base senza permettergli di arrivare per primo. Chi veniva preso doveva a sua volta “ciupare”, ma il gioco finiva solo quando tutti erano stati individuati ed eliminati; e così via per ore, con grande soddisfazione di chi non veniva mai beccato, magari arrampicandosi su qualche albero o rimanendo nascosto per un’eternità in


un fetido anfratto, costringendo alla resa chi aveva ciupato, che doveva ripetere. Naturalmente le discussioni erano infinite perché infinite erano le sfumature delle regole, spesso improvvisate dai più furbi. Un po’ come capita ora nel nostro Parlamento. Carrettini Si costruiva un piccolo telaio di legno ben inchiodato negli angoli, con due assicelle come sedile nella parte posteriore ed un traversino più corto e resistente davanti dove al centro, con un vitone ed alcune rondelle, veniva formato lo sterzo realizzato da un travetto di legno duro con alle estremità infilati a forza due cuscinetti a sfere dismessi (i tre meccanici del paese per evitare perdite di tempo, mettevano fuori dall’officina una cassetta di legno con dentro i cuscinetti scartati a disposizione degli interessati sempre assai numerosi; se era vuota significava senza spiegazioni che erano finiti). Altri due cuscinetti venivano posti nella parte posteriore sotto o ai lati del sedile, per completare le ruote. La guida veniva realizzata o a mezzo di due corde legate alle estremità dello sterzo, come le due redini del cavallo sul calesse o direttamente coi piedi contro il travetto, in modo da lasciar libere le braccia per poter comandare i due freni posteriori formati da due tronchetti di legno che sfregavano per terra, legati di fianco ai cuscinetti. I due freni erano importantissimi sia per arrestare o rallentare il mezzo a seconda delle necessità, sia per facilitare la stabilità nelle curve strette senza perdere l’abbrivio agendo solo su quello interno ed imprimendo così al carrettino delle spettacolari derapate. A turno si spingeva o si stava sul mezzo, che acquistava una gran velocità favorita dalla scorrevolezza dei cuscinetti, specialmente se erano di banda larga, ovviamente assai ambiti e rarissimi. L’entusiasmo, l’agonismo e la competizione erano frenetici e garantiti, anche se vinceva sempre un bambinone da un metro e sessanta grande e grosso con già i primi peli che spuntavano sul mento, che spingeva un carrettino mignon con su la sorellina mingherlina, mascolina antipatica quanto leggera. Quando arrivavano quei due le occhiate di sconforto generale erano di rito. Un gran giorno fu quello in cui i due antipatici, come sempre velocissimi e in testa a tutti, in una curva, andarono fuori strada precipitando dentro un fosso, nel fango fino al collo. L’urrà liberatorio fu generale, naturalmente senza interrompere la gara. Carampàna Era un gioco prediletto dalle femmine, ma spesso misto per compiacere le amichette. Su un selciato si disegnava col gesso un rettangolo diviso in due per il lungo e da tre o quattrro campi nell’altro

senso. Uno alla volta si partiva lanciando un coccio, che doveva rimanere assolutamente all’interno dei segni, avanzando secondo un certo percorso, con tutta una serie di salti e passi recitando delle filastrocche e sempre senza toccare i segni, pena il ritorno alla partenza. Finito il percorso senza errori, si ricominciava scavalcando il primo campo, poi anche il secondo e così via. Terminati anche questi si riprendeva il tutto con una sola gamba, poi con le gambe incrociate, poi bendati, poi all’indietro e chi più ne ha più ne metta; non finivano mai le difficoltà, che i “fenomeni”, quasi sempre le femmine, riuscivano a superare diventando famosi in tutto il paese e anche fuori zona. Nel tentativo di scavalcare con un salto tre campi, a gambe incrociate e bendato, Gil prese una storta tremenda alla caviglia, che lo costrinse a stare mezza estate col gesso fin sotto il ginocchio, perdendo giochi, bagni e divertimenti e dovendo tenersi per sempre una caviglia semislogata. Bussolotti col carburo Fu purtroppo uno dei giochi più pericolosi anche se per fortuna non successe mai nulla, forse perchè ci fu proibito in modo assoluto quasi subito. Erano necessari un barattolo di latta aperto con un piccolo foro sul fondello, alcuni pezzi di carburo di quello usato dai saldatori d’ossiacetilene (che andavamo a recuperare tra le scorie di scarto dopo la pulizia dei piccoli gasometri degli idraulici), un po’ d’acqua (o una pisciatina), una sottile asta di legno, uno straccetto ed i fiammiferi. Si cercava una superficie piana, distante dalle abitazioni, con l’acqua si formava un piccolo mucchietto di terra bagnata, dove si adagiava un pezzo di carburo e subito sopra a coprire il barattolo, ben stipato di fango alla base. Dopo alcuni attimi, il tempo di formarsi all’interno l’acetilene, si portava con l’asta lo straccetto acceso sopra al buco: una violenta detonazione faceva lanciare in aria il barattolo come un missile ad un’altezza proporzionale alla quantità di carburo ed al tempo di attesa dell’innesco. Come sempre si faceva la gara a chi li faceva salire più in alto e chi il botto più forte, con interminabili liti per la naturale impossibilità di una equa valutazione. Botti con la balistìte La balistite era un esplosivo composto di nitroglicerina e nitrocellulosa che costituiva la “carica di lancio” di tutte le munizioni da guerra. Era costituita da “spaghetti” cavi lunghi circa 30 centimetri, del diametro esterno che andava dai tre ai cinque millimetri e quello interno di 1 – 1,5, di colore rosso, arancio bruno o nero a seconda della I Giochi

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infiammabilità. C’erano anche le cosìddette “lasagne” cioè delle striscie solitamente di color rosso larghe circa 7 millimetri e spesse 1 o 2. Ovviamentente questo materiale era diventato disponibile verso la fine della guerra, svuotando le munizioni non utilizzate, anche di grandi dimensioni, che si trovavano normalmente immagazzinate in buche interrate un po’ dappertutto, con enorme pericolo poiché materiale altamente infiammabile e detonante. Tenendo bloccato in qualche maniera il bossolo, si cercava di smontare il proiettile e far uscire la balestite, col detonatore ancora inesploso. Il divertimento consisteva nel dar fuoco ad un capo della barretta, aspirare o soffiare con la bocca e lanciarla in aria: seguiva un forte fischio con traiettoria tracciante ed alla fine una notevole fiammata, con scoppio finale proporzionale al diametro e colore della barretta. Poteva essere considerato un fuoco artificiale fatto in casa, ma senza la minima sicurezza, né valevano le continue raccomandazioni e minacce dei genitori, poiché i ragazzi erano attratti in modo irresistibile da quel divertimento, se così lo si vuole chiamare. Non si è mai potuto scoprire chi abbia avuto l’idea e come sia nato il procedimento, facilitato sicuramente da qualche esperimento fatto dai cacciatori, allora senza polvere nera da sparo. Era diventato, per i più coraggiosi o meglio incoscenti, un vanto procurarsi più barrette possibile, da infilare a mazzetti nella cintola e girare per il paese pronti al lancio, si può immaginare con quali rischi. Per fortuna il gioco, se così lo si può chiamare, durò solo qualche mese (cessò con la ritirata delle truppe tedesche) poichè molte furone le vittime, specialmente tra i ragazzi. Uno della nostra età alquanto scapestrato, chiamato “recia” per le sue grandi orecchie a sventola, che andava sempre in giro con tutta la cinta armata come un cacciatore, si vide la barretta lanciata tornare indietro dopo un ampia traettoria e completare il suo tracciato contro la sua santa barbara in cintura, provocandone l’accensione. Lo salvarono per miracolo dalle ustioni di terzo grado che coprivano tutta la parte anteriore del corpo dal collo all’inguine, con estese enormi cicatrici che quel demonio, una volta guarito, esponeva con grande vanto. A dire il vero dopo il fatto non toccò più la balestite, anzi quando vedeva qualcuno che ancora ne aveva qualche pezzetto, scappava lontano: a proposito di coraggio. Se l’è vista veramente brutta. AquilonI Il mese di eccellenza era Aprile, con i suoi bei venticelli costanti. Allora tutti a costruire aquiloni, che non si trovavano già confezionati come oggi, né i genitori o i grandi avevano tempo per aiutarci. Occor-


revano alcuni pezzi di cannetta, residui delle demolizioni di soffitti oppure facenti parte di nastri per l’ombra sopra le pensiline o di chiusura per il vento; carta velina meglio se colorata, carta leggera, colla che si autopreparava con la farina bianca di frumento ed acqua, un bel filo di cotone lungo e resistente ottenuto dai tappezzieri come compenso di piccoli lavori in laboratorio. In genere si costruiva la struttura ponendo in croce le due cannette come le diagonali di un rombo, si tagliava la carta velina che veniva incollata alla struttura stessa e rinforzata nei punti più strategici ove facile era lo strappo, con fascette di carta messe di traverso. Ai due vertici laterali dell’aquilone due lunghe catene di anelli di carta, legati proprio come le maglie di quelle navali, che si congiungevano dopo alcuni metri dando luogo alla lunga coda. Sulla punta posteriore una catena più corta per la stabilità. Col filo si creava l’attacco a tre bracci nella parte inferiore liscia del rombo, con due pezzi più lunghi fissati ai lati ed uno centrale in basso, annodati al lungo filo, in modo da tenere la superficie dell’aquilone nella giusta inclinazione per prendere il vento e sollevarsi. La tecnica costruttiva era ormai consolidata e la riuscita dipendeva quasi sempre solo dalle dimensioni, dalla precisione, dalla lunghezza e leggerezza del filo. Una volta che gli aquiloni erano ben sollevati e stabilizzati a tutta altezza, con una non certo trascurabile tensione, si infilavano dei cerchietti di carta forati e tagliati, sul filo. Il vento li spingeva su fino in alto: erano i messaggi in codice inviati da terra. Vinceva chi aveva più cerchietti arrivati all’aquilone, che venivano pazientemente contati al rientro. È stato un gioco divertentissimo ed appassionante, anche perché premiava senza discussioni, i costruttori più bravi. con la neve e coN IL ghiaccio Tutti i vari giochi invernali. Negli anni 40 sicuramente il clima era molto più rigido dell’attuale. D’inverno non sono mai mancate abbondanti nevicate e gelo costante per settimane. L’arrivo della neve giungeva con grande entusiasmo dei ragazzi, prima di tutto perchè l’attività scolastica veniva interrotta anche per molti giorni con grande gioia di tutti (in paese numerosi spalatori liberavano i marciapiedi e le strade, ma dalle campagne circostanti era impossibile raggiungere la scuola) e poi perchè in tal modo c’era tutto il tempo per dar corso ai vari giochi che la neve consentiva. Tra gli adulti per molti rappresentava un ostacolo alla circolazione e quindi complicazione nel lavoro, ma per altri, come gli agricoltori, era una manna dal cielo poiché la coltre bianca proteggeva dal gelo le esili piantine appena nate e donava pian piano al terreno

la giusta dose di acqua necessaria. Pupazzi La prima cosa che si faceva era quella di aiutare i grandi a spalare la neve e creare i necessari camminamenti per raggiungere i punti strategici come la pompa dell’acqua, il recinto degli animali, i rifiuti, i marciapiedi puliti dal Comune per arrivare ai negozi e così via. La neve spalata veniva ammucchiata per fare i pupazzi, che ognuno doveva avere davanti a casa. Prima si facevano i rotoli partendo da una palla di neve che veniva fatta rigirare su quella fresca fino a diventare bella grande. Serviva per fare il basamento con il corpo del pupazzo e così via. Poi con quella spalata si facevano la testa, le braccia attorno a piccole frasche infilate sul dorso. La testa aveva la cura maggiore perchè doveva essere modellata per bene specie per il naso, la bocca e gli orecchi. Un vecchio cappello, due bei bottoni celesti per gli occhi, un rotolo di barbe di pannocchie di granoturco, conservate dall’estate allo scopo, per i capelli e le sopracciglie. Una sciarpa colorata di lana scartata ed i bottoni per il cappotto non mancavano, come la scopa e la pala appoggiate alla fine delle braccia. Naturalmente tutti i ragazzi partecipavano a queste sculture in una gara generale per farle più belle e spesso più grandi, fino ad alcuni metri. L’inverno era lungo e questi pupazzi duravano a volte anche un mese e più. La loro decadenza naturale era il segnale che l’inverno stava per terminare. Oltre ai pupazzi, quando la nevicata era abbondante, si costruivano delle piccole casette, con la tecnica degli igloo, tanto per intenderci, con dei piccoli tunnel che le collegavano. Non vanno dimenticate le ghiacciatine fatte con neve fresca nel bicchiere spruzzata con zucchero, limone, un po’ di amarena di ciliegie o un goccino di mosto dolce di vino conservato. Slitte I camminamenti quasi subito gelavano, poiché difficilmente si riuscita a togliere completamente la neve e diventavano delle piccole piste da sfruttare per giocare con le slitte, che erano sempre pronte o che venivano costruite qualche tempo prima in previsione della nevicata. Ovviamente si usava il legno cercando due pezzi di rami che terminassero con una leggera curva. In genere si usava il salice molto elastico e resistente, preso di nascosto dei contadini, che lo usavano in mille modi. Infatti gli alberelli di questa pianta ornavano tutti i fossati con acqua che circondavano i campi prima di 97

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tutto a sostegno delle rive poi per l’elasticità dei suoi rametti (le stroppe) adatti a legare i tralci delle viti in potatura, i covoni di frumento, sostituendo magnificamente lo spago che non aveva resistenza alla pioggia. Si toglieva la scorza, si rendeva piatto il lato inferiore a suon di pialla o di raspa, che poi veniva guarnito con una o più reggie metalliche, di quelle scartate dagli imballaggi. Due o tre traversini e paletti ritti per parte ben inchiodati e collegati tra loro in senso longitudinale e trasversale per formare il sedile e la struttura portante del mezzo, che diventava scorrevolissimo. Spinta a mano o tirata con una corda costituiva un divertimento sano e piacevole che oltre a giocare serviva magnificamente per i piccoli trasporti, come la spesa quotidiana o le cartelle della scuola, alla ripresa delle lezioni. SbrissiarólE Prima della neve c’era il gelo che, agendo sull’abbondante acqua piovana autunnale, generava, senza sforzo e senza spese, le “sbrissiaróle”, ovvero piste ghiacciate sulle quali si poteva “sbrissiar” o scivolare, piste di pattinaggio si direbbe oggi. Si andava dalla semplice pozzanghera, al fosso, ed infine ai grandi crateri generati dalle bombe che gli amici “alleati” avevano generosamente disseminato nei campi vicini. La scivolata era libera, senza regole particolari, tranne una fondamentale: NIENTE SGIÀVARE CON LE BRÒCHE! Dicevasi sgiàvara (o sgàlmara) una particolare calzatura economica con una suola di legno che spesso veniva protetta dall’usura con chiodi dalla grossa testa, detti appunto bròche, e con la tomaia fatta di una specie di cuoio durissimo semi-conciato, usata quasi da tutti, in quei tempi di difficoltà. Questa avrebbe gravemente compromesso la levigatura della superficie della pista, importantissima per il risultato della performance, quindi i controlli erano severi ed i responsabili venivano radiati e segnalati in tutto il territorio. Naturalmente si accendeva la competizione per chi le faceva più lunghe e a chi riusciva la scivolata fino in fondo. C’erano poi le varianti, come quella dei giardini di fronte alla Scuola Media di Legnago: dalla strada della stazione (la ferrovia era più alta di diversi metri dai luoghi circostanti), con una ripida discesa di sette od otto metri lungo la scarpata fino alla pista in terra battuta che circondava i prati, veniva costruita la pista, larga trenta centimetri, che prima di arrivare in fondo invertiva rapidamente la pendenza, a mò di trampolino. Chi scendeva, spesso con la cartella in mano o sotto il sedere come cuscino, quando le scarpe non lo consentivano, doveva scivolare velocissimo ed alla fine fare un gran balzo atterrando sulla terra battuta rigorosamente in piedi, pena la ripe-


tizione. Soltanto il Nello Passarìn s’intestardiva a scendere seduto su una grande tanica metallica deformata che comprometteva seriamente lo scivolo ghiacciato, ogni volta inseguito da chi lo voleva linciare. Quando a Legnago arrivava il treno degli studenti la mattina, tutti maschi e femmine, si mettevano in fila per l’esibizione: una quarantina di ragazzi vocianti ed allegri ed altrettanti adulti spettatori. Si arrivava a scuola tenendoci per mano accaldati, esuberanti, felici e spensierati: che differenza con gli studenti di oggi, specie davanti a certe scuole private dalle rette milionarie, seduti sulle selle dei loro motorini, con vestiti griffati, telefonino perennemente all’orecchio, ognuno per conto proprio e magari col broncio! con le marmore Tutti i vari giochi con le “marmore”. Innanzi tutto va chiarito cosa si intende per marmore (oggi crediamo non ci siano più): erano delle biglie colorate di terracotta del diametro di circa 8 millimetri, dal costo modesto, che si compravano in quasi tutti i negozi, sia sciolte che in sacchetti (c’erano delle varianti leggermente più piccole o più grandi e poi c’erano quelle speciali ricercatissime in vetro o marmo) con le quali si facevano moltissime sfide che avevano l‘unico scopo di vincerne delle altre e quindi accumularne il più possibile. I super bravi arrivavano nel campo di gioco con dei sacchetti ricolmi che da soli incutevano terrore. Vediamo ora i vari passatempi: Le piste Ogni tanto sulle spiagge si vedono ancora dei ragazzi che fanno questi giochi. Venivano costruite su terreni argillosi, al fine di renderle resistenti per più giorni. Si stabiliva un tracciato, con rettilinei, curve, curve sapraelevate, incroci, sotto e soprapassi, piccoli stagni, salite e discese e così via per aumentare le difficoltà, e si realizzavano formando la sede vera e propria della pista con una traccia a sezione più o meno semicircolare, ricavata scavando il terreno o modellando quello esistente superficiale con l’aiuto di pietre, rametti, pezzetti di legno, foglie cartone, e quant’altro potesse servire allo scopo. Ovviamente tutto a mano lisciando il più possibile la sede con aggiunta di acqua e argilla, fino ad indurimento. Erano delle vere e proprie costruzioni cui partecipavano tanti bambini e bambine per tante ore. Veniva stabilta la linea di partenza mediante una leggera incisione trasversale con l’aggiunta di una bandierina. Dopo le solite scaramucce per la conta, poichè i primi a partire, se erano bravi, si trovavano ovviamente favoriti avendo dietro le biglie lungo il percorso, si inziava

mettendo la propria “marmora” colorata sulla linea di partenza e la si lanciava mediante un cricco opportunamente dosato, cioè un colpo con l’unghia del dito medio o indice, mantenuto a freno dal pollice, e caricato a seconda della pressione necessaria. Se la biglia andava fuori pista il concorrente veniva sospeso e doveva aspettare il turno sucessivo. Quando tutti (a volte erano anche venti o più concorrenti) avevano completato il primo turno di lancio, si ricominciava da quello in testa che aveva fatto il lancio più lungo e regolare e via via gli altri a seguire fino agli ultimi che, essendo sospesi, ripetevano il lancio. Il gioco continuava per uno o più giri fino all’arrivo che poteva essere la linea di partenza o anche un altro punto difficoltoso, come un laghetto o un tratto fangoso (entro i quali non si doveva andare pena l’annullamento del tiro o di un turno intero), o una salita strategica, con una secca curva a seguire che facilitava il fuori pista. Moltissime erano le varianti lungo il percorso, con piccoli pozzi che andavano assolutamente evitati pena la squalifica, muretti trasversali che potevano essere scavalcati solo con speciali cricchi a saltare: (se giocassimo oggi diremmo alla Totti: mò ie facio er cuchiaio), biforcazioni improvvise che potevano portare la biglia a cadere lungo la pista sottostante e quindi molto indietro rispetto al tracciato e tante altre. Questo gioco è certamente l’origine dei percorsi con mazze (minigolf) che si trovano oggi in molti villaggi turistici. Naturalmente il vincitore, come il secondo, il terzo ed a volte fino al quinto arrivato, venivano premiati in proporzione con marmore di tutti gli altri concorrenti. È chiaro che l’abilità dei partecipanti (che usavano biglie speciali “da formula uno” si direbbe oggi) costituiva un severo deterrente alla gara, ma decretava contemporaneamente un agonismo ed un divertimento ad alto livello, anche perché essendo ovviamente pochi i concorrenti, il premio era di molte biglie per ciascuno dei perdenti. Non mancavano le scommesse. La sciagura si abbatteva su tutti quando veniva un temporale o qualche bambino dispettoso rovinava la pista; il dolore veniva però lenito dall’entusiasmo di costruirne una nuova ancora più bella e difficile. Sicuramente per Gil il vero grande divertimento era la costruzione. Una variante delle piste con le marmore, si verificava quando il campo dei giochi non era il terreno, ma un largo lastricato di una piazza: allora la pista veniva tracciata col gesso ed al posto delle marmore si usavano i tappi a corona delle bottiglie entro i quali si incastrava I Giochi

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il proprio marchio o l’effige di corridori o atleti famosi. Il cricco in quel caso poteva venir dato anche con l’unghia del pollice che essendo più grande, consentiva una maggior precisione. Le buche Venivano scavate otto o dieci buche nel terreno o tra gli acciotolati dei cortili, del diametro di circa 5 o 7 centimetri e altrettanto profonde, disposte a distanze variabili le une dalle altre. Iniziando da una buca, che era quella di partenza, il gioco consisteva, nel tentativo di mandare la pallina in un’altra buca al volo o di striscio con un sol colpo pena il rifacimento del tiro nel turno sucessivo. La tecnica di lancio consisteva nel mettere la marmora tra il dito medio ed il pollice in posizione di cricco, con il mignolo appoggiato sul fondo e far scattare il colpo con traiettoria alta se vi erano interposti ostacoli o a correre se il tragitto era regolare e rettilineo (si usavano le biglie di diametro un po’ più piccole). Vinceva chi finiva per primo il percorso completo insaccando tutte le buche fino a quella di partenza. Era un gioco abbastanza difficile, specialmente quando le buche erano distanti tra loro anche più di un metro, con cunette, gobbe o ciotoli interposti. In genere il vincitore era unico e guadagnava, da tutti gli altri, una marmora per ogni buca del percorso. I bersagli Il campo delle sfide era quasi sempre la piazza del paese in terra battuta (alla domenica c’era il grande incontro di tutti i bambini del paese). Il gioco consisteva semplicemente nel mettere una o più marmore a disposizione di chi tentava di colpirle con altre da una certa distanza e quindi vincerle. Quelle che non colpivano nulla diventavano di proprietà degli sfidanti. Le modalità di lancio potevano essere di striscio a correre sul terreno oppure al volo con centro netto ed in questo caso la vincita diventava doppia o più, data la difficoltà esecutiva, considerando che le biglie erano piccole ed a volte la distanza di parecchi metri, fino a dieci e più. Le varianti però erano tantissime, poiché si potevano mettere più biglie da colpire a distanza variabile tra loro in linea orizzontale, oppure in fila lungo la direzione di lancio una dopo l’altra (facilitando apparentemente il tocco anche occasionale di più marmore), oppure in ordine sparso (contava l’abilità della loro disposizione per dare l’illusione di poterle toccare più facilmente: un po’ come nelle fiere con il tiro degli anelli per vincere il pesciolino rosso, che non arrivava mai vivo a casa. Potevano essere disposte ammassate formando delle piramidi regolari: le più piccole erano di quattro biglie (castelletto), tre alla base ed una alta


al centro e poi sempre più grandi anche di cento e più pezzi. In generale si vincevano le marmore che cadevano dalla piramide colpita, ma c’era anche chi metteva in palio tutta la piramide per chi centrava solamente quella più alta. A volte per evitare contestazioni si sotterrava addirittura l’intera piramide lasciando fuori terra da colpire solo il vertice. Oppure si mettevano più piramidi vicine in palio. In questi casi il gioco si faceva duro poiché la distanza aumentava sensibilmente in proporzione al numero ed alla misura delle piramidi e quindi alla consistente quantità di biglie accatastate e che potevano essere vinte. I lanciatori erano numerosissimi e le biglie che non colpivano nulla diventavano centinaia ed andavano ad incrementare sensibilmente il malloppo di chi teneva le piramidi. Quando il numero dei concorrenti era elevato poteva dar adito a contestazioni, poiché i lanciatori tiravano tutti senza ordine ed interruzione. In realtà ognuno aveva le sue marmore di un colore ben preciso e quindi era impossibile la confusione. C’erano concorrenti specializzati a tenere il banco (a piantar) e quelli a colpire con una mira incredibile, diventati conosciuti e temuti da tutti. Secondo chi arrivava sul campo in un certo momento faceva mutare drasticamente le varie strategie, cambiando all’istante le piramidi e le distanze. Le sfide diventavano epiche, lunghissime, entusiasmanti, chiassose, con decine di concorrenti tutti sporchi di polvere e sudore da capo a piedi, come soldati sul campo di battaglia. Alla fine delle gare in mattinata o verso sera i vincitori (quasi sempre erano gli stessi) esponevano i loro sacchetti pieni di centinaia di marmore vinte mentre tutti gli altri rimanevano delusi con le tasche vuote invidiosi di chi aveva avuto più abilità, poiché era tacito che la fortuna poteva aiutare solo qualche rara volta.

altri giochi Ovviamente c’erano molti altri giochi che si facevano in funzione del clima, della stagione, della moda, dell’età ecc, che sarebbe tedioso raccontare minuziosamente, ma vale la pena di elencare anche per dare l’idea del loro numero e varietà e tenendo conto che erano tutti giochi di aggregazione. Magari da confrontare con quelli che oggi i ragazzi usano più di frequente: playstation, gameboy o altre diavolerie informatiche, spesso giocando da soli: • bandiera: squadre che si davano la caccia • bandiera-fazzoletto: due squadre per la conquista di un fazzoletto, al centro • fionda e pistole con l’elastico • figurine: il lancio e la contesa in funzione della loro caduta • figurine-contro-il-muro: come sopra, ma lasciandole cadere appoggiate ad una parete • ladri e carabinieri: una variante piuttosto elaborata del nascondino • scagnarèla: scavalcarsi o saltarsi sulla groppa in lunghe file instabili • falò: in autunno quando era facile ammucchiare le foglie secche degli alberi • Monopoli, Scala Quaranta, Scacchi, Pocker, Calciobalilla nelle giornate piovose E, per finire, un gioco un pò crudele con le rane (Gian puntualizza di non aver mai partecipato); maestri erano stati i compagni dei primi anni di scuola che venivano dalla campagna, dove c’era poca sensibilità per gli animali in genere, spesso “usati” con indifferenza anche per giocare. La gara delle rane per qualche mese aveva incuriosito Gil, poi i buoni sentimenti avevano prevalso (ora sarebbe indegno).

Ovviamente, in questo gioco apparentemente semplice, e del resto come nella vita, era possibile individuare fin da piccoli gli intelligenti, gli ambiziosi, i furbi, gli abili, i tonti, quelli che rischiavano, i disinteressati, i miti, i tranquilli, gli esagitati, i generosi, gli avidi, quelli che si divertivano soltanto con qualche biglia, quelli che ne ammucchiavano un numero incredibile come un trofeo da mettere da parte a fine stagione. Gil, emotivo e nervoso non ne aveva mai di marmore in tasca, mentre Gian furbo e riflessivo aveva sempre il suo discreto mucchietto.

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I Giochi

Le rane Ognuno si sceglieva una rana, possibilmente bella grande (numerosi e complicati erano i metodi per catturarle senza cadere in acqua: con una reticella, oppure con canna e lenza munita di fiocchetto di cotone bianco in fondo a cui rimanevano appese facendolo loro saltellare davanti, o con canna e lenza culminante con un piccolo laccio). Con una cannuccia sottile e non troppo rigida ricavata dallo stelo di una piantina acquatica, infilato nell’ano della rana, la si gonfiava il più possibile, senza farla morire. Poi, si teneva la rana con tre dita: indice e medio ai lati della testa e pollice dietro per bloccare l’uscita dell’aria una volta sfilata la cannuccia. Al via, tutti in fila sulla rive dello stagno, ognuno col proprio anfibio, si lasciava andare la mano. Le rane partivano a reazione con una scia di bollicine, e vinceva quella che per prima arrivava all’altro lato dello specchio d’acqua, di solito bella arzilla e senza danni.



Arrivederci Con il 1958 il primo balzo dell’avventura è compiuto e trascritto. Sono trascorsi 23 anni dal matrimonio di Babbo Paolo e Mamma Nilla, con Gian che fa la Maturità e Gil che parte per il militare. Il secondo, che potrebbe arrivare al 1980, con l’emigrazione di Gian in Sicilia, è nella penna e farà parte di un altro appuntamento. Ma il discorso non si esaurisce ora e non si esaurirà poi, perchè questi appuntamenti sono una scaramanzia per distrarre l’immonda megéra, sempre pronta sui blocchi di partenza, ad avventarsi con la sua messóra per falciare i nostri miseri zebedèi. Proprio per questo è stato scelto un percorso a tappe, senza striscione d’arrivo finale, per programmare l’immortalità. Basta crederci. E se poi non sarà così, verrà considerato un incidente di percorso. Quindi alle prossime uscite, con una avvertenza (o minaccia se preferite): “questo testimone non deve cadere, qualcuno lo dovrà prendere e continuare la corsa!”

Gilberto e Gianfranco 6 Giugno 2010


CRONOLOGIA GENERALE (1934-1980) OSPEDALETTO

DAL AL DATA GIL GIAN AVVENIMENTI 1934 Babbo Paolo va ad Ospedaletto come Assuntore FF SS 1935 Babbo e Mamma si sposano a Bologna 7-lug-36 Nasce Gilberto ad Ospedaletto 13-dic-38 Nasce Gianfranco ad Ospedaletto 10-dic-40 L’Italia dichiara guerra agli Alleati 1942 Trasferimento nella Stazione di Sanguinetto

SANGUINETTO

DAL AL DATA GIL GIAN AVVENIMENTI 6-apr-39 Nasce Gabri 15-gen-42 La famiglia si iscrive nel Comune di Sanguinetto set-42 giu-43 1 E Scuola: Gil va in prima elementare 3-set-43 L’Italia firma l’armistizio, reso noto 5 giorni dopo set-43 giu-44 2 E Scuola set-44 giu-45 3 E Scuola 18-feb-45 Muore Giorgio Serrantoni, a Isola Della Scala 25-apr-45 Fine della 2^ guerra mondiale set-45 giu-46 4 E 2 E Scuola: Gian inizia con la seconda elementare 2-giu-46 Proclamazione della Repubblica set-46 giu-47 5 E 3 E Scuola set-47 giu-48 1 M 4 E Scuola: Gil va in prima media a Legnago set-48 giu-49 2 M 5 E Scuola estate ‘49 * Gian va al tabacco a Concamarise set-49 giu-50 3 M 1 M Scuola: Gian va in prima media a Legnago 20-feb-50 Nasce Pati set-50 giu-51 1 S 2M Scuola: Gil va in prima “geometri” a Mantova estate ‘51 * Gian ha la peritonite 15-nov-51 Alluvione del Polesine 21-nov-51 Muore il Nonno Umberto set-51 giu-52 2S 3 M Scuola set-52 giu-53 2S IV G Gil ripete la 2^ a Verona; Gian va in IV Ginnasio a Legnago estate 53 * * Gita a Venezia con Priulin 13-lug-53 Muore la Nonna Adriana ago-53 set-53 * Gil lavora allo zuccherificio di Sanguinetto set-53 giu-54 3 S V G Scuola 3-gen-54 Iniziano le trasmissioni della Televisione Italiana 31-lug-54 Conquista del K2 - Spedizione Desio ago-54 set-54 * Gil lavora allo zuccherificio di Sanguinetto set-54 giu-55 4 S 1 L Scuola: Gian va in 1^ Liceo Classico 20-ott-54 Il territorio libero di Trieste torna all’Italia estate 55 * * Giro del Garda in bici: Gil, Gian, Claudio A., Giulio F.


ago-55 set-55 * Gil lavora allo zuccherificio di Sanguinetto set-55 * Gabri e Gil si innamorano 1956 * Compare il Rèmite Elia Semenzino a Sanguinetto set-55 giu-56 5 S 2 L Scuola set-56 * Gil si diploma con 4 materie a Settembre (36/60) ago-56 set-56 * Gian lavora allo zuccherificio di Sanguinetto (42340 Li/m) ott-56 gen-57 * Gil Cantieri-scuola coi disoccup.Boschetti e Tavanara set-56 giu-57 3 L Scuola: Gian è bocciato alla maturità set-57 giu-58 3 L Scuola: Gian fa la maturità 8-feb-58 * Gil parte per il militare: Como e Casale Monferrato set-58 giu-59 1U Scuola: Gian inizia Chimica Industriale a Bologna 8-ago-59 * Gil torna da Militare (grado di Sergente in congedo) 1-ott-59 * Gil inizia lavoro a Valdagno (CIATSA) 1-gen-60 * Gil a Brindisi, con i Jolly Hotels della CIATSA set-59 giu-60 2 U Scuola set-60 giu-61 * 3 U Gian scuola; Gil a Brindisi, Taranto, Lecce ago-61 set-61 * Gian lavora allo zuccherificio di Sermide 9-ott-61 * Gabri e Gil si sposano e vanno a BR, TA, Matera set-61 giu-62 4 U Scuola 23-dic-62 * Nasce Robi a Legnago; vanno Castrovillari, Gioia Tauro set-62 giu-63 * 5 U Gian scuola; Gil Jolly Castr. Gioa T.;Calabria 9-ott-63 Disastro del Vajont set-63 giu-64 * 6 U Gian scuola; Gil casa a Taranto Cal.Puglia, Basil, Camp. 1-apr-65 * Nasce Paola a Legnago set-64 giu-65 * 7 U Gian scuola; Gil base TA sempre Cal, Bas, Camp, Puglia 17-lug-65 * Gian si laurea con 92/110; Gil cambia casa a TA. 8-ott-65 11-mar-66 * Gian fa il militare (Corso AUC di Foligno) 12-mar-66 11-lug-66 * Gian è Sergente a Susa ott-66 * Gil torna dal meridione (TA) e va a PD 12-lug-66 4-gen-67 * Gian è Sottotenente a Cividale Del Friuli feb-67 mar-67 * Gian insegna nella Scuola Media di Nogara 23-lug-67 * Nasce Daniela a Padova 31-lug-67 * Gian brevetta sistema anabbagliante con luce polarizzata 11-ago-67 * Gian si innamora di Pati 1 9 6 7 * Gian ha una borsa di studio all’Università Di Bologna 1-mar-68 * Gian entra alla Knorr 1969 1 9 7 3 * Gian è consigliere Comunale a Sanguinetto 4-ott-70 * Pati e Gian si sposano 19-ago-71 * Nasce Andrea ago-71 * Gil va a Milano ed inizia l’avventura Serrantoni 2-dic-73 Prima domenica a piedi: è “l’austerity” 1 9 7 4 * Fondazione del Gruppo Amici Montagna a Sanguinetto 1 9 7 4 * Fondazione del coro “El Castel” a Sanguinetto 18-set-74 * Nasce Ale 6-mag-76 Terremoto in Friuli 29-gen-80 * Gian e famiglia vanno in Sicilia



A

ARISTOTELE 84 ATTIVITA’ LUCROSE 90

P

B

BABBO PAOLO 9 BOLOGNA 9

C

CENSURA ANNI ‘50 83 C’ERA UNA SVOLTA 86 CULO DEL BAETO 62

Q

QUARANTANNI 63 QUASI LA MORTE 58

R

RE A BOLOGNA 13 RIFUGIO SOTTERRANEO 61

D

DOPOGUERRA 54

G

GIAN ALLE SUPERIORI 82 GIL ALLE SUPERIORI 66 GIL CONDUCE LA LOCOMOTIVA 73 GIL LAVORA ALLO ZUCCHERIFICIO 72 GINA LOLLOBRIGIDA 84 GIOCHI 94 GIRI DEL GARDA IN BICI 74 GIULIO CESARE POLETTINI 60 GUERRA 42

H

HISTORIA MATRINIA VITAE 84

I

INIZIO DELLA STORIA 36

M

MAGONI, REANI, DOATI 85 MAMMA NILLA 22 MATO BERARDO 85

N

NONNI ADRIANA E UMBERTO 32 NONNO SAVERIO E LE ZIE 19

O

OSPEDALETTO EUGANEO 37

PANTALONI NUOVI 62 PASSAGGIO DEI RATTI 45 POLLAIO PENSILE 60 PORCELLINO 45 PROTAGONISTI 4

S

SANGUINETTO 42 SCUOLE DI SANGUINETTO 43 STAZIONE ED IL TEATRO DEI GIOCHI 54 SVEGLIA UMANA 61

T

TRENO PER VERONA 68

U

UOVO CALDO 62 UVA DEL PRETE 62



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