Psicoanalisi del traumatico

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Mauro Manica

Psicoanalisi del traumatico Sogno, dissociazione e Linguaggio dell’Effettività Prefazione di Maurizio Collovà

Collana i Territori della Psiche diretta da Doriano Fasoli Board Scientifico: Alberto Angelini, Andrea Baldassarro, Nicoletta Bonanome, Marina Breccia, Carla Busato Barbaglio, Nelly Cappelli, Giuseppina Castiglia, Domenico Chianese, Cristiana Cimino, Antonio Di Ciaccia, Roberta Guarnieri, Lucio Russo, Marcello Turno, Adamo Vergine

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© Copyright Alpes Italia srl Via G. Romagnosi, 3 – 00196 Roma, tel./fax 0639738315 I edizione, 2020

Mauro Manica è psichiatra e psicoanalista, membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana e della International Psychoanalytic Association. Oltre a vari contributi su riviste scientifiche, ha pubblicato diversi volumi sulla psicoanalisi delle patologie gravi. Ha ricevuto il Tycho award. È stato redattore della Rivista di psicoanalisi. Vive e lavora a Genova.

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Indice generale Prefazione di Maurizio CollovĂ ....................................................... V Nota introduttiva............................................................................ XI

1. Per iniziare...............................................................................

1

1.1. Una strana storia....................................................................... 1 1.2. La preistoria del traumatico....................................................... 7

2. Trauma e sogno....................................................................... 9 2.1. Ferenczi e la funzione traumatolitica del sogno.......................... 9 2.2. Jung e l'interpretazione costruttiva............................................ 12 2.3. Dreaming ensemble.................................................................... 20

3. Trauma e dissociazione...........................................................

25

3.1. Il trauma genera dissociazione e non rimozione......................... 25 3.2. Breve storia della dissociazione..................................................

29

3.2.1. Freud e l'unitĂ dell'Io......................................................... 29 3.2.2. Jung e la dissociazione........................................................ 32 3.2.3. Bromberg e la dissociazione................................................. 32 3.3. I traumi non si cancellano mai.................................................. 34

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Psicoanalisi del traumatico 4. Trauma e cura............................................................................

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4.1. La vita è bella............................................................................ 39 4.2. Linguaggio dell'Effettività e Patto di Pietà come articolazioni di una tecnica analitica contemporanea......................................... 43 4.2.1. Martina e la confusione delle lingue................................ 43 4.2.2. Gabriele e il perturbante................................................. 47

5. Appendice.................................................................................. 53 5.1. “Tertium datur”: Ogden e il principio dialettico del terzo incluso........................................................................ 53

Bibliografia....................................................................................... 67

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Prefazione di Maurizio Collovà

“Psicoanalisi del traumatico” è l’ennesimo di una lunga produzione di testi psicoanalitici che Mauro Manica ci ha abituato ad attendere ormai con stabile frequenza. Siamo di fronte infatti ad un autentico ricercatore con un pensiero colto, profondo e quanto mai prolifico, capace di spaziare tra molteplici articolazioni culturali di cui si nutre per arricchire di continuo il suo pensiero. Il sottotitolo che l’autore ha dato al suo libro, in qualche modo segna un filo rosso che percorrerà l’intero volume, quello di una psicoanalisi che necessita di una mente presente e viva, Ogden direbbe “in esistenza”, perché un’altra possa formarsi e crescere, evolvere e trasformarsi. Manica fin dall’inizio orienta il lettore indicando i confini entro i quali proporrà le sue riflessioni che saranno teoriche, tecniche e cliniche, ponendole rigorosamente all’interno dello spazio della seduta, rispettando già in questo il precetto bioniano che considera unico materiale di interesse per l’analista quanto accade in ogni momento in seduta tra analista e paziente. In particolare al centro del suo discorso pone il sogno, il sognare e lo sviluppo delle funzioni del dreaming ensemble, di fondamentale importanza per trasformare quanto di traumatico arriverà in seduta. Credo sia dirimente per comprendere il posizionamento teorico di Manica cogliere nel titolo l’uso del termine “Traumatico” inteso solo marginalmente come trauma storico, staticamente insediato nella mente del paziente, considerando che “il trauma genera dissociazione e non rimozione”. In quel “… del traumatico” presente nel titolo, coglierei un elemento vitale, attivo e continuamente variabile che, come vedremo, diviene essenziale motore di trasformazione evolutiva ma anche potenzialmente involutiva in relazione a buoni o cattivi funzionamenti della coppia e del campo in cui é immersa. In una teorizzazione bioniana è come dire che abbiamo bisogno degli elementi beta/balfa, senza i quali sarebbe impossibile sviluppare una funzione alfa e la nostra capacità di sognare. In questa lettura traumatico diviene ogni emozione grezza (elemento β) che le due menti in seduta non riescono, o non possono ancora trasformare in quei segmenti narrativi che farebbero evolvere il racconto e uscire dalla fissità del sintomo. Vorrei soffermarmi sul senso dei molti “Già Freud aveva detto …, Già Jung aveva intuito …, Già Ferenczi …” e così via, che fanno la loro comparsa quasi in ognuno dei cinque capitoli di cui è composto il libro. Nella V


Psicoanalisi del traumatico

maggior parte dei casi, di fronte a questi incipit, ho sempre pensato ad una qualche resistenza nel superare il padre, a dovere, prima di potere esprimere il proprio pensiero, assolvere all’obbligo di ossequiare gli antenati, con la conseguenza di rimanere imbrigliati e assoggettati al suo pensiero, A meno che gli scritti avessero l’intento di mostrare una legittima ricostruzione storica delle evoluzioni teorico-cliniche della psicoanalisi. Posso affermare che non è questo il caso, dove nei “Già …” di Manica certamente ho ritrovato quel senso di gratitudine nei confronti dei nostri pensatori illustri, ma sopratutto un modo intelligente e utile di accompagnare il lettore nei perché delle continuità e discontinuità teoriche e tecniche, accompagnarlo nel comprendere le ragioni di una permanenza o di una maturata inutilità di alcuni concetti che non riescono più a conservare la loro ragion d’essere in una psicoanalisi quanto meno relazionale/bipersonale se non di campo. Questo aspetto è molto evidente tutte le volte che nel libro si presenta l’inevitabile salto da una psicoanalisi unipersonale a una psicoanalisi bipersonale, come pure quello da una psicoanalisi dei contenuti ad una dello sviluppo delle funzioni per sentire, pensare e sognare. Manica utilizza, come apertura alle sue riflessioni sul traumatico, il racconto delle analisi di Harry Guntrip con W.R.D. Fairbairn e in seguito, dopo l’aggravarsi delle condizioni di salute di questi, con D.W. Winnicott. L’elemento che coglierei in queste due narrazioni, anche se con differenti gradazioni, che mi sembra strutturante per il discorso di Manica è quello di una assenza o semplicemente insufficienza di una mente ricettiva che collabori adeguatamente alla strutturazione di un apparato per pensare. L’accusa che Guntrip fa al suo primo analista è quella di essere un “analista classico” che, forse per le sue condizioni di salute, sembra difendersi dietro le proprie teorie evitando un contatto mentale capace di aprire ad una autentica vicinanza e comprensione emotiva dando vita ad una analisi che Manica classifica come in (- K). Se cogliamo questo aspetto siamo portati a riflettere in modo più ampio su quali usi può fare l’analista delle sue teorie e di quanto esse possano, se presenti in modo forte in seduta, oscurare invece che aprire nuova conoscenza, diventando una barriera rispetto al “Linguaggio dell’Effettività”, necessario a che il paziente senta di essere riconosciuto ed esistere nella mente di qualcun altro, della propria madre come del suo analista. Manica in questo libro fa giocare come a rincorrersi una quantità di illustri giocatori che ho percepito come i partecipanti ad una staffetta in cui ciascuno di essi consegna al seguente il testimone/intuizione per un possibile sviluppo futuro. Fairbairn e Winnicott preannunciano mattoncini teorici di una memoria del futuro di cui non comprendono ancora gli sviluppi in quanto mancanti dei contributi importanti cui la teoria approderà in un futuro non lontano.

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Prefazione

A questo proposito Manica afferma: “Senza dubbio, né Fairbairn né Winnicott potevano disporre di una teoria della dissociazione traumatica così sofisticata come quella che abbiamo a disposizione nell’analisi attuale”. È Bromberg a prendere il testimone facendosi promotore di una concezione della scissione per lui, entro certi limiti, fisiologica, già adombrata da Jung, che, come spesso accade in psicoanalisi, da negativa, in quanto escludente aspetti del Sé, diviene una importantissima funzione omeostatica del Sé per una mente che rischia di perdere il senso di una propria unità, sovrastata da una eccedenza emotiva insostenibile. Bromberg propone una mente impegnata in un continuo lavoro di contrattazione tra conscio e inconscio alla ricerca di una possibile “sostenibilità” (Collovà 2007). Qui l’autore propone di esplorare il confine tra una dissociazione come risultato di relazioni traumatiche e una dissociazione come processo strutturale e strutturante della mente. In questo gioco tra gli autori Manica riesce sempre a collegare il qualcosa di appena intuito o di innovativo ad aspetti più attuali della psicoanalisi, evidenziando ponti teorici attraversando i quali ci porta, in una continua oscillazione tra passato e presente, nel qui ed ora della psicoanalisi dei giorni nostri. È il caso in cui si richiama alle vite non vissute di Ogden, (che potrebbero essere le parti scisse dei pazienti di Bromberg da integrare, a cui dare voce) che attendono una loro nuova e diversa narrazione meno sacrificante del Sé, portandoci così verso una psicoanalisi che diviene sempre più inevitabilmente intersoggettiva attraverso i passaggi da un enactment all’altro e alla loro risoluzione. Intanto scopriamo un vocabolario dove per Manica le memorie traumatiche diventano “memorie del sottosuolo”, “inclusi preistorici”, “fossili di potenzialità irrealizzate” o ancora capaci di contenere “tracce di vita in attesa di irrompere nel corso dell’esistenza” (Manica, 2013)1. Non si può non pensare ai pensieri in attesa di un pensatore di Bion, un altro ponte verso la psicoanalisi attuale, o letterariamente ai personaggi di Pirandello cui il poeta e drammaturgo dava udienza nel suo studio alla domenica mattina per decidere quale di essi arruolare in un suo prossimo romanzo. Ma, Fantasia, la sua servetta, contrariamente alle disposizione ricevute, li fa entrare “Tutti insieme a frotta; cosicché io [Pirandello] non so a chi debba per prima dare ascolto”. In tutto il libro è percepibile il tocco delicato, l’attenzione a non colonizzare il paziente e la capacità di mettersi in gioco fino alla possibilità di ammalarsi della malattia del paziente, o come direbbero oggi Ferro e altri (2007), del campo, rimanendo vivo e ispirato. Per Manica il fine di tutto ciò è quello di consentire di conservare o scoprire un autentico amore per 1 In realtà la prima definizione del concetto di memorie del sottosuolo, da parte di Mauro Manica, è stata utilizzata al 14° Colloquio Franco-Italiano di Psicoanalisi, SPP-SPI, “Memorie e reminiscenze”, quando ha presentato il lavoro: “Mémoires du sous-sol: éruptions volcaniques et secousses telluriques”, Roma, 12-13 novembre 2011.

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Psicoanalisi del traumatico

la vita, di trovare assieme al paziente una curiosità verso le infinite varianti della vita rispetto alla pietrificazione nella fissità della coazione a ripetere talvolta sentita persino come più rassicurante rispetto ad un incerto ignoto ancora da conoscere. Ma anche in questo caso Manica ribalta il senso delle cose attraverso una citazione di Bion che legge la coazione a ripetere come una scintilla di curiosità umana che nessuno è riuscito a spegnere. È evidente qui l’attenzione a non pietrificare i concetti ma a riconsiderarli continuamente, scoprendone sempre nuove declinazioni. Qui l’autore mostra quale sia il rapporto che intrattiene con la teoria, un rapporto carico di tensione ma che non lo porta ad essere mai un tifoso definitivo disposto a difenderla ad oltranza, una teoria che viene comunque considerata sempre in transito. La citazione dal testamento di Lev Trotsky da cui Benigni ha tratto il titolo per quell’incantevole capolavoro de La Vita è bella apre ad uno splendido e commovente capitolo dove il racconto del film è utilizzato per mostrare come differenti prospettive teoriche possono definire diversamente il campo degli eventi e delle esperienze emotive. Nel tempo i percorsi e la maturazione teorica di Manica lo portano dall’utilizzare inizialmente un modello kleiniano ad abbracciare in seguito il modello bioniano. Il film viene sottoposto così a due differenti letture. Il primo modello gli fa cogliere nella vicenda la negazione, la bugia e l’inganno di una assenza di verità nei confronti del proprio bambino, con la conclusione tragica di perdere la propria vita e di uccidere la propria funzione genitoriale. La prospettiva bioniana delle trasformazioni in “O” lo porta a considerare qualcosa che prima era evidentemente messo in ombra se non del tutto oscurato, il contesto del campo di sterminio e le scarse possibilità di sopravvivenza. Qui ritorna la domanda di come e quanto l’uomo possa tollerare il traumatico sviluppando quella “funzione traumatolitica del sogno” su cui Ferenczi aveva già posto la sua attenzione. È il concetto di funzione α e della funzione oniropoietica, concetto che Manica con colorita espressione assimila ad “un altoforno che produce in continuazione i “mattoncini - α” che costruiscono il sogno…”. La verità, intesa come “O”, viene così lavorata e adattata alla capacità di patire la sofferenza che deriva dal contatto con essa, trasformandola in una esperienza emotivamente possibile. Dunque l’analisi diviene per l’analista una continua attenzione allo sviluppo, come direbbe Ferro, di trasformazioni in sogno, di trasformazioni in gioco che renderebbero vivibile l’orrore, il senso di catastrofe. Il film di Benigni diventa così la metafora di un’analisi dove l’analista caregiver deve essere in grado di divenire l’esperienza emotiva del paziente, ovvero la sua “O”, direi di abitare il suo stesso campo emotivo attraverso numerose esperienze di unisono.

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Prefazione

Anche in questo caso Manica attualizza il concetto freudiano di nevrosi di transfert, “non più il passato che si ri-attualizza nel presente, ma un presente che trasforma l’attualità di un traumatico che si è presentificato” e a cui, pirandellianamente, dare nuova vita attraverso i personaggi che entrano in scena in un campo condiviso, capace prima di avere attraversato la sua stessa malattia. Ma l’autore nel suo libro non manca di portarci nel vivo della stanza d’analisi con due casi che hanno il pregio di farci cogliere senza sforzo gli elementi teorici che supportano la clinica. Non entrerò nel merito dei casi per lasciare viva la curiosità e la libertà di godere di una prima lettura scevra da ogni pre-giudizio. Ma sottolineerò solo alcuni passaggi teorici di particolare rilevanza. In scena c’è l’intersoggettività e il comune campo emotivo, talmente condiviso da far diventare l’analista l’”O” del paziente, se non la sua voce diventando un analista quasi incarnato quanto mai presente e vivo e capace di mettere in atto quel “Linguaggio dell’Effettività” che il paziente chiede e di cui ha bisogno. A questo proposito l’autore fa una importante affermazione: “Nel momento in cui il linguaggio dell’effettività si produce e viene percepito nella seduta analitica, l’analista deve rimanere sensibile ad esso, senza che per lui diventi un luogo di incursione e di interpretazione […] protetto dalla capacità negativa di resistere all’azione” di voler descrivere qualcosa che può soltanto essere detto. Nel secondo caso Manica descrive ancora due differenti prospettive da cui guardare all’Edipo. Searles (1959) liquida la visione freudiana vissuta sotto l’egida della minaccia della “castrazione”, lasciando il bambino con un permanente senso di colpa e ne afferma una in cui il caregiver accetta e ricambia l’amore del bambino, amore che viene riconosciuto e che a sua volta dovrà accettare un limite. Richiamando Grotstein (2000) l’autore riafferma quel Patto di Pietà che se infranto metterà a dura prova la stessa sopravvivenza psichica del bambino. Ogni infrazione di questo Patto rappresenta l’abuso, quell’abuso di cui l’analista deve farsi carico per poter pronunciare quel Mi dispiace di cui l’oggetto traumatizzante non si è mai fatto carico. Anche l’inconscio citato da Manica subisce una rivoluzionaria trasformazione che aveva trovato in Bion e negli sviluppi bioniani in particolare in Italia, i suoi primi sostenitori. Manica ci parla di un inconscio che forse non è mai esistito fino all’incontro con l’analista ossia di un inconscio che prende vita a valle della relazione. A parer mio questo salto teorico segna in questo punto una profonda cesura con la visione freudiana di inconscio. Il libro si chiude con una Appendice dedicata al tema della Terzeità interpretata da Ogden nel modo più creativo possibile. In essa si vede IX


Psicoanalisi del traumatico

all’opera una psicoanalisi che aiuta il paziente e l’analista a trovare una nuova voce, un modo nuovo di comprendere se stessi. Una psicoanalisi che costruisce le condizioni perché il paziente si attrezzi di quelle funzioni utili a produrre il “sogno necessario” (Civitarese, 2013) per affrontare le turbolenze che la vita gli riserverà. Definirei questa parte del libro quella che supera definitivamente la teoria unipersonale per approdare ad una teoria inevitabilmente intersoggettiva e di campo, di un campo popolato da personaggi che danno voce alle emozioni circolanti e che definiscono, nel loro mutare, le trasformazioni possibili. Al termine di questa lettura sembra di poter cogliere nelle pagine di questo interessante libro l’applicazione di un modello di campo dove tempi e luoghi differenti convivono e tutti i personaggi/autori, come in una comune sala d’attesa dei nuovi pensieri, dialogano tra loro. La lettura di questo libro mi ha arricchito molto per la capacità di creare nessi, la qual cosa rimanda al consiglio bioniano di indagare la cesura, la sinapsi, come spazio dove attivare molteplicità di trasformazioni, dove possono trovare esistenza vite che avrebbero rischiato di diventare “fossili di potenzialità irrealizzate”. Ma vorrei terminare ancora una volta letterariamente aiutato da una citazione quanto mai pertinente. Ad un personaggio potenziale di un suo ipotetico romanzo, Pirandello chiede dove volesse arrivare con le sue dissertazioni. Il “dottore in scienze fisiche e matematiche Aleandro Scoto”, risponde: “Alla vita! - esclama lui, allora con un gesto melodrammatico. - Io voglio vivere, ho una gran voglia di vivere (….) Ecco mi faccia commettere magari qualche grossa bestialità: affrontare la morte, putacaso, per salvare un mio simile, beneficare un amico, (….) mi faccia financo prender moglie, che debbo dirle? (…) ma non mi abbandoni per carità, mi dia vita, si serva di me! [“Personaggi” (1906)]. Forse questa è la domanda che ogni paziente più o meno consapevolmente ci fa quando entra nel nostro studio. Essere o tornare ad essere vivo, a sentire e poter vivere le sue e le nostre emozioni insieme, andando via dall’analisi con la convinzione di avere anch’egli in qualche modo conosciuto la persona del suo analista. Questo mi sembra il senso più profondo di questo libro di Mauro Manica.

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Nota introduttiva

La lingua tedesca non dispone di un termine specifico che le permetta la traduzione della parola “trauma”. In tedesco trauma viene semplicemente trascritto nella sua forma originaria, ad esempio, “trauma della gabbia toracica” viene tradotto come Trauma des Brustkorbs e l’aggettivo “traumatico” diventa traumatisch. Al contempo, la lingua tedesca usa la parola traum per indicare il sogno e il sognare (traümen). E da qui, il titolo del lavoro fondamentale di Freud (1899), “L’interpretazione dei sogni”, la Traumdeutung, la vera e propria pietra angolare della sua opera. È allora possibile immaginare che trauma e sogno, a partire da una comune radice etimologica, abbiano qualcosa in comune? Possono allora esistere sogni traumatici, nel senso che il trauma venga ad essere costituito proprio da un sogno, piuttosto che nella direzione indicata da Kohut (1971) dove il sogno traumatico viene a ripetere, come stato del Sé, la costellazione emotiva del trauma? In realtà, penso che si tratti di un’eventualità inammissibile, perché sogno e trauma sembrano collocarsi agli antipodi dell’esperienza psichica. Il trauma è ciò che si dà come insognabile mentre il sogno diventa una “frontiera immunitaria” (Grotstein, 2007) che tenta, come vedremo nella seconda sezione di questo saggio, di neutralizzare, bonificare e trasformare gli antigeni del traumatico. Se il trauma dissocia, il sogno cura, disvelando l’ordine nascosto dell’arte dell’inconscio. E questo libro, tentando di ripercorrere alcuni passaggi della teoria e della clinica psicoanalitica, vuole interrogarsi sugli strumenti di cui può disporre l’analista contemporaneo quando il trauma fa la sua comparsa nella stanza d’analisi. Trauma e sogno, trauma e dissociazione, trauma e cura diventano allora i capitoli di questo saggio che, attraversando la psicopatologia psicodinamica del traumatico, si trova anche a ripensare un modello di mente che l’esperienza clinica ci ha permesso di formulare in termini interpsichici e intersoggettivi. Non a caso viene dedicata un Appendice al concetto ogdeniano di terzo analitico intersoggetivo. Senza dubbio, la psicoanalisi bioniana e quella post-bioniana sono i riferimenti teorici principali del libro e costituiscono (considerandone anche la preistoria) quel filo rosso che vorrebbe portare a nuove possibilità di comprensione e di cura del traumatico.

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