Le pietre trasportate

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LE PIETRE TRASPORTATE



LE PIETRE TRASPORTATE Maria Grazia Eccheli Eleonora

Cecconi

Francesca Alix Nicoli Alessandro

Cossu

Michelangelo Pivetta

Caterina

Lisini

Bo Allison

Alberto

Pireddu


Le Pietre trasportate. Carrara, l’artificio della natura. Centro Arti Plastiche - Carrara, Ottobre 2014 Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Architettura DIDA - Scuola di Architettura Comune di Carrara, assessorato alla cultura.

I progetti raccolti nella mostra e nella pubblicazione sono gli esiti del lavoro degli studenti del Laboratorio di Progettazione dell’Architettura IV di Maria Grazia Eccheli, al quale hanno preso parte anche Francesco Ventura e Emanuele Lago. (anno accademico 2013-2014). Progetto di tesi di laurea di Alessandro Cossu, Relatore Maria Grazia Eccheli, Correlatore Michelangelo Pivetta.

Progetto della mostra: Alessandro Cossu

Con il patrocinio e il sostegno di:


LE PIETRE TRASPORTATE Carrara, l’artificio della natura

a cura di Alessandro Cossu



SOMMARIO

Le pietre sono parole. Maria Grazia Eccheli

Sulle bianche cave di marmo brilla una luna rock. Francesca Alix Nicoli

Lungo i solchi dell’artificio. Eleonora Cecconi

Una buona domanda vale più della migliore delle risposte. Alessandro Cossu

Tra pietra e luce, l’infinito. Alberto Pireddu

Pietas michelangiolesca. Il Memoriale sulle Alpi Apuane di Giovanni Michelucci. Caterina Lisini

1497. La sostanza dell’arte. Michelangelo Pivetta

Paradigma. Bo Allison

Modelli di architetture Riferimenti iconografici e crediti



Giovanna Bernardini

Sono lieta di aprire con queste brevi considerazioni il libro che raccoglie le ricerche e gli esiti dell’incontro e dello scambio che ho fortemente sostenuto tra il Comune di Carrara e la Scuola di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. Questa collaborazione vuole promuovere una riflessione sul nostro territorio, ponendo il paesaggio al centro. Si tratta di aprire una discussione dialettica tra differenti competenze, in grado di indagare le peculiarità della città di Carrara, alla luce di una visione fortemente legata a quelle forme antropiche, storiche e geografiche, economiche e culturali, che nascono dal luogo e ne disegnano l’assoluta specificità. In quest’ottica il paesaggio può essere l’incipit di un dialogo che ritragga e spieghi, rintracci le dinamiche delpassato e ci cimenti con il progetto futuro. Decodificare le contaminazioni che da sempre hanno caratterizzato la storia della nostra città è contestualmente il compito e la sfida di quel metodo che si sostanzia di forti sollecitazioni culturali. I saggi e le proposte qui presentate dai giovani studenti della Scuola di Architettura guardano appunto alla storia del territorio apuano per costruire il nostro tempo. E’ un invito a interrogare l’ambiente , a indagare e a disvelare quelle potenzialità che potrebbero essere occasione di sviluppo consapevole. Al centro dello studio sta il principio ispiratore che la cultura possa facilitare l’ emancipazione di un territorio il quale, pur lacerato dalla crisi, sappia e voglia trovare in essa lo stimolo per nuove energie , in grado di proporre sviluppi futuri nell’interesse di tutti.



Gli scritti di questo libro parlano della montagna e della sua pietra tràdita per l’architettura e per l’arte, di metamorfosi informi ideate e modellate dall’uomo; di massi che trasmigrano in mare e approdano in altri lidi…Parlano di una terra, Carrara, sospesa tra le nude pareti delle Alpi Apuane e l’azzurro del mare; di bianche cattedrali che luce e ombra rendono magiche; geologiche architetture in solitudine tra terra e cielo. ...Ebbe tra bianchi marmi la spelonca – Per sua dimora: onde guardar le stelle – E il mar non gli era veduta tronca…scrive Dante di quel paesaggio che Michelangelo avrebbe voluto trasformare in statue colossali per essere viste a distanza dai naviganti. Raccontano di topografie, segnate dai romani, dai solchi di lizzature, di parati, di tracciati ferroviari che cercano la inclinazione più giusta per arrivare al mare. Artifici colorati dai frammenti di puri cristalli di quarzo e di calce carbonata, che erano dentro le cime del Monte Sagro. E bianco è il Carrione e i sui torrenti, che corrono al mar Tirreno. Alcune immagini che accompagnano gli scritti sono exempla che testimoniano la bellezza e il senso del marmo, delle pietre scavate, approdate e trasfigurate. Altre immagini sono la testimonianza del lavoro degli studenti della Scuola di Architettura di Firenze. Di una ricerca quasi archeologica dove i segni e le tracce antiche, l’orografia e la topografia, le geometrie dei massi estratti, la pietra e l’acqua sono divenuti i principi compositivi. Principi che, declinati su un particolare brano di territorio, disvelano un mondo di forme che possono diventare uniche. Il luogo è San Martino, tra l’antica città e la prima periferia di Carrara, sospeso tra montagna cielo e mare. La destinazione a laboratori d’arte e piccole case per artisti.

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M.G.E A.C.



LE PIETRE SONO PAROLE Maria Grazia Eccheli

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Adolf Loos, lo scellerato architetto viennese che - già autore, in pieno Jugendstil, dello scandaloso “Ornamento e delitto”: “in realtà un elogio, più che una condanna, della decorazione… quel grido di dolore per ciò che è andato perduto e non è più lecito ri-fare“ – diceva Aldo Rossi – presenta, al concorso della nuova sede de “The Chicago Tribune” (1922), il progetto di una spropositata colonna dorica: perché, scrive Loos, “ho scelto il modello della colonna. Il motivo della colonna isolata e imponente ha radici nella tradizione: la colonna di Traiano è servita da modello alla colonna di Napoleone a Place Vendôme”. Una colonna abitata, costruita in granito nero polito così che ”…le lisce e levigate superfici del cubo [di basamento] e le scanalature della colonna sconvolgeranno lo spettatore. Sarà una sorpresa, una grossa sensazione per il tempo moderno pur così indifferente”: una immagine che nessuno avrebbe potuto dimenticare. Loos - coerentemente con l’idea/norma che i suoi edifici “avrebbero potuto essere costruiti dagli “antichi romani”- usava (soprattutto per i suoi splendidi ed irripetibili progetti di abitazione) marmi che concorressero certo ad impreziosire, ma al contempo a sottolineare, con assenze, l’impossibilità stessa dell’ornamento. Così il verde cipollino, incastonato sulla facciata dell’edificio sulla Michaelerplatz, innanzi alla Hofburg viennese, è in realtà un frammento di mondo classico le cui colonne monolitiche s’innalzano…a reggere il niente, al pari di quelle delle terme romane che tanto scandalizzavano Viollet-le-Duc. Ancora: il cipollino di Syon, dentro il bianco cubo di casa Müller a Praga, forma nervose venature verticali che s’arrestano laddove gli antichi avrebbero incastonato una



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cornice, a reggere un architrave in intonaco bianco. Sempre il marmo è in Loos un ornamento naturale che risolve costruttivamente… problemi innanzitutto morali. A New York il Seagram (1955) di Mies van der Rohe è uno scheletro che - racchiuso da telai in bronzo e da pareti di vetro color ambra - si erge su un enorme podio in travertino che allontana il grattacielo dalla 52nd Street (il famoso “passo indietro” che ha reinventato il rapporto morfologico tra grattacieli e città). Il piano terra è una continuazione della piazza che, superando il recinto di vetro, viene abitata da enormi volumi, parallelepipedi rivestiti di travertino: le forme che con un gioco di riflessi, nel sovrapporre l’esterno all’interno, viene ripetendo all’infinito… (è in marmo di Carrara la fontana/vasca del Ristorante Four Seasons, posta al centro diviene l’elemento che distribuisce i tavoli). Sempre il genio di less is more usa i marmi in funzione tematica e costruttiva e con interpretazioni sempre nuove e sorprendenti: pietre scure che, sprofondando nell’acqua, ne ampliano la capacità riflettente, così che le statue che vi sorgono ad ideali abitanti della casa si raddoppiano, assieme ai muri, assieme agli esili pilastri, assieme al corso dei cieli.…; pareti di marmo che, a prima vista quali mere “distribuzioni” di spazi, si rivelano quali canali obbligati verso vedute di paesaggi selezionati e, in quanto tali, facenti parte della forma ideale della casa; basamenti che, staccandosi dal terreno con intenti meramente costruttivi, trasformano immediatamente l’edificio in tempio... E’ da riconoscere che gli universali principi di Leon Battista Alberti circa la bellezza quale rapporto armonioso tra le parti e il tutto - “la bellezza di un edificio risulta principalmente da tre fattori: il numero, la forma, i rapporti tra le diversi parti…poiché è la mancanza di armonia distrugge l’unità e la bellezza” - sono declinati da Mies nella realtà del moderno e sono assunti quale ragion d’essere della particolare verità delle sue costruzioni (risuonando in essa, in modo segreto ma esatto, il concetto agostiniano “della bellezza della verità”: principio di un nuovo vocabolario per l’architettura del proprio tempo. Proporzioni, essenziali e perfette misure - di vetri, di cruciformi pilastri in


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ferro finalmente atti a esaudire la richiesta “tattile e/o visiva” di un perfetto equilibrio riposante in se stesso - , concorrono a costruire silenziosi spazi atti a raccogliere e a custodire le vibratili variazioni del disegno dei marmi, i colori della natura e lo svolgersi delle stagioni…: ”la parete vuota” – così era chiamata da Wassily Kandinsky - “bidimensionale, perfetta, piana e ben proporzionata, ma silenziosa, sublime e autosufficiente” s’è inverata nella scoperta della parete quale elemento architettonico da parte di Mies …Mies ha creato le condizioni per coinvolgere scultura e pittura dopo la lontana narratività del medioevo in terra germanica. Mies inventa astratti recinti imploranti, a proprio compimento, l’ultimo sigillo proprio dell’opera d’arte: sia essa la crudele implorazione della picassiana “Guernica”; sia la muta necessità di preziose lastre di marmo: forse onice d’oro fulvo e bianco che, quali pareti isolate, si stagliano su paesaggi infiniti… Se Mies è soggiogato dalla perfezione degli ordini Greci, tale da non ammettere alcuna propria sopravvivenza (e nemmeno un proprio passato: chi è mai disposto ad immaginarsi i marmi del Partenone colorati come gli archeologi giurano fossero?); Loos, invece, dopo aver esaltato il pragmatismo tutto romano (che, nel suo caratteristico non curarsi degli “ordini” ma unicamente dei fini, sembra porre le premesse della costruzione della città “moderna”: la città europea in cui ancora viviamo e di cui siamo testimoni), contrappone - con un’antifrasi così propria del personaggio - alla magnificenza civile dell’architettura romana… l’architettura greca. Perché mai? La villa di Tivoli è il sogno di un raffinato imperatore che s’inventa, forse per la prima volta nella storia, una archeologia più sentimentale che scientifica. Un montaggio di figure, di architetture, di pietre e di idee in cui ancora permane il sentore dei luoghi, del mito e della poesia. Le pietre narrano del Pecile di Atene, del Canopo del delta del Nilo, della Vallate di Tempe in Tessaglia, di Teatri Marittimi e sale dei filosofi, di Ninfei e di Piazze d’Oro…. La struggente bellezza di tutto ciò che Adriano ha visto e amato è testimoniato dalla sua città/palazzo, costruita sulla terrazza ai piedi dei monti Tiburtini, ricchi di cave di travertino, di pozzolana e di tufo. E di acque.



Le adrianee e splendide forme del passato, ricordano - forse soltanto evocativamente - gli elementi di una Roma definita per i secoli a venire: pieni e vuoti di masse murarie, sezioni di volte di thermarum, che di-svelano la sapiente costruzione, quali rovine stagliate da ombre esagerate. Immense texture di mattoni sembrano ancora in attesa di quei leggendari marmi - provenienti da Luni, dal mondo Egeo o dall’Egitto (come i monoliti alti 40 piedi per il pronao del Pantheon) -. Colonne e capitelli che partivano già sbozzati dalle botteghe delle cave, per essere poi completati a piè d’opera, in teatri, nei templi, nelle terme….Chissà quale narrazione racchiudono ancora gli informi capitelli appena sbozzati che giacciono nel giardino del Museo del Marmo a Carrara: chissà quali porti avrebbero dovuto raggiungere, chissà a quale architettura erano stati destinati…. Roma è ancora oggi come un cantiere in attesa: immense strutture in mattoni che esibiscono il loro elevatissimo grado di compimento – ripetutamente raccontate nei taccuini dei letterati e dei pittori del Grand Tour (dal Winckelmann a Goethe), ridisegnati da Palladio e, buon ultimo, da Louis Khan – rappresentano il non finito di una romanità paradossalmente ancora incompleta (è questo il segreto di tanti innumerevoli rilievi?): relitti di architetture divenute “cave” o “pietre di spoglio” per nuove architetture… Il papa Urbano VIII Barberini ordinerà di smantellare il tetto del pronao del Pantheon, meravigliosamente coperto di bronzo. Il prezioso materiale fuso con oro e argento concorrerà alla costruzione delle colonne del Baldacchino di San Pietro.

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SCRITTURE ATTUALI DI ANTICHE VERITA’ Le terme di Vals di Peter Zumthor (1990_1996 ) parlano di possibili mondi dentro la roccia – quasi una trasposizione di quel Monte Analogo che René Daumal considerava una specie di regno franco dell’analogia? Di che mai infatti son fatte le montagne, se non di Acquerosse che improvvisamente vengono alla luce? Se non di acque che appunto ricordano la loro pietra madre, ancorché trasformata nel caso in listelli, a fungere da cassero “a perdere” per il cemento (pur esso roccia polverizzata)? L’idea del



progetto parrebbe appunto la restituzione del segreto scorrere delle acque a misurare l’atemporale fissità con cui l’acqua narra di sconosciuti e improbabili passaggi a delineare la complessa verità geologica delle montagne. In fondo è il segreto stupore di ogni sorgente che ha nel mondo antico prove commoventi. “Si trattava di lavorare - scrive Zumthor - con la natura mitica di un mondo in pietra dentro la montagna, con l’oscurità e la luce, con il riflesso della luce sull’acqua e nell’aria satura di vapori, con i differenti suoni che l’acqua produce in ambienti di pietra, con le pietre calde e la pelle nuda, con il rituale del bagno… sensazioni universali e la loro origine arcaica…” Dentro la nuova geometria delle caverne, si consuma il rito antico. Un nero corridoio trova la luce nelle stanze di pietra inondate d’acqua. Una sola immensa pietra, emerge dalla montagna ad accogliere sorgenti, restituendole al segreto del paesaggio di appartenenza. Dell’operazione di spolio, i vocabolari italiani omettono ormai, se non il nome, il significato: quasi che troppo violente ne siano state le (storiche) motivazioni e che appellarsi alla violenza della storia e – perché no? - della natura, sia ormai cosa inutile. Tuttavia, l’operazione pare concessa forse alla sola architettura, a cui – per una antifrastica sorta di pietas – veniva concesso, anticamente, di trasmigrare proprie colonne e decorazioni (di antichi teatri, verbi gratia) verso nuovi lidi: nuove chiese, nuovi palazzi … (lasciando del tutto imprecisato il senso simbolico dell’operazione).

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E’ appunto la definizione simbolica di tale operazione che sembra essere indagata e perpetuata da Francesco Venezia nel suo museo di Gibellina (1981_1987): quanto resta di una facciata di Palazzo di Lorenzo (blocchi di pietra, elementi di piedritti e di architravi, composti di forme elementari); ruderi trasportati, numerati, dalla città dell’apocalisse e incastonati in un nuovo muro di pietra arenaria di un lungo e stretto cortile, le cui dimensioni sono, forse, dettate dall’essere virtuale tomba di antichi Telamoni: tutti appartenenti da sempre e ormai solo al cielo di Sicilia. Un mondo di pietre si è arenato in quel cortile: pietre di recupero provenienti dalla campagna, lastroni di arenaria dalle cave di Caltanissetta; in nera



pietra lavica la rampa che entra e esce in un susseguirsi di atmosfere segnate dall’ora e dalle stagioni. La lunga galleria di ombre, gli stretti passaggi dentro muri aperti al cielo inventano meridiane di pietra…un fascio di luce si staglia sulla panca in travertino siciliano. Nella bellezza delle pietre trasmigrate per costruire la nuova architettura che vuole appartenere alla terra, nel palazzo che non si può più abitare, si invera il tragico passato.

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Alta sul fiume, la Cattedrale, con la rituale giacitura est-ovest, amplia nello spazio l’ideale geometria della croce incardinata nella rocciosa cupola, a racchiudere – con i severi muri avari di aperture – il segreto di un chiostro e di una piazza mistilinea ad accogliere il principio e la fine delle spire circolari in cui s’avvolge l’antica città di Zamora. Laconici muri, con rare aperture, dilatano il messaggio della cattedrale nel corpo stesso dell’edificato, a vitalizzare la dimostrazione del teorema declinato da Alberto Campo Baeza nel suo progetto (2007_2012) per il Consiglio di Castiglia e Leòn. Ad un ciclopico muro, della stessa pietra con cui è costruita la cattedrale, è affidato il compito di concludere sulla piazza la spirale morfologica di Zamora e, al contempo, a creare lo spazio interno atto ad accogliere e a custodire l’apparizione dell’inaspettato, che strategiche aperture collegano a inaspettate visuali sulla storia. E’ un muro che, accettando i tratti irregolari impostigli dalla città antica, ed obbedendo alla sintassi urbana (nessuna strada viene negata) crea le condizioni del nuovo edificio in vetro che, custodito all’interno, esorcizza l’obbligo dell’identità con i caratteri del luogo. Gli essenziali pilastri e i nudi solai della sede della regione, sono resi visibili da strategiche aperture nell’opacità del perimetro in pietra, così che il triedro in vetro, quasi fatto di aria, vive della dialettica con la possente forza della pietra. Le antiche tecniche della costruzione in pietra e le nuove del vetro (la doppia parete di chiusura) si confrontano all’interno delle stanze a cielo aperto create dallo scontro tra l’organicità del muro in pietra con la “razionalità” della costruzione interna. E’ così che nascono giardini segreti illuminati dall’aria araba di un borgesiano Averroé alla ricerca dei segreti costruttivi della



commedia aristotelica… L’attico dell’edificio interno, arretrando dalle rigorose misure dell’etereo “muro” di facciata, crea una terrazza su cui s’affolla, in imprevedibili specchiature, il nucleo monumentale della città. All’esterno del muro, sulla piazza della cattedrale, il tema della memoria viene materializzato da Baeza in una petra angularis con l’iscrizione “HIC LAPIS ANGULARIS MAIO MMXII POSITO” a ripetere, oltre che antiche storie, anche antiche misure: 2.50 x 1.50 x 0.50 mt. Forse un segreto ulteriore?

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La porta del bosco di San Zeno di Montagna, che ho progettato insieme a Riccardo Campagnola (1994_2001), è una strada/corte che – quasi ideale trasposizione della risentita chiusura verso l’esterno propria di tutte le “contrade” rurali tipiche del luogo – accoglie al proprio interno muri e stanze a cielo aperto. La strada-porta s’inoltra nell’altimetria di un paesaggio montano arroccato sulle pendici del Monte Baldo laddove, in basso, il paesaggio meridionale del lago di Garda diviene scena fissa con la villa Catulliana. I muri in sasso (messi in opera nella casualità della loro estrazione) geometrizzando dislivelli, livellando asperità, impiegano l’arte secolare volta a sostruire la terra, quasi a continuazione dello svolgersi della vita quotidiana in case di regale povertà. L’idea rincorreva la sapienza e la memoria di preziosi saperi e di tecniche antiche che, loosaniamente, confidava solamente in “materiali” scavati sul posto… Nel nostro lavoro, la parete in sasso (interamente affidata all’ancestrale sapienza di muratori) è usata come cassero di contenimento del calcestruzzo (quasi indispensabile per le severe norme antisimiche): tuttavia un lungo segno/architrave in cemento (che, dopo tanti anni, si è metamorfosato nel colore della pietra) percorre l’intera lunghezza dei muri in sasso, ad esibire la norma del costruire in territori tellurici. In realtà, tutto l’edificio costituisce l’ingresso ad un parco pubblico: vera e propria “porta del bosco”, consiste in un quadriportico aperto verso la strada d’ingresso ma anche fondale e méta di tutti i percorsi del bosco. Una stanza che ha come cielo le fronde del bosco e come arredo una piccola fontana al suo centro, una colonnina in pietra: un rustico ninfeo che luogo ed ombre silvestri caricano di una ambiziosa evocazione....



SULLE BIANCHE CAVE DI MARMO BRILLA UNA LUNA ROCK Francesca Alix Nicoli

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Dalla vetta del monte Sagro arrivano bagliori di un’intensità inaudita. Sprofonda nel nero della notte la valle tutto attorno a Carrara, e pulsano le stelle di una notte infuocata da una luna gigante, luna di ferragosto. Il biancore del marmo si moltiplica al chiarore della luna, ed è luce riflessa quella che corre sul Mediterraneo come una brezza. Dal passo dell’Uccelliera qualcuno pregusta il nuovo giorno e s’avvia a Campocecina: paesaggi apuani, stati d’animo sublimi. Una strana nostalgia wagneriana tinge la volta celeste di colori iridescenti: è l’ora. Ora s’accende sulle bianche cave di marmo e brilla per ogni dove una luna rock. La luna echeggia in questa terra e si perde in lontananza come una lama d’acciaio, a tratti increspata sulla superficie del mare. Qui si assiste ad una miscela unica di natura e cultura ed anche i paesaggi sono in gran parte scolpiti dall’uomo. Nelle alture più scoscese la vena di bianco s’estingue e ci si addentra nel grembo verde delle Alpi Apuane: boschi di castagni e profumi d’autunno a Noceto, Castelpoggio, Pulica, Fosdinovo, che guardano alla Lunigiana e si snodano fino a Parma. Volgendosi ad oriente i profili montani si fanno più aspri, mascolini, rocciosi, e non sono intaccati dall’uomo. Raggiungendo sopra Massa il paese di Forno il verde è ormai abbagliante, da oltre gli alberi di ciliegio di Colonnata che conducono al Vergheto attraverso i sentieri delle capre. Un affluente del Frigido si scava nella roccia un letto d’acqua viva, traboccante, precipitosa e forte, ed è una fonte freschissima da bere. Lo scrosciare senza posa di questa fonte placa le tensioni, i pensieri se ne vanno. Nelle giornate più calde di agosto i pomeriggi sembrano non finire mai, ma il sole va via in fretta nelle gole di



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montagna. Sui silenzi domina profonda la voce viva del ruscello, che non ha bisogno di parole umane; il corpo è svuotato, limato, attraversato, percorso dalle acque gelide e felice, e pensare a quanta fatica e polvere più a valle, nelle spiagge fra Bocca di Magra e la Versilia, fino al glamour e al jet-set di Forte dei Marmi. Inerpicandosi più in alto di Antona e di Altagnana, il passo del Vestito raccoglie in un’unica panoramica questa regione incantata che si estende dalla Palmaria fin quasi a Livorno, e sulla linea dell’orizzonte si distinguono l’Elba, la Gorgona e le altre isole dell’arcipelago toscano, forse anche la Corsica, solo visibile nei giorni più tersi d’inverno. Scollinando in Garfagnana i dolci paesaggi collinari conducono all’aristocratica Lucca, città fitta di bastioni. All’alba i crinali dei monti tracciano traiettorie misteriose e piene d’incognite. Più da vicino sulle Apuane parte il lavoro, si comincia la giornata, e si nota quanto massicciamente siano trasformati dall’azione dell’uomo i rilievi carraresi: sulle alture un tempo verdeggianti si squartano le Apuane, pronte a porgere al sole il loro immacolato e durissimo sostrato. Sotto un manto superficiale di castagni, prati e boschi, si cela un cuore di marmo. L’oro bianco si libra nell’aria dalle viscere della terra con fatica e con sudore, ma occorrono anche pale o ruspe, macchinari per sforzi colossali. Come vaste cattedrali a cielo aperto, le immense pareti bianche si stagliano contro il cielo porgendo all’azzurro gradoni o massicci denti di bianco, che sfilano a perdita d’occhio rincorrendosi fino alla roccia naturale, bagnata di terriccio. Le Alpi Apuane si aprono a ventaglio sulla vallata fino al mare e sono ricche di agri marmiferi. Ancora a fine Settecento la duchessa di Modena e Parma Maria Beatrice d’Este disegnò una costituzione complessa ed articolata alle cave mossa dall’idea che quelli marmiferi fossero agri e che andassero coltivati come si coltivano i terreni agricoli. Questo pensiero non era che un corollario della fede, incrollabile e così caratteristica per l’epoca, nell’operosità dell’uomo, la cui tenacia costruisce macchine e condotti, può irrigare i campi, raccogliere frutti dalla terra dissodata dagli aratri, sottraendola a un destino di aridità e in alcuni casi al deserto o al mare, come avviene sulle coste olandesi del mare del Nord.



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Alla luce dell’ottimismo che caratterizza il periodo dei Lumi si configura un’intera civiltà del marmo. Anche i blocchi sarebbero altrettanti frutti della terra che viene fatta oggetto di una cura strutturata in millenni di mestiere. Ma conoscenza e amore del suolo sono all’opera sin dalla manutenzione dei ravaneti: lingue bianche visibili fino al mare, inconfondibili rispetto alla neve e fonte di stupore per lo straniero che si avvicini a Carrara dal litorale, i ravaneti tengono legati insieme enormi quantitativi di scaglie di risulta dell’escavazione con effetto di consolidare la montagna rispetto ad eventuali frane o smottamenti. In generale l’idea di coltivazione non coincide con il puro e semplice depauperamento di risorse non rigenerabili, sottrazione di materia prima avviata ai lidi più lontani e disparati che lascia dietro vuoti incolmabili, quelle cave appunto, che sono anche e prima di tutto delle gigantesche buche nella terra. Nel bilancio dei pro e dei contro va messo in conto che se il materiale estratto non potrà essere rinnovato nel luogo da cui proviene, da un’altra parte del globo, ovunque si trovi, lo stesso materiale darà sfoggio dell’intelligenza creativa che l’ha tratto da lì e trasformato. Veri e propri pezzi d’Italia si staccano dal monte e se ne vanno, ma solo per imprimere forte l’impronta del made in Italy in un altro luogo, segnalandovi una svolta in senso lato e simbolico, come le pietre miliari. Il lavoro organizzato genera il bello: sono intelligenze teoriche, pratiche e creative che si spendono nel conoscere e coltivare la terra a partire dalla scienza e poi con l’applicazione strumentale di quest’ultima, la tecnica; i poteri dell’uomo si esprimono operando sulla materia inerte, trasfigurandola. Questo ideale costruttivo della convergenza dei talenti e dei risultati dei singoli fu il perno su cui i pensatori illuministi e non solo quelli impegnati nella stesura dell’Encyclopedie, edificarono interi sistemi del mondo, e misero a punto il palazzo del sapere, attribuendo ad ogni disciplina contenuti e metodologie di ricerca specifici. Ma quali difficoltà, quali enormi responsabilità si assumono oggi, dopo oltre due secoli, esperti geologi e cavatori per attivare piani di coltivazione con cui si disegna il fronte di cava per poi effettuarne lo sfruttamento. E se una massa di terra e detriti viene adagiata ai piedi di un’immensa parete bianca, si predispone un atterraggio morbido con cui attutire il colpo ed ammortizzare la caduta. Ora è possibile



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procedere all’abbattimento di enormi bancate da centinaia di tonnellate: lo squarcio è come un grido sordo al monte. In un lampo il fronte inclinato si spezza e precipita a terra, il tonfo è assordante. Un nuvolone di polvere e scaglie offusca la bancata ormai divelta, capo-cava, gruisti, tecchiaioli e filisti stanno tutti al riparo. Più parti sono nate dallo schianto come enormi balene bianche, gli informi, che qualcuno presto suddivide in blocchi riquadrati. Qualche giorno nel piazzale di cava e poi via, si caricano su camion e vengono avviati alle segherie, ai laboratori, al porto. Per la caccia al filone d’oro servono anche doti più primitive rispetto alla conoscenza e all’organizzazione del lavoro: l’istinto, la capacità intuitiva, ovvero un rarissimo fiuto per cui si sa esattamente dove si deve scavare, scovando il meglio nei suoi più recessi anfratti: lo chiamano “orecchio”. Chissà dove si va a nascondere, dove si infila il marmo più bello, dietro quale parete? Ed è bianco tutto attorno in questa gigantesca apertura nel cuore del monte, è per terra, sulle pareti, dappertutto, è bianco, un bianco che acceca, che toglie il fiato, ed è così abbagliante che a mezzogiorno d’estate il riverbero del bianco si fa quasi insopportabile, non ci si vede più. E invece serve concentrazione e rapidità per inseguire e stanare fin nelle viscere della montagna lo statuario, il calacatta, il cipollino. Oggi quell’ideale nato da una borghesia industriosa e illuminata, che fu fiduciosamente tesa a costruire il progresso, sembra lontanissimo: non v’è alcun senso di onnipotenza, si badi, essendo diffusa forse nel XXI secolo più che mai una consapevolezza dell’umana fragilità. La fierezza di un tempo resta, ma la lotta con la montagna si tinge di fatalità, è dura, irta di pericoli, può essere mortale. Si pensi a quali caratteri sviluppano il minatore nell’oscurità, che vive atterrito, imbestialito dal buio come nelle zolfare di Pirandello, e viceversa il cavatore, che è immerso nella paesaggistica, e si trova a lavorare in una dimensione quasi lirica. Ed allarma la rapidità raggiunta nel taglio dai fili diamantati, o la potenza dei giganteschi bulldozer, o l’esser capaci di atterrare in un letto di detriti un gradone da otto, dieci, dodici metri d’altezza di purissimo marmo bianco in solo tre giornate di lavoro in cava, e non bastavano due intere settimane solo qualche anno fa. Se il filone non basta più e si asportano ed immettono sul mercato anche le terre e persino



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il tout venant, ecco che l’antica coltivazione, sana ed aurea idea di matrice illuministica, cede il passo alla spoliazione, al saccheggio bramoso che non paventa l’esaurimento di risorse. In questo rapporto attivo e dinamico di trasformazione della natura e del paesaggio l’uomo ha di fronte un oggetto in evoluzione, ormai parte della storia. Queste sono montagne trasformate, letteralmente trasfigurate dall’azione dell’uomo, opera dello spirito, così diverse rispetto alla natura vergine e incontaminata che non può entrare in rapporto dialettico con l’uomo e pertanto rimane sostanzialmente estranea, talvolta ostile, terribile. La smisurata vastità e potenza della natura, per l’uomo inafferrabile, lo umilia. Egli avverte con dolore la miseria delle sue capacità, la propria schiacciante insignificanza. Di fronte a spettacoli naturalistici ove si scatenano forze primigenie dalle radici oscure ed indomabili, come il mare in burrasca, come i terremoti, il dolore soverchiante del limite ontologico e creaturale, per l’uomo il senso della propria finitezza, determina sentimenti opposti e contrari: il sentimento di umiliazione si alimenta e cresce insieme alla volontà di superarsi, sempre di nuovo ingaggiando una sfida ai limiti strutturali e costitutivi del proprio essere. Ma quali sentimenti più nobili e ben più umani si sprigionano se la natura è in evoluzione, se l’uomo può fare di lei un proprio alterego. Su queste cime s’imprime il lavoro dell’uomo: qui egli riconosce la propria immagine esaltata, il proprio riflesso, qui si colgono i frutti degli agri marmiferi. Così l’uomo fa esperienza di sé come spirito e diviene consapevole del suo essere. Anche la natura è da lui plasmata. Ma non metterà in campo l’ennesima autoesaltazione in un moto d’orgoglio, in un delirio di potere che appare ormai scontato, del tutto superato. Egli ora sa che potrebbe non farcela, gioca una partita investendo il suo essere. Come la montagna improvvisamente dà, così altrettanto improvvisamente toglie. La natura eccede comunque, e proprio quando egli crede d’averla domata, si aprono inquietanti prospettive sul domani, visioni catastrofiche sull’eco-sostenibilità. Talora la montagna si concede e si fa docile allo scalpello. Basta non prenderla al contro. Allora si possono scolpire le montagne come si scolpiscono i colossi di marmo: ecco il segreto.



LUNGO I SOLCHI DELL’ARTIFICIO Eleonora Cecconi

“Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga, che ne’ monti di Luni, dove ronca lo Carrarese che di sotto alberga, ebbe tra ’ bianchi marmi la spelonca per sua dimora; onde a guardar le stelle e ’l mar non li era la veduta tronca”. (Dante Alighieri, Inferno,Canto XX, versi 46-51)

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A Carrara il dantesco Aronte per riuscire a vedere il mare salì sino alle cave e vi prese dimora, solo da lì riuscì a estendere il proprio sguardo verso l’orizzonte, sopra i limiti di pietra del solido tamburo dei monti Apuani che come soglie cingono la città, prime mura ben impiantate nel terreno, che fanno del cielo una mutevole volta. Il rapporto tra natura e architettura, tra misura naturale e misura umana qui si risolve a favore della prima. Confini che lo sguardo dell’uomo non riesce a fendere. Nascosta trincea nella pietra, parallela alle acque del fiume, il Carrione, che dalle cave porta la pietra, una sola strada, la via Carriona, tortuosa come lo è il fiume al quale si accosta, da Nord-Est, attraverso una stretta insenatura, scende verso il mare; un mare nascosto alla vista dalla piatta orografia del terreno. Seguendo il profilo dell’acrocoro dove Carrara è stata fondata ne ri-disegna l’orografia, altrimenti celata sotto le invadenti costruzioni dell’ultimo secolo, prima di imboccare quello stretto corridoio scavato dall’acqua nel calcare



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delle Apuane, sino ad Avenza ovvero dove “iuxta aquam Aventie et iuxta litus maris“. La strada, legandosi con l’orografia del terreno, ne diviene ordine e origine, capace di portare con sé una serie di elementi di riferimento che fanno capo a un punto di partenza, elementi che permettono all’uomo di muoversi da un luogo all’altro. La Carriona trova la sua misura nelle abitazioni che, prive di qualsiasi filtro, vi si attestano, cellule di un denso mare di case, che progressivamente si sono sostituite alle caduche costruzioni militari di valle. Corpi di fabbrica allungati e compressi l’uno su l’altro che si aprono sul fondo ora su piccoli e isolati cortili ai quali la città è estranea, ora su giardini, primi accenni delle pendici che di li a poco diventeranno retti costoloni di pietra, ora sul mormorio dell’acqua, emuli delle tante segherie aggrappate alle sponde del Carrione. Dalle cave sino nel denso tessuto urbano, le abitazioni affacciate sulla strada, parte elementare della città, disegnano alti e incostanti fronti apparentemente incoerenti a una qualsiasi regola compositiva, e scandiscono la misura che la strada porta con sé, nel suo avanzare, distanze definite e ritmiche che disegnano il territorio in un reticolo di linee prestabilite e tenaci, a volte contrapposte e difficili da interpretare se ci limitiamo a considerarle come un inventario di forme osservabili, segni imperituri descritti da Aldo Rossi come un’eredità dei nostri avi “mort saitsit le viv” spesso molto più antiche delle pietre più venerabili delle nostre città. Da Vezzala, il più antico insediamento della città nel punto di incontro tra le strade che discendono dalle cave ad Avenza, da una Francigena all’altra. La Francigena, l’altra strada. Questa profondamente diversa dalla prima, retta per quanto le permettano i valichi e con una direzione ben più vasta, da Canterbury a Roma, con due percorsi taglia perpendicolarmente la città da Nord-Est a Sud-Ovest per due volte, la prima lambisce a Nord l’accampamento romano che, a guardia delle cave, fu il primo nucleo della città di pietra, la seconda a Sud oltrepassato il valico che fa da porta alla città, ricalca il tracciato dell’ancora più antica via Æmilia Scauri che da Pisa, dove la via Aurelia terminava, andava verso le Gallie attraverso la Liguria.



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Due strade parte di una stessa Via che si sovrappongono e incrociano segnando quei limiti entro i quali la città è cresciuta, raccolta dalle pendici delle Alpi Apuane, fanno di Carrara un esempio di quel vuoto che Paul Zumthor ne “La misura del mondo”, descrive come “...ciò che c’è tra due punti: un vuoto da riempire. Non esiste che disseminandolo di siti. Il luogo è, invece, carico di un senso positivo, stabile e ricco: discontinuo, costituisce un evento nella sua estensione (...). Le nostre strade dividono quanto uniscono. (...) il cammino è una serie ordinata di luoghi, ma esso stesso è un luogo.” Per due vie la Francigena scende dal Passo della Cisa a delimitare e raccogliere un anfiteatro naturale; una di crinale, l’altra di valle, a conferma della particolare complessità della Via pellegrina che mai si risolve in un unico percorso, piuttosto in un’area strada o territorio strada. Nel luogo dell’incontro tra la Francigena e la via Carriona sono le variazioni a segnare un unicum: l’Ecclesia Sancti Andree de Carraria, oggi Duomo della Città, e il torrione della Fortezza di Avenza. L’Haufendorf e il recinto descritti da Christian Norberg-Schulz, trovano espressione nella regolare successione di strade ancora visibili nel nucleo di Carrara e nei resti delle mura della Fortezza di Avenza, ultimo baluardo della città prima del mare. Il percorso a Nord, solitamente escluso dall’itinerario ufficiale della via Francigena, si forma intorno all’anno Mille; ne è testimonianza lo Spedale di S. Cristoforo, che dal 3 Maggio del 1334 diviene la seconda cappella in Europa a poter concedere indulgenze parziali. Ciò dimostra l’importanza di questo luogo di accoglienza, sorto in quel lembo di terra ancora libero dell’acrocoro ed esterno alle mura più antiche, e del percorso sul quale si affacciava. La presenza di pellegrini e viandanti è certa grazie alle epistole precedenti al XVIII secolo: “duos alios lectulos ad minus parari in alia mansione separata pro mulieribus” Dallo Spedale di S. Cristoforo, attraverso il ponte della Lugnola, la strada scende, attraversando via Gibellina sino alla chiesa di Sant’Andrea, direttamente in fronte a colui che l’avesse percorsa, lo invita a continuare il suo cammino oltre la soglia di marmo, per poi uscire dalla porta laterale senza mai tornare sui propri passi, mai abbandonando la simbolica linea



del cammino verso la redenzione. La variazione è la chiesa che sembra disinteressarsi nel suo allineamento dei preordinati assi stabiliti dalla struttura cardo-decumanica, così fortemente ricercata da Enrico Dolci e riscontrabile nella città antica e nei suoi più importanti edifici, quali la Casa del Pudore e la Casa del Repetti. In questo luogo è svelato il cardine su cui la città e il paesaggio ruotano, il punto in cui è noto il confine tra la costruzione dell’uomo e la natura. Un confine segnato da una strada capace di trasportare all’interno della forma urbis la geografia dei territori che lo circondano. Una piazza sghemba, dove la chiesa scambia la prospettiva del fronte principale con quella del fronte laterale, priva della simmetria intesa alla maniera dei maestri gotici, ovvero quella identicità tra due parti divise da un asse, eppure rispondente alla simmetria intesa alla maniera di Vitruvio quale appropriata disposizione delle singole parti in uno schema generale: “Itera symmetria est ex ipsius operis membris conveniens consensus ex pàrtibusque separatis ad universae figurae speciem ratae partis responsus”. Nell’elevato acrocoro di Carrara la piazza del domo è una acropoli fatta di elementi diversi: la chiesa, la canonica, il campanile. I palazzi vi si dispongono in un falso ordine che si disvela solo nel confronto con lo scomparso foro, identificato ad oggi con Piazza Erbe. Piazza Alberica, voluta da Alberico I Cybo Malaspina, altresì si attesta nel luogo dell’antico foro Boario, che ancora oggi risponde alle caratteristiche della piazza del mercato descritte da Camillo Sitte: un tempio privo di copertura, hýpaithros, dove le funzioni delimitano uno spazio “a cielo scoperto” cinto dai palazzi dell’antica borghesia Carrarese. “La città nella storia è il perenne esperimento per dar forma alla contraddizione, al conflitto”, scrive Massimo Cacciari ne “Nomadi in prigione”. (La città infinita). Un conflitto risolto in un disegno che racconta l’uomo e il territorio, e racconta di contraddizioni senza le quali difficilmente vedremmo quelle regole costruttive che hanno disegnato la città. 41



“UNA BUONA DOMANDA VALE PIU’ DELLA MIGLIORE DELLE RISPOSTE”. Alessandro Cossu

“La città viene qui intesa come una architettura. Parlando di architettura non intendo riferirmi solo all’immagine visibile della città e all’insieme delle sue architetture; ma piuttosto all’architettura come costruzione. Mi riferisco alla costruzione della città nel tempo”. “Col tempo la città cresce su se stessa; essa acquista coscienza e memoria di se stessa. Nella sua costruzione permangono i motivi originari ma, nel contempo, la città precisa e modifica i motivi del proprio sviluppo. Si può subito dichiarare che nella natura dei fatti urbani vi è qualcosa che li rende molto simili, e non solo metaforicamente, all’opera d’arte; essi sono una costruzione nella materia, nonostante la materia, di qualcosa di diverso: sono condizionati e condizionanti. Questa artisticità dei fatti urbani è molto legata alla loro qualità, al loro unicum; quindi alla loro analisi e alla loro definizione. La città come cosa umana per eccellenza”.1

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Con queste parole Aldo Rossi nel suo lungo studio sulla “Struttura dei fatti urbani” descrive la città quale “riassunto” storico di metamorfosi nelle quali l’uomo ha imposto al proprio monumento del vivere quotidiano una forte caratterizzazione, identificando quelle peculiarità intrinseche che hanno nel tempo composto i nostri centri abitati. All’origine della teoria del maestro milanese sono posti tutti quei caratteri edilizi capaci di definire “tipi”2 coniugabili solamente nei confronti di un tessuto sociale, e dei quali non se ne pone una critica, ma un’analisi rigorosa delle caratteristiche che la rendono capace di trasformarsi da “manufatto” ad “opera d’arte”3.



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Nella contestualizzazione del procedimento analitico introdotto, non vi può dunque essere una reiterata critica alla definizione spaziale di complessi urbani, che non sempre hanno saputo seguire quegli esempi che la storia ci ha tramandato, ma una profonda analisi capace di riassumerne tali caratteristiche e porle all’attenzione dell’Architettura. La contemporaneità è chiamata dunque ad analizzare quei caratteri di cui dispone, comprenderli e ridefinirli in base alle criticità funzionali e compositive di cui si necessita oggi. Inutile tentare o reiterare continui elementi asseverativi a colpa di un territorio che, ormai lacerato in molte delle sue parti, deve tuttavia trovare necessariamente una giusta collocazione nella storia. Inutile giustapporre alla frenetica speculazione edilizia, che ha interessato grande parte delle nostre periferie, un atteggiamento meramente polemico. La continua ricerca dei caratteri del luogo deve intraprendere un processo di consapevolezza di quei principi dell’architettura in grado di definire lo spazio urbano, utilizzando quei modelli che il tempo ha consolidato, e che la storia ha elevato al termine di archetipo. Si rende dunque necessario leggere quelle tracce, ora esplicite, ora sottese, che identificano un territorio e rappresentano la storia di un luogo, ed ergerle all’onore di regola. A tal proposito nel suo saggio “Continuità dell’esperienza classica”, Antonio Monestiroli raccoglie quelle analisi dell’architettura classica, definita quale unica in grado di dettare regole al comporre e trascriverle. Un’architettura che definisce un sistema di norme in ragione di un’intellegibilità e non deputate alla mera reinterpretazione. “Il sistema di norme razionali su cui si basa l’apparato teorico della classicità riguarda i tre grandi capitoli dell’architettura: il rapporto architettura-città e la questione della tipologia edilizia, la questione della costruzione, le regole del linguaggio. Possiamo dire che la teoria dell’architettura classica concerne i passaggi dalla città al tipo, dal tipo alla costruzione, dalla costruzione alla forma. È il rapporto con la storia il riferimento alla grande strada maestra dell’esperienza classica che consente a Loos, Le Corbusier, Mies van der Rohe il dominio della fantasia.



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Ripercorrendo tale esperienza questi nostri maestri hanno compreso che l’obiettivo è sempre quello dell’intellegibilità delle forme, un obiettivo antico, che li conduce a riflettere sui tre momenti fondamentali della costruzione del progetto propri di tutta l’esperienza classica”4. In questo contesto si inserisce quell’insieme di norme sottese alla città, che nei secoli le stratificazioni edilizie hanno saputo scrivere, identificando attraverso l’utilizzo dei principi insiti nei termini di forma, misura e materia, i caratteri edificatori di un luogo. Nell’analisi della città, Carrara si presenta dunque con una struttura all’interno della quale sono incise a calce e pietra tracce di uno sviluppo urbano fortemente legato e alla morfologia del territorio con il quale si è trovata a misurarsi, e con quei principi funzionali che lo sfruttamento dei bacini marmiferi ha da sempre posto. Ne risulta una stratificazione edilizia che trova nella misura della “strada” il proprio principio insediativo, figlio di quella concezione medioevale a cui deve i propri natali. Questa conformazione, palesata lungo i solchi della via Carriona e lungo le tracce che la via Francigena ha lasciato di sé, ha avuto solo puntualmente riscontri nelle edificazioni successive, che non sempre sono state in grado di rileggere quelle necessità, che il trasporto della pietra a mare ha posto. Ne è stata certamente rilettura utile allo sviluppo urbano quella tracciata dal nuovo viale voluto dalla modernità e dettato dall’età della macchina, nuovo principio insediativo su cui fondare la recente espansione urbana, e che risulta declinazione, con forme e misure differenti, del medesimo tema insediativo insito nella genesi della città di Carrara. Nuovi interventi su tale territorio possono trovare coerenza edilizia solamente nel tentativo di ordinare quel caos apparente che le espansioni novecentesche hanno prodotto. L’analisi ci porta a definire metodi di intervento legati al tema della via e della sua prefigurazione prospettica del costruire, come nel mirabile esempio della Pieve di S. Andrea, o alla rielaborazione di quel solchi sopiti sotto le stratificazioni rinascimentali, che hanno declinato sul territorio quei principi ippodamei, cardine del costruire alla maniera classica. Seppur di controversa definizione, la centuriazione romana dell’accampamento daziario a controllo del futuro mitrato Carrariae5, palesa



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la sua presenza in quelle tracce che il nucleo più antico della città ancor oggi porta con sé. Una misura fortemente legata certo al tracciato ippodameo lunense, declinazione dei più palesati tracciati fiorentini, ma che sviluppa ancora una volta la propria capacità di rilettura morfologia di un paesaggio. Se questo postulato viene colto quale possibile principio compositivo, si possono assumere due misure della medesima città che coesistono e si fronteggiano a definire spazi urbani dal forte carattere evocativo. Il primo dettato dal tema della strada, ci racconta una scansione dello spazio che deve la propria misura ad un principio puntuale di costruzione, quello della cellula, e in cui il rapporto volumetrico tra pieni e vuoti è deputato alla definizione stessa del termine di “strada” quale vuoto tra elementi edificati. Il secondo, legato alla concezione romana di centuriazione, ci racconta di una città percettivamente misurabile, composta dall’iterazione quasi ossessiva di pieni e vuoti a scandire misura e profondità prospettica di un luogo, strettamente connessa al principio insediativo della domus, elevata a modulo e misura urbis. Queste regole possono oggi rileggere le parole del maestro americano Louis Isodor Kahn, che, riassumendo un principio fondativo del Movimento Moderno, di Albertiana memoria, identifica nell’uso stereotomico della forma elementi d’ordine del costruire la città, in grado di misurare i luoghi dell’abitare. “Nell’architettura moderna il quadrato, per Kahn come per Le Corbusier, Mies e Aalto, è la figura che permette di identificare un luogo stabile nello spazio continuo”6. “Uso il quadrato per cominciare i miei progetti perché il quadrato è una “non scelta”, per davvero. Man mano che procedo, cerco le forze che contraddicono il quadrato”7. Nell’uso del rigore geometrico, infatti, Kahn ritrova quel principio d’ordine in grado di definire non soltanto l’organizzazione dell’elemento architettonico rapportabile alla propria gerarchia funzionale, ma anche quel principio d’ordine in grado di delineare un’organizzazione composita dello spazio, derivante dalla sua suddivisione in moduli, elementi in grado di desumere un proporzionamento degli ambienti a misura d’uomo e al contempo in grado di apporvi un principio strutturale.



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“Il modulo non è la ripetizione di un motivo, ma l’espressione di un principio architettonico”8. L’occasione per cogliere questa riflessione si è posta durante lo studio e la definizione spaziale di un’infrastruttura, quale il nuovo porto di Marina di Carrara, che ho avuto modo di affrontare nell’intraprendere quella ricerca che mi ha condotto alla definizione della tesi di laurea. Più che un vero e proprio progetto, uno spunto di riflessione su principi compositivi a scala urbana che siano in grado di declinare queste teorie che il Movimento Moderno ci ha lasciato in eredità. Al disordine che la speculazione edilizia, quasi priva di una qualsivoglia più ampia visione della composizione urbana, dimostrata in quel brano di città che si pone quale limite tra l’Aventia antica e il mare, all’ingresso sud-est della città, si è cercato di riconfigurare un ordine al quale fosse possibile demandare un principio compositivo, che attraverso trasposizioni e astrazioni, definisse alcune funzioni, che più volte sono state discusse e polemizzate in ambito cittadino. In tale esercizio compositivo dunque, all’assenza di una preordinata concezione urbana, in grado di delineare principi di edificazione della città, è stata contrapposta la trasposizione della misura romana del nucleo storico della città, quale elemento generatore della composizione. Quasi a delineare una contemporanea maglia generatrice, il progetto ha deciso di inscrivere nel rigore del quadrato il principio in grado di rileggere misura, forma e materia di questo luogo. Questa prima analisi tuttavia ha trovato forte contaminazione nella riflessione sulla dicotonica concezione che la struttura urbana di Carrara possiede con la sua marina, un rapporto a lungo solamente legato al proprio sfruttamento economico, che alcune banchine adagiate sulle sponde, paiono dare. Nella realtà la storia ci insegna che il legame con il mare per una città deve necessariamente entrare in maniera preponderante all’interno dei caratteri di un luogo per dirsi tale, configurarne la crescita sociale ed economica, e per erigersi a principio generatore. Inimmaginabile Venezia senza la sua conformazione morfologica e l’acqua ad intaccarla; snaturata Livorno senza le sue rocche difensive a custodia del bene più grande in suo possesso: il mare; al limite del superfluo il castello sforzesco di Sirmione senza il proprio



continuo confronto con l’acqua. Tali soluzioni tuttavia devono necessariamente partire dall’analisi morfologica di un tessuto urbano ed espandersi alle forme edificatorie di un agglomerato, che con i propri limiti fisici deve coesistere e cercare di elevarli a peculiarità. A tal proposito il progetto propone di inscrivere l’area all’interno di un recinto, limite intellegibile in grado, come la parola stessa denuncia, di custodire ciò che al suo interno vi è contenuto. Non è qui in discussione la qualità degli elementi custoditi, che, in quanto fatti urbani, necessitano di quel rispetto che la quotidianità è in grado di tributare, quanto piuttosto la capacità della contemporaneità di non reiterare quelle azioni che il passato ha elevato ad errore. Impensabile tuttavia imporre anche qui quei principi che gli anni settanta ci hanno lasciato il compito di giudicare, e che, per quanto figli di una romantica ricerca d’ordine all’interno del tessuto urbano, si sono dimostrati di difficile applicazione. Più appropriato forse intraprendere quel principio compositivo, tanto caro all’Alberti, che trova nel tema del frammento, un modo di restituire ordine ad un contesto. A tal proposito dunque rileggendo ancora una volta la lezione del Moderno, la contestualizzazione del principio d’ordine viene elevata a tipo edilizio e trasformata, attraverso astrazioni e trasposizioni della parte per il tutto, volta ad identificare quegli elementi della geometria che, pur non palesandola, perpetuano la propria presenza. Al frammento viene dunque deputato l’onere di palesare quella misura della città romana, sopita tra le stratificazioni rinascimentali, delineando, all’interno di quel brano di territorio, che per secoli ha visto l’impaludamento quale unica regola generatrice, una matrice di assetto del territorio, così come anche nelle vicine terre dell’antico accampamento Lunensis, hanno saputo generare, non solo la città, ma anche l’espansione agraria del territorio.

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1 Aldo Rossi, L’Architettura della città, Città studi Edizione, Torino, 1995 2 ibidem 3 ibidem 4 Antonio Monestiroli, La metopa e il triglifo, Editori Laterza, Roma-Bari, 2004 5 Emanuele Repetti, Sopra l’Alpe Apuana ed i marmi di Carrara, Arnaldo Forni editore, Sala Bolognese, 1984 6 Christian Devillers, L’Indian Institute of Management ad Ahmedabad 1962-1974 di Louis I. Kahn, in Casabella n.571, 1990 7 ibidem 8 Louis I. Kahn, in Rassegna n.21, 1985



TRA PIETRA E LUCE, L’INFINITO Alberto Pireddu

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La “cattura dell’infinito”, la ricerca di uno spazio come continuità e divenire attraverso il lento deformarsi della pietra, la sua lieve curvatura sotto un “lume” ormai accolto tra gli “importanti elementi dell’architettura”1 – accanto all’ordine, la simmetria, l’euritmia e il decoro – è uno dei temi fondamentali e unificanti dei grandi capolavori del Barocco romano. La luce, per Caravaggio strumento di evocazione di un frammento di storia umana immerso nella fisicità dell’esperienza quotidiana, diviene, nell’opera di Gian Lorenzo Bernini, il mezzo attraverso il quale contrapporre alla realtà dell’ambiente in cui si trova l’osservatore, uno spazio irreale, simile a quello pittorico ma ancora percorribile e verificabile nelle proprie misure e, in quella del suo “eterno rivale” Francesco Borromini, il solo principio da cui derivare il “modellato delle membrature architettoniche”2 e il “disegno dell’ordine”3 , in un totale sovvertimento delle regole classiche del comporre. Il suo Sant’Ivo alla Sapienza è probabilmente – dopo la prima audace inflessione della facciata della chiesa di San Luca – il punto più alto della ricerca di un infinito in cui coincidono, nelle parole di Giordano Bruno, proporzione, similitudine, unione e identità: “nella trasformazione dell’intero spazio del piedritto irraggiante in altissima cupola, nella lenta metamorfosi del perimetro mistilineo che si conclude in alto nel cerchio della lanterna e più ancora nella spirale di coronamento”4 , una “forma dinamica che rifiuta ogni simmetria e che tende per la sua legge strutturale da una parte ad allargarsi, dall’altra a restringersi all’infinito”5 . Poco distante, il San Carlino alle Quattro Fontane identifica



compositivamente materia e luce, rendendo le proprie strutture simili, per continuità, all’involucro di una conchiglia e realizzando una sequenza di punti di vista che permette di cogliere ovunque la necessaria connessione tra le parti. Nei suoi candidi interni è possibile “sondare in ogni minimo valore l’intera gamma dei toni degradanti, dalla luminosità piena delle gore di luce proiettate dagli ottagoni (della cupola) all’oscurità più netta dei profondi alveoli”6. Sotto lo stesso cielo romano, con un linguaggio dalla modernità differente, Giuseppe Terragni perseguirà un’analoga cattura dell’infinito attraverso il sublimarsi della materia nella luce. Il medesimo luogo artificiale, una strada che interrompe la continuità dei fori antichi, annullandone la storia e proponendosi essa stessa come percorso metafisico7 accoglie due dei progetti più intensi nati dalla collaborazione con Pietro Lingeri. Nella Soluzione A per il Palazzo del Littorio, la “topografia leggendaria” della non distante Forma Urbis Romae, in cui ogni ombra declinava il “vuoto” di una Roma ormai scomparsa, si traduce in un arabesco di linee isostatiche che, sulla superficie appena inflessa della facciata, narra della (impossibile) leggerezza della pietra, e letteralmente ri-scrive la riduzione barocca del punto alla linea, della linea alla superficie, della superficie al volume allo spazio ispirata da un passo del primo dialogo De l’infinito di Giordano Bruno: “Infinite ore non sono più che infiniti secoli (...) se dalla potenza non è differente l’atto, è necessario che in quello il punto, la linea, la superficie e il corpo non differiscano: perché così quella linea è superficie; come la linea, movendosi, può essere superficie; cossì quella superficie può muoversi, e con il suo flusso può farsi corpo”8.

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Nel progetto per il Danteum è palese il tentativo di racchiudere nella forma finita del rettangolo aureo, l’infinita geografia dell’universo dantesco, in un “delicato equilibrio tra la materialità del dire e l’essenza del non dicibile, tra l’esistere nel mondo e l’astrarsi da esso”9. Il filo di una spirale si dipana, ora, sulla deserta scacchiera dell’Inferno,



ordinando le colonne della sala ipostila, greve e discretamente illuminata dalle fenditure del soffitto, e introducendo il percorso attraverso i luoghi – di pietra – dedicati alle Cantiche della Commedia. Fino al Paradiso, una grande stanza sospesa sul vuoto, il cui pavimento si sgretola in una scacchiera di tessere vitree e lapidee, mentre una serie di tagli verticali praticati sui muri perimetrali pare dissolverne i contorni. Le colonne di vetro – metafora di una spazialità concentrata, che si materializza nello spessore della sua trasparenza – e l’esile copertura di cui sono il sostegno fissano la variabilità del cielo e il continuo mutare dell’atmosfera, raffigurano il congiungimento tra la temporalità e l’eterno, la misura finita dell’esistente e l’infinito che lo trascende. “Che cosa è l’uomo nell’infinito?” Si domanda Blaise Pascal nelle celebri Pensées. E il suo pensiero pare accompagnare l’opera di Terragni e Lingeri dinanzi al Colosseo e alla Basilica di Massenzio. Prima, nella grande parete sospesa sulla folla infinita di un’adunata intenta ad ascoltare parole rese superflue dal già tutto detto dell’architettura10 e, poi, nella “scatola magica” che racchiude il segreto di un viaggio oltre la vita, dentro il baratro più profondo e oltre la montagna di pietra che introduce la luce più splendente. “Voglio fargli scorgere là dentro un nuovo abisso (...) – continua Pascal – Perché chi non si meraviglierà che il nostro corpo, che poco fa non era percettibile nell’universo, impercettibile esso medesimo nel seno del tutto, sia ora un colosso, un mondo, o piuttosto un tutto, in confronto al nulla, a cui non si può giungere?”11.

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1 Gian Lorenzo Bernini, Discorso sopra il Disegno della Facciata del Domo di Milano, che si và in questo tempo ergendo, cit. in Werner Oechslin, L’architettura della luce, in “Lotus” n. 75, 1993, pp. 8-29. 2 Paolo Portoghesi, Roma Barocca, Roma-Bari, Editori Laterza 1973, pp. 25-26. 3 Ibid. 4 Ivi, p. 12. 5 Ibid. 6 Ivi, p. 27. 7 Cfr. Manfredo Tafuri, Il soggetto e la maschera. Un’introduzione a Terragni, cit., p. 20. 8 Giordano Bruno, De l’infinito, cit. in Paolo Portoghesi, Roma Barocca, cit., p. 19. 9 Alberto Cuomo, Terragni ultimo, Napoli, Guida editori 1987, p. 174. 10 Cfr. Manfredo Tafuri, Il soggetto e la maschera. Un’introduzione a Terragni, cit. 11 Blaise Pascal, Pensées, cit. in Paolo Portoghesi, Roma Barocca, cit., p. 17.



PIETAS MICHELANGIOLESCA. IL MEMORIALE SULLE ALPI APUANE DI MICHELUCCI Caterina Lisini

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Un foglio a trama orizzontale, di medio formato, custodito presso il British Museum di Londra, contiene uno degli ultimi disegni di Michelangelo, datato, secondo i più recenti studi, agli anni 1562-64, appena prima della morte: si tratta di una singolare Crocifissione, episodio conclusivo di una serie riferibile all’estrema produzione grafica del maestro, quasi un toccante lascito testamentario, artistico ed umano. La composizione è frontale, di intensa compattezza ed equilibrio proporzionale, centrata interamente sulla croce del Golgota, ed animata dall’invenzione figurativa dell’abbraccio commovente che salda le figure degli astanti, la Madonna e l’apostolo prediletto Giovanni, al corpo del Cristo crocefisso. La resa piena e l’intensità corporea del busto del Cristo concentrano ancora la forza della maestria di Michelangelo, capace di esprimere “tutto quel che d’un corpo umano può fare l’arte della pittura, non lasciando in dietro atto o moto alcuno…”1 . Ma i contorni delle figure sono fittamente ripassati e gli scarti di luce e di ombra, le dissolvenze, i delicati tratteggi conferiscono al disegno un nuovo, diffuso luminismo, in un processo di trasfigurazione simile allo scavo dei corpi e all’erosione della materia della coeva Pietà Rondanini. Come se Michelangelo, negli ultimi anni della sua vita, mosso dalla sfiducia nel potere espressivo dell’arte, raffigurasse negli abbracci della Crocifissione e della Pietà l’umano abbandono di fronte al mistero della vita. Michelucci ha sempre manifestato una devozione senza riserve nei confronti di Michelangelo, una predilezione tale da conservare presso la sua casa di Fiesole proprio il calco della Pietà Rondanini, accanto al quale chiede espressamente di essere ritratto, ormai novantacinquenne, in una fotografia



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rimasta famosa. La longevità artistica accomuna i due autori, assieme ad una tormentata e inesauribile passione, quasi un’ossessione, per il proprio mestiere, che li induce ad una sperimentazione incessante e continua. Coinvolto, nei primi anni ’70, dal cenacolo ‘Arturo Dazzi’ di Carrara nella progettazione di un monumento commemorativo a Michelangelo in occasione del quinto centenario della nascita, Michelucci è lapidario: “Michelangelo, dichiara, non ha bisogno […] di monumenti”, e invece di “un elemento inerte dovrebbe sorgere sulla foce apuana un organismo vivo ed operante, un centro di attività e di cultura”2. Il progetto di “memoriale” che Michelucci immagina è una sequenza continua di “elementi architettonici, che sono in parte ricavati e scolpiti nel terreno, nella montagna”,3 investiti e animati dal moto laborioso della vita: due cave trasformate in ateliers di artisti, minute residenze temporanee, un teatro all’aperto, una piazza, un osservatorio solare, tutti connessi tra loro da percorsi su creste rocciose o intrecciati ad aeree passerelle. I disegni di progetto coprono un arco temporale che va dal 1972 al 1975: alcuni presentano il caratteristico segno sottile e continuo, inquieto e addensato, con cui Michelucci indaga l’articolazione dell’intero complesso, quasi uno sguardo dall’alto della montagna; altri sono studi più ravvicinati, di dettaglio, velati da campiture di acquerello o segnati da forti contrasti chiaroscurali in inchiostro nero. I temi progettuali si rincorrono negli anni, abbandonati e ripresi più volte, in un vorticoso avvicendarsi di segni. Dapprima compare la torre osservatorio, un traliccio abitato da passaggi continui, inerpicato al sommo di un’acropoli rocciosa; poi i disegni si concentrano con più insistenza sugli spazi di lavoro degli artisti, pensati su una plaga marmifera scoscesa e degradante. Da subito emergono suggestioni michelangiolesche: l’idea di sbalzare le asperità del monte – ”scavare più che costruire” annota Michelucci al margine di uno dei primi schizzi – in un’opera di intaglio dell’ambiente naturale, quasi una scultura a grande scala, rimanda direttamente alla visione di Michelangelo di scolpire un grandioso “colosso, che da lungi apparisse a’ naviganti”4. In molti disegni di progetto grandi scaglie di marmo, accostate o sovrammesse in più strati, o ancora inclinate o gradonate, ma sempre percorribili, sono “provate e riprovate” come copertura delle cave, spesso ricalcando le proporzioni e le



membrature di un imponente corpo disteso. Fortissima è l’emozione di rivivere il viaggio di Michelangelo attraverso l’aspro paesaggio delle cave. Racconta Michelucci: “Ho percorso coste e crinali per rendermi conto dei punti di vista, ma anche per avere sensazioni precise in rapporto alle cose vicine e lontane. [...] Qui ci sono delle forme: delle forme che sbalordiscono. Il mio discorso è di aderire alla terra e di trovare nella terra le ragioni di un fatto poetico. […] Inutile cercare quassù le altezze, non si potrà mai competere con questo mondo”5. C’è un disegno particolarmente rivelatore di questi “fantasmi” espressivi michelucciani: quello in cui la sagoma ondulata di una grande tenda compare a coprire le cave, come una forma adagiata tra i massi, a fianco del profilo al tratto della Pietà di Michelangelo, quasi a riprenderne il sentimento di estremo abbandono, il pathos dolente dei corpi intrecciati e imprigionati nella simbiosi marmorea. Il radicamento alla terra diventa protagonista del progetto, diviene accoglimento, compenetrazione, quasi dissoluzione dell’architettura nell’ambiente naturale: i tralicci metallici si trasformano in rami, i puntoni di sostegno della tenda si fanno alberi, e la tenda stessa si piega, rivelando la genesi naturalistica di una foglia. L’abbandono di Michelucci alla terra, una terra fatta di episodi minuti, di paesaggi umani affollati di voci e di gesti, fino al silenzio delle cime apuane più alte, non è l’abbraccio del credente, l’identificazione con la forza sorgiva del creato di Michelangelo: ma una identica pietas li muove, una fede nella terra sorgente di vita. Sembrano risuonare i versi di Mario Luzi: “[...] guardavi / l’universo variare nella voce / e negli occhi dell’uomo / e, sospesa nel sole, sempre fissa / la lontana immagine trasparente: / i paesi, le strade e le sorgenti, / gli alberi multiformi sulle alture”6.

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1 Ascanio Condivi, Vita di Michelangelo Buonarroti, Roma 1553, in appendice a AA.VV., Michelangelo: architettura, pittura, scultura, Bramante, Milano 1964. 2 Pier Carlo Santini, L’ultimo Michelucci e un’idea per Michelangelo, in “Ottagono”, IX, n.34, 1974. 3 Pier Carlo Santini, cit. 4 Ascanio Condivi, cit. 5 Pier Carlo Santini, cit. 6 Mario Luzi, Compianto, in Un brindisi, Sansoni, Firenze 1946, ora in Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1988.



1497. LA SOSTANZA DELL’ARTE Michelangelo Pivetta

“…sostanza è il sostrato, il quale, in un senso, significa la materia, in un secondo senso significa l’essenza e la forma, e, in un terzo senso, significa il composto di materia e di forma…” (Aristotele, Metafisica)

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La sostanza, cioè la materia in cui tutto si invera, è di per se anticipazione di una forma possibile, supporto grammaticale dell’idea umana. I romani mutuarono l’antico significato del verbo greco marmàirò per definire ciò che ancora chiamiamo marmo, individuando attraverso gli anfratti della traslitterazione del linguaggio quella lucentezza delle superfici che rende unico questo materiale. Quello che più amavano, più candido del Pario, era il Marmor Lunaensis e, per un’ulteriore traslazione, sembra impossibile rimuovere l’idea che il destino abbia voluto associare per sempre l’immagine del candido corpo celeste con la peculiare bianchezza del marmo carrarese. Con esso sono state erette città di candidi monumenti, lievemente ombrati di grigio, memorie e presenze di statue, cornici, capitelli e colonne, alcune talmente grandi, come quella traianea, da divenire esse stesse edificio. La bianchezza della statuaria e dell’architettura antica è per l’arte, nel suo più ampio significato, matrice della propria immagine. Essa è soggetto della collettiva e paradossale scena estetica di un’arte figurativa ed edificatoria priva di colore dove l’unica interazione possibile avviene per luminescenza, ombra e chiaroscuro attraverso una poetica dettata dall’assenza, veicolata solo dalla proprietà del materiale e dal modo in cui esso viene plasmato.


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Non importa aver coscienza che questo marmo diede forma a una statuaria pigmentata, non pallida ma al contrario variopinta. La lucentezza insita del materiale fu centrale per la resa vivida e la necessaria apparenza icastica dell’immagine artistica. Questa condizione contraddittoria ha origini radicate e gravitanti attorno a formidabili interpreti. Ciò che noi siamo, il nostro modo di intendere e ciò che potremmo definire senso comune è il prodotto della sedimentazione e del consolidamento estetico di una precisa epoca. Nel Quattrocento la riscoperta dell’arte antica ristabilì, in due generazioni, il legame simbiotico tra realtà e sua rappresentazione, destinando alla capacità dialettica del materiale il compito comunicativo del simulacro. Il vasariano terzo stile, o meglio, stile perfetto fu in grado di reinventare il rapporto molteplice tra uomo, idea, tecnica e materiale, trasferendo il segreto del romanico e il mistico del gotico nella potente rivelazione del Rinascimento. Il Torso Belvedere, il Laocoonte che di marmo son fatti, sono radice definitiva della poetica manierista nell’ambito della sua definizione teorica, artistica ed intellettuale. Tra tutti Michelangelo “…archetipo della concezione neoplatonica del genio, il visionario che contemplando il mondo delle idee, rivaleggia con il demiurgo nella creazione dell’universo dal nulla… il suo pensiero ha aggiunto una nuova dimensione alle nostre idee sull’arte…” come lo descrive Gombrich, è l’attore principale, il genio. Il primo soggiorno romano dell’artista definì per sempre nel mondo delle arti uno spartiacque al pari della scoperta dell’America nella geografia. La Pietà vaticana è il primo vero capolavoro del Buonarroti e per realizzarlo necessitò voracemente di quella sostanza, di quello zuccheroso marmo del Polvaccio di cui è fatto l’Apollo Belvedere, tanto ammirato nel giardino dei SS. Apostoli del Cardinale della Rovere, futuro Giulio II. Il minerale saccaroide già conosciuto a Firenze e del quale, nelle antichità di Roma, egli individuò la diafana perfezione, da quel momento diverrà il composto alchemico fondamentale nell’espressività artistica michelangiolesca. Nel 1497 Michelangelo raggiunge Carrara con l’obbiettivo di scegliere il


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blocco necessario da cui far emergere la propria Vesperbild. E’ esplosione di materia che dirompe la ieraticità medievale attraverso l’utilizzo superbo della tensione del movimento, della discontinuità delle superfici e della levigatezza di quella sostanza magnifica, traslucida, nivea, viva. Al contrario di quanto fa quasi contemporaneamente Grünewald nella sua truce Crocifissione, in cui nulla viene risparmiato fino alla soglia dell’orribile, la Pietà non descrive la tragedia di una madre che osserva il corpo esanime del figlio esponendone lo strazio fisico. Il Cristo non appare morto, semmai si ha l’impressione che la Madonna stia osservando il proprio figlio assopito con la dolcezza compiaciuta dello sguardo materno. Michelangelo travalica in modo nuovo le regole e gli equilibri dettati dal messaggio religioso più diretto affrontandoli alla radice e andando oltre, abbracciando totalmente il concetto di resurrezione e quindi di morte come passaggio necessario alla vita eterna. La piramide compositiva dell’opera descrive l’unitarietà del rapporto tra Madre e Figlio nel più profondo concetto umano e cristiano cattolico. La figura della Vergine è il centro dell’opera, la Pietas è il messaggio e forse nelle pieghe di quell’abito fuori scala, come nella dolcezza di quel viso così coerente alla successiva Madonna di Bruges, il Buonarroti vi ha nascosto ancora di più: l’intensità del vincolo psicologico con la propria madre, tragicamente interrotto in giovane età. Quel volto, quella figura e quel rapporto tra la Vergine e il Cristo, è il tributo di un giovane uomo alla memoria infantile della propria madre, al suo sguardo, alla sua iconica ideale bellezza. “Non pensi mai, scultore né artefice raro, potere aggiungere di disegno né di grazia, né con fatica poter mai di finezza, pulitezza e di straforare il marmo tanto con arte, quanto Michelagnolo vi fece, perché si scorge in quella tutto il valore et il potere dell’arte”. Così scrisse Vasari nell’edizione del 1568 delle sue Vite e nulla pare necessario aggiungere. In quel 1497 Michelangelo ha 22 anni, Raffaello 14 e Leonardo 45; tutto a quel punto nell’arte pare essere possibile. Verranno il David, il Mosè e l’intuizione premoderna del non finito, ma nulla sarebbe stato avverabile per Michelangelo senza il consolidamento delle


proprie esperienze cognitive sull’arte antica, riversate, attraverso quello stesso marmo, nella Pietà. Guarderemmo all’arte, oggi, in modo diverso senza quel viaggio nelle cave del Polvaccio alla ricerca della sostanza eterna. Memoria ed evoluzione trovarono e trovano il supporto elettivo del proprio divenire nella pietra cristallina delle Apuane, così da significare una delle parti più sostanziali dell’essere umano: la necessità del simulacro come rappresentazione della realtà attraverso il filtro intimistico del proprio io. In quelle pieghe montane a ridosso del mare, nei bacini marmiferi di Torano, Colonnata e Miseglia risiede quindi in larga misura il nostro essere, l’origine della nostra memoria e l’essenziale sostanza di cui è fatta.

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PARADIGMA Bo Allison

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In greco antico paradigma significa “da affiancare” ed è proprio da questo termine che deriva la parola che usiamo oggi. Il paradigma può essere definito come un sistema di visioni del mondo condivise, in cui rientrano presupposti, valori, obiettivi, convinzioni, aspettative e teorie. Negli anni ‘60 Tomas Kuhn coniò nelle sue opere l’espressione “cambiamento di paradigma”, una formula che – per dirla più semplicemente – indicava la sostituzione della vecchia guardia con un nuovo sistema di valori. Alcuni esempi di questo cambiamento sono il passaggio dal paganesimo greco-romano al cristianesimo, tra il III e il IV secolo d.C. e l’avvento dell’illuminismo che tra il XVII e XVIII secolo ispirandosi alla rivoluzione scientifica di quegli anni oscurò proprio il concetto cristiano di “verità”. Questi cambiamenti non sono dettati dal caso, ma sono scatenati da “agenti di cambiamento”. Copernico, Galileo, Newton, Einstein e Freud sono stati tutti “agenti di cambiamento”. Il cambiamento non si ferma mai ed è la cosa più costante che conosciamo. Il “Progetto Paradigma” è fatto di 27 cubi disposti l’uno accanto all’altro. Ogni cubo è più grande o più piccolo del precedente, a seconda della direzione in cui si percorre la fila. La differenza tra un cubo e l’altro è pari a un ventisettesimo del totale. Sono arrivato a questa cifra dividendo ciascuna delle tre dimensioni per tre, e tre per tre per tre fa ventisette. Per visualizzare questo procedimento fisico di questo progetto è sufficiente pensarlo come la costruzione e de-costruzione di un cubo. Si tratta di termini interscambiabili in realtà, perché i due processi avvengono contemporaneamente. Per essere più chiaro illustrerò la progressione partendo dal grande per arrivare al



piccolo. Tutte le dimensioni sono in centimetri. Il primo cubo misura cm 90 x 90 x 90. Il secondo cubo misura sempre cm 90 x 90 x 90, ma è stato privato di una superficie pari a cm 30 x 30 x 30. Il terzo cubo sarà ancora cm 90 x 90 x 90 privato, questa volta, di due superfici da cm 30 x 30 x 30 ciascuna. Si prosegue così fino ad arrivare ad un cubo delle dimensioni di cm 30 x 30 x 30: questo verrà ulteriormente ridotto, applicando lo stesso principio, alla dimensione di cm 10 x 10 x 10 e quindi, successivamente, a cm 3,3 x 3,3 x 3,3, fino all’ultima serie dove si otterrà un cubo di cm 1,1 x 1,1 x 1,1. La serie più grande, quella da cm 90 x 90 x 90, sarà realizzata in “Assoluto”, un granito nero proveniente dall’Africa. La serie più piccola sarà in argento, e le due dimensioni di mezzo verranno realizzate in serie multiple, utilizzando bronzo, allumino, travertino persiano e marmo nero del Belgio. Ci saranno anche dittici, trittici e composizioni di quattro e cinque elementi presi da serie realizzate in materiali diversi, destinate alla commercializzazione del progetto. Al momento è già stata completata una maquette di bianco statuario di Carrara, di dimensioni che vanno da cm 5 x 5 x 5 a cm 15 x 15 x 15. L’idea del cambiamento mi ha sempre affascinato. Non mi riferisco necessariamente al cambiamento in sé e per sé, ma ad un cambiamento creativo e fiducioso, teso al progresso. Quando si sono verificati i cambiamenti di paradigma a cui ho accennato, essi di solito ambivano al miglioramento. Con il mio “Progetto Paradigma”, non ho certo la presunzione di trattare verità di nessun tipo: vorrei solo iniziare con un cubo, finire con un cubo, realizzare tutti i cambiamenti intermedi e disporli l’uno accanto all’altro in una bella fila lunga – verità, cambiamento, cambio di verità, statica. Tutto cambia e resta lo stesso.

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Paradigma: In greco antico paradigma significa “da affiancare” ed

è proprio da questo termine che deriva la parola che usiamo oggi. Il paradigma può essere definito come un sistema di visioni del mondo condivise, in cui rientrano presupposti, valori, obiettivi, convinzioni, aspettative e teorie.










MODELLI DI ARCHITETTURE


“Uso il quadrato per cominciare i miei progetti perché il quadrato è una “non scelta”, per davvero. Man mano che procedo, cerco le forze che contraddicono il quadrato” Louis I. Kahn



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Maria Grazia Eccheli, Arba Baxhaku, Eleonora Cecconi, Alessandro Cossu, Caterina Lisini, Marco Nicoletti, Alberto Pireddu, Guglielmo Rapini, Serena Romiti, Riccardo Alessandro, Joni Baci Alizoti, Mattia Anemona, Davide Balducci, Alessio Berdicchia, Emilia Boldrini, Caterina Boschi, Rachele Calamai, Elena Carnaroli, Alessio Cruciani, Alessandra D’Ausialio, Lucrezia Della Rosa, Marina Di Ienno, Luca Fagnani, Federico Ferretti, Giulia Fiorentini, Alessandria Fiumanò, Teresa Fogacci, Marco Franci, Klenisa Galica, Veronica Gambini, Michele Giannini, Curro Gonzales, Chiara Grassi, Parvane Karimi, Mikel Kodheli, Monica Ilaria, Anna Incampo, Jorge Lasso, Beatriz Martinez Lauwers, Giulia Lupi, Niccolò Maccioni, Irene Magni, Lucrezia Mainardi, Sara Manelli, Eleonora Mariotti, Marco Mariotti, Ester Mariucci, Gabiria Masciullo, Elena Migliorini, Nadia Monte, Vincenzo Moschetti, Oscar Aitor Munoz Daga, Simone Nardo, Riccardo Niccolini, Marco Nucifora, Alessio Orrico, Marco Paoli, Elisa Pardini, Andrea Pazzaglia, Laura Matilla Perez, Valentina Perra, Marco Peruzzi, Riccardo Poggianti, Sabrina Renna, Sara Riccetti, Grazia Rizzo, Michelangelo Romano, Isabella Russo, Azzurra Salvatori, Marianna Sangiovanni, Massimo Serra, Carlotta Sessoli, Giovanni Taccari, Giuseppe Vadala, Silvia Zuccari.


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RIFERIMENTI ICONOGRAFICI E CREDITI

pg. 12_Adolf Loos, “Tumulo” in granito di Adolf Loos

pg. 14_Mies van der Rohe, dettaglio Padiglione tedesco all’Esposizione Universale di Barcellona, 1929

pg. 16_Peter Zumthor, Terme di Vals

pg. 18_Francesco Venezia, Palazzo di Lorenzo, 1984

pg. 20_Alberto Campo Baeza, Pablo Fernández Lorenzo, Pablo Redondo Díez, Alfonso González Gaisán, Francisco Blanco Velasco, Offices for Junta Castilla Leòn, Zamora, 2012 pg. 22_Maria Grazia Eccheli e Riccardo Campagnola, La porta del Bosco, San Zeno in montagna, Verona, 1994/2001. Foto: R. Campagnola

pg. 24_Le Alpi Apuane, foto Archivio Bessi, Fondazione Giovanni Michelucci. pg. 26_Le Alpi Apuane, foto Archivio Bessi, Fondazione Giovanni Michelucci. pg. 28_Studi di Scultura Nicoli, Veduta di Laboratorio di Scultura e Palazzo Nicoli in una foto d’inizio Novecento

pg. 30_Studi di Scultura Nicoli, Michelangelo Pistoletto con la sua “Alterego”

poliuretano espanso, h 7 mt, interno Laboratorio Nicoli, foto di Benvenuto Saba, 1984

pg. 32_Studi di Scultura Nicoli, Manovrando David, interno Laboratorio Nicoli, foto di Benvenuto Saba, 1986

pg. 36_S.Nardo, A.Pazzaglia, S.Zuccari, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Render di studio pg. 38_M.Anemona, D.Balducci, A.Cruciani, Laboratori di Scultura nel nuovo 139

parco di San Martino,


Carrara. Render di studio pg. 40_I.Magni, E.Migliorini, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Render di studio pg.42_Alessandro Cossu, Riconfigurazione spaziale del nuovo porto di Marina di Carrara, disegni di studio

pg. 44,46,48,50,52_Alessandro Cossu, Riconfigurazione spaziale del nuovo porto di Marina di Carrara. Render di studio.

pg. 54_E.Carnaroli, E.Mariotti, E.Pardini, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Render di studio pg. 56,58_E.Mariucci, L.Mainardi, M.Franci, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Render di studio pg.60,62,64_Giovanni Michelucci, Memoriale sulle Alpi Apuane. Schizzi di studio. Prop. Fondazione Michelucci

pg. 71_Michelangelo Buonarroti, PietĂ Vaticana, 1497-1499. Foto: Michelangelo Pivetta

pg. 74_Bo Allison, Paradigma. Studi preparatori.

pg. 77-85_Bo Allison, Paradigma. Foto: Bo Allison.

pg. 87_A.Cossu, Riconfigurazione spaziale del porto di Marina di Carrara. Modello in marmo bianco di Carrara pg. 88-93_A.Cossu, Riconfigurazione spaziale del porto di marina di Carrara. Modelli di Studio pg. 95_modello della città di Carrara, scala 1:500 del Laboratorio di Progettazione dell’Architettura IV. Foto Elena Farinelli pg. 96-99_Michele Giannini, Klenisa Galica, Grazia Rizzo, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Modelli di Studio pg. 100,101_E.Carnaroli, E.Mariotti, E.Pardini, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Modelli di studio pg. 102-105_M.Anemona, D.Balducci, A.Cruciani, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Modelli di studio pg. 107-109_S.Nardo, A.Pazzaglia, S.Zuccari, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Modelli di studio pg. 110-113_A.Berdicchia, E.Boldrini, C.Boschi, Laboratori di Scultura nel nuovo 140

parco di San Martino, Carrara. Modelli di studio


pg. 114-117_E.Mariucci, L.Mainardi, M.Franci, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Modelli di studio pg. 118-121_A.D’Ausilio, L.Della Rosa, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Modelli di studio pg. 122,123_V.Moschetti, M.Nucifora, A.Orrico, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Modelli di studio pg. 124,125_I.Magni, E.Migliorini, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Modelli di studio pg. 126,127_R.Alessandro, G.Masciullo, N.Monte, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Modelli di studio pg. 128,129_A.Fiumano, C.Grassi, A.Incampo, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Modelli di studio pg. 130,131_M.Paoli, N.Maccioni, G.Lupi, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Modelli di studio pg. 132_A.Salvatori, C.Sessoli, G.Taccari, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Modelli di studio pg. 133_R.Niccolini, Romano, Serra, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Modelli di studio pg. 134_I.Russo, Sangiovanni, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Modelli di studio pg. 135_M.Mariotti, M.Peruzzi, R.Poggianti, Laboratori di Scultura nel nuovo parco di San Martino, Carrara. Modelli di studio

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MARIA GRAZIA ECCHELI Si laurea nel 1976 presso lo IUAV di Venezia, dove ha svolto attività didattica e di ricerca fino al 1995, collaborando contemporaneamente a mostre e convegni della Galleria della Fondazione Masieri e alla rivista “Phalaris”. Professore ordinario di Progettazione Architettonica presso la Facoltà di Architettura di Firenze, fa parte del Collegio di Docenti del Dottorato di ricerca in Progettazione Architettonica e Urbana. Dal 2000 dirige la rivista “Firenze architettura”. Ha studio a Verona con Riccardo Campagnola. I temi di progetto affrontati nel suo lavoro, sono rivolti ad una ri-scrittura degli elementi della città e del suo paesaggio, dialetticamente tesa tra l’attuale loro contraddittorietà e la pur mutevole compiutezza della loro tradizione. Progetti, concorsi e realizzazioni hanno ricevuto numerosi riconoscimenti e sono stati pubblicati nelle maggiori riviste di settore, tra i quali in particolare: La porta del Bosco a San Zeno di Montagna (1994-2001), Casa con torre a Regensburg (1999-2002), restauro del Torrione quattrocentesco e sistemazione di piazza della Libertà a Legnago (2003-08), progetto per la Nuova Biblioteca della Facoltà di Architettura alle Murate (2004-05), concorso a inviti per la Chiesa di Santa Maria e complesso parrocchiale a Castel di Lama, Ascoli Piceno (2007), concorso per il Berliner Schloss Humboldtforum (2008). L’attività progettuale dello studio è raccolta nel volume Maria Grazia Eccheli – Riccardo Campagnola architetture topografie leggendarie, Firenze 2008. MICHELANGELO PIVETTA Si laurea in Architettura presso lo I.U.A.V. con Franco Purini. Consegue il dottorato in Progettazione Architettonica ed Urbana presso la Facoltà di Architettura - Università degli Studi di Firenze e lo conclude con una Tesi dal titolo “Costruzione forma architettonica - tre temi di composizione”. Dal 2010 è Ricercatore Universitario e Professore aggregato di Progettazione Architettonica. ALESSANDRO COSSU Si laurea in Architettura a Firenze con M.G. Eccheli. Dottorando presso la Scuola di Architettura di Firenze, sta affrontando una ricerca dal titolo “Luce ed ombra in architettura, la quarta dimensione del comporre”. Da alcuni anni è tutor e cultore della materia al corso di Progettazione Architettonica IV presso l’Ateneo Fiorentino. Ha pubblicato saggi sul tema del comporre tra i quali: “L’illusione del mito”, in Firenze Architettura 2.2009, “Significato e Significante”, in Firenze Architettura 2.2013.

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ELEONORA CECCONI Si laurea in Architettura a Firenze con M.G. Eccheli. Dottorato in Progettazione Architettonica ed Urbana presso la Facoltà di Architettura - Università degli Studi di Firenze, concluso con una tesi dal titolo “Le variazioni del Paesaggio”.Ha pubblicato saggi tra i quali “Il viaggio attraverso” in Firenze Architettura 2.2011, “Einfachheit”, in Firenze Architettura 1.2012, “A portrait of the famale mind”, in donnArchitettura, Milano 2014. Dal 2014 è Professore a contratto presso la Scuola di Ingegneria di Firenze.


CATERINA LISINI Si laurea presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze, dove consegue il titolo di Dottore di ricerca in Progettazione architettonica e urbana (2006) e, dal 2008, svolge attività didattica come cultore della materia presso Laboratori di Progettazione Architettonica. Scritti e saggi sono pubblicati in riviste specializzate e volumi collettanei, ed è stata relatrice in convegni nazionali e internazionali. Ha partecipato, come componente o capogruppo, a concorsi di progettazione, ottenendo segnalazioni e premi. Nel 2013, in occasione del centenario della nascita di Edoardo Detti, ha curato la monografia Edoardo Detti 1913-1984, l’ordinamento e l’allestimento della mostra negli spazi di Orsammichele a Firenze. ALBERTO PIREDDU Alberto Pireddu si laurea a Firenze nel 2005 con una tesi sul rapporto tra l’architettura contemporanea e l’antico. Nel 2010 consegue il titolo di Master en Diseño Arquitectónico presso la Escuela Técnica Superior de Arquitectura della Universidad de Navarra a Pamplona e di Dottore di Ricerca in Progettazione Architettonica e Urbana presso la Scuola di Dottorato in Architettura, Progetto e Storia delle Arti dell’Università degli Studi di Firenze. Dal 2013 docente a contratto del corso di Caratteri distributivi degli edifici presso il Dipartimento di Architettura di Firenze. Gli esiti delle ricerche sul tema dell’astrazione sono divenuti oggetto di pubblicazioni. Tra queste il volume monografico In Abstracto per i tipi della Firenze University Press. FRANCESCA ALIX NICOLI Dopo gli studi classici consegue la laurea in Filosofia all’Università degli Studi di Bologna, e il diploma di Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna con una tesi in Storia e Metodologia della Critica d’Arte. Le prime pubblicazioni vertono sul pensiero filosofico di David Hume ed escono su riviste specialistiche universitarie. Interrompe gli impegni universitari come assistente volontaria alla cattedra di Storia della filosofia e fa rientro a Carrara per dirigere l’azienda di famiglia, i Laboratori Artistici Nicoli, che curano dal 1835 le produzioni dei maggiori artisti ed architetti contemporanei. Suoi saggi specialistici sono apparsi in cataloghi e volumi collettanei di arte e filosofia, ed è redattrice di “Flash Art”, “Arte e Critica”, “Artribune”, “Segno”. Ha pubblicato: Le giuste premonizioni di Fausto Melotti (2004), Giù le mani dalla modernità (2013), ed è in corso di pubblicazione Fausto Melotti, scultore astratto e monumentale. BO ALLISON

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Artista e scultore americano, nelle sue opere indaga attraverso la forma, la composizione e la scomposizione della materia e della luce. Le sue opere sono state oggetto di mostre e pubblicazioni internazionali in numerosi paesi tra i quali Italia, Germania, Belgio, Canada e USA.



Si ringrazia la Fondazione Giovanni Michelucci di Fiesole, nella persona del presidente e della dottoressa Nadia Musumeci, per aver gentilmente concesso i diritti delle immagini dell’archivio Bessi, i disegni originali del Maestro Michelucci.




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