n.3 maggio-giugno 2010
anno 88
Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. In L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Milano.
www.missionaridafrica.org
Malawi
Il regno del tè
Economia
La febbre dell’oro
Eritrea
Il volto del regime
Nigeria
Guerra di religione?
SUDAFRICA
CALCIO D’INIZIO
L’Africa nel pallone
© Riccardo Venturi
una sorprendente mostra fotografica
© Marco Trovato
© Ugo Lo Presti
Il calcio africano è una miniera d’oro che sforna campioni e favole sportive. Ma anche delusioni e spietati fallimenti. Alla vigilia dei Mondiali in Sudafrica, venti fotografi scendono in campo per svelare sogni e illusioni di un continente che si gioca il futuro.
A DISPOSIZIONE PER ESPOSIZIONI IN TUTTA ITALIA La mostra “L’Africa nel pallone” è realizzata dalla rivista AFRICA in collaborazione con il Festival del Cinema Africano. Per informazioni e prenotazioni: tel. 0363 44726, africa@padribianchi.it
editoriale
Se lasciassimo rotolare quel palloNe foto Ugo Borga
N
elle prossime settimane sui giornali e in televisione la parola “Africa” verrà ripetuta con grande frequenza. A compiere il miracolo saranno i campionati mondiali di calcio in Sudafrica. Naturalmente si parlerà di un’Africa filtrata dalla lente del grande calcio, lasciando poco spazio alla realtà vera di un continente grande, ricco e abitato da quasi un miliardo di persone. L’Africa potrebbe occupare un posto di grande rilievo nel mercato globale per le sue ricchezze minerarie, le sue potenzialità agricole, il turismo... Di fatto, l’infimo livello del reddito pro capite fa sì che quel miliardo di persone non venga quasi considerato nemmeno come un mercato possibile... La stragrande maggioranza di quel miliardo, infatti, non ha un potere d’acquisto apprezzabile. L’Africa resta così, per tanti, quasi unicamente un serbatoio di materie prime e di forza lavoro a basso costo. I media la trascurano, ne parlano distrattamente o, peggio ancora, ricorrono a cliché e luoghi comuni ancora più dannosi. In questo numero pubblichiamo un articolo sul mito che ha lasciato nell’immaginario
collettivo occidentale un film come La mia Africa, tratto dal famoso libro di Karen Blixen. Si tratta di un’Africa romantica e un po’ sdolcinata, lontana dai problemi reali. Eppure resiste ancora nell’immaginazione di tante persone, anche a distanza di anni dall’uscita del film. Dovremmo invece accorgerci che l’Africa di oggi è diversa e che molti dei suoi problemi ci riguardano da vicino. Nelle pagine di Africa troverete una splendida intervista ad Angélique Kidjo, la cantante del Benin
da molti indicata come la nuova Mama Africa dopo la morte dell’indimenticabile Miriam Makeba. Angélique Kidjo smonta appunto alcuni dei luoghi comuni utilizzati da giornali, radio e tivù. In un altro servizio, Africa sottolinea un fenomeno quasi sconosciuto che sta dilagando nel continente. Si tratta di multinazionali, o comunque di gruppi stranieri, che acquistano vaste porzioni di territorio africano sottraendolo alla produzione di derrate per il consumo locale. A
“vendere” sono Paesi che spesso hanno problemi di malnutrizione delle loro popolazioni, o sono esposti a ricorrenti siccità e carestie. Un paradosso che riguarda il Mozambico (ma non solo!), su cui pubblichiamo un ampio resoconto. Un altro tema che ci sta a cuore, in modo diverso perché offre un altro tipo di immagine sconosciuta dell’Africa, è quello della società civile: dinamica, attenta, vivace, coraggiosa, creativa, ma che non trova mai spazio per farsi raccontare. Lo sapevate, ad esempio, che a Kinshasa, nella Rd Congo, spopola un’orchestra sinfonica che diffonde, con un’accoglienza straordinaria da parte del pubblico locale, musica classica, suonata in condizioni proibitive ma con grande passione e professionalità? I fiumi di inchiostro che verranno versati per i mondiali di calcio probabilmente non si occuperanno di questa Africa, eppure anche il football potrebbe essere un buon pretesto per farlo. Noi, nel nostro piccolo, ci abbiamo provato (e con un discreto successo) con la mostra fotografica L’Africa nel pallone di cui pubblichiamo alcuni dei più significativi scatti. • africa · numero 3 · 2010
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sommario
DIREZIONE, REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE
viale Merisio, 17 24047 Treviglio (BG) tel. 0363 44726 - fax 0363 48198 africa@padribianchi.it www.missionaridafrica.org DIRETTORE
Paolo Costantini COORDINATORE
Marco Trovato WEBMASTER
Paolo Costantini AMMINISTRAZIONE
Bruno Paganelli
PROMOZIONE E UFFICIO STAMPA
Luciana De Michele PROGETTO GRAFICO E REALIZZAZIONE
Elisabetta Delfini FOTO
Copertina Fotolia Si ringrazia Olycom COLLABORATORI
Claudio Agostoni, Marco Aime, Giusy Baioni, Enrico Casale, Giovanni Diffidenti, Matteo Fagotto, Emilio Manfredi, Diego Marani, Raffaele Masto, Pier Maria Mazzola, Giovanni Mereghetti, Aldo Pavan, Piero Pomponi, Giovanni Porzio, Anna Pozzi, Andrea Semplici, Daniele Tamagni, Alida Vanni, Bruno Zanzottera, Emanuela Zuccalà COORDINAMENTO E STAMPA
Jona - Paderno Dugnano
Periodico bimestrale - Anno 88 maggio-giugno 2010, n° 3
Aut. Trib. di Milano del 23/10/1948 n.713/48 L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dai lettori e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione. Le informazioni custodite verranno utilizzate al solo scopo di inviare ai lettori la testata e gli allegati, anche pubblicitari, di interesse pubblico (legge 675/96 - tutela dei dati personali).
COME RICEVERE AFRICA per l’Italia:
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per la Svizzera: Ord.: Fr 35 - Sost.: Fr 45 da indirizzare a: Africanum Reckenbüehlstrasse, 14 CH 6000 Luzern 4 CCP 60/106/4
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copertina
libri e musica
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La partita dell’Africa di Marco Trovato e Claudio Agostoni
di Pier Maria Mazzola e Claudio Agostoni
attualità
3 Africanews 4 Nigeria. Armi in pugno nel Delta 6 Eritrea. I sogni infranti di Asmara 14 Sudafrica. Febbre a 90 16 La nuova febbre dell’oro 22 Mozambico. Professione sminatrice 24 Il Mozambico vende la terra a cura della redazione di Giovanni Porzio di Giovanni Porzio
testo C.Agostoni foto C.Kirchhoff
testo Matteo Fagotto foto Bruno Zanzottera/Parallelo Zero testo M.Fagotto foto M.Lachi testo M.Fagotto foto M.Lachi
società
cultura
52 Marocco. Berberi in festa 56 Benin. Parla la nuova Mama Afrika 58 Quel che resta della mia Africa testo e foto Elena Dak di Emanuela Zuccalà di Diego Marani
viaggi
60 Niger. L’isola dei Tuareg di Donato Cianchini
storia
64 Dimenticati 67 L’atomica nel deserto di Diego Marani
di Laura De Santi
chiese
In fila per l’esame di castità 28 Sudafrica. 30 Malawi. Il regno del tè in Africa 37 La rivincita del caffè 46 Mozart in Africa 47 Congo. I maghi delle réclame
68 Nigeria. Guerre di religione? 74 Brevi togu na 76 vita nostra 77
di Matteo Fagotto
testo e foto Giovanni Porzio
testo e foto di Edoardo Agresti
a cura di Anna Pozzi
di Enrico Casale
a cura della redazione
di Laura Marelli
testo e foto Daniele Tamagni
a cura della redazione
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news
a cura della redazione
Africanews, brevi dal continente 1 Sudan, uno storico voto Si sono tenute lo scorso 11 aprile le elezioni presidenziali nel più esteso paese africano: si tratta delle prime consultazioni libere dopo ventiquattro anni. I principali oppositori del presidente Omar al Bashir si sono ritirati denunciando irregolarità. Il risultato del voto espresso da sedici milioni di elettori ha confermato al Bashir come presidente del Paese e Salva Kiir come presidente della regione semi-autonoma del Sud Sudan. Sulla regolarità della consultazione gravano forti dubbi.
2 Egitto, viva la poligamia È partita una campagna a favore della poligamia che mira a “combattere il nubilato” e a “proteggere le vedove e le divorziate” nei quartieri popolari del Cairo e di Alessandria. L’associazione egiziana Wifaq ha iniziato a promuovere incontri tra uomini sposati e donne vedove, divorziate o nubili che desiderano unirsi in matrimonio e che non hanno nulla in contrario ad accettare lo status di seconda moglie. Il servizio offerto da questa speciale agenzia matrimoniale costa circa 14 euro.
3 Botswana, turismo tra i Boscimani? L’associazione Survival International ha lanciato una campagna di boicottaggio
contro la società Wilderness Safaris che ha recentemente costruito un villaggio turistico sulle terre dei Boscimani. La Wilderness Safaris si definisce “un’organizzazione di ecoturismo e turismo responsabile”. Ma - fa notare Survival - la compagnia non ha consultato i Boscimani Gana sul cui territorio si trova il nuovo villaggio. E il portavoce della comunità indigena, Jumanda Gakelebone, ha detto: “Non c’è nulla di più doloroso che vedere della gente nuotare in piscina accanto a noi, nel deserto, mentre noi moriamo di sete”.
4 Sudafrica, il Mondiale del sesso A meno di due mesi dalla Coppa del Mondo di calcio, l’industria del sesso sudafricana si sta preparando al grande evento: con circa 300 mila turisti attesi, prostitute, night club e bordelli sperano di massimizzare i profitti. E le associazioni che assistono le lavoratrici del sesso hanno chiesto al governo di depenalizzare la prostituzione per il periodo dei Mondiali.
5 Uganda, voglia di sviluppo Le autorità ugandesi hanno presentato un “Piano di sviluppo nazionale” del valore di circa 18 miliardi e mezzo di euro, che prevede la creazione in cinque anni di un servizio di autobus veloci a Kampala, lo sviluppo delle ferrovie e del trasporto su ac-
qua nel Lago Vittoria, nonché la costruzione di una raffineria e di un oleodotto che colleghi alla capitale i giacimenti della regione orientale di Eldoret.
ridionali e settentrionali. Il potenziamento delle comunicazioni favorirà le attività commerciali, specie il traffico del cemento e dei prodotti agroalimentari.
6 Senegal, il tesoro dei migranti
8 Kenya, asfalto sul monte Kenya
Nel 2009 sono salite a oltre 762 milioni di euro le rimesse dei senegalesi emigrati: una cifra superiore a quella che il governo di Dakar stanzia annualmente per lo sviluppo. Il Senegal dispone di un’importante diaspora diffusa in tutto il mondo, stimata in centinaia di migliaia di persone, bene organizzate, che svol-
Il consiglio provinciale di Embu, a valle del monte Kenya, ha deliberato la costruzione di una strada che arriverà fino in vetta e consentirà ai turisti che arrivano da tutto il mondo di ammirare uno degli ultimi ‘paradisi nascosti’ dell’Africa orientale. Preoccupazioni e proteste si sono levate nel mondo dell’ambientalismo. Fonte: AgiAfro, Bbc, Jeune Afrique, Misna
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gono un ruolo importante nello sviluppo dell’economia senegalese.
7 Ghana, traghetti sul lago Volta Due nuovi traghetti entreranno in servizio sul lago Volta entro il 2012, collegando le sponde me-
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attualità
di Giovanni Porzio
ARMI IN PUGNO NEL DELTA Spezzata in Nigeria la fragile tregua dei ribelli
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gruppi armati del Delta del Niger hanno ripreso a far saltare in aria gli impianti petroliferi dell’Agip e della Shell. Gli attacchi e le azioni di sabotaggio si stanno moltiplicando nella regione, cassaforte del petrolio nigeriano, dove un programma di amnistia lo scorso anno aveva determinato oltre sei mesi di pace. Da molti anni i gruppi armati nigeriani come il Mend (Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger) e le bande al soldo delle mafie locali lottano contro le grandi compagnie petrolifere. La guerriglia è riuscita a bloccare il 20% delle esportazioni, con immediate ripercussioni sul prezzo del greggio. Le basi dei ribelli sono nascoste in un dedalo di canali e acquitrini in cui ristagnano le chiazze oleose di petrolio. E dove aleggiano i miasmi dei gas combusti: 20 miliardi di metri cubi all’anno, un settimo del totale mondiale, responsabili delle piogge acide e dell’effetto serra. «La gente vive con un dollaro al giorno mentre le multinazionali guadagnano miliardi con il nostro petrolio e distruggono l’ambiente», ricorda il leader del Mend, Jomo Gbomo. Se queste clamorose ingiustizie continueranno, la fragile tregua firmata dai miliziani naufragherà definitivamente. E nel Delta torneranno a parlare le armi. •
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Guerriglieri del Mend. Dopo sei mesi di relativa calma, nel Delta del Niger sono tornate a riecheggiare le armi dei miliziani. L’amnistia offerta dal governo non è bastata a pacificare la regione
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attualità
di Giovanni Porzio
I sogni infranti REPORTAGE DAL CUORE FERITO DEL REGIME ERITREO
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foto Giovanni Mereghetti
di Asmara
S Passeggiata serale nel centro di Asmara, lungo quello che un tempo si chiamava Viale Mussolini e oggi Harnet Avenue. La gran parte degli Eritrei oggi sopravvive grazie alle rimesse dei parenti emigrati all’estero
i fa fatica a considerare Asmara una capitale africana. Il clima, sui 2.300 metri dell’altopiano, è asciutto e luminoso. Per le strade, pulite e ordinate, la gente passeggia tranquilla: furti e borseggi sono quasi inesistenti. I giovani e gli anziani che nel tardo pomeriggio affollano le pasticcerie e le verande dei caffè Art Deco sotto i palmizi di via della Liberazione non sembrano i cittadini di uno dei paesi più poveri del mondo, con trent’anni di guerra e più di 100mila morti sulle spalle, con un regime autocratico che imprigiona i dissidenti ed esercita un controllo capillare sull’economia e la società.
Il peso della storia Nell’ex colonia italiana l’indelebile impronta del passato, di cui gli Eritrei vanno fieri, concorre ad accrescere il senso di smarrimento. Si cammina tra ville borghesi del primo Novecento, ministeri e palazzi del Fascio, architetture razionaliste e neoclassiche, teatri e cinema d’epoca che si chiamano Roma e Impero; ristoranti che servono spaghetti alle vongole e cotolette alla milanese; negozi, bar, mercerie che ricordano la provincia italiana degli anni Cinquanta: vendono bottoni, penne stilografiche, liquori da tempo estinti.
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Doveva essere una nazione pacifica e prosperosa, immune dall’avidità e dalla corruzione dei politici. Ma in pochi anni l’Eritrea è diventata uno degli stati più repressivi, bellicosi e poveri al mondo La storia ha un peso preponderante in Eritrea. La si può ripercorrere tra gli scaffali della biblioteca pavoniana, dove fratel Ezio Tonini ha raccolto nei decenni centinaia di volumi e di preziosi documenti; sulla locomotiva a vapore (anno di costruzione 1937) che scende a precipizio fino al mare di Massaua; nei monasteri copti o sulle tombe degli ascari e degli italiani caduti a Dogali. Quella più recente ha il suo incongruo mausoleo nel surreale cimitero dei residuati bellici alle porte della capitale: carri armati, veicoli e mezzi blindati sovietici accatastati alla rinfusa, migliaia di tonnellate di acciaio in attesa di qualche riutilizzo. Un gigantesco 8
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monumento informale alla lotta di liberazione. Nel prato antistante, il vecchio Abraham pascola le pecore: lui, in quella guerra feroce, ci ha lasciato una mano e una gamba. «Il proiettile di un tank» racconta appollaiato sulle grucce. «Nella battaglia di Nacfa. Ma ho avuto fortuna, molti dei miei compagni non sono più tornati». Non c’è famiglia che non abbia un morto o un mutilato in casa.
Speranze deluse È stata lunga, e durissima, la guerra contro l’Etiopia di Menghistu Haile Mariam, il colonnello che aveva spodestato il Negus Hailè Selassiè: i Kalashnikov contro i carri armati, le mitragliatrici
contro i Mig. Negli anni Ottanta ero stato un paio di volte con la guerriglia e avevo conosciuto il Presidente Isaias Afeworki, all’epoca segretario generale aggiunto del Fronte popolare: parlava di democrazia e di emancipazione del suo popolo. Nelle zone liberate c’erano scuole, ospedali scavati nelle montagne, tipografie che sfornavano libri di testo, fabbriche, officine meccaniche. Nelle trincee uomini e donne, cristiani e musulmani combattevano fianco a fianco, con una determinazione che finì per prevalere sulle soverchianti forze nemiche. Nel 1993, quando un referendum sancì l’indipendenza, il Paese era in rovina e privo di risorse. Ma le aspettative erano alte. La resistenza aveva forgiato valori condivisi, una popolazione immune dalle rivalità etniche e religiose, una classe politica esente dalle piaghe africane dell’avidità e della corruzione. Forse proprio per questo è oggi
foto Giovanni Porzio
foto Giovanni Porzio
attualità
A sinistra, operaie eritree al lavoro in una fabbrica di berberè, la piccante miscela di spezie usata per preparare il piatto nazionale eritreo, uno spezzatino di carne chiamato zighinì.
più amaro l’elenco dei problemi e delle speranze deluse. Il Fronte è l’unico partito, non ci sono elezioni, gli oppositori scompaiono nelle carceri, i giovani fuggono all’estero. E l’economia non è mai decollata. Per scongiurare la fame il governo sovvenziona il carburante e i generi di prima necessità: la tessera di razionamento è indispensabile per mettersi in fila e acquistare un sacco di farina, un chilo di pesce o una tanica di benzina. Il servizio militare obbligatorio di 18 mesi può essere esteso indefinitivamente e i coscritti, uomini e donne, sono impiegati con salari risibili nei lavori pubblici e di utilità sociale. «L’Eri-
Oltre la metà della popolazione eritrea vive sotto la soglia dell’indice di poverta. L’isolamento internazionale e l’embargo imposto dall’ONU rischiano di aggravare la situazione
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Un Paese senza pace Nel 1952 le Nazioni Unite stabilirono che l’ex colonia italiana, occupata dagli inglesi nel 1941, diventasse una provincia autonoma federata all’Etiopia. Ma nel ’62 fu arbitrariamente annessa dall’imperatore Hailé Selassié: la guerra di liberazione durerà 32 anni, fino all’indipendenza proclamata nel 1993. Le relazioni tra la piccola Eritrea e la vicina Etiopia, che non ha mai cessato di aspirare a un corridoio commerciale verso i porti di Assab e di Massaua, si sono progressivamente guastate fino a sfociare nel rovinoso conflitto di frontiera del 19982000, conclusosi con un arbitrato internazionale che Addis Abeba non ha mai rispettato. La tensione tra i due Paesi è ancora alta, costringe l’Eritrea a mantenere un dispendioso esercito e impedisce all’economia del Paese di decollare: le uniche risorse sono l’allevamento, i prodotti tessili, l’agricoltura di sussistenza. Il reddito medio pro capite non supera i 300 dollari l’anno. L’isolamento diplomatico dell’Eritrea è culminato nell’embargo decretato il 23 dicembre 2009 dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, che accusa Asmara di sostenere gli integralisti islamici del gruppo somalo Shabab legato ad al-Qaida. 10 africa · numero 3 · 2010
trea» si legge in un rapporto di Human Rights Watch «è uno degli Stati più repressivi al mondo. I prigionieri politici sono migliaia, tutti i media indipendenti sono stati chiusi e il regime usa la minaccia di un’aggressione etiopica per mantenere il Paese in permanente mobilitazione». L’Etiopia non è certo esente da pesanti responsabilità: non ha mai digerito la secessione dell’ex provincia eritrea, che le garantiva l’unico sbocco al mare. Nel 1998 una disputa di frontiera è sfociata in
un sanguinoso conflitto. Nel 2000 la commissione internazionale incaricata di dirimere la controversia ha stabilito il tracciato del confine e imposto la restituzione all’Eritrea della cittadina di Badme. Ma Addis Abeba si rifiuta di evacuare le sue truppe, alimentando la tensione e offrendo ad Asmara il pretesto per rinviare qualsiasi ipotesi di apertura democratica.
La difesa del Presidente «Siamo un Paese assediato» afferma Isaias Afewor-
ki, che rivedo a 25 anni di distanza in una sala del palazzo presidenziale (ex residenza del primo governatore civile della colonia italiana, Ferdinando Martini) e che, a dire il vero, mi pareva più a suo agio nei panni del capo guerrigliero sulle montagne di Nacfa. «Dal 1998 abbiamo assistito a vari tentativi di interferenza esterna allo scopo di indebolire e distruggere questa nazione. Abbiamo il diritto di combattere per difendere la nostra esistenza, la nostra stabilità». Gli Stati Uniti,
foto Bruno Zanzottera foto Giovanni Porzio
foto Giovanni Porzio
Un dignitario religioso durante una cerimonia ad Asmara. Anche il clero della Chiesa cristianocopta è finito nel mirino del regime di Asmara
secondo Afeworki, hanno sposato la causa etiopica e hanno convinto il Consiglio di sicurezza dell’Onu a votare, il 23 dicembre, le sanzioni contro il suo governo, accusato di armare e addestrare i fondamentalisti islamici in Somalia. «Dove sono le prove?» replica il Presidente. «Noi non condividiamo alcuna ideologia basata sulla religione». Ha una risposta a tutto. Non fa una piega nemmeno quando gli chiedo di spiegare l’arresto, nel 2001, dei dissidenti che chiedevano libere ele-
zioni e che non sono mai stati processati: «Erano dei traditori pagati dall’Etiopia». Il suo sguardo s’indurisce se gli ricordo che tra i prigionieri ci sono alcuni ex ministri, i suoi più fidati compagni durante la guerra di liberazione: «Non ha importanza» taglia corto. «Hanno messo a repentaglio la sicurezza nazionale».
Business tra le macerie Che l’Etiopia sia la causa di tutti i mali è però arduo da sostenere. Il pervasivo e asfissiante controllo statale
su tutti i gangli dell’economia e della società scoraggia gli investitori stranieri e ha inceppato il meccanismo degli aiuti internazionali: Ong e agenzie dell’Onu hanno fatto le valigie. E l’embargo, che dovrebbe scattare in giugno, rischia di ridurre ulteriormente le entrate in valuta (soprattutto le rimesse della diaspora) e di compromettere i progetti di sviluppo nei settori del turismo e delle miniere. L’Eritrea ha importanti giacimenti d’oro e di zinco e ha recentemente concluso accordi con oltre 20 società australiane, canadesi, cinesi ed europee. Ora l’emiro del Qatar sta costruendo un resort turistico sull’isola di Dhalak Kebir, nell’incontaminato e quasi disabitato arcipelago di fronte a Massaua. Questo porto sul Mar Rosso,
Una coppia di fidanzati. La brutale repressione del regime di Asmara ha spinto moltissimi giovani a fuggire dal Paese, rischiando il carcere e la morte
un tempo gremito di navi e straripante di attività commerciali, è semivuoto e la città in declino è l’emblema della triste parabola eritrea. Il vecchio centro storico, superbo esempio di sincretismo architettonico ottomano, arabo e italiano, è stato bersagliato dai Mig etiopici ed è in uno stato di pietoso abbandono. L’edificio pericolante dell’ex Banca d’Italia è rifugio dei cani randagi. Il palazzo imperiale, il mercato, gli alberghi sono in rovina. Le saline producono a singhiozzo. E la gente, a dieafrica · numero 3 · 2010
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attualità
Il tradizionale rito di preparazione del caffè. La preziosa miscela proviene dall’Etiopia attraverso il mercato nero
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foto Giovanni Porzio
foto Bruno Zanzottera
ci anni dalla fine del conflitto con l’Etiopia, continua a vivere tra le macerie delle case bombardate. «Per noi la guerra non è mai finita» sospira l’anziano imam di una delle più antiche moschee del continente africano, restaurata a spese dei fedeli. «I giovani se ne vanno all’Asmara, in cerca di lavoro, o cercano di emigrare. A Massaua sono rimasti solo i vecchi, le vedove, i militari». Il governo, che spera di rilanciare il commercio marittimo e il turismo, ha in progetto una zona franca e ha affidato a ditte coreane la realizzazione di nuovi alberghi e alloggi residenziali: ma è un obbrobrio urbanistico ancora incompiuto. Di notte Massaua sprofonda nel buio. La centrale elettrica costruita dai russi sull’altro
In alto le strade semideserte di Massaua, l’ex Perla del Mar Rosso. Sotto: Asmara, un vecchio cammina tra mucchi di lamiere contorte e residuati bellici
lato della baia, l’unica in Eritrea, non basta e le sole luci sono i neon rosa e violetti dei bar dove i marinai vanno in cerca di birre e di ragazze. La canicola estiva non è ancora arrivata, il caldo umido è temperato dalla brezza marina. Dalla discoteca sul tetto dell’hotel Torino, da tempo senza clienti, giunge la voce del compianto Abraham Afeworki, scomparso nel 2006. Canta l’amore e le speranze dei giovani della sua terra. Che forse sono annegate con lui, nelle infide correnti delle isole Dhalak.• africa · numero 3 · 2010
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attualità
testo Claudio Agostoni foto Chirs Kirchhoff
La Coppa del Mondo di calcio approda per la prima volta in terra d’Africa. Un evento epocale che infiamma la passione e l’orgoglio di un intero continente. Ma lo spettacolo non cancella miserie e veleni del pallone
Febbre a 90 www.mediaclubsouthafrica.com 4
Entusiasmo alle stelle in Sudafrica per i Mondiali
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e Black Stars, in campo per il Ghana. Le Volpi del deserto difenderanno i colori dell’Algeria, i Leoni indomabili quelli del Camerun. Gli Elefanti d’Abidjan rappresenteranno la Costa d’Avorio, mentre le Super Aquile ten14 africa · numero 3 · 2010
teranno di tenere alto l’onore della Nigeria. E poi, ovviamente, i padroni di casa sudafricani, i Bafana Bafana (“monelli”). Queste le sei rappresentative africane che parteciperanno ai prossimi mondiali. Lo faranno a spese di storici rivali come gli
Sparvieri del Togo, le Aquile di Cartagine (Tunisia), gli Scoiattoli del Benin, i Falconi del Deserto del Sudan, i Faraoni egiziani, le Aquile del Mali, le Palanças Negras (Antilopi Nere) angolane, la Sily National guineana (dove Sily sta per Elefante). È andata male anche ai Leoni dell’Atlante marocchini e a quelli di Teranga, letteralmente i “leoni dell’ospitalità”, del Senegal.
Football avvelenato A casa restano anche gli inquietanti Chilopolos dello Zambia. Chilopolos sta per “proiettili di rame”, un nome che non può non portare alla mente quan-
Il libro
L’Atlante dei Mondiali, a cura di Federico Pistone e Alberto Ricci. Trentadue viaggi letterari alla scoperta delle nazioni e delle squadre protagoniste di Sudafrica 2010 - Polaris 2010, pp. 256, 16 euro
Il folclore dei tifosi è un marchio di fabbrica del calcio africano. Il gadget più diffuso tra i supporter sudafricani è un copricapo multicolore chiamato Makarapas. Viene ricavato dai caschetti di plastica che si usano nei cantieri, opportunamente decorati con ali o corna, trombe o statuette dei giocatori, campanelli o fotografie, e così via. Il Makarapas è una specie di altare da mettersi in testa. Anche le rumorosissime trombe Vuvuzela, foto a sinistra, saranno protagoniste al Mondiale sudafricano
to è successo recentemente ai giocatori del Togo che dovevano partecipare alla Coppa d’Africa (l’assalto al loro pullman, da parte di un gruppo di guerriglieri del Fronte per la liberazione di Cabinda, ha causato tre morti e nove feriti). E se in questo caso il calcio è stato usato per far accendere i
riflettori dei media su uno dei tanti conflitti aperti in Africa, le qualificazioni per i mondiali hanno quasi rischiato di crearne uno nuovo. I rapporti tra Egitto e Algeria hanno toccato uno dei loro minimi storici proprio a causa delle tensioni sorte nei giorni che hanno preceduto gli incontri che avrebbero stabilito chi, tra le due squadre, sarebbe andata in Sudafrica. Una passione, quella degli Africani per il calcio, inversamente proporzionale ai soldi che ci possono investire. Basti pensare che una sola partita di Champions del Barcellona rende alla Federazione Europea (Uefa) più di tutte le competizioni organizzate in un anno dall’omologa organizzazione africana, la Confédération Africaine de Football (Caf).
Tratta di baby-calciatori Una situazione che spinge i cacciatori di teste dei ricchi club europei ad andare in Africa a fare acquisti. Uno
il ballo dei mondiali Si chiama Diski Dance. È un ballo nato in Sudafrica in vista dei Mondiali. Con una coreografia che riprende movimenti del calcio, è stato lanciato dall’ente del turismo sudafricano e ora ha contagiato i tifosi. Per impararne le mosse non resta che guardare il video: www.southafrica.info/video/ diski-dance2.htm
shopping che ormai si è trasformato in saccheggio di giovani talenti. E così anche il football è colpito da quella sorta di maledizione plurisecolare che si è abbattuta sul continente nero, condannandolo alla vendita all’estero delle proprie materie prime, senza poterle “sfruttare” in loco. Minerali, legname pregiato, diamanti, petrolio… e ora anche calciatori. Un fenomeno che parallelamente registra da una parte l’abbassamento dell’età con cui i giovani talenti neri vengono esportati nel nord
del mondo, dall’altra la nascita di pseudoprocuratori senza scrupoli che operano con l’inganno e il raggiro. Il calcio in Africa non è solo divertimento. È anche, e soprattutto, una prospettiva diversa da cui vedere, o immaginare, il proprio futuro. È seguendo questo miraggio che centinaia di famiglie pagano falsi scopritori di talenti per “esportare” i loro figli in Europa, senza sapere che molti di loro poi si ritroveranno soli e senza ingaggio in una periferia del nord del mondo.• africa · numero 3 · 2010
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attualità
testo Matteo Fagotto foto Bruno Zanzottera/ParalleloZero
La nuova febbre dell’ORO
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L’entrata di una miniera d’oro nell’est del Congo. L’aumento dei prezzi ha stimolato il contrabbando del prezioso minerale. Nonostante le durissime sanzioni imposte dalle Nazioni Unite
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l 2009 è stato l’anno della nuova corsa all’oro. Favorito dalla crisi economica globale, che ha spinto gli investitori a rifugiarsi nei beni materiali durevoli, il corso del metallo prezioso più famoso al mondo ha subito un’impennata del 30%, toccando i 1.200 dollari l’oncia e stracciandos le rendite di tutti gli altri indici azionari. Con le sue vaste e inesplorate riserve, l’Africa non è rimasta immune alla nuova primavera che l’oro sta vivendo. Dall’Australia al Sudafrica, dal Canada al Regno Unito, le compagnie private di mezzo mondo hanno rinnovato gli investimenti nel settore, acquisendo nuove concessioni in Paesi come la Tanzania e il Mali. Rinfocolando però l’antico scontro tra compagnie minerarie e minatori illegali, foraggiato da un settore i cui stipendi e benefici per i lavoratori rimangono ancora troppo bassi.
Miniere inesplorate
Non è la prima volta che di fronte a una crisi economica gli investitori decidono di
puntare sull’oro. Stavolta, però, il ritorno di febbre non ha interessato mercati già maturi, ma ha focalizzato la propria attenzione su Paesi che solo adesso cominciano a sfruttare le proprie ingenti riserve aurifere. Una tra le prime compagnie a muoversi per assicurarsi i diritti sui giacimenti africani inesplorati è stata l’australiana Resolute Mining, che ha annunciato di aver speso qualcosa come 186 milioni di dollari nella ristrutturazione di un impianto per la lavorazione dell’oro in Mali. Secondo Peter Sullivan, uno dei manager della compagnia, presto l’attenzione degli investitori si sposterà anche su altri Paesi come il Burkina Faso e la Costa d’Avorio, le cui risorse aurifere sono state finora scarsamente esplorate. Viste le previsioni degli analisti, che continuano ad avere fiducia nell’alto corso del metallo anche sul medio e lungo periodo, gli investimenti delle compagnie minerarie si sono indirizzati anche verso Paesi rischiosi e politicamente instabili. africa · numero 3 · 2010
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attualità
Il boom del valore dell’oro nel mercato mondiale ha spinto le grandi compagnie minerarie a sfruttare nuove riserve aurifere a sud del Sahara. Ma i minatori illegali minacciano il loro business
In Africa s’inasprisce la corsa al prezioso metallo Mercato nero Il gioco, almeno per il momento, sembra valere la candela. Ma non è solo il pericolo di colpi di Stato e nazionalizzazioni forzate a tenere sulle spine gli investitori. Il fenomeno dell’estrazione illegale dell’oro, alimentato dai bassi compensi ricevuti dai lavoratori del settore, sta crescendo di
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pari passo con i nuovi progetti minerari e rischia di mettere a repentaglio parte degli investimenti. Numerose compagnie hanno denunciato una crescita esponenziale del commercio illegale del prezioso minerale e un allargamento del fenomeno anche al settore dell’esplorazione. In Sudafrica sono chiamati zama-
zama, in Ghana galamsey, ma il modus operandi è simile dappertutto. In parte gente locale, ma in maggioranza provenienti dai Paesi limitrofi, i minatori illegali operano generalmente attorno e ai margini delle miniere date in concessione alle grandi compagnie. In alcuni casi, come in Sudafrica, i minatori sono organizzati per
nazione (Zimbabwe, Swaziland, Mozambico, ecc.), e si contendono a colpi di fucile ed esecuzioni mirate il controllo dei tunnel; in altri casi, come nei depositi alluvionali, entrano nei siti durante la notte, spesso con la complicità delle forze di sicurezza, scomparendo la mattina. Quale che sia il loro metodo, i danni che provocano sono
Allarme ambientale
ingenti, sottraendo fino al 15% dei giacimenti auriferi, che vengono poi immessi nel mercato legale attraverso intermediari legali.
Occupazione straniera Grazie a questo metodo, durante la guerra civile nella R.D. Congo i commercianti di stanza al confine con l’Uganda fecero affari d’oro, letteralmente. Ora tocca agli intermediari sudafricani e ghaneani fare la parte del leone. Ma il conflitto tra compagnie e minaA sinistra cercatori d’oro congolesi. Il metallo prezioso, spinto dalla debolezza del dollaro e dai timori per l’inflazione, vola verso quotazioni da record. La maggior parte delle miniere africane sono poco più di buchi nel terreno. In Mali (foto accanto) ce ne sono migliaia
tori illegali si sta spostando anche su altri mercati, primo fra tutti la Tanzania, diventata il terzo produttore d’oro del continente. La canadese Barrick Gold Corp., operante nella regione settentrionale di Mara, nei pressi del lago Vittoria, denuncia l’entrata di almeno duecento minatori illegali ogni giorno nei propri siti. Grazie alla complicità di parte delle guardie, che in cambio ottengono una percentuale sui guadagni, i minatori scavano all’interno del recinto delle miniere, sottraendo il minerale grezzo e trasportandolo in speciali contenitori nei vicini villaggi, dove l’oro viene estratto grazie all’uso del mercurio. L’accusa è però respinta dalle comunità locali, le quali sostengono di avere il diritto di setacciare l’oro in una
Sulle rive dei fiumi del Mali, uomini e donne passano le giornate in acqua, impegnati in un duro lavoro di setaccio del terreno, identico a quello svolto dagli schiavi secoli fa. Secondo uno studio delle Nazioni Unite, questi buchi artigianali producono un quinto di tutto l’oro del mondo
regione dove i cercatori tradizionali furono spogliati dei loro diritti e cacciati a forza dall’esercito in seguito alla privatizzazione delle concessioni, avvenuta durante gli anni Novanta. Non sono solo le comunità della Tanzania a lamentarsi del trattamento privilegiato riservato alle compagnie straniere rispetto ai cercatori locali. In Ghana, la compagnia americana Newmont è
L’inquinamento provocato dall’estrazione dell’oro è devastante. In genere avviene in miniere alluvionali: si devia parte del corso del fiume per immetterlo nella macchina che lava i sassi contenenti il metallo, si aggiunge del mercurio, che si mescola all’oro e lo si fa depositare. Ma le scorie del processo rientrano direttamente nel fiume. Aprire una miniera, inoltre, presuppone un grande movimento di terra e il deposito di enormi quantità di scarti. Intere piantagioni vengono rase al suolo. Molte miniere vengono poi lasciate in stato di abbandono nel momento in cui non sono più produttive. Allagate dalle piogge, si trasformano in enormi pozze, ricettacoli per le larve di zanzara, con gravi conseguenze sulla diffusione della malaria. Jean-Marc Caimi, www.terranews.it stata accusata di aver rimosso 10mila persone residenti nell’area mineraria datale in concessione nei pressi della capitale Accra. Secondo le denunce delle comunità locali, agli evacuati sarebbero stati promessi posti di lavoro e servizi mai arrivati.
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attualità Ancora oggi l’antica arte degli orafi ashanti vive nei laboratori di Kumasi, in Ghana. Questa parte d’Africa affacciata sul Golfo di Guinea fu chiamata dagli inglesi “Costa d’Oro”
Una corsa inarrestabile Il prezzo dell’oro nel 2010 ha raggiunto livelli record sui mercati e gli analisti sono convinti che proseguirà a salire. L’oro africano attira un numero sempre crescente di investitori stranieri. In prima fila, le multinazionali sudafricane, australiane, inglesi e statunitensi, Nel business, da pochi anni, sono entrati anche i cinesi.
Business illegale Esiste poi l’annoso problema della scarsa retribuzione dei lavoratori impiegati nel settore. Nonostante il boom aurifero abbia creato decine di migliaia di posti di lavoro, l’enorme offerta di lavoro confrontata con la modesta crescita della domanda fa sì che i salari del settore rimangano costantemente bassi. E se in Paesi come il Sudafrica le leggi prevedono uno stiaprile
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pendio minimo per i minatori che si aggira attorno ai 400 euro al mese, in Burkina Faso e Mali i compensi possono scendere a poche decine di dollari. Senza che per altro i governi locali, preoccupati di una possibile fuga degli investimenti stranieri verso altri lidi, si impegnino a sufficienza nei contenziosi che puntualmente emergono tra grandi compagnie e lavoratori.
Sradicare il fenomeno dell’estrazione illegale rischia di rivelarsi più difficile del previsto, anche perché l’arrivo dei minatori fuorilegge favorisce una crescita economica che coinvolge la popolazione che gravita attorno alle miniere. Nel centro sudafricano di Barberton, nel nord-est del Paese, i minatori illegali provenienti da Swaziland, Zimbabwe e Mozambico
Operai del Ghana al lavoro nel deposito lingotti della Ashanti Goldfields Corporation, colosso mondiale dell’oro
sono socialmente una spanna sopra agli altri, grazie agli ingenti proventi che l’attività garantisce (circa 1000 euro al mese, una fortuna per gli standard locali e più del doppio di un normale stipendio da minatore), e che ha ricadute positive su negozi, alberghi e liquorerie dell’intera città.
Sulla pelle dei poveri Ma il rovescio della medaglia dal punto di vista sociale
è estremamente pesante: a Barberton come a Welkom, un altro centro sudafricano dove i minatori illegali sono presenti in massa, si stanno moltiplicando le denunce In Africa l’estrazione del metallo è un business che coinvolge governi locali, società straniere e speculatori d’ogni sorta. Nella foto al centro, un re ashanti, in Ghana, decorato con monili d’oro
per violenze nei confronti dei minori, spesso “venduti” come schiavi sessuali dalle proprie famiglie povere ai minatori. Alcuni di essi vengono condotti all’interno delle miniere, dove rimangono per mesi alla mercè dei lavoratori. Favorendo alla lunga l’emergere di problemi come gravidanze di minori e la diffusione dell’Aids. Per rompere questo cortocircuito di diritti violati, violenze e povertà, i
governi africani sono chiamati ad adottare provvedimenti rapidi ed efficaci. In Tanzania, l’esecutivo sta varando una nuova legge che aumenterà le tasse per le compagnie straniere, riservando allo stato una quota del 15% di ogni concessione mineraria. Si garantiscono così aiuti e incentivi ad artigiani e minatori tradizionali, in modo da tenerli lontani dai recinti delle concessioni straniere, senza comprometterne il livello di vita. L’International Council on Mining and Metals si è però già pronunciato a sfavore del provvedimento, perché potrebbe scoraggiare gli investimenti esteri. L’ennesima riprova che mantenere l’equilibrio tra le esigenze locali e la caccia ai soldi stranieri si rivelerà più difficile del previsto.• africa · numero 3 · 2010
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attualità
Professione testo Matteo Fagotto foto Marco Lachi
SminatricE
In Mozambico la caccia alle mine si tinge di rosa
A diciotto anni dalla fine della guerra civile, le regioni meridionali del Mozambico sono ancora disseminate di ordigni. Per accelerarne la bonifica, le organizzazioni specializzate ingaggiano le donne
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ulla terra secca e riarsa dal sole, in ginocchio, Elina Mutemba passa lentamente il metal detector, attenta a qualsiasi suono emesso dallo strumento. I gesti sono metodici e controllati, il suo viso calmo e concentrato. Non appena il metal detector gracchia,
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Elina si ferma e comincia a scavare con una piccola roncola. Vicino a lei, il supervisore controlla ogni suo movimento. Dopo una decina di minuti di ricerche accurate, Elina tira fuori dal terreno un bullone arrugginito tra il sollievo generale.
«Falsi allarmi come questo ce ne sono molti, soprattutto in un terreno molto mineralizzato come quello del Mozambico», spiega Helen Gray, country manager di Halo Trust, una Ong britannica specializzata nello sminamento di Paesi in guerra. «Ma non per que-
Le sminatrici lavorano in squadre di 8 persone, in cui sono presenti 2 soccorritori sanitari in caso di incidenti. La bonifica di un campo minato costa circa 2 dollari per metro quadro. Spesso identificano i campi minati facendo affidamento sulla memoria di contadini, pastori o ex soldati, e non è facile
sto possiamo abbassare la guardia».
Mestiere da uomini? A quasi vent’anni dalla fine della guerra civile, la parte meridionale del Mozambico, specie attorno al confine con lo Zimbabwe, è ancora piena di ordigni che provocano decine di vittime ogni anno. Le autorità hanno individuato 540 campi minati, per un’area totale che supera i 12 chilometri quadrati. Elina, impegnata da 2 anni nell’opera di bonifica, è orgogliosa di aiutare il suo Paese a liberarsi di una delle più scomode eredità della guerra. «Qui lo sminatore è considerato un mestiere da uomini, e la mia famiglia è preoccupata ogni volta che
vado a lavorare», spiega durante una pausa. «Ma a me piace, il mestiere dà molte soddisfazioni anche se è pericoloso». Le donne mozambicane ingaggiate come sminatrici sono già una quarantina. Ognuna di loro è protetta da un’apposita tuta, un giubbotto antiproiettile, anfibi e visiera, e lavora a 25 metri dalle altre per minimizzare i rischi in caso di incidente. E anche se i gesti e il metodo di lavoro diventano presto una routine, il pericolo è sempre dietro l’angolo.
Tappeti mortali Un campo minato può contenere fino a centinaia di mine. A causa dello stress che il lavoro comporta e dell’alta concentrazione
necessaria, ogni 50 minuti di lavoro ne vengono concessi 10 di pausa. «In alcuni casi i campi minati sono delimitati dalle zone coltivate circostanti, ma a volte le cose si complicano molto», continua la Gray. «Specie quando gli abitanti della zona forniscono informazioni contrastanti, o quando un’alluvione o una frana smuovono gli ordigni». Mine antiuomo o anticarro, a frammentazione, di produzione russa, cinese, ungherese, portoghese o italiana: il Mozambico del sud è ancora un campionario di ordigni dimenticati dalla comunità internazionale. Ma nonostante il problema persista, i donatori, distratti da guerre e crisi più recenti, latitano. Il governo ha previsto che nel 2014 il Paese sarà completamente bonificato, ma con l’attuale carenza di fondi l’obiettivo potrebbe non essere raggiunto. Nonostante i problemi, Elina rimane fiduciosa e convinta che il mondo non lascerà il Mozambico al suo destino. «Abbiamo un lavoro da portare a termine, ne va della vita dei nostri figli», spiega. «Non possiamo fermarci ora».•
al bando le bombe a grappolo
Il prossimo primo agosto entrerà in vigore il Trattato per la messa al bando delle bombe a grappolo (cluster bombs). Il Trattato, sottoscritto nel dicembre 2008 da 104 Paesi, per diventare operativo aveva bisogno di essere ratificato da almeno trenta Paesi. Cifra che è stata raggiunta il 16 febbraio, grazie a Burkina Faso e Moldova. Il contributo africano al bando delle cluster è importante: oltre al Burkina Faso hanno infatti aderito Sierra Leone, Burundi, Zambia e Niger. A breve dovrebbero unirsi anche l’Angola e il Mozambico. Le bombe a grappolo, sparate da cannoni o lanciate da aerei, rilasciano in aria centinaia di ordigni micidiali che si disperdono a largo raggio sul territorio. Teoricamente dovrebbero scoppiare al contatto col suolo, ma spesso rimangono inesplose per anni e sono pericolosissime per la popolazione civile. Si calcola che il numero di ordigni inesplosi si avvicini ai 132 milioni. E. Casale africa · numero 3 · 2010
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attualità
testo Matteo Fagotto foto Marco Lachi
Il Mozambico
Sfrattati i contadini per dare spazio
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Un agricoltore al lavoro nel sud del Mozambico. Presto potrebbe essere costretto dalle autorità ad abbandonare i campi per lasciare spazio ai produttori stranieri di africa · numero 3 · 2010 canna da zucchero
vende la terra
ai ricchi investitori stranieri
Spinti dalla crescente necessità di cibo e biocarburanti, i Paesi emergenti dell’Asia e del Medio Oriente corrono ad accaparrarsi le fertili campagne mozambicane, svendute dal governo locale. Le conseguenze? Devastanti
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avorare la terra per me è come giocare a calcio. È un talento, una passione che hai nel sangue da quando sei piccolo. Per questo ho deciso di rimanere qui a combattere questa battaglia». In piedi, in mezzo allo spiazzo erboso che divide il centro abitato di Manhiça dai campi coltivati, João Mutemba abbraccia con lo sguardo la pianura sottostante, dove le poche fattorie rimaste sono circondate dalle grandi piantagioni di canna da zucchero. «Molti dei miei compaesani si sono arresi da tempo. La maggior parte sono andati a cercare fortuna in Sudafrica, dimenticando che, per la nostra cultura, siamo quello che coltiviamo», continua, mentre uno sguardo di malinconia gli colora il viso solcato dalle rughe.
«
Fame di terre Quarantasette anni, più di metà dei quali passati tra i campi e la scrivania del locale sindacato agricolo, da alcuni mesi Mutemba sta cercando di organizzare i circa 3mila abitanti di questa comunità mozambicana, situata a un’ottantina di chilometri dalla capitale Maputo, per opporsi alle crescenti concessioni di terre coltivabili garantite dal governo mozambicano ai grandi investitori stranieri. Dalla Cina alle Maurizio, dalla Corea del Sud alla Libia, la fame di terra dei Paesi ricchi ha infatti spinto produttori e speculatori alimentari ad accaparrarsi buona parte delle fertili campagne mozambicane per esportare soprattutto riso ibrido e canna da zucchero. Secondo le cifre fornite dall’esperto della Banca Mondiale Klaus Deininger, in totaafrica · numero 3 · 2010
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attualità
le il Mozambico avrebbe dato in concessione più di 1.300.000 ettari in meno di due anni. A Manhiça, terra di canna da zucchero, le prime avvisaglie di un fenomeno molto preoccupante si stanno già facendo sentire. «Riceviamo forti pressioni da parte di politici locali che cercano di liberare le terre per far spazio agli investitori», spiega Mutemba. «Ci offrono di riscattare le piantagioni per quattro soldi, in caso di rifiuto riceviamo pesanti intimidazioni». Margarida Ndimande lavora nella sua piccola fattoria da 22 anni, dove coltiva miglio, mais e banane assieme a una decina di altre donne. «Qualche mese fa, il capo 26 africa · numero 3 · 2010
ture interamente distrutte. E non abbiamo i soldi per fare ricorso in tribunale».
L’invasione straniera
del distretto venne a visitare la nostra terra con alcuni bianchi. Pochi giorni dopo cominciarono le minacce», racconta. «Ci diceva che se non avessimo cominciato a produrre canna avrebbe sparso la voce che la nostra cooperativa sosteneva l’opposizione e non avremmo più ricevuto alcun aiuto da lui». Con un marito ex mi-
natore inadatto a lavorare e più di dieci figli da mantenere, la 52enne Margarida non ha altre entrate se non una magra pensione e i prodotti del suo campo. «Non potevo dire di sì perché avrei guadagnato troppo poco, ma opporsi è stato inutile», continua. «Un giorno abbiamo trovato metà della nostra terra occupata, le col-
La legge agraria del 1997 riconosce i diritti di usufrutto dei contadini, ma distorcere il sistema è relativamente semplice, visto che la terra in Mozambico è interamente di proprietà statale e viene data in concessione da governo e autorità locali. Nonostante il recente boom economico, il governo mozambicano ha tremendamente bisogno dei soldi portati dagli imprenditori stranieri. Maputo ha già accordato concessioni a produttori agricoli provenienti da Cina, Corea del Sud, Arabia Saudita, Emi-
L’Africa in svendita
Il Mozambico non è l’unica nazione africana ad aver messo in vendita la propria terra. A sud del Sahara molti governi, in deficit di liquidità, hanno accettato di dare in concessione le proprie piantagioni alle potenze economiche dell’Asia (Cina, Corea e India) e del Medio Oriente (Arabia, Saudita, Giordania, Qatar, Emirati e Kuwait), sempre più assetate di risorse naturali. rati Arabi e Kuwait. «In teoria questi investitori si impegnano a impiegare gente locale e a migliorare le condizioni delle comunità in cui operano», spiega Diamantino Nhampossa, leader dell’Unione nazionale dei piccoli agricoltori.
«Ma ciò accade raramente: l’approvazione dei progetti avviene in maniera poco chiara, spesso è impossibile anche solo ottenere dal governo una copia dei contratti». Secondo il governo di Maputo, nel Paese c’è abbastanza terra per soddisfare le esigenze di consumo interno e la produzione per l’estero. «Le iniziative straniere sono necessarie per migliorare lo stato dei nostri campi», si difende Victorino Xavier, direttore del Dipartimento economico presso il ministero dell’Agricoltura. «Quando il 75% della forza lavoro produce solamente un quarto del Pil nazionale, c’è qualcosa che non va». Ma a Manhiça sono in molti a temere che i prodotti delle grandi monocolture che verranno avviate nei prossimi anni prenderanno la via dell’estero per garantire la sicurezza alimentare dei Paesi ricchi, andando a discapito delle coltivazioni locali.
Nuovi schiavi Impossibilitati a vivere solamente con gli introiti dei loro piccoli appezzamenti, molti agricoltori hanno ripiegato trovando lavoro come braccianti nelle piantagioni di canna. Avvicinarli è estremamente difficile. Uno di loro, Bernardino D., accetta di essere intervistato solo in cambio dell’anonimato. «Il padrone non vuole che parliamo coi giornalisti», spiega. In mano ha un machete, la sua maglietta nera è intrisa di sudore dopo una mattinata passata a tagliare erbacce. Come tutti i suoi colleghi, Bernardino riceve una paga di 50 meticais al giorno (poco più di un euro) per sei ore di lavoro, dal lunedì al sabato. «È molto poco, ma almeno mi permette di guadagnare qualcosa», si giustifica. «Il lavoro è duro, e il padrone ci raziona perfino l’acqua per riservarla alle piantagioni», rivela, prima di interrompere bruscamente la conversazione allontanandosi con passo
João Mutemba, leader mozambicano del sindacato agricolo, si batte contro la prepotenza delle autorità che sgomberano i contadini dalle terre con violenze e minacce
strascicato verso il camioncino che lo riporterà a casa. A pochi metri di distanza, Mutemba osserva la scena in silenzio, scuotendo il capo. Grazie a una sottoscrizione avviata tra gli abitanti del Paese, da tempo sta tentando di ottenere i fondi per assicurare ai contadini di Manhiça una concessione ufficiale di 200 ettari che possa sfamare altrettante famiglie. «Ho dovuto badare ai miei fratelli e sorelle sin da quando avevo otto anni, le sfide non mi spaventano», conclude incamminandosi ad ampie falcate verso il suo ufficio. «Nessun investitore verrà qui per sfamarci. Dobbiamo capirlo prima che sia troppo tardi».• africa · numero 3 · 2010
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società
di Matteo Fagotto
Sudafrica, in fila per l’esame di castità Spopola tra gli Zulu il tradizionale controllo della verginità Migliaia di ragazze zulu si sottopongono periodicamente al test rituale che prova l’integrità fisica. Una cerimonia antica e controversa riportata in auge da una vecchia sciamana che rilascia certificati di verginità
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no spiazzo erboso circondato da splendide colline è il ritrovo. Siamo a pochi chilometri da Pietermaritzburg, in Sudafrica, al centro del KwaZulu Natal, cuore delle tradizioni del fiero e orgoglioso popolo degli Zulu. Una trentina di ragazze seminude, la cui età varia dai 10 ai 27 anni, si sono date appuntamento qui per una cerimonia molto importante: il test della verginità, officiato dalla sangoma (guaritrice tradizionale, foto a destra) Nomagugu Ngobese.
In fila per l’onore «Nessuno ci porterà via la nostra libertà e cultura», grida decisa la donna, mentre assieme alle altre ragazze si appresta a salire sulla collina dove avverrà il rituale. Al centro di una controversia internazionale, il test della verginità è un’antica istituzione zulu, riportata in auge da Nomagugu negli ultimi dieci anni. Di mezza età, fisico robusto e capelli lunghi, la sangoma sottopone ai test tutte le ragazze che desiderino parteciparvi e fino al momento del matrimonio.
Osteggiato da alcune organizzazioni internazionali per i diritti umani e da parte del governo perché lesivo della privacy e della minore età delle ragazze, il test è una vera istituzione in Zululand. «Ho cominciato nel 1996, e da allora il numero delle partecipanti è cresciuto costantemente», conferma Nomagugu. «Ormai ricevo richieste per organizzare cerimonie anche in altre regioni del Paese». Arrivati sulla collina, la sangoma fa cenno alle ragazze di proseguire, bloccando-
Che ne pensate?
mi. Osservare il rituale è vietato ai non Zulu, tanto più se maschi. A distanza è comunque possibile intuire cosa accada. La sangoma fa sdraiare le vergini su una stuoia, e con un dito controlla che, all’interno della vagina, l’imene sia ancora intatto. Il tutto dura non più di quindici secondi. Al termine, le ragazze vengono portate in uno spiazzo, dove viene tenuto un sermone sulle virtù della verginità e dell’astinenza prematrimoniale. Nel primo pomeriggio, le vergini sono libere di tornare a casa. In mano hanno un prezioso cartoncino verde: il certificato di verginità. Per Amanda Ngidi, 14 anni, quello di oggi era il primo test della sua vita. «Ero impaurita», ammette. «Ma tornerò. Le mie amiche, le compagne di classe e mia madre mi hanno tutte incoraggiato a venire qui. So che sto facendo la cosa giusta». Secondo Nomagugu, il test favorisce l’astinenza prematrimoniale, contribuendo ad aumentare l’autostima delle donne, a ridurre le gravidanze indesiderate e a controllare il tasso di Hiv tra i giovani, tre dei maggiori problemi sociali nel Sudafrica di oggi.
«Le femministe ci accusano di sottoporre al test delle ragazze minorenni, ma è proprio questo atteggiamento che incoraggia i criminali», si infervora Nomagugu. La sangoma sostiene che il test della verginità contribuisce a ridurre gli stupri domestici, molto diffusi, monitorando in continuazione le ragazze. La 27enne Thembisile ha deciso di sottoporsi ai test fin da quando era adolescente. Il suo ragazzo, che all’inizio non accettava la sua astinenza, ha dovuto piegarsi al suo volere. «Voglio essere una moglie e una madre responsabile. Sono orgogliosa di ciò che faccio».
Un mondo a parte Secondo Nomagugu, nella sola Pietermaritzburg ben 3mila ragazze partecipano al test. A breve, nei dintorni della città (che conta mezzo milione di abitanti) si terrà un Festival dell’Astinenza a cui parteciperanno migliaia di ragazze da tutto il Paese. Secondo i suoi detrattori il test della verginità non è veritiero né affidabile, visto che l’imene si può rompere per svariati motivi (attività sportive, per esempio) e non necessariamente per un rapporto sessuale. In più,
Il test della verginità delle ragazze zulu viene criticato in Sudafrica dai movimenti femministi e dalle parlamentari progressiste perché calpesterebbe la dignità delle donne. Qual è il vostro parere? È giusto che il governo vieti questo controverso rituale? Oppure dovrebbe rispettare le tradizioni del popolo zulu? Il dibattito è aperto, fateci pervenire le vostre opinioni scrivendoci: Africa, viale Merisio 17, 24047 Treviglio (Bg); africa@ padribianchi.it verrebbe condotto senza guanti, con il grave rischio di infezioni per le giovani. Pressato dalle critiche, negli anni scorsi il governo ha messo fuorilegge la pratica, ma senza grandi risultati. Insensibile alle minacce di arresto e cause in tribunale, Nomagugu Ngobese si fa forte del sostegno della propria gente per continuare. Al termine della cerimonia alcune ragazze si trattengono per salutare la sangoma affettuosamente, come fosse una seconda madre. Nomagugu dà appuntamento a tutte per il prossimo controllo. Poi, riferendosi al cronista straniero, indurisce il tono della voce. «Voi occidentali non potete venire qui a dettare le vostre regole», conclude. «Questo è il nostro mondo, e voi non vi appartenete». • africa · numero 3 · 2010
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società
testo e foto di Edoardo Agresti
IL REGNO
30 africa · numero 3 · 2010
DEL TÈ Visita guidata alle piantagioni del Malawi A cent’anni dalla sua introduzione in Africa, la pianta del tè è diventata una delle colture tropicali più diffuse e redditizie. I produttori hanno modernizzato le loro aziende ma la raccolta resta un rito collettivo dal sapore antico
L
e giornate iniziano presto sull’altipianno di Mulanje. Già alle cinque del mattino le piantagioni si riempiono di braccianti. Arrivano
dai poveri villaggi bantu che confinano col Mozambico. Camminano anche venti chilometri per salire su queste colline umide e avvolte dalla
nebbia. Si radunano in piccoli gruppi, ai bordi dei sentieri, con la speranza di essere assoldati dai responsabili delle aziende agricole. I più fortunati passeranno il giorno a raccogliere montagne di foglie di tè. Un lavoro sfiancante, per il quale guadagneranno 100 kwacha, circa 40 centesimi di euro, abbastanza per mettere assieme il pranzo con la cena.
Un cuore verde
L’altopiano di Mulanje, nel sud-est del Malawi, è il regno del tè africano. Qui fecero la loro comparsa, nel lontano 1908, le prime piantagioni del continente. Furono i coloni britannici a introdurre nel territorio la Camellia Sinensis, una pianta sempreverde dalle cui foglie si ricava la popolare bevanda. A distanza di cent’anni, quelle colafrica · numero 3 · 2010
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società Sei del mattino sull’altopiano di Mulanje, nel sud-est del Malawi. Il suono di una campana ricavata da un vecchio cerchione dà inizio alla raccolta del tè
Il Malawi è stato il primo Paese africano ad introdurre, esattamente un secolo fa, la pianta del tè
La piante del tè, vecchie anche ottanta anni, vengono potate periodicamente per facilitare la raccolta. In genere non superano il metro di altezza
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I braccianti vengono pagati a giornata, circa 40 centesimi di euro, indipendentemente dalla quantità di foglie che raccolgono. In India invece il guadagno dei manovali è proporzionale al peso del tè prodotto
Il 95% della produzione viene esportata in tutto il mondo. Alla gente del Malawi resta il tè peggiore, quello che non ha passato il controllo di qualità
ture si estendono a perdita d’occhio sulle colline verdeggianti. Sembrano panettoni di velluto brillante punteggiati da macchie più scure. Qua e là infatti sono stati lasciati piccoli boschi di cedri e di acacie, indispensabili per mantenere il microclima ideale per il tè. «Di notte la nebbia si condensa sulle cime degli alberi per poi scivolare lentamente nel terreno», spiega un bracciante. «Quell’acqua sarà la linfa vitale delle piantagioni durante la stagione secca, quando le piogge cesseranno e le savane nel bassopiano verranno bruciate dal sole». Per il momento non c’è da preoccuparsi. La sopravvivenza delle piantagioni è assicurata da due fiumi che solcano la regione: il Luchenza e il Ruo. Il primo ha le sorgenti al nord delle Shire Highlands, il secondo nasce dai monti Mulanje per poi confluire nel grande Zambesi. Dai capricci delle loro acque dipenderà la bontà del raccolto.
Il tempo della raccolta L’azienda che visitiamo - la Satemwa Tea Estate - produce uno dei migliori tè del Malawi. I suoi proprietari fanno affari d’oro in tutto il mondo. Di recente sono persino riusciti a selezionare una varietà esclusiva per il mercato altamente selettivo del Giappone, dove la sacralità del rito del tè ha tradizioni che si perdono nella memoria del tempo. Fondata da McLean Kay nel 1921, un pioniere scozzese innamorato dell’Africa, l’azienda mantiene tuttora gli stessi ritmi e le africa · numero 3 · 2010
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società
La raccolta avviene solitamente dopo tre anni dalla semina. Una pianta vive in media 40 anni, ma alcune possono durare fino ai 100 anni
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Il tè nero, più usato in Occidente, viene prima essiccato all’aria e poi fermentato e torrefatto; il tè verde subisce un rapido riscaldamento che impedisce l’imbrunimento delle foglie
Le origini
Un tempo tutte le fasi della lavorazione avvenivano manualmente. Oggi le aziende del Malawi dispongono di macchine (di produzione indiana) per l’essiccazione e lavorazione delle foglie di tè
La bevanda del tè è nota in Oriente fin dall’antichità. I portoghesi la importarono dal Giappone in Europa nel XVI secolo. Qui divenne popolare dapprima in Francia e Olanda, poi in Gran Bretagna. La pianta del tè resiste a forti oscillazioni di temperatura. Ma necessita di acqua abbondante: il suo clima ideale è quello caldo-umido dei tropici.
stesse modalità di raccolta dei suoi albori. Il lavoro nei campi inizia, come sempre, alle 6 in punto. Al suono di una campana artigianale (realizzata da un vecchio cerchione di camion), centinaia di donne e uomini si dispongono in un ordine ben definito e, sotto lo sguardo attento del controllore, cominciano a serpeggiare con agilità lungo le file ordinate delle colture. Dalle piante staccano solo le foglie più piccole e morbide: le strappano con un movimento secco e preciso della mano, scegliendo con accuratezza i rami più floridi. In breve riempiono i sacchi che portano sulle loro spalle. E dopo averli caricati sopra un carro, tornano nei campi ripetendo all’infinito i gesti antichi della raccolta. africa · numero 3 · 2010
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società
I controllori della qualità, in camice bianco, hanno l’incarico di esaminare colore, profumo e gusto del prodotto. La raccolta ha luogo tre volte l’anno: in primavera, all’inizio dell’estate e infine verso la metà dell’autunno
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La qualità si sente A metà giornata i cumuli di foglie, stipati in grandi gerle, vengono caricati su un trattore per essere portati nella fabbrica. Qui vengono pesati prima dell’inizio della lavorazione. Per prima cosa, le foglie vengono disposte in apposite vasche, su tralicci a strati sovrapposti, per esse-
re sottoposte ad un processo di aerazione naturale ad una temperatura controllata. In questo modo si asciuga l’umidità del raccolto, mantenendone intatte le preziose qualità organiche. In un secondo momento le foglie vengono gettate su piccoli nastri trasportatori che conducono alla fase della frantumazione. Il pro-
cesso, poi, a seconda della qualità del prodotto finale, segue percorsi diversi caratterizzati da fasi di fermentazione, torrefazione, setacciatura ed essiccazione a temperature alternate. Infine alcune varietà vengono ridotte in polvere mentre altre mantengono l’aspetto di minuscole foglie contorte. Adesso il tè è pronto per essere impacchettato e spedito a destinazione. Prima però deve superare il controllo qualità effettuato da una squadra di tea testers in camice bianco. Sono loro - giudici esperti e severi - che avranno la responsabilità di certificare la bontà del tè e dare il via alle spedizioni in tutti i mercati del mondo. •
società
di Enrico Casale
La rivincita deL caffè
foto Marco Trovato
dopo la crisi, boom di miscele africane
L’
Africa ha trovato un nuovo oro. Non è giallo, ma rosso come le sue bacche e verde come i chicchi appena raccolti. È il caffè, un mercato che sta conoscendo una grande ripresa (è divenuta la seconda materia prima commercializzata al mondo dopo il petrolio) e una crescita del prezzo che sembra non arrestarsi (è stata superata la soglia-record dei 126 centesimi di euro per una libbra). La tendenza al rialzo dei volumi e dei prezzi potrebbe diventare una nuova opportunità per il continente. Soprattutto per Costa d’Avorio, Etiopia e Uganda, i maggiori produttori africani. Ma non è tutto oro ciò che luccica. La produzione di caffè infatti richiede investimenti
Nel 2009 è diventato il primo prodotto agricolo scambiato nel mondo. La crescente domanda del mercato dà nuovo valore alle piantagioni africane con buone prospettive per i produttori per acquistare e mettere a dimora le piantine che però non danno i frutti immediatamente, ma solo dopo quattro anni. «Nemmeno il 6% del prezzo finale arriva nelle tasche dei produttori», precisa inoltre Ronald Buul,
un esportatore ugandese. «In Africa produciamo la materia prima, ma la torrefazione e l’esportazione viene effettuata nel nord del mondo». Anche per questo motivo, nell’agosto 2009 è nata in Uganda la Good African Coffee, la prima azienda africana che si occupa di tutta la filiera del caffè: dalla coltivazione (ha accordi con 14mila piccoli produttori) alla torrefazione, all’imballaggio. «Un primo, storico, passo nel processo di liberazione dalla dipendenza dal sistema produttivo internazionale», ha assicurato il Presidente ugandese Yoweri Museveni. Gli esportatori africani ora puntano a difendere e valorizzare i loro prodotti di
qualità. L’Etiopia ha vinto una dura battaglia contro la multinazionale statunitense Starbucks, che voleva appropriarsi di tre storici marchi di caffè etiopici (Sidamo, Harar e Yigacheffe). Il governo di Washington ha riconosciuto ad Addis Abeba il diritto incassare direttamente le royalties di produzione di queste qualità autoctone dell’altopiano abissino. Più di recente l’Associazione dei produttori dell’Africa Orientale ha concluso una serie di accordi con importatori internazionali nei quali vengono fissati prezzi per ogni qualità di caffè. Sono prezzi indicativi, ma più equi e, soprattutto, negoziati. Un’altra bella conquista per i contadini africani.• africa · numero 3 · 2010
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copertina
La partita dell’Africa di Marco Trovato e Claudio Agostoni
Immagini della nostra nuova mostra sul pallone Un tempo era il calcio dei poveri, ingenuo e stravagante, oggi è una miniera d’oro che sforna campioni e favole sportive. Ma anche delusioni e spietati fallimenti. Alla vigilia dei Mondiali sudafricani, i primi ospitati in terra d’Africa, sono scesi in campo venti fotografi. Per svelare ambizioni e illusioni di un continente che si gioca il futuro.
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• Luanda, Angola, 2009. UN PALLONE A NOLEGGIO Marco Trovato L’Angola naviga su un mare di petrolio e di diamanti, ma il 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Luanda, la capitale, è la vetrina impietosa di queste contraddizioni. Tuguri di lamiera e grandi ville con piscina, pulmini sventrati e suv esclusivi, bancarelle fetide e boutique di lusso. Nella sterminata baraccopoli di Sambizanga, i ragazzi giocano sulla strada tra rivoli di liquami maleodoranti. A frotte rincorrono per ore un pallone preso a noleggio da un commerciante cinese.
• Maputo, Mozambico, 2000. SOGNI IMPOSSIBILI? Gin Angri Due bottiglie di birra segnano la porta in questa sfida tra bimbi del povero Bairro dos Pescadores. Dopo molti anni di crisi calcistica, nel 2010 il Mozambico è riuscito a qualificarsi per la Coppa d’Africa. Protagonista indiscusso di questa rinascita è stato il ct olandese Mart Nooji. «Se non hai voglia di risolvere i problemi, nel calcio come nella vita, resta pure in Europa a guardar la pioggia che scende», spiega l’allenatore. «Qui in Africa siamo tutti Mandela, abbiamo tutti un sogno da realizzare. In Europa i sogni sono finiti da un pezzo…»
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copertina • Algeri, Algeria, 2010. PRIMAVERA AD ALGERI Bruno Zanzottera All’inizio della primavera le piazze di Algeri si riempiono di giovani che improvvisano partitelle di calcio. Un modo per scrollarsi di dosso i pensieri angoscianti sulla crisi economica e sul terrorismo che ha insanguinato molte famiglie. L’Algeria si è aggiudicata la partecipazione ai Mondiali sudafricani, a danno dell’Egitto nella partita-spareggio più incandescente della storia del calcio
africano.
• Ngamo, Zimbabwe, 2007. ALLENAMENTI NEL PARCO Alessandro Rocca Lo Zimbabwe, ex granaio dell’Africa meridionale, sta tentando faticosamente di uscire dalla grave crisi economica e sociale in cui è sprofondato nell’ultimo decennio. In passato era una meta turistica importante, oggi i suoi parchi naturali sono semivuoti. All’interno del Hwange National Park i ranger locali trovano il tempo per allenarsi con la loro squadra.
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• Johannesburg, Sudafrica, 2007. PALLEGGIANDO SI PUò GUARDARE IL CIELO Riccardo Venturi Palleggi a Soweto. In Sudafrica per trent’anni il regime segregazionista impose un campionato di calcio per soli bianchi, costringendo i giovani della maggioranza nera a giocare nei campi polverosi delle township. Il primo torneo misto, giocato nel 1978, fu un baluardo di luce nell’era buia dell’apartheid. Ai quei tempi sarebbe stato impossibile profetizzare, o anche solo sognare, un Mondiale di calcio in Sudafrica.
• Kampala, Uganda, 2002. SCUOLE DI CALCIO Vince Paolo Gerace Nello spogliatoio prima di una partita amichevole. Alcuni campioni africani hanno aperto delle scuole calcio nei loro Paesi d’origine col duplice obiettivo di far crescere nuovi talenti e aiutare i ragazzi a fuggire dalla miseria. Tra loro ci sono anche la stella ghanese Stephen Appiah, centrocampista del Bologna, e Patrick Vieira, giocatore della nazionale francese nato in Senegal.
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copertina • El Jem, Tunisia, 1999. SPAZIO AI GIOVANI Manfredo Pinzauti Partitella tra amici in un antico anfiteatro romano. Gli impianti per il calcio non sono sufficienti a contenere la moltitudine di giovani appassionati. Il 70 per cento della popolazione africana ha meno di 17 anni. Nei campi polverosi e pieni di buche si forgiano muscoli infaticabili che fanno di questo continente un vivaio calcistico esuberante e appetitoso.
• Kigoma, Tanzania, 2009. LO SPOGLIATOIO Marco Garofalo Un albero si trasforma magicamente in uno spogliatoio e in una tribuna. Anche la Tanzania pare stregata dal pallone. In senso letterale. La Federazione calcistica è intervenuta per cercare di porre un freno al dilagare di riti propiziatori e maledizioni sui campi di gioco. Persino le due principali società della serie A, Simba e Yanga, sono state multate per aver fatto ricorso durante le gare a maghi, amuleti e oscuri feticci.
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• Takoradi, Ghana, 2008. GIOVANI TALENTI Renato Modesti Il Ghana è uno dei più importanti vivai dell’Africa, i suoi giovani talenti sono saccheggiati dai procuratori delle società europee. Nella serie A italiana oggi giocano una ventina di calciatori africani, pari a circa il 10% degli stranieri tesserati. Altrettanti militano nel campionato Primavera. Ma la gran parte fallisce il grande salto nel calcio professionistico ed è costretta in poco tempo a tornare nei Paesi d’origine.
• Osire Camp, Namibia, 2007. GOMITOLI DA CALCIARE Brendan Bannon Il pallone in Africa è spesso fatto di stracci e pezzi di plastica legati insieme. Quando va di lusso si gioca con quelli che Nike e Adidas chiamano con eccessiva enfasi “replay”. Trattasi di copie disgraziate dei modelli ufficiali usati nella Champions. Costano un quarto di quelli ufficiali, in compenso la loro durata è praticamente nulla. Nei porti africani ne sbarcano a migliaia, sgonfi e cellophanati. Appena toccano terra perdono colori ed esagoni. africa · numero 3 · 2010
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copertina • Ouagadougou, Burkina Faso, 2006. SOGNANDO BECKHAM Rocco Rorandelli Biba, 16 anni, pulisce il cortile della famiglia in cui lavora come domestica. A tenerla d’occhio è la figlia del suo datore di lavoro, una giovane appassionata di calcio che attende ogni sera di allenarsi coi suoi coetanei e spera forse di diventare una calciatrice professionista. In Europa giocano oltre 5mila atleti africani sparsi in ben 28 campionati, dalla Francia all’Armenia, dall’Italia alla Moldova. Il 70% di questi calciatori guadagna meno di 1.500 euro al mese.
• Monrovia, Liberia, 2008. SFIDE IN STAMPELLA Raffaele Masto La guerra civile in Liberia (patria di George Weah, primo pallone d’oro africano) ha lasciato in eredità migliaia di giovani mutilati. Un dramma condiviso con altri paesi dilaniati per molti anni da sanguinosi conflitti: Sierra Leone, Mozambico, Uganda, Angola. Ogni due anni centinaia di atleti con una sola gamba si sfidano - aiutati dalle stampelle - nell’ambito dell’All-African Amputee Football Championship, una competizione continentale per calciatori amputati sponsorizzata dalla Fifa.
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• Massawa, Eritrea, 2010. VOGLIA DI LIBERTà Bruno Zanzottera Il calcio in Eritrea profuma di libertà. Nel dicembre del 2009 dodici giocatori della nazionale impegnati in un torneo in Kenya hanno fatto perdere le loro tracce per fuggire dal regime repressivo di Asmara. Già in passato, per ben due volte, gli atleti della formazione avevano approfittato di una partita in trasferta all’estero, per scappare e chiedere asilo politico.
La mostra Le immagini pubblicate in queste pagine sono tratte dalla mostra fotografica L’Africa nel pallone,
promossa dalla nostra rivista in collaborazione con il Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina. Un collage di 36 scatti d’autore raccolti da venti reporter in stadi affollati o campetti sperduti in Africa. La mostra può essere noleggiata da associazioni, scuole, biblioteche, parrocchie e centri culturali. Per prenotazioni e informazioni rivolgersi alla redazione: tel. 0363 44726, africa@padribianchi.it. Anteprima su www.missionaridafrica.org
•Mozambico, 2010. IL DERBY DELLE MAGLIETTE Andrea Frazzetta A sinistra Abdul, 10 anni, indossa una t-shirt dell’interista Walter Samuel: la mattina va a scuola, il pomeriggio vende biscotti sulla spiaggia di Maputo; da grande vorrebbe fare il meccanico di moto. A destra, Josè Abilio, 5 anni, con la maglietta di Ronaldinho: frequenta la scuola materna, da grande vorrebbe costruire case. Le immagini sono tratte dalla campagna di Terre des hommes per la prevenzione del traffico di minori.
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società
testo e foto Daniele Tamagni
I maghi delle réclame
Omaggio alla fantasia dei pubblicitari congolesi
C
hi si aggira per i quartieri popolari di Brazzaville rimane sorpreso dalla quantità e varietà di muri dipinti con colori brillanti che reclamizzano i prodotti dei negozi. In questa vibrante metropoli qualunque superficie ben in vista viene sfruttata per promuovere ogni genere di articolo: dalle saponette locali ai cellulari cinesi, senza dimenticare il latte in polvere e le bevande delle multinazionali. La pubblicità occupa ogni spazio della vita socia-
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Addobbano muri, auto e magliette per lanciare vivaci campagne pubblicitarie che promuovono ogni genere di prodotto. Così i decoratori di Brazzaville fanno volare il commercio le. Anche le carrozzerie delle auto, e persino le t-shirt indossate dalla gente, sono trasformate in cartelloni pubblicitari itineranti. Dietro a questo colorato business si cela la creatività dei maestri artigiani delle réclame, protagonisti indiscussi di ogni commercio nel cuore dell’Africa.•
Solo pochi murales pubblicitari mostrano una spiccata espressività artistica. In genere gli artisti che operano in questo settore sono obbligati a seguire le indicazioni dei loro committenti. Lo spazio alla creatività è scarso. Ma la fantasia congolese sopperisce
Kapassa e i suoi colleghi sono impegnati a dipingere centinaia di muri di negozi in tutta Brazzaville, per promuovere le carte telefoniche della compagnia Zain. Il logo viene prima ridisegnato al computer, quindi stampato su un cartone, infine disegnato sui muri
A Brazzaville la gente ordina magliette commemorative per le occasioni speciali: compleanni, matrimoni, persino funerali. Gli artigiani imprimono l’immagine richiesta sulla t-shirt mediante serigrafia; riescono a produrre fino a 100 magliette al giorno ma oggi il loro lavoro è in crisi poiché la concorrenza cinese è agguerritissima
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libri
di Pier Maria Mazzola
In piena luce Senza fermata di Zoë Wicomb
di Simão Kikamba
Dici “Sudafrica” e il pensiero corre Mondiali a parte - al passato prossimo dell’apartheid. Un passato molto prossimo, a giudicare anche dal fatto che la letteratura non cessa di rielaborarlo. Ma scopriamo, con questo bel romanzo di una grande scrittrice sudafricana meticcia, come la polarizzazione non fosse solo in bianco e nero: si estendeva a tutte le mille sfumature intermedie. Può così succedere che, durante i lavori della Commissione verità e riconciliazione, una piccola imprenditrice bianca scopra, per una sorta di sesto senso, di essere coloured. E qui scatta il dramma interiore. Arzigogolate leggi degli anni ’50 e ’60 favorivano la «riclassificazione» dei bianchi, anche se non geneticamente “puri”, tra i bianchi stessi. Che non volevano restare una minoranza troppo esigua.
Ancora Sudafrica, ma da un punto di vista diverso. Con la fine dell’apartheid e l’imperversare di crisi in diversi Paesi vicini, la “locomotiva” africana ha attratto numerosi immigrati. Mpanda è uno di loro, per motivi più politici che economici. Angolano ma cresciuto e formatosi a Kinshasa, a Johannesburg e dintorni si ritroverà a indossare i panni, oltremodo scomodi, del rifugiato. «Non era stata una mia scelta. Stavo piangendo perché sentivo di venir meno ai miei doveri di padre». Anche in Sudafrica scoprirà, per esperienza diretta, le operazioni «tolleranza zero»… Quest’opera prima di Kikamba, un autore dalla biografia simile a quella del suo protagonista, gli ha fatto guadagnare un prestigioso premio sudafricano, lo “Herman Charles Bosman” per la narrativa di lingua inglese.
La Tartaruga 2009 pp. 315, € 18
Epoché 2009 pp. 235, € 14,50
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Foresta di fiori
Stupri di guerra
La pretesa universalità della morale occidentale
a cura di Marcello Flores
di Bénézet Bujo
Nuova edizione del primo titolo apparso in italiano (l’altro è Sozaboy, Baldini Castoldi Dalai) dello scrittore e autore televisivo nigeriano impiccato nel novembre del 1995 con altri militanti ogoni. Saro-Wiwa organizzò in maniera nonviolenta la sua gente del Delta del Niger, vittima del disastro ambientale provocato dalle compagnie petrolifere, in particolare la Shell. La sua opera letteraria ha comunque un valore intrinseco, anche a prescindere dalle sue battaglie. Qui leggiamo una ventina di racconti dai quali emerge tanto il suo gusto per la vita quanto un’efficace satira sociale. «Voleva assumere lavoratori dal Ghana. Li chiamò ghananiani. I ghananiani erano tutti molto preparati e affamati. Un pasto al giorno sarebbe bastato a soddisfarli»…
Un saggio a più voci dedicato alla “Violenza di massa contro le donne nel Novecento”, come chiarisce il sottotitolo. Vi è anche presente l’Africa, in due situazioni e momenti differenti. Il primo è il caso delle «marocchinate», le donne ciociare violate dalle truppe alleate franco-marocchine nel 1944 - una storia indagata soprattutto nelle tracce che essa ha lasciato nella memoria dei giovani d’oggi. L’altro studio riguarda il Ruanda e la regione dei Grandi Laghi: una conclusione a prima vista sorprendente è che le analogie tra i crimini sessuali durante il genocidio e quelli compiuti nella ex Iugoslavia sono maggiori che non quelle tra le violenze in Ruanda e le violenze nell’Est della Rd Congo (che è oggi il teatro più drammatico al mondo in fatto di abusi sessuali).
Questi “Fondamenti di un’etica africana” (sottotitolo) sono per addetti ai lavori. Ma vale la pena segnalare una delle rare opere di teologia africana - l’autore è della Rd Congo - che appaiono in lingua italiana. L’inculturazione del Vangelo non è solo tamburi a messa: è la morale uno dei punti più delicati per l’africanizzazione della Chiesa, e il titolo del libro lo sottolinea quasi polemicamente. Bujo contesta anche il cardinal Ratzinger in talune affermazioni, ma soprattutto scava nei meccanismi di produzione etica autoctoni, in particolar modo la palabre, che «non offre all’individuo solo delle norme senza poi accompagnarlo nel cammino della prassi». E lo fa sostenendo la sostanziale omogeneità delle «concezioni fondamentali presso la maggior parte dei popoli dell’Africa nera».
Socrates 2009 pp. 166, € 10
FrancoAngeli 2009 pp. 248, € 30
di Ken Saro-Wiwa
Cittadella 2009 pp. 336, € 29,80
musica
di Claudio Agostoni
RECREATION ZAP MAMA
La storia delle voci è la storia dell’uomo, nessun altro strumento possiede la stessa gamma di chiaroscuri in collegamento diretto con quella parte di noi che siamo soliti chiamare anima. Lo sa bene Marie Daulne, leader del gruppo di ‘poliritmia vocale’ Zap Mama. Artista apolide, ambasciatrice in Africa delle Nazioni Unite e di Amnesty International, Marie è nata in Belgio da padre belga e madre congolese. ReCreation, l’ennesimo lavoro con cui dimostra di non conoscere frontiere (artistiche), ci regala una manciata di canzoni estremamente variegate. Ritmi africani targati Karriem Riggins (collaboratore di Erykah Badu e Kanye West) in Vibrations. Sapori latini, grazie alla tromba di Trumpetisto di Miami in Singing Sisters. Eleganza in African Diamond, un brano dove troviamo anche Tony Allen alla batteria e Meshell Ndegeocello al basso.
SIBIDA
BAKO DAGNON
In una cultura orale come quella mandinga gran parte della conoscenza è affidata alla memoria dei griot, i djeli. Un djeli è un libro che parla dell’Africa, è l’Africa che parla. Ciò è particolarmente vero per la maliana Bako Dagnon, probabilmente la griotte più venerata e rispettata del suo Paese. Per anni è stata uno dei segreti meglio celati della cultura maliana, ma dopo le 11 tracce di questa produzione internazionale le sarà difficile rimanere nascosta. Una scoperta di cui, ancora una volta, dobbiamo essere grati a Monsieur Ibrahima Sylla, produttore esecutivo anche di questo lavoro. Bako Dagnon invece deve ringraziare la sua voce potente, un innato senso del ritmo e l’erudizione ricevuta frequentando da ragazza, in compagnia della madre, centinaia di battesimi e matrimoni. Basterebbe la title track, Sibida, una canzone d’amore dalla fine struttura acustica, a dare un senso a questo lavoro.
CHAMBER MUSIC
BALLAKE SISSOKO & VINCENT SEGAL
Suonare in duo, per ogni musicista, è un’esperienza unica. All’interno della formazione in duo l’orecchio, il primo autentico strumento di ogni musicista, è cruciale. Quest’arte della conversazione basata sulla comprensione reciproca, sull’attenzione di ogni musicista nei riguardi dell’altro, è sviluppata in questo lavoro ai massimi livelli di esattezza dal virtuoso della kora Ballaké Sissoko e dal violoncellista Vincent Segal. Il primo in passato ha inciso celebri duetti con Toumani Diabaté. Vincent Segal, da parte sua, ha duettato con uno stuolo impressionante di colleghi, da Sting a Georges Moustaki, da Cesária Évora a Marianne Faithfull. Chamber Music è un progetto che riesce ad unire due opposti. Tradizione mandinga per Sissoko, studi classici per Segal. Musica raccolta, profonda, cardiaca. Sentori d’Africa e vibrazioni da classica contemporanea. Sperimentalismo metropolitano e tradizione del deserto.
LA DIFFÉRENCE SALIF KEITA
Uno degli album più toccanti e politicamente impegnati della carriera del principe albino, discendente del grande imperatore Soundjata Keita (XIII sec.). Un appello ecologista nella spumeggiante Ekolo d’Amour. A cui si accompagna un accorato inno alla tolleranza contro le divisioni culturali. Nel brano che dà il titolo all’album, alla faccia di chi lo ha discriminato in quanto albino, in una sorta di arguto calembour, esplicita un pensiero di apparente (quanto disarmante) semplicità: “Sono nero, ma la mia pelle è bianca e questo mi piace. È la differenza che è bella. Sono un bianco dal sangue nero e questo mi piace”. Di questa canzone è stato pubblicato anche un doppio remix, il primo firmato da Junior Caldera, l’altro da Julien Jabre. Tenetene conto se vi capita di dover fare il dj per una sera...
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cultura
testo e foto Elena Dak
Un tempo si riunivano per suggellare i matrimoni rituali, oggi soprattutto per commerciare merci e animali. Ma anche per rinnovare le tradizioni di una civiltà antica e nobile. Ecco perché la celebre festa di Imilchil, nel cuore del Marocco, rimane un appuntamento ricco di fascino
Berberi in festa
A
Imilchil, in una valle incastonata tra i monti dell’Alto Atlante marocchino, si celebravano un tempo i matrimoni collettivi. Le tribù di berberi seminomadi sparse nella regione presero a pretesto l’agdoud (mercato annuale) per darsi appuntamento nel villaggio in una data imprecisata tra la fine di agosto e i primi di settembre. Obiettivo: suggellare le unioni dei giovani fidanzati. Per lungo tempo i berberi che volevano prender mo-
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glie potevano recarsi al raduno rituale di Imilchil e sposarsi con una donna della tribù. La facilità delle unioni si fa risalire ufficialmente ad una leggenda: due giovani innamorati ostacolati dalle rispettive famiglie, perché appartenenti a due fazioni diverse della tribù, si annegarono per la disperazione nelle acque dei laghi di Isli e Tislit, a 4 chilometri da Imilchil. A seguito di questa tragedia i genitori decisero di lasciare piena libertà ai figli nella scelta del coniuge.
Il matrimonio tradizionalmente aveva lo scopo di suggellare nuove alleanze tra i gruppi tribali o di rinforzare i gruppi stessi al loro interno. Non era prevista la preparazione della dote: l’interesse del gruppo prevaleva su quello personale e la donna diventava un bene di scambio, passando dal patrimonio del padre a quello dello sposo. Risale all’epoca del protettorato francese, iniziato nel 1912, l’erezione di una tenda sul luogo dell’agdoud
L’annuale
foto Patrick Flament foto Patrick Flament
foto Patrick Flament
raduno dei popoli dell’Atlante marocchino
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cultura
Chi sono
I Berberi sono gli abitanti originari del Nord Africa. Parlano una propria lingua, il tamazight, e hanno tradizioni e costumi molto diversi dalle popolazioni arabe che li circondano. Nei pressi di Imilchil vivono due tribù berbere - gli Ait Hadiddou e gli Ait Atta - composte da pastori seminomadi che per lungo tempo si sono combattuti per il controllo dei pascoli. L’isolamento dovuto alla barriera rocciosa dell’Atlante ha permesso a questi gruppi di mantenere a lungo uno stile di vita legato alle tradizioni. Oggi la tendenza alla sedentarizzazione ha introdotto nella società stili di vita e dinamiche nuove.
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presso la quale le genti delle tribù riunite potevano registrare atti di varia natura (matrimoni, nascite, morti).
Tempi che cambiano Il grande raduno di Imilchil, che un tempo durava ben cinque giorni, continuò anche dopo l’indipendenza e venne sfruttato a fini turistici a partire dal 1965. La cerimonia venne rinominata “Moussem dei fidanzati”. Ma l’abbandono della vita nomade e i profondi cam-
biamenti in seno alla società berbera contribuirono a svilire progressivamente il significato dei matrimoni collettivi, che oggi si svolgono sempre più di rado. Nel settembre del 2008 il raduno è stato nuovamente ribattezzato: ora si chiama “Festa delle musiche delle cime”. È sparito ogni legame con la tradizione. Ciò che resta delle cerimonie collettive è diventato solo folclore da smerciare ai turisti occidentali. Tuttavia,
Informazioni pratiche
al di là degli aspetti squisitamente commerciali, l’annuale raduno di Imilchil conserva per le tribù berbere tutto il suo antico fascino.
Lo spettacolo del mercato Poco a nord di Imilchil, in una spianata tra le colline, si danno appuntamento i pastori con le loro greggi. I vapori della terra che si scalda sotto i primi raggi si confondono con gli aliti degli animali e i fumi dei fuochi di chi cucina il pane. Col
sole caldo iniziano le contrattazioni su pecore, muli, asini e capre. Alla base della collina si apre un mercato vivace: i macellai espongono quarti di carne e pezze di grasso bianche; i venditori di basti li allineano al suolo come culle; gli spezieri smuovono cumino e cannella perché si spanda nell’aria il loro profumo pungente; i commercianti di stuoie le srotolano al primo sguardo di interesse. Zappe di ferro stanno allineate al suolo
come lame di coltello a poca distanza da lunghe strisce di lana per le tende dei nomadi e da mucchi grezzi per la tessitura. Gli uomini si aggirano incappucciati nei loro burnous, il capo coperto da turbanti gialli, tenendo in mano tazze di tè caldo. Su alcuni teli stesi a terra campeggiano cumuli di arance e melograni; c’è pure la bancarella di un presunto odontoiatra che espone denti, a dimostrare la sua capacità di estrarli. La gente arriva dai villaggi vicini, a piedi lungo i sentieri delle montagne o stipati in camion. Verso la tarda mattinata fanno la loro comparsa le donne: si distingue la tribù di appartenenza dal mantello di lana a righe colorate, detto tahendirt, che portano sulle spalle. L’acconciatura permette di distinguere le giovani non ancora sposate dalle donne maritate (in questo caso è alta e a forma conica). I foulard blu indaco sono stretti sul capo da nastri di seta multicolori ornati in qualche caso di paillette.
Il villaggio di Imilchil si trova nel cuore dell’Asif Melloul, valle tra i monti dell’Alto Atlante centrale marocchino. La data del suo celebre festival subisce ogni anno piccole variazioni ma di solito si svolge l’ultima settimana di agosto o la prima di settembre. Non sempre si ha modo di assistere ai matrimoni collettivi, che negli ultimi anni sono stati celebrati lontano dagli occhi dei turisti. In ogni caso il grande raduno annuale delle tribù berbere merita una visita. E poi nel centro del Paese si esibiscono gruppi di musica tradizionale provenienti da ogni regione del Marocco. Si può giungere a Imilchil affittando un fuoristrada a Marrakech, o ci si può rivolgere al tour operator locale Cobratours, fondato da italiani. Tel. +212 524 421308; www.cobratours-maroc.com In gruppi stretti le donne si aggirano per il mercato lasciando scoperti solo gli occhi truccati di cajal. Di qualcuna si possono scorgere i tatuaggi che inseguono il loro mento a tratti e puntini. Nel pomeriggio, tra la polvere in uno slargo del mercato si esibisce un cantastorie che racconta leggende o pone indovinelli: le donne assiepate tutte intorno ascoltano rapite le storie antiche dei berberi dell’Atlante.• africa · numero 3 · 2010
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cultura
di Emanuela Zuccalà
Parla la nuova Mama Afrika
La cantante deL benin angéLique Kidjo si confessa La star mondiale della musica africana ha una voce potente, eclettica. È sempre un piacere ascoltarla. Anche quando scende dal palco per concederci un’intervista
L
a nuova Mama Afrika è minuta, parla di tutto con fervore e ti guarda, sempre, dritto negli occhi. Secondo i critici, l’unica degna erede di Miriam Makeba è lei: Angélique Kidjo, cantante beninese, voce potente ed eclettica ammirata anche da Peter Gabriel e Carlos Santana. Nata nel 1960 a Ouidah, la culla della religione vodù, nel 1982 lascia clandestinamente il Benin della dittatura comunista: «Non potevo cantare al soldo del regime». A Parigi fa la parrucchiera, la baby sitter, la cameriera; intanto incide dischi e sposa il musicista francese Jean Hebrail. Quando i suoi lavori - una miscela di soul, jazz e me-
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lodie tradizionali, cantata in tante lingue africane e non - sfondano negli Stati Uniti, Angélique si sposta a New York. Il suo undicesimo album si intitola Oyo,
La sua musica Nella sua carriera trentennale, Angélique Kidjo ha pubblicato 11 album: l’ultimo è Oyo, uscito a febbraio, dove l’artista duetta con Dianne Reeves e John Legend. Il suo esordio è datato 1980 con Pretty, che l’ha resa famosa in tutta l’Africa occidentale. Seguono Parakou (1989), Logozo (1991), Aye (1994) e Fifa (1996), omaggio alla musica del Benin con un cameo di Carlos Santana. Oremi (1998) contiene un’originale cover di Voodoo Chile di Jimi Hendrix, mentre Black Ivory Soul e Oyaya! si ispirano ai ritmi caraibici. Con Djin Djin (2007), al quale partecipano Peter Gabriel, Alicia Keys e Joss Stone (bellissima la versione di Gimme Shelter dei Rolling Stones), Angélique si aggiudica un Grammy Award.
“bellezza” in lingua fon. La bellezza della sua infanzia in Benin, dove lei torna spesso, impegnata per i diritti dell’infanzia come ambasciatrice Unicef. Che effetto fa essere definita la nuova Mama Afrika? Preferirei avere Miriam viva, accanto a me: avrebbe ancora tanto da dare. La conobbi in Francia nel 1989, durante il suo esilio, ma ricordo soprattutto un pranzo a casa sua in Sudafrica, nel 1996: aveva preparato un banchetto. «Sei secca, mangia!», mi diceva, come una mamma… Parlammo di quanto entrambe odiassimo l’espressione world music: «Significa solo musica non cantata in lingue occidentali», diceva lei. «È razzista». In effetti la gente fatica a capire che io sono nata in Benin da una famiglia istruita, di musicisti, dove le donne erano rispettate quanto gli uomini: non corrispondo all’immagine di bimba africana miserabile che gioca con le scimmie nella foresta.
fere prosperano in Africa? Quanti europei e americani fanno business? Ripetere che siamo poveri equivale a negarci il diritto di usare la nostra ricchezza. Altro luogo comune: i politici africani sono corrotti. E perché: quelli italiani, americani, giapponesi? C’è così tanta ipocrisia: i leader dei Paesi ricchi non possono certo dire che ci hanno saccheggiati e continuano a farlo. Nella globalizzazione noi non giochiamo alcun ruolo, ne siamo vittime, ancora di più ora che sono arrivati i cinesi: costruiscono strade solo con i loro operai, senza creare occupazione per noi. Se ne fregano delle nostre vite. Il problema è che gli africani pensano che siano eroi, solo perché finalmente possono bere nella tazza invece che nel bicchiere di plastica, o permettersi auto e cellulari a buon mercato. La Cina fa esattamente quel che avevano fatto i Paesi europei: renderci schiavi dei suoi prodotti.
Quali stereotipi sull’Africa non tollera? Sentire “l’Africa è povera” mi fa urlare di rabbia. Quante compagnie petroli-
Qual è il primo passo, secondo lei, per invertire la rotta? L’istruzione. Le nuove generazioni devono imparare
a negoziare, a diventare leader per avere un posto nel mondo. Solo se istruiti gli africani possono scegliere i loro governi: oggi i politici vanno nei villaggi distribuendo sacchi di riso in cambio di una croce sul loro nome. Questa non è democrazia.
sono tutti uguali: abbiamo un’infinità di lingue, tradizioni e religioni che in Europa nemmeno vi sognate. Se i giornalisti che seguiranno i Mondiali andranno anche alla scoperta di ogni singolo Paese in gara, la gente finalmente conoscerà la varietà del nostro continente.
Il suo paese, il Benin, è uno degli esempi meglio riusciti di democrazia in Africa. Eppure resta uno snodo per la tratta dei bambini, un tema su cui lei si è molto spesa. La prima causa del traffico di minori in Benin è la mancata registrazione alla nascita di molti bambini. La gente dei villaggi non ha soldi per andare in città a registrare il nuovo nato, e passati dieci giorni, si paga una tassa. I trafficanti trasportano indisturbati i minori in Nigeria perché non ci sono computer alle frontiere dove siano archiviate le foto di tutti i bambini beninesi, le impronte digitali, i nomi dei genitori. La polizia di confine non è pagata adeguatamente. Sono cose che si possono cambiare. Ai ministri della Famiglia e della Giustizia ho detto: fatelo per il bene del Paese, non per essere rieletti.
Il suo futuro di artista? Mia madre diceva: «Puoi dare piacere agli altri solo se tu sei felice». Quindi continuerò a fare la musica che amo, senza compromessi: non sono una rockstar che deve compiacere le case discografiche e le radio, e non ambisco a vivere al di sopra delle mie possibilità. A mia figlia, che ha appena compiuto 17 anni, dico: prendi bei voti, trova un lavoro che ami, abbi una vita di cui andare fiera. Solo questo conta. •
Un suo concerto aprirà i mondiali di calcio in Sudafrica. Che opportunità rappresenta questo evento per l’Africa? È l’occasione, per voi, di accorgervi che l’Africa non è uno Stato bensì un continente, e che gli africani non africa · numero 3 · 2010
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cultura
di Diego Marani
Quel che resta
A venticinque anni dal film che ha marchiato La celebre pellicola con Robert Redford e Merryl Streep ha segnato una svolta nel nostro modo di pensare all’Africa. Ancora oggi evoca immagini romantiche e selvagge. Impregnate di equivoci e banali stereotipi
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L
a mia Africa, storia d’amore tra l’esploratore inglese Denys FinchHatton (Robert Redford) e la baronessa danese Karen Blixen (Meryl Streep) ambientato a cavallo della prima guerra mondiale, è pieno di immagini e orizzonti bellissimi. Questo film ormai classico, lungo due ore e mezza, ha vinto 7 premi Oscar (film, regia, musica, scenografie, sceneggiatura, suono, fotografia). È ambientato in Kenya ma
si intitola appunto La mia Africa - non il mio Kenya, o la mia fattoria vicino a Nairobi - perché nelle autobiografiche parole della Blixen quella è l’Africa. Per anni il turismo keniano è vissuto dietro quel mito: per cui dappertutto, anche al mare delle coste di Mombasa e Malindi, si dovevano trovare i Masai (anche se i Masai non vivono sulla costa) che erano in realtà gente locale travestita da Masai. E per i tour operator italiani ed eu-
ropei qualsiasi viaggio in Kenya doveva comprendere anche la visita ai parchi Serengeti o Ngorongoro, nonostante essi si trovino in Tanzania.
Buoni e cattivi Venticinque anni sono un quarto di secolo, una generazione. Eppure per molti spettatori e per molti lettori sembra che il tempo non sia passato: il film rappresenta ancora una delle due visioni che dominano l’immagina-
della mia Africa l’immagine del continente rio collettivo quando si pensa all’Africa. Una visione di un’Africa, mai della Tunisia o del Sudafrica, del Senegal o dell’Eritrea: sempre l’Africa come continente indistinto, come un paradossale continente nero pieno di colori, di grandi spazi ancora vergini, animali in libertà, scenari spettacolari, popolazioni indigene che vivono “in una natura incontaminata” sempre legate “alle loro tradizioni ancestrali”, dove i pochi Bianchi si ammalano di quella nostalgia che è chiamata mal d’Africa. Mentre invece non esiste un mal d’Europa o un mal d’America. In questa Africa i Bianchi sono buoni e tolleranti con gli indigeni, così come Meryl Streep / Karen Blixen aveva costruito una scuola per «i miei Kikuyu»; e gli Africani - ancora una volta indistinti - sono riconoscenti per tutti i vantaggi portati dai Bianchi. Soprattutto i bambini, all’inizio magari un po’ diffidenti, si affezionano inevitabilmente al Bianco che regala loro un quaderno o una penna. L’altra visione dell’Africa, speculare e complementare, è quella drammatico-umanitaria: l’Africa è il continente della guerra, della carestia e della fame, del-
le malattie e dell’Aids. Le guerre sono “etniche” per definizione, anche quando l’etnia è solo un pretesto; sono anche “guerre incomprensibili” non perché tali sono ma semplicemente perché costa troppa fatica capirne meccanismi e logiche. La carestie sono “epocali” e “bibliche”, la fame genera ciclicamente e costantemente “emergenze umanitarie” - senza badare al paradosso per cui un’emergenza non può essere ciclica e costante - che servono per fare intervenire l’uomo bianco buono che salva le vite dei poveri Africani, preferibilmente bambini. Due visioni parziali, ma entrambe pretendono di essere assolute.
Un modo di dire La mia Africa è diventato ormai quasi un modo di dire ed ha lasciato un’altra eredità: qualunque editore voglia pubblicare in Italia qualcosa, sulla Tunisia o sul Sudafrica, sul Senegal o sull’Eritrea non importa, deve mettere nel titolo la parola “Africa”. Come se altrimenti il pubblico non capisse. Un’eccezione che conferma questa regola è il romanzo di Lara Santoro Il mio cuore riposava sul suo, ambientato a Nairobi e uscito nel 2009, visto
L’ultima imitazione La conferma sull’onda lunga del lavoro di Pollack è per esempio Nowhere in Africa, un film tedesco che ha vinto l’Oscar nel 2003 come miglior pellicola straniera. La regista Caroline Link racconta la storia di una famiglia di Ebrei che nel 1938, per sfuggire ai nazisti, se ne va in Kenya. Anche questo è un filmone di oltre due ore, che segue una storia d’amore - per nulla scontata - tra marito e moglie. Vedere i due film per confrontare similitudini e differenze è un esercizio, anche didattico, assai stimolante. D.M.
che l’editore (Ed. e/o) sente l’esigenza di spiegare che il libro è una variazione sul tema. Quale tema? Quello de La mia Africa, naturalmente. Eppure tutto questo
non è colpa del regista Sydney Pollack - o del film stesso. Rivisto oggi La mia Africa rimane un bel film. In alcuni punti un bellissimo film. Solo che non ha molto a che fare con l’Africa: è in primo luogo una storia d’amore, che potrebbe essere ambientata in qualsiasi altro posto. In secondo luogo è un film americano sull’identità europea, visto che si accenna ai problemi di Karen Blixen - che non è suddita britannica ma vive in una colonia inglese - e alla prima guerra mondiale che mette uno contro l’altro gli Europei in Africa. È anche un film che lascia aperti alcuni spunti: Nairobi inizia a trasformarsi in una città (e oggi la maggior parte degli Africani vive in città), i parchi naturali hanno sempre meno a che fare con i naturalisti e sempre più con i turisti (che cosa significa oggi proteggere l’ambiente e la natura in molti Stati africani?). Se questi spunti non vengono approfonditi, non può essere colpa del regista, che voleva raccontare un’altra storia. Ma forse un po’ di responsabilità ce l’hanno quegli spettatori che ancor oggi quando vanno al cinema o in libreria, si aspettano di vedere o leggere La mia Africa. O qualcosa di simile. • africa · numero 3 · 2010
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viaggi
di Donato Cianchini
Nelle remote montagne del Niger, tra aspre vallate solcate dai fiumi, ha trovato rifugio una piccola comunità di Tuareg. Che ha abbandonato il nomadismo. E ora vive, isolata da tutto, di agricoltura e di pastorizia
L’isola dei 60
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Trekking tra le oasi rocciose del Sahara
A
d una manciata di chilometri dalle dune sabbiose del Ténéré, l’Aïr con i suoi 80mila chilometri quadrati di superficie è uno dei più maestosi massicci sahariani. Al suo interno si trovano aspri vulcani e sistemi montuosi. E una rete inestricabile di remote vallate in cui s’insinuano, come lunghi tentacoli, gli uadi, i letti asciutti dei fiumi. Questo luogo, apparentemente ostile e selvaggio, nasconde numerose oasi popolate dai Tuareg che qui hanno trovato un provvidenziale rifugio dalle asperità del Sahara.
TUAREG
L’itinerario La meta del nostro viaggio è la regione montuosa del Bagzane, nella parte meridionale dell’Aïr: un altopiano di circa 500 chilometri quadrati con cime possenti che si elevano oltre i 2.000 metri di altitudine. L’esplorazione a piedi, l’unica possibile, permette di scoprire un mondo isolato, per certi versi idilliaco, dove vive in totale armonia con la natura un’esigua comunità di Tuareg della tribù Kel Bagzan. Sono meno di cinquemila anime. In fuga dalla siccità e dall’ostilità di altre popolazioni sahariane. Sulle montagne del Bagzane hanno abbandonato la vita nomade per dedicarsi alla pastorizia e all’agricoltura. Grazie all’abbondanza d’acqua, i loro villaggi sono vere e proprie oasi verdeggianti dove riecheggia il suono delle carrucole dei africa · numero 3 · 2010
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viaggi
Il viaggio
documenti . In Niger è necessario il visto, da richiedere all’Ambasciata di Roma (Via A. Baiamonti, 10 - tel. 06 3729013); il passaporto deve avere 6 mesi di validità. salute . Obbligatoria la vaccinazione contro la febbre gialla; consigliata la profilassi antimalarica specie nelle zone lungo il fiume Niger e nella capitale Niamey. quando andare . Il periodo migliore è nella stagione secca, da ottobre a marzo: fresco di notte e caldo sopportabile di giorno. come . I villaggi tuareg nella regione Bagzane possono essere raggiunti solo a piedi. L’itinerario completo richiede dai 3 ai 5 giorni di trekking (4-5 ore di cammino al giorno). voli . Niamey è collegata settimanalmente con i vettori: Air Algérie, Air France, Royal Air Maroc, Afriqiyah Airways. con chi . Il tour operator Tucano Viaggi propone un trekking nella regione Bagzane affiancato da una spedizione nel deserto del Ténéré. Info: www.tucanoviaggi.com - tel. 011 5617061.
pozzi, che ruotano senza sosta sotto i colpi sferzanti di funi robuste. Ci siamo spinti fin qui, nel cuore del Sahara, con lo scopo di sostenere un progetto umanitario che ci sta a cuore da tempo. Dobbiamo consegnare del materiale didattico ad una piccola scuola per bambini tuareg nel villaggio di, a circa 50 chilometri da Agadèz. Il direttore Limab Zarke ci ac62
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coglie radioso assieme ai suoi alunni festosi. Portata a termine la nostra missione, decidiamo di proseguire il nostro viaggio verso le oasi più inesplorate della regione. Poco oltre le tende di Dabaga, le ruote delle nostra Toyota piegano a est in direzione del pozzo di Berjé, frequentato da pastori nomadi Kel Fares. Attraversiamo un paesaggio affascinante scolpito
nella roccia. Di fronte a noi, cupi e imponenti, s’innalzano i primi contrafforti del Bagzane. Il fuoristrada ha il fiato corto e soffre nell’attraversare alcuni uadi dal fondo sabbioso, ma alla fine raggiungiamo l’amena valle di Nabaro, base di partenza per il trekking.
In cammino tra le rocce Carichiamo i nostri bagagli su cinque dromedari. Ognu-
no di noi ha con sé uno zainetto leggero con una buona scorta d’acqua e frutta secca disidratata. Per evitare il caldo eccessivo partiamo di buon mattino. Il sentiero è ben tracciato e prosegue con regolarità tra grandi pianori rocciosi che superiamo agevolmente.Djillou, la nostra guida tuareg, con il dito indica il percorso che segue una profonda spaccatura e taglia in due il lato
Scuole tuareg
della montagna: è la faglia di Zabou. La salita, all’inizio leggera, a quota 1.100 cambia improvvisamente pendenza, diventando ripida e dritta. La vegetazione è assente, tranne qualche rado cespuglio. Tutt’intorno solo sfasciumi di roccia. In compenso, alle nostre spalle il panorama è splendido: le minuscole chiazze verdi della valle di Nabaro contrastano con i neri contrafforti delle montagne mentre a sud, in lontananza, intravediamo le inconfondibili sabbie cremisi del Ténéré. Il sentiero attraversa una stretta pietraia e piega verso nord fino a raggiungere il colle di Fantouri a 1.590 metri d’altezza. Lasciamo scorrere le ore più calde all’ombra di alcune acacie e riprendiamo la marcia per un sentiero facile che si snoda, finalmente, tra cespugli e tamerici verdeggianti.
In Niger l’analfabetismo è una piaga. Appena il 14% della popolazione sa leggere e scrivere. E quasi tutte le bambine sono escluse dalle scuole. Specie nelle regioni più isolate le istituzioni locali non riescono ad assicurare l’istruzione di base. Dal 2005 l’associazione Itinerari Africani Percorsi di cultura, di Cuneo, ha avviato un progetto di sostegno scolastico nel villaggio di Dabaga, a 45 chilometri a nord di Agadèz, grazie a cui 250 bambini tuareg possono accedere all’istruzione primaria. www.itinerariafricani.net Raggiungiamo l’altopiano di Merig, situato ai piedi del vulcano Idoukal-n-Taghes (con i suoi 2.022 metri è il punto più alto di tutto il Niger). Nascosta tra le rocce, la minuscola guelta (fonte d’acqua) di Ouari ci consente di riempire le nostre borracce. Incrociamo alcuni sperduti villaggi tuareg: poche case in terra cruda circondate dalle zeribe, le tipiche tende ricoperte con stuoie ricavate dalle foglie di palma. Ai margini degli abitati e in corrispondenza delle fonti d’acqua, si trovano gli orti. Qui i Tuareg hanno imparato a diversificare la produzione in base alle stagioni: miglio, mais, sorgo, fagiolini, patate, cipolle.
La patria dei Tuareg è il deserto senza confini. Ai neonati i padri dicono: «Figlio mio, ti dono i quattro angoli della terra perché l’uomo non può sapere dove andrà a morire»
Isolati da tutto Il sole sta per tramontare e torniamo all’accampamento. I dromedari, liberati dai nostri carichi, stanno placidamente sfamandosi attorno alle acacie. Il buio cala all’improvviso, un manto nero avvolge tutto ciò che ci circonda. Dobbiamo alzare lo sguardo al cielo per scorgere la rassicurante luce delle stelle. Il giorno dopo, l’imponente mole del vulcano guida i nostri passi lungo il sentiero che conduce agli sperduti villaggi di Bagzan n’amas, Assessa, Tekokei e Amelaulé. Gli abitanti di quest’ultimo sono intenti a
preparare una piccola festa. Le donne indossano abiti eleganti in tessuto scuro mentre intrecciano foglie di palma con cui realizzano stuoie e tappeti. Ci spiegano che è appena nato un bambino. Andiamo a rendere visita alla giovane mamma che mostra orgogliosa il suo primogenito. Vicino alla tenda, a far compagnia al papà, siedono gli uomini che ci invitano al cerimoniale del tè. Il tempo scorre lento e placido. Ci sentiamo come naufraghi, in questa isola di roccia, circondata dalle sconfinate sabbie del Sahara. • africa · numero 3 · 2010
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storia
di Diego Marani
La storia perduta di tre grandi esploratori italiani in Africa
DIMENTICATI
Hanno viaggiato in regioni sperdute e pericolose, raccontato i segreti di popoli e luoghi sconosciuti. Ma Gessi, Piaggia e Messedaglia non hanno raggiunto la celebrità. E le loro straordinarie esplorazioni africane vanno riscoperte
S
commessa: andate in una qualsiasi classe di scuola superiore o in un’aula universitaria italiana e domandate chi erano e che cos’hanno in comune Romolo Gessi, Carlo Piaggia e Giacomo Bartolomeo Messedaglia. Quante saranno le risposte esatte? L’Italia ha poca memoria dei propri esploratori. Eppure hanno dato un contributo non secondario alla conoscenza dell’Africa. Prendiamo ad esempio Ro64 africa · numero 3 · 2010
molo Gessi, italiano atipico. La sua vita rasenta l’incredibile. Nacque a Istanbul, anzi tra Ravenna e Malta su una nave diretta a Istanbul, nel 1831. Il padre, Marco Gessi, esule rifugiato a Londra per motivi politici. Gli inglesi non solo non gli avevano fatto problemi con il permesso di soggiorno, ma gli avevano anche affidato un incarico diplomatico in Turchia. La madre di Romolo era armena, Elisabetta Carabett. Dopo la morte del padre,
Romolo completa i suoi studi all’accademia militare di Vienna, la capitale dell’impero austriaco, e poi a Halle, in Germania. Di tutto questo cosmopolita girovagare ottiene un grande vantaggio: la conoscenza delle lingue. Gessi era un italiano che parlava tedesco, inglese, francese, turco, armeno, greco e russo. A 27 anni lavora per il consolato inglese a Bucarest, in Romania. Nel 1855-56 lavora come interprete per l’esercito inglese
durante la guerra di Crimea. Conosce un giovane sottotenente, Charles Gordon, che in futuro avrà un ruolo decisivo in Africa. Ma Gessi sente il richiamo di un’Italia che ancora non esiste. Nel 1859 lascia i Balcani e arriva in Italia per arruolarsi volontario nei Cacciatori delle Alpi, il corpo guidato da Garibaldi che combatte nella seconda guerra d’indipendenza. Quando, 2 anni dopo, si forma il Regno d’Italia, Gessi
Immagini come queste prime fotografie di popolazioni africane hanno favorito fino ad oggi la visione di un’Africa primitiva e selvaggia. A fianco, Carlo Piaggia e Romolo Gessi. Sotto, Bartolomeo Messedaglia
chiede e ottiene la cittadinanza. Diventa dunque italiano a trent’anni. Torna nei Balcani, diventa imprenditore, incontra sua moglie, la violinista rumena Maria Purkart. Inizia una fase della vita dedicata alla famiglia e al lavoro. Poi, un giorno del 1873, arriva una lettera. Charles Gordon, il sottotenente conosciuto in Crimea, ha fatto carriera: è diventato governatore inglese delle province equatoriali dell’Africa. Chiede a Gessi di diventare suo collaboratore. Gessi non resiste all’invito, parte per il Sudan. Insedia postazioni militari
nel Bahr el-Ghazal e lungo il Nilo Bianco. Osserva, analizza e critica la tratta degli schiavi, gestita da mercanti arabi e da trafficanti europei. Nel 1875 gli viene affidata una missione speciale che, fino a quel momento, era stata anche una missione impossibile: stabilire il collegamento attraverso il lago Alberto fra il Nilo Bianco e il Nilo Vittoria. Il Nilo non aveva ancora finito di svelare i propri misteri. Gessi torna al Cairo nel 1876: missione compiuta, è stato il primo a circumnavigare il lago Alberto. Riceve un piccolo
premio in denaro e un’onorificenza di second’ordine; per il disappunto lascia l’amico Gordon. Viaggia in Italia e stabilisce rapporti con la neonata Società Geografica Italiana. Organizza una spedizione in Etiopia meridionale, dove affronterà i guerrieri Galla. Gessi è prima di tutto un buon militare. Gordon lo richiama perché ha un problema che solo un buon soldato può risolvere. Deve soffocare la ribellione e l’esercito di Suleiman, uno dei più importanti mercanti di schiavi tra Egitto e Sudan. Gessi accetta e nel 1878 ini-
EXPLORADORES Agli esploratori (che in portoghese significa anche “sfruttatori”), i quali hanno contribuito in maniera decisiva a disegnare le mappe nonché l’immaginario occidentale del “continente nero”, Africa dedica una serie di articoli. Dopo Livingstone, Stanley, Brazzà, Ca’ da Mosto, Ibn Battuta, Alexandrine Tinne, Zheng He, Burton, Speke e i meno celebri viaggiatori italiani, la prossima puntata vedrà protagonisti esploratori missionari in Sudan.
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storia
zia la campagna militare che si conclude nel 1879, quando Suleiman viene fucilato. Gordon, per ricompensare Gessi, lo nomina governatore del Bar el-Ghazal, l’enorme regione sudanese. Anche qui lotta contro lo schiavismo, ma le difficoltà sono enormi, così come l’ostilità dei mercanti di schiavi arabi. Gessi decide di partire per Khartoum e il Cairo risalendo il Nilo su un piroscafo stracarico con i suoi oltre 600 passeggeri. Quel viaggio è una tragedia: muoiono oltre 400 passeggeri. Gessi arriva stremato a Khartoum, accolto e curato da monsignor Daniele Comboni. Si riprende quel poco che gli permette di riprendere il viaggio verso Suez, dove arriverà il 28 aprile. Qui muore, a soli 50 anni, il 30 aprile 1881. La tomba è a Ravenna.
Ma quali cannibali? All’esperienza sudanese di Gessi è legata anche quella di altri due italiani fuori dall’ordinario: Carlo Piagia e Giacomo Bartolomeo Messedaglia. Piaggia nacque vicino a Lucca, nel 1827. La famiglia era povera e Carlo abbandona la scuola, dopo le elementa66 africa · numero 3 · 2010
ri, per aiutare il padre in un mulino. Emigra giovanissimo. Emigra giovanissimo prima a Tunisi, dove lavora come giardiniere e rilegatore di libri, poi ad Alessandria d’Egitto come verniciatore. Si spinge verso sud e tra il 1856 e il 1857, dopo essere partito da Khartoum, risale il corso del Nilo fino a Gondokoro. È un viaggio rivelatore: da quel momento Piaggia non smetterà di esplorare. Torna brevemente a Lucca nel 1859 ma già nel gennaio del 1860 è a Suez. Qui conosce Orazio Antinori - il naturalista e viaggiatore italiano (Perugia 1811 - Let Marefià, Etiopia, 1882) che nel 1867 a Firenze sarà tra i fondatori della Società geografica italiana - e decide di accompagnarlo nel Bahr el-Ghazal, territorio in gran parte sconosciuto agli europei. Tra il 1863 e il 1865 entra in contatto con gli Azande, che presso gli europei avevano una terribile fama, e rimane a lungo tra di loro. I bianchi li credevano cannibali e li chiamavano niam-niam. Piaggia studia usi e costumi locali, conosce luoghi fino a quel momento del tutto ignoti e scrive ciò che ha visto in dettagliati resoconti. Non si
ferma: nel 1871-72 è in Etiopia, sempre con Antinori, nel 1874-75 esplora il lago Tana e nel 1876 il lago Alberto, insieme all’italiano Gessi. Durante questo viaggio Piaggia “scopre” il lago Kyoga, che chiamò lago Capechi. Nel 1880 inizia a risalire il Nilo Azzurro, nel tentativo di rintracciare Antonio Cecchi e Giovanni Chiarini, due esploratori italiani dati per scomparsi in Etiopia; ma deve desistere dall’impresa. Torna a Khartoum e alla fine del 1881 risponde all’invito dell’olandese Juan Maria Schuver, bloccato a Fadasi, a guidare una piccola carovana in suo soccorso. Muore il 17 gennaio del 1882 a Carcoggi, stroncato dalla febbre. Viene sepolto ai piedi di un baobab.
Il militare geografo Gessi e Piaggia hanno viaggiato per territori fino a quel momento inesplorati, ma per arrivarci hanno prima percorso le rotte conosciute del Sudan. E chi è stato il primo a disegnare la carta geografica militare del Sudan di allora? Un altro italiano, Giacomo Bartolomeo Messedaglia. Nato attorno al 1856 (non si conosce la data esatta), dopo una lunga
permanenza in Libano, arriva in Egitto nel 1876 e ottiene l’incarico dall’esercito di organizzare la cartografia di Egitto e Sudan. Entra in contatto anche con l’esercito inglese. Il generale Gordon gli affidò nel 1878 il comando militare del Darfur. Messedaglia approfitta dell’incarico per esplorare la regione e per sviluppare una prima rete stradale. Nel 1879 diventa governatore generale del Darfur. Deve affrontare la ribellione e combatterla sulle alture del Jebel Marra. Successivamente compila una carta geografica del Darfur. Gordon lo chiama a combattere contro la ribellione del Mahdi. Nel febbraio 1884 viene ferito nella battaglia di Ander Tab, torna in Italia giusto il tempo per farsi curare e rientra in Egitto. Diventa colonnello di stato maggiore e capo del dipartimento di intelligence. È l’unico europeo non inglese di così alto livello nell’esercito anglo-egiziano. Diventa un fautore dell’espansionismo e del colonialismo italiano in Africa. Malato e in pessime condizioni economiche, ritorna in Italia nel 1891 e muore a Pisa nel 1893. •
storia
di Laura De Santi
L’atomica nel deserto
Cinquant’anni dopo i test nucleari francesi in Algeria Una foto d’epoca degli esperimenti nucleari in Algeria. Secondo un rapporto militare, rivelato di recente dal quotidiano Le Parisien, decine di civili e soldati francesi furono esposti alle radiazioni per studiare gli effetti prodotti dall’atomica sull’uomo
Negli anni Sessanta la Francia fece esplodere una serie di ordigni devastanti nel cuore del Sahara. Oggi le vittime degli esperimenti chiedono giustizia
P
rima dell’esplosione i francesi ci hanno chiesto di lasciare le nostre case. Ci siamo sdraiati per terra con le mani sul volto ma la luce era troppo forte. Poi c’è stato un rumore assordante e la terra ha tremato». Nell’oasi di Reggane nessuno può dimenticare quel giorno, il 13 febbraio del 1960, quando la Francia entrò a far parte del
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club delle potenze nucleari con l’esplosione della sua prima atomica in Algeria. Dopo quel primo test nucleare, con una portata di quattro volte superiore a quella di Hiroshima, le forze coloniali francesi non si sono fermate e hanno condotto, nella stessa area, altri 3 test in atmosfera. Cinquant’anni dopo, in quella regione del Sahara algerino a circa 1.700 chilometri a sud di Algeri, non è cambiato nulla: «I bambini continuano a giocare nell’area dell’esplosione mentre c’è chi ha costruito recinti e case con i materiali radioattivi raccolti anche nel punto zero», racconta Sid Ammar el-Hammel. Cittadino di Reggane e presidente dell’associazione 13 febbraio 1960, el-Hammel continua a battersi per vede-
re riconosciuti i diritti delle vittime, ma ancor più vorrebbe vedere decontaminata la sua terra. «Non serve a niente qualche indennizzo», dice. «Il danno ecologico è enorme. Pecore e dromedari continuano ad ammalarsi, i pomodori nascono con le foglie bianche e nei piselli troviamo calce e vermi». Secondo Mohamed Bendjebar, dell’Associazione algerina delle vittime degli esperimenti nucleari, al momento dell’esplosione vivevano nella zona 16/20mila persone, senza contare le popolazioni nomadi. Cancro, aborti e malattie mai registrate prima sono comparsi da allora a Reggane. Impossibile però avere un numero esatto delle vittime di quegli esperimenti. A In Ekker, nel profondo sud, vicino a Tamanrasset,
si ripete lo stesso scenario. Qui Parigi ha condotto in gallerie sotterranee altri 13 test atomici. Quattro incidenti hanno provocato fughe radioattive dell’entità di Cernobyl. E gli esperimenti chimici e nucleari sono proseguiti nel Paese magrebino anche dopo l’indipendenza, almeno fino al 1966. Nessuna inchiesta, nessuna operazione di decontaminazione è stata finora realizzata, né dai Francesi né dagli Algerini. Soltanto nel 2007 è stata creata una commissione per valutare le conseguenze degli esperimenti nucleari. E l’anno scorso il Parlamento francese ha approvato una legge per il risarcimento delle vittime degli esperimenti atomici in Algeria e in Polinesia. Obiettivo: chiudere i conti con la storia.• africa · numero 3 · 2010
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chiese
testo e foto Giovanni Porzio
Guerre di Dietro i sanguinosi scontri tra musulmani e cristiani in Nigeria
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attedrali delle dimensioni di San Pietro e moschee che rivaleggiano con i santuari della Mecca. Una miriade di chiese semiclandestine e luoghi di culto musulmani che prolificano nelle periferie urbane. Autoproclamati profeti cristiani che si spingono nelle foreste brandendo il Vangelo e predicatori che setacciano i villaggi, armati del Corano: il crocifisso contro la mezzaluna dell’islam.
A caccia di fedeli
La guerra per la conquista dell’anima africana è in pieno svolgimento e la Nigeria, 140 milioni di abitanti che professano equamente le due
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religioni, è in prima linea: a cavallo di quella faglia culturale, non segnata sulle carte geografiche, che separa l’Africa berbera, araba e musulmana dall’Africa nera, cristiana e animista. Non è un confine netto. E religione è un termine riduttivo, una categoria che il sincretismo sviluppatosi nelle regioni subsahariane assimila alle tradizioni e alle credenze ancestrali: il fatalismo, la convinzione che il destino dell’uomo sia governato da forze inconoscibili, la devozione agli antenati, l’immanenza degli spiriti, benevoli o malvagi, capaci di determinare il corso degli eventi.
foto AFP
RELIGIONE? RELIGIONE
Celebrazione della Via Crucis il Venerdì Santo, per le vie di Kano, città del nord a maggioranza musulmana. A causa dei recenti episodi di violenza a carattere etnicoreligioso, la processione viene fatta sotto scorta armata.
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chiese
COLPO D’OCCHIO
Ordinamento politico . Repubblica federale Presidente . Olusegun Obasanjo Capitale . Abuja Superficie . 923.770 Kmq Popolazione . 125.000.000 abitanti Lingua ufficiale . Inglese Religioni . Musulmana, cristiana Popolazione urbana . 45,9% Alfabetizzazione . 66,8% Aspettativa di vita . 47 anni Popolazione sotto soglia povertà . 60% Risorse economiche . idrocarburi, legname, agricoltura
La più popolosa nazione africana è lacerata da massacri e sommosse a sfondo religioso. Ma i motivi reali che infiammano le violenze non hanno niente a che vedere con Dio Nei villaggi più remoti i missionari cristiani e i marabutti musulmani sono spesso considerati alla stregua degli stregoni versati nelle arti magiche e dei guaritori che esorcizzano disgrazie e malattie con le pozioni di erbe e i talismani, Al collo di un Africano stanno appesi, indifferentemente, juju di pelli di capra, denti di leopardo, medagliette con l’immagine della Madonna e astucci con i versetti del Corano. Ma negli ultimi anni la spinta all’evangelizzazione e la propaganda islamica hanno assunto toni più aggressivi. 70 africa · numero 3 · 2010
Il fondamentalismo si diffonde anche tra i popoli africani più tolleranti e meno inclini al dogmatismo ideologico. E la competizione tra le due grandi fedi monoteistiche sfocia sempre più spesso in sanguinosi tumulti confessionali.
I veri problemi Dall’indipendenza (1960) a oggi, si calcola che le vittime siano state oltre diecimila nel solo Stato dell’Altopiano, dove è sorta Abuja, la nuova capitale. L’ultima faida fra cristiani e musulmani, lo scorso 19
In Nigeria proliferano le comunità pentecostali nate all’inizio del secolo scorso negli Usa. Le sette si moltiplicano. A pastori bene intenzionati si mescolano ciarlatani e imbonitori da strapazzo e i fedeli accorrono
Fanatici fino alla morte
gennaio, ha provocato 192 cadaveri nella città di Jos. A scatenare i conflitti, più che l’appartenenza confessionale, sono quasi sempre ragioni economiche, politiche e sociali. In Sudan, da secoli terra di predicazione dei mistici musulmani e dei visionari sufi, la ventennale guerra santa contro il Sud cristiano è stata un efficace strumento di propaganda del regime integralista di Khartoum e il paravento di una spietata lotta politica per lo sfruttamento delle risorse idriche e minerarie del Paese. In Nigeria, i Fulani
e gli Haussa, etnie islamizzate nel tardo Medioevo, si erano installati due secoli fa sull’Altopiano cacciando da quelle terre i cristiani tarok, che ora pretendono di rientrare in possesso delle terre ancestrali. La religione, potente fattore di riconoscimento identitario, finisce tuttavia per agire da catalizzatore delle frustrazioni e delle aspirazioni etniche e tribali in Paesi afflitti da crescenti disparità sociali, dove le élite al potere si arricchiscono a dismisura e la maggioranza degli abitanti sopravvive a stento. In Ni-
geria, ottavo esportatore di greggio al mondo e il terzo fornitore degli Stati Uniti, il 70 per cento della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno: gli oltre 380 miliardi di dollari in royalty petrolifere incassati in 40 anni dal governo federale sono stati sperperati, o semplicemente rubati da una nomenklatura tra le più corrotte del pianeta.
Deriva fondamentalista Nel 1999, l’introduzione della sharia nei 12 Stati musulmani del Nord era stata accolta con favore: la nuo-
Nell’Africa subsahariana le cosiddette Chiese indipendenti sarebbero più di 10mila. Sorte come reazione alle Chiese ufficiali associate al colonialismo, amalgamano elementi mutuati dal cristianesimo con riti magici, esoterici e animisti che sfociano talvolta in terribili tragedie. Come nel marzo 2000 in Uganda, dove due psicopatici alla guida del Movimento per la Restaurazione dei Dieci comandamenti, l’ex venditrice di banane e prostituta part time Credonia Mwerinde, e l’ex ispettore scolastico Joseph Kibwetere diedero fuoco alla chiesa del villaggio di Kanungu: più di 500 devoti, la maggior parte donne e bambini, morirono carbonizzati.
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chiese
Nel nome di Dio si annientano interi villaggi. E la gran parte degli assassini resta impunita.
continuano le discriminazioni a danno dei cristiani: a Kano non possono costruire luoghi di culto e il governo finanzia solo le madrasa islamiche. Decine di chiese sono state bruciate. Come pure numerose moschee, per vendetta e ritorsione.
L’ombra di al-Qaida va giurisdizione riempiva il vuoto lasciato dal collasso dell’amministrazione e dei servizi locali e prometteva di ristabilire ordine e moralità dove dilagavano arbitrio e corruzione. Ma accanto agli ulama moderati e pragmatici apparvero ben presto gli islamisti più intransigenti, fautori di un’applica72 africa · numero 3 · 2010
zione letterale della legge coranica: velo alle donne, amputazione degli arti per i ladri, lapidazione per le adultere. Safiya Huseini e Amina Lawal, condannate a morte per avere avuto figli fuori dal matrimonio, sono state salvate dalla mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale. Mentre
La penetrazione dell’integralismo islamico nell’Africa nera ha messo in allarme i servizi segreti occidentali, già alle prese con i gruppi terroristici attivi a nord del Sahara, dal Maghreb al Libano. Movimenti fondamentalisti armati sono attivi in Uganda, Kenya, Etiopia, Eritrea. Cellule vicine ad al-Qaida sono state segnalate in Ciad, Mali,
Mauritania, Niger e Somalia. Tanto che gli Stati Uniti hanno investito 500 milioni di dollari per fornire aiuti militari a nove paesi africani definiti a rischio. L’organizzazione di Bin Laden non fa del resto mistero delle proprie intenzioni. Decine di jihadisti reduci dall’Afghanistan e addestrati in Pakistan sono stati inviati a combattere la guerra santa nel continente africano. E nel giugno 2006, in un lungo articolo pubblicato in Arabia Saudita su Sada al-Jihad (L’Eco del jihad), l’ideologo di alQaida Abu Azzam al-Ansari spiegava i vantaggi del nuovo «campo di battaglia contro i crociati»: la povertà dell’Africa «consente ai
Scia di sangue
nostri guerrieri di guadagnare influenza attraverso donazioni e attività umanitarie». La sua contiguità con il Nord Africa ne fa la base ideale «per attaccare i nostri obiettivi in Europa»; e la sua ricchezza di idrocarburi e materie prime «ci sarà di grande utilità nel medio e nel lungo termine».
La fabbrica delle Chiese Solo un Africano su tre, a sud del Sahara, si inginocchia in direzione della Mecca. Il cristianesimo, radicato in Etiopia fin dai primordi della nostra era e poi utilizzato in epoca coloniale per fermare l’espansione dell’islam, è ancora la religione più diffusa. Ma non costituisce un insieme omogeneo. Cattolici e
metodisti, anglicani e protestanti delle Chiese indipendenti, avventisti e seguaci delle innumerevoli sette autoctone sono spesso in concorrenza tra loro. L’islam, al contrario, benché ramificato nelle diverse scuole giuridiche, si presenta come un insieme di valori e di norme organico e coerente. In Nigeria, i musulmani sono sempre più numerosi anche nel Sud cristiano. La Chiesa cattolica è in difficoltà. Non solo per l’espansione dell’islam africano ma anche per la proliferazione delle sette che si richiamano al cristianesimo. Miseria e ignoranza facilitano la diffusione di culti esoterici e movimenti mil-
lenaristici, messi al bando dalle gerarchie ecclesiastiche, che tuttavia radunano migliaia di fedeli. Chiese evangeliche e carismatiche dai nomi improbabili: Chiesa dell’ultimo messaggio, Chiesa della Vittoria, Chiesa dell’Eterno ordine sacro, Legioni di Maria, Chiesa di Zion, Montagna di Beatitudine, Assemblea di Dio, Cappella internazionale di Cristo. E “ministri” che dagli enormi cartelloni pubblicitari garantiscono miracolose guarigioni, felicità, ricchezza, figli maschi e persino una last minute redemption: una “redenzione dell’ultimo minuto”… Per mettersi in pace con Dio, in extremis. Prima che sia troppo tardi. •
L’ultimo massacro a sfondo religioso in Nigeria è avvenuto lo scorso 8 marzo quando cinquecento cristiani sono stati uccisi a colpi di machete in un villaggio nel centro del Paese. Il 19 gennaio nella cittadina di Jos, la faida fra cristiani e musulmani lasciò sul terreno 192 cadaveri. Sempre a Jos, nel novembre 2008, all’indomani delle elezioni locali, violenti scontri interconfessionali provocarono oltre duecento vittime. Lo scorso luglio nel Nord del Paese sono scoppiate violente battaglie fra l’esercito governativo e alcuni estremisti islamici che hanno causato 780 morti. Nel maggio 2004 non meno di 630 musulmani furono trucidati da una folla di cristiani inferociti a Yelwa, 300 chilometri a ovest di Abuja. Nel novembre 2002, a Kaduna, gli scontri furono innescati dalle proteste contro il concorso di Miss Mondo: 250 vittime in tre giorni. Due anni prima, sempre a Kaduna, l’adozione della sharia nel popoloso Stato del Nord aveva provocato una strage: più di duemila morti, cristiani e musulmani.
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chiesa in africa
a cura di Anna Pozzi
Nordafrica •
Vescovi: missionari cristiani esplulsi e libertà religiosa Uno sguardo al Sinodo africano che si è tenuto lo scorso ottobre e un altro al prossimo Sinodo per il Medio Oriente previsto per il prossimo autunno. La Chiesa del Nordafrica (Marocco, Algeria, Tunisia e Libia) si è data appuntamento a Rabat, in Marocco, a fine aprile, per riflettere sulla propria specificità, tenendo sullo sfondo questi due grandi eventi. Una situazione a cavallo fra due mondi, che già la dice lunga sulla complessa identità di questa piccola Chiesa e sulle sfide che si trova oggi ad affrontare. Al centro dei lavori, la questione della libertà di culto e del dialogo interreligioso, ma anche la notevole presenza di migranti subsahariani (in gran parte cristiani) nel Nordafrica, che richiede una speciale cura pastorale. In particolare, sottolinea un comunicato della Conferenza episcopale, si è approfondita la discussione «sulle espulsioni dei missionari cristiani dai Paesi nordafricani e sulle difficoltà incontrate nell’esercizio della libertà religiosa». Il fatto nuovo, precisa alla Radio Vaticana Luciano Ardesi, esperto dell’area maghrebina, è che in Marocco, negli ultimi anni, è nata una comunità di cristiani, di origine marocchina, e quindi queste espulsioni hanno portato in superficie un fenomeno sommerso. Questo gruppo reclama un dialogo con il governo del Marocco ed una libertà di fede che non ritiene oggi garantita nel loro Paese.
R.D.Congo •
Lra: un gruppo “terrorista”
I
«
l Lord’s Resistence Army deve essere considerato un gruppo terrorista». Non usa mezzi termini il vescovo di Dorma-Dungu, nel nord-est del Congo, esasperato per i continui attacchi dei ribelli ugandesi dell’Esercito di Resistenza del Signore (Lra) che si ripetono nei pressi della città di Dungu, a 780 chilometri a nord-est da Kisangani, capoluogo della Provincia Orientale nella Repubblica Democratica del Congo. Anche il vescovo di Bondo, mons. Etienne Ung’Eyowun, ha denunciato la difficile situazione nella sua diocesi, dove i ribelli ugandesi occupano tre delle quattro chefferies locali (distretti), costringendo migliaia di persone alla fuga. «i guerriglieri ugandesi si sono divisi in almeno cinque gruppi che imperversano tra Congo, Centrafrica e Sud Sudan - spiega Mons. Domba Mady -. Sono diventati un problema regionale. Continuano a seminare morte e distruzione, ma non si capisce cosa vogliano, né quale sia il loro programma politico. Questo gruppo deve essere classificato come un’organizzazione
La basilica di Sant’Agostino ad Annaba (l’antica Hippona), uno dei luoghi-simbolo della presenza cristiana nel Nordafrica
Uganda •
UNA SCUOLA PER OPERAtORi SANitARi La Fondazione Spe Salvi dell’Università Cattolica di Milano ha aperto lo scorso 16 aprile una struttura per più di 200 studenti, futuri operatori sanitari, presso il campus dell’Uganda Martyrs University a Nkozi. Il Dipartimento di Scienze sanitarie (cinque aule più una sala professori) è un progetto realizzato dalla Fondazione, in collaborazione con il CuammMedici per l’Africa e la Cooperazione italiana. All’inaugurazione sono inter74 africa · numero 3 · 2010
Somalia •
Fondamentalisti: campanella vietata
Rifugiati congolesi, fuggiti dai loro villaggi, a causa dei crudeli attacchi dell’Lra. Foto Peter Martell/IRIN
Quando fondamentalismo fa rima con stupidità. Ovvero quasi sempre. Ma in Somalia ha superato la soglia del ridicolo. Peccato che la situazione nel Paese sia così tragica che ci sia ben poco da ridere. L’ultima trovata dei miliziani islamisti di Shabaab è stata quella di vietare nella città di Jowhar - una novantina di chilometri da Mogadiscio - il suono della campanella nelle scuole, perché ricorda le campane delle chiese. «Il suono della campana a scuola per richiamare gli studenti è contrario all’islam - ha dichiarato Jowhar Cheikh Farah Kalr, uno dei responsabile di Shabaab -; suonare le campane è appannaggio delle chiese cristiane». «È una misura ridicola - ha commentato il direttore di una scuola, dopo un incontro con altri dirigenti -, ma abbiamo deciso di rispettare l’ordine, perché non possiamo fare altro». foto Ismail Warsameh/Flickr
terrorista». Nella Provincia Orientale, ben quattro diocesi (Dorma-Dungu, Buta, Bondo e isiro-Niangara) sono interessate direttamente o indirettamente alla presenza dell’Lra, che semina violenza e distruzione e costringe la popolazione locale alla fuga dai propri villaggi.
Sudafrica •
Ricostruire l’immagine in rovina della Chiesa
venuti anche l’arcivescovo Cyprian Lwanga Kizito, arcivescovo di Kampala, nonché il vice presidente dell’Uganda e il ministro dell’Educazione, a sottolineare l’importanza di questa nuova struttura, che permetterà di formare i futuri operatori sanitari nel campo della promozione della salute e del management dei servizi sanitari.
Con grande coraggio e lucidità, l’arcivescovo di Johannesburg, mons. Buti Tlhagale, ha toccato un argomento che in queste settimane riempie le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, ma che ha solo sfiorato l’Africa: quello dei preti pedofili. Lo ha fatto durante la messa crismale del Giovedì Santo, ricordando che «questa stessa piaga è presente anche in Africa». «In questo Giovedì Santo in cui celebriamo la nascita del sacerdozio - ha detto l’arcivescovo durante l’omelia -, è un imperativo per noi unirci a san Francesco nell’opera di ricostruzione dell’immagine in rovina della Chiesa. E lo potremo fare solo se noi stessi cambieremo, se saremo al di sopra di ogni rimprovero. Questa è l’unica strada che abbiamo davanti per ricostruire la fiducia e il rispetto della gente per la Chiesa e per i suoi preti». Mons. Buti ha poi citato le parole di Benedetto XVI ai vescovi d’Irlanda, chiedendo in particolare ai sacerdoti di coltivare ogni giorno la loro «conversione personale». E ha aggiunto: «Questo è il tempo della crisi. Ma è anche un tempo di opportunità per sperimentare la forza redentrice della grazia di Cristo crocifisso e per cercare di diventare un esempio di quelle storie magnifiche contenute nel Vangelo». africa · numero 3 · 2010
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togu na
a cura della redazione
Una grande festa
Donne coraggio
Voglio le foto
Ogni estate la provincia di Treviso, roccaforte leghista ad alto tasso d’immigrazione, ospita la più vivace e colorata festa multirazziale d’Italia. S’intitola Ritmi e Danze dal Mondo e si svolge da 15 anni nel comune di Giavera del Montello. Al grande meeting multiculturale collaborano 40 associazioni di stranieri migranti e partecipano oltre 25mila persone che arrivano da tutto il Nordest e oltre. Un appuntamento di festa che si snoda con spettacoli, conferenze e dibattiti. Invito i lettori di Africa a non mancare alla prossima edizione che si svolgerà dal 4 al 6 giugno. www.ritmiedanzedalmondo.it Annalisa Galan, San Donà di Piave, VE
Ho letto l’articolo “Terrore in casa” sulle violenze domestiche subite dalle donne etiopi. Un pugno nello stomaco! Ma non dobbiamo dimenticare che anche in Italia moltissime donne subiscono ogni giorno maltrattamenti e abusi tra le mura di casa. Per una volta dovremmo prendere esempio dall’Africa e rompere il silenzio dell’omertà, denunciando l’inferno invisibile che avvolge troppe vittime innocenti. Eleonora Campanile, Varese
Sono una vostra affezionata lettrice, ho visitato la mostra “L’Africa nel Pallone” che avete presentato a Milano. Vorrei farvi i miei complimenti: le foto sono davvero stupefacenti! Un’unica critica: perché non avete pensato a realizzare un catalogo della mostra? Ne valeva senz’altro la pena. Avreste potuto guadagnarci qualcosa, offrendo al tempo stesso un gradito souvenir al pubblico che ha mostrato di apprezzare il vostro lavoro. Bravi comunque. Fulvia Battistini, Vedano, MI
L’Eni non c’entra Vi scrivo in riferimento al servizio “Primavera nel Delta” (Africa n.2/2010). Ho lavorato per molti anni in Nigeria per conto di una società del gruppo Eni. Posso testimoniare di aver visto coi miei occhi territori e fiumi inquinati da chiazze di greggio. Colpa delle multinazionali del petrolio? Non proprio: gli impianti rispondevano a rigidi standard di sicurezza, il problema semmai erano le bande di malviventi locali che danneggiavano gli oleodotti per spillare il petrolio e sabotare i profitti delle società estrattrici. Questi banditi si spacciano per guerriglieri anticolonialisti ma erano solo delinquenti. Giacomo Novelli, Massa Carrara 76 africa · numero 3 · 2010
Senti chi parla Perché voi giornalisti italiani vi ostinate a denunciare la corruzione dei politici africani, il loro clientelismo, la loro carenza di sensibilità democratica? Mi chiedo: perché non cominciate a guardare a casa vostra? Vivete in un Paese con una classe politica vecchia, inadeguata, spesso collusa con faccendieri e malviventi. Se guardaste oltre i vostri confini provinciali (basterebbe un telegiornale di Al jazeera, CNN o BBC), vi accorgereste che l’Italia fa una pessima figura a livello internazionale, per colpa dei suoi politici. Forse, prima di giudicare in malomodo l’Africa, dovreste accorgervi dei problemi di casa vostra. Paula Silva Dunduro, Milano
Liberateci dal monumento Sono appena tornato da un Senegal in festa per i cinquant’anni della sua indipendenza. Tv e giornali hanno mostrato solo le celebrazioni ufficiali coi po-
litici impettiti e sorridenti. Ma posso assicurarvi che a Dakar ci sono state molte manifestazioni di protesta contro la retorica che ha avvolto questo evento, oscurando i problemi economici e sociali della gente. Lo scandalo più grande riguarda il costoso e inutile monumento dedicato alla rinascita africana che campeggia nella capitale. È incredibilmente brutto e fuori posto. Secondo la maggior parte dei Senegalesi andrebbe abbattuto. Yassine Faye, via mail
Più efficienza! Ma perché non fate sapere quante copie della rivista mancano prima dello scadere dell’abbonamento? Sarebbe sufficiente un promemoria inviato per posta. E poi, mi chiedo, non è possibile rinnovare l’abbonamento pagando online tramite carta di credito, come fanno molte riviste? Io non ho tempo di fare code alla posta. Stefano Sacconi, Vimercate, MI Grazie per la segnalazione, ne terremo conto. Stiamo lavorando per fare una rivista sempre migliore, compatibilmente con le risorse, umane e finanziarie, di cui disponiamo.
Se fossi un mago Se avessi una bacchetta magica riporterei la pace in Somalia e Congo, manderei in pensione Mubarak (Egitto), Gheddafi (Libia) e Mugabe (Zimbabwe). Cancellerei la meningite in Burkina, la malaria in Guinea Bissau, l’Aids in Zambia. E farei vincere al Sudafrica i prossimi Mondiali di calcio. Ma poiché non sono un mago, mi limito a leggere la vostra bella rivista sperando ogni volta di trovare qualche buona notizia per l’Africa. Umberto Calzolai, Vittuone, MI
Prendete anche voi la parola nella “Togu na”. Scrivete a: Africa C.P. 61 24047 Treviglio BG oppure mandate una mail: africa@padribianchi.it o un fax: 0363 48198
n. 3 maggio.giugno 2010 www.missionaridafrica.org
Missionario e Muratore in Congo
Un cantiere speciale impegna padre Pino In un’area rimasta per dieci anni priva di ogni assistenza a causa della guerra, un Padre Bianco italiano, con l’aiuto della popolazione locale, rimette in piedi un centro di salute materno-infantile. E le suore infermiere ritornano Novembre 2009. Aboro, una località nel nord-est della R.D.Congo, a 2mila metri d’altezza e a 85 chilometri da Mahagi. È qui che arrivo e scopro una popolazione tagliata fuori dal mondo. Negli anni ‘80, la congregazione della Carità Materna - fondata in Francia nel 1814 dalla dottoressa Etienne Morlanne - mandò tre religiose per aprire un centro di salute. Due mesi dopo l’apertura, si inaugurava la maternità: una ventina di donne al mese per
il parto, i controlli medici e le vaccinazioni dei neonati. Le suore si occupavano anche della salute dei bambini in età scolare, degli adulti e visitavano i malati percorrendo a piedi i dintorni. Nel 1999, la guerra tra i Lendu (coltivatori) e gli Hema (allevatori) le obbligò a fuggire. Interi villaggi vennero distrutti e molti innocenti massacrati. Fu il tempo dell’orrore. Perfino dei neonati vennero uccisi con il pretesto di salvaguardare la purezza dell’etnia! Furono anni d’incubo, mentre un infermiere e un’ostetrica continuavano ad assicurare una presenza minima. Quando sono arrivato, ho trovato 4 puerpere ed altre 5 mamme in attesa del parto. Ho visto la gravità della situazione, il deperimento degli edifici e l’assenza pressoché assoluta di letti e di strutture ospedaliere decenti. Con la madre generale della Carità Materna ho visitato accuratamente il Centro e la maternità oltre che la loro casa, e abbiamo deciso di riabilitare il tutto. Ancora prima dei mattoni e del cemento, ritengo che il primo compito del missiona-
I ragazzi della scuola con mucchi di sabbia raccolti nella valle
padri bianchi . missionari d’africa
di Pino Locati rio sia di essere il messaggero della Parola, che scende dai monti di Dio e annuncia al popolo liete notizie (Isaia 57,2). La Parola è il primo paniere di vita che il missionario offre alla sua gente; il secondo paniere, frutto del primo, è guarire il corpo in tutte le sue infermità. Da 15 anni offro il mio tempo e le mie energie per il servizio della Parola e ad Aboro ho avuto l’occasione e la gioia di tradurre visibilmente il mio impegno per la Parola in azione samaritana.
All’arrembaggio del primo edificio
Sabato 2 gennaio, sono partito da Mahagi con un camion per trasportare il materiale necessario alla sistemazione della casa delle suore. La gente è accorsa per aiutare. In dieci giorni abbiamo fatto i lavori previsti ripulito il tetto e tinteggiato i locali. Le grondaie, il giardino, le fondamenta per i serbatoi dell’acqua, porte, finestre, stenditoio... Una cosa per volta, e tutto è andato a posto. Bravissimi i 350 ragazzi della scuola primaria, che sono andati a prendere la sabbia in fondo alla valle, con capitomboli a non finire per il sentiero sdrucciolevole. Scendevano come uno sciame d’api risalendo poi il sentiero quasi di corsa! La casa ritrovava così il suo decoro per accogliere delle persone. Il 25 febbraio tre suore infermiere sono approdate ad Aboro per riprendere il servizio interrotto dieci anni prima. Resta ora da mettere mano agli altri due edifici, un’operazione che si farà verso ottobre, al mio rientro dall’Italia e dopo un giro di predicazione per gli esercizi spirituali nell’Ituri e nel Kivu. Tempo previsto per i lavori: un mese. Ce la faremo? E perché no?! Sarà magnifico allora contemplare un piccolo miracolo d’umanità in questa campagna isolata e fredda!
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Angeli soli in Mozambico Dare speranza a bambini senza famiglia Una suora mozambicana, un missionario per appoggiarla, un benefattore in Italia e tanti bambini senza famiglia: ecco come nasce un centro per dare un avvenire a tanti angeli innocenti
Si chiama “Santi angeli innocenti”. È un centro fondato nel 1998 come risposta al crescente fenomeno dei bambini di strada nel rione di Manga, popoloso sobborgo di Beira, nel cuore del Mozambico. L’iniziativa parte da una religiosa mozambicana, suor Delfina Tamega, particolarmente colpita dalla tragica situazione di tanti ragazzini allo sbando. Dopo averli avvicinati, frequentati e conosciuti per strada, organizza questo centro, che viene inaugurato con 37 bambini, alcuni orfani altri no ma nessuno con
una famiglia che possa dare loro affetto, assistenza e una speranza per il futuro. L’iniziativa è approvata e sostenuta dal parroco locale, un missionario comboniano, che mette in contatto suor Delfina con un benefattore veronese. Questi prenderà a cuore il progetto e riuscirà a trovare anche dei fondi dell’Unione europea per la ristrutturazione degli edifici e per coprire parte delle spese per il funzionamento della struttura. Si costituisce anche un gruppo di persone per l’adozione a distanza, tuttora esistente anche se il numero dei benefattori è andato sensibilmente calando.
Situazione attuale
Al momento ci sono 164 ospiti dagli ...zero ai vent’anni. I più piccoli sono ospitati in una casa a parte, distante un centinaio di metri dal centro, nella quale risiedono anche alcune novizie della congregazione che Suor Delfina ha fondato di recente. I ragazzi sono suddivisi in piccoli gruppi, ognuno dei quali ha una “mamma” che li segue. Scopo principale del centro è dare ai ragazzi un’istruzione e una buona formazione umana. Tre di loro, presi dalla strada, stanno
di Claudio Zuccala già frequentando l’Università cattolica, che a Beira è presente con due delle sei facoltà aperte nel Paese. Il centro è dotato di aule per gli alunni dal primo al decimo anno (secondo il sistema scolastico mozambicano) ed è il ministero dell’Istruzione che fornisce gli insegnanti e li retribuisce. Manca l’ultimo biennio (quello che completa la scuola superiore) e i ragazzi devono frequentare altrove, con un notevole supplemento di costi. Ecco perché uno dei progetti attuali è la costruzione di due aule. All’epoca della mia visita non era ancora stato stilato un preventivo. Un’altra necessità è lo scavo di un pozzo, in quanto il centro, non avendo saldato la bolletta dell’acqua a causa della cassa vuota, è stato slacciato dall’acquedotto locale. Anche qui si sta preparando un preventivo.
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A COSA SERVE IL 5XMILLE
destinato alla Onlus Amici dei Padri Bianchi? • A finanziare progetti umanitari in Africa • A sostenere le opere sociali dei Padri Bianchi italiani • A promuovere la solidarietà internazionale con conferenze e dibattiti pubblici • A far conoscere le ricchezze culturali ed umane del continente africano, attraverso la rivista Africa Non dimenticare di metter il nostro codice fiscale nell’apposito spazio per destinare il tuo 5xmille dell’IRPEF:
93036300163
Suor Delfina con alcuni bambini ospiti del centro
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Info: tel. 036344726 africa@padribianchi.it http://www.missionaridafrica.org/ onlus-adpb.htm
Piccoli miracoli a Kinshasa Distribuire ogni giorno l’acqua potabile. Salvare da morte certa centinaia di bambini malnutriti. Sono le attività a cui padre Italo si dedica con passione ed efficacia, grazie anche alla collaborazione degli amici in Italia e dei lettori di Africa
di Italo Iotti
Il centro nutrizionale “St. Etienne” compie 2 anni il mese di maggio: colgo l’occasione per ringraziare i generosi benefattori che, per mezzo della rivista Africa, hanno contribuito alla costruzione dei locali e al buon funzionamento del progetto. La mortalità infantile è molto elevata à Kinshasa. Le cause più frequenti sono la malaria, la febbre tifoidea (la “malattia delle mani sporche”) e la malnutrizione. Combattere la malaria sembra facile (zanzariere e chinino), ma non lo è affatto. Anche per noi adulti è diventata un proble-
ma. Dopo 2 cicli consecutivi di chinino la malaria è ancora lì presente… Aspettiamo il famoso vaccino che non arriva mai e intanto tiriamo avanti con il chinino. La febbre tifoidea cerco di combatterla con il progetto Mai ya liziba (acqua di sorgente). Distribuisco ogni giorno 250 metri cubi d’acqua di sorgente in 4 quartieri di Kisenso, uno dei Comuni della capitale Kinshasa. Riesco a servire una popolazione di circa 30mila abitanti… un piccolo miracolo. Dal mese di maggio 2004 ad oggi, ogni giorno, senza interruzione, ho la gioia di dare un po’ d’acqua pulita da bere. Ma non riesco a servire tutta la popolazione: siamo quasi in 200mila a Kisenso. La malnutrizione è la più facile da “guarire”, e il progetto sta andando avanti abbastanza bene. In 22 mesi il nostro piccolo centro
Alcune mamme con i loro bambini ospiti del centro nutrizionale
padri bianchi . missionari d’africa
Una veduta del futuro dispensario
ha salvato e rimandato a casa 480 bambini affetti da kwashiorkor. Purtroppo una ventina di bambini non ce l’hanno fatta, a causa anche di altre complicazioni.
Tutto gratis. E c’è un motivo
Il fabbricato è molto semplice: tre stanzoni per un totale di 25 letti per mamma e bambino, la cucina e una dispensa (per latte, soia, riso), una stanza per le cure, un porticato. Una delle nostre suore si occupa del centro insieme a un infermiere e due mamme volontarie. Il centro accoglie i bambini ammalati con le loro mamme. La cura, semplice ed efficace, consiste nel dare al piccolo, otto volte al giorno, un bel bicchierone di latte, soia e zucchero. Quando il bambino sta meglio, si passa a un impasto di arachidi e soia. La mamma dovrebbe procurarsi il cibo per sé portandolo da casa, ma spesso si distribuisce un po’ di riso e manioca. Nel contempo i bambini vengono curati dalle malattie parassitarie. Il tutto è offerto gratuitamente dal centro, e la ragione è semplice: i bambini provengono da famiglie poverissime che non avrebbero i mezzi per curarli e, in molti casi, le mamme si trovano in situazioni di particolare disagio. Il centro è gemellato con la maternità e con il futuro dispensario, la cui costruzione è ormai a buon punto. Tre unità, gestite assieme, che offrono una certa garanzia anche per quando gli aiuti che vengono da fuori saranno cessati. A tutti quelli che mi hanno sostenuto nella realizzazione e funzionamento del centro, a voi della rivista Africa, vorrei dire un grazie sincero anche a nome dei tanti bambini che abbiamo potuto salvare.
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SOLIDARIETà
I progetti sostenuti da Africa 1-10 RD Congo Sostegno al Centro nutrizionale di Kisenso Referente: padre Italo Iotti
2-10 Sudan Costruzione nuova chiesa a Khartoum
Referenti: Padri Bianchi in Sudan La prima chiesa dal 1964 che il governo ha autorizzato a costruire nel nord del Paese
3-10 R.D.Congo Goma: assistenza a profughi e rifugiati Referente: padre Xavier Biernaux
4-10 Mali Una motozappa a Kolongotomo Referente: padre Alberto Rovelli
5-10 Mali Centro di formazione per laici Referente: padre Arvedo Godina
6-10 Burkina Faso Dori - Il mulino della speranza Referente: padre Pirazzo Gabriele
7-10 Borse di Studio Per studenti Padri Bianchi Referente: padre Luigi Morell
8-10 Congo Rcostruzione maternità Aboro Referente: padre Pino Locati
Francobolli per le missioni Raccogliamo francobolli usati. Inviare a: P. Sergio Castellan Padri Bianchi - Casella Postale 61, 24047 Treviglio (Bergamo)
Nairobi, una Pasqua diversa Piccoli aneddoti, ma significativi, dalle liturgie della passione e risurrezione di Cristo in salsa keniana di padre Luigi Morell Le celebrazioni pasquali quest’anno hanno avuto qualche risvolto inaspettato. Invece di celebrare la Settimana Santa nella parrocchia locale tenuta dai miei confratelli, con i seminaristi di teologia della comunità a cui appartengo, mi è stato chiesto di dare un aiuto alla parrocchia vicina, servita dai missionari Spiritani. Situata nella baraccopoli di Mukuru, la parrocchia si estende attorno alla zona industriale. Una parte di essa si trova in un’area in pieno sviluppo edilizio, dove le case di lamiera vengono sostituite da condomini. Ci sono 6 chiese, ancora tutte in lamiera, mentre i Padri risiedono in una delle villette costruite all’interno di un recinto chiamato, in inglese, estate. Siamo anche nella stagione delle piogge, che quest’anno, grazie a Dio, sono state abbondanti. Il Venerdì Santo abbiamo iniziato la Via Crucis nel cortile di un distributore di benzina avviandoci verso la chiesa, distante circa un chilometro. All’inizio c’erano una trentina di persone. La folla è andata via via aumentando mentre si scendeva lungo la strada fangosa. A tanti la
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80 africa · numero 3 · 2010
nostra processione non diceva niente ma molte persone, tra cui gli autisti dei pulmini di servizio pubblico - i famosi matatu -, si fermavano per partecipare, almeno per il momento del passaggio. Una delle stazioni della Via Crucis era prevista davanti al commissariato di polizia. Un gruppetto di prigionieri in custodia cautelare ha seguito la funzione da dietro la grata. Arrivati in chiesa, abbiamo iniziato la liturgia della passione di Gesù e la venerazione della croce.
Il Paese è calmo
Il Sabato Santo, la celebrazione è iniziata alle 18.30 per ragioni di sicurezza. Qui all’equatore è subito buio poco dopo le 19 e nelle baraccopoli non è prudente aspettare la notte per la suggestiva benedizione del fuoco. Lo abbiamo benedetto alla luce del sole che tramontava. Poi, durante la lettura del Vangelo, la corrente elettrica si è interrotta e la chiesa è piombata nel buio. In questi giorni i black-out sono frequenti: ieri 5 volte e oggi per buona parte della giornata! Ma quello non era uno dei soliti problemi, perché solo la chiesa si trovava nell’oscurità. Alcuni parrocchiani si sono dati da fare e sono riusciti a ripristinare l’elettricità. Durante la messa vi sono stati i battesimi di 24 ragazzi e adolescenti: tutto si è svolto a lume di candela. Nessuno si è lamentato. Da parte mia, ora che mi sento più a mio agio con il kiswahili, non ho avuto difficoltà a predicare al buio, senza uno sguardo ai miei appunti. Qualche mese fa sarebbe stato… tragico. La situazione generale del Paese è calma, nonostante il progetto di Costituzione cui si oppongono le Chiese ed altri gruppi. Una clausola infatti lascerebbe aperta la porta all’aborto su semplice raccomandazione medica. L’altro avvenimento di cui si parla è l’arrivo di un giudice della Corte penale internazionale dell’Aia per un’azione nei confronti di quanti sono sospettati di aver organizzato le violenze post-elettorali agli inizi del 2008. Si parla di ministri e uomini d’affari in vista indiziati, sebbene nomi non ne siano trapelati ufficialmente. Sarà un’azione efficace o finirà tutto coperto dalle lungaggini giudiziarie?
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informazioni Il popolo dei monti - I Beni-Ouaraïn del Medio Atlante marocchino
Sui monti dell’Atlante, in un Marocco millenario lontano dai circuiti turistici, in mezzo a una natura ancora inviolata, vivono i Beni-Ouaraïn. Fanno parte dell’antico popolo degli “Uomini liberi”: gli Imazighen, che siamo soliti chiamare berberi. Il loro modo di vita tradizionale è basato sulla solidarietà tra i clan e tra le generazioni. Custodi di una terra che ritengono sacra, essi vivono in armonia con l’ambiente naturale. Per quanto tempo ancora? Le culture tradizionali stentano a sopravvivere nel mondo di oggi. Ma quando l’identità profonda di un popolo va perduta, è tutta l’umanità a impoverirsi. Cerchiamo di conoscere meglio i nostri amici Ouaraïn, prima che sia troppo tardi.
di Corbetta Mariangela, pp. 240, 13 euro
Sotto l’albero della vita - Con gli Alomwe del Malawi
In Africa l’Albero della vita è il baobab, l’enorme pianta che offre molti doni: frutti, radici nutrienti e curative, l’acqua assorbita a tonnellate dal suo fusto spugnoso. La vita raccontata in questo libro è quella del popolo Lomwe che vive sui monti tra il Malawi e il Mozambico. Un’esistenza scandita da antichi riti, eredità di una particolare cultura bantu che ha mantenuto sino ad oggi la propria integrità culturale. L’autore, un missionario comboniano, in quanto capo della comunità cattolica locale è stato accolto fra le autorità tradizionali Lomwe e ha il privilegio di conoscere tale cultura nei più minuti dettagli. La espone in questo corposo volume con la competenza dell’antropologo ma anche con l’affetto e la sollecitudine del pastore.
di Michele Sardella, pp. 368, 15 euro
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Africa
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