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Il Villaggio Valtellina all’Artigiano in Fiera
Anche quest’anno, Artigiano in Fiera edizione 2021 a Fiera Milano Rho-Pero ha avuto un notevole successo, dove la Valtellina, come ormai consueto nel contesto di questo evento, ha presentato l’immagine di una filiera ben strutturata, dai prodotti locali di qualità, alla loro commercializzazione, alla ristorazione. L’Artigiano in Fiera si è confermato dunque un’occasione di grande risonanza per il Villaggio Valtellina, il cui allestimento e coordinamento sono stati curati anche quest’anno (come nelle precedenti otto edizioni) da Valtellina Turismo, nel pieno rispetto delle misure di contenimento dell’emergenza sanitaria ancora in atto (gel, mascherine, distanziamento). «L’obiettivo di Valtellina Turismo – sottolinea il presidente Roberto Galli – è stato quello di veicolare un messaggio di qualità, innalzare l’immagine percepita del nostro territorio e fare in modo che nella nostra Valle giungano sempre più visitatori. Lo spazio valtellinese è stato, come sempre, caratterizzato da una spiccata connotazione territoriale e da un efficace impatto visivo, che ha reso subito riconoscibile e ben individuabile il Villaggio Valtellina». Nella sua ampia area, il Villaggio Valtellina ha ospitato LO STAND DI PROMOZIONE TURISTICA DI VALTELLINA TURISMO e AZIENDE VALTELLINESI DI QUALITÀ, che hanno dato risalto ai prodotti del territorio, tra cui la Bresaola della Valtellina Igp, i vini Doc, Docg e Igt, i salumi tipici, i formaggi, carni fresche e di alta qualità, nettari, confetture di mirtilli e birre artigianali. Ecco l’elenco degli espositori: Alico Carni di Cosio Valtellino, Birrificio Revertis di Caiolo, Gastroval di Albosaggia, Macelleria Nobili di Poggiridenti, Pascol di Sondrio, Azienda Agricola Fumagalli (con i vini della Valtellina), Il botteghino di Giuseppe Servidio di Delebio (con i formaggi dell’azienda agricola Marco Masolatti). Negli stand delle aziende locali i visitatori hanno dunque apprezzato le proposte agroalimentari della nostra provincia. Tra i prodotti di più alto gradimento, è stato sicuramente il pane di ‘SEGALE 100% VALTELLINA’, un progetto ideato e promosso dall’Unione del Commercio e del Turismo/ Confcommercio Sondrio e Coldiretti Sondrio. «All’interno del Villaggio Valtellina era attivo anche il RISTORANTE VALTELLINESE, curato da Fabio Valli del COMBOLO di Teglio, dove, nell’ampio spazio a propria disposizione, il ristorante ha fatto gustare sia i pizzoccheri sia altre ricette della tradizione valtellinese, realizzate con i prodotti del nostro territorio; Inoltre, nello spazio dedicato all’ACCADEMIA DEL
PIZZOCCHERO DI TEGLIO
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le “scarrellatrici”, hanno dato dimostrazione della lavorazione artigianale del pizzocchero sotto gli occhi dei visitatori, riscuotendo grande successo.
Ufficio Stampa: Paola Gugiatti – Tel. 0342.533311 press.valtellinaturismo@gmail.com
un'aula didattica
per ilmuseo



Si sono appena conclusi i lavori di manutenzione straordinaria di un locale a piano terra nell'ala sud del museo per realizzare un'aula didattica. A Palazzo Besta mancava un locale attrezzato (accessibile, riscaldato, con prese di rete, arredi e strumentazioni) dove poter svolgere attività e laboratori con scuole e associazioni e dove poter accogliere studiosi e professionisti per confronti o anche semplicemente per la consultazione del materiale documentale e bibliografico. A questo riguardo negli ultimi anni il museo ha implementato la sezione di volumi in consultazione, relativi alla storia dell'edificio e delle sue collezioni, le pubblicazioni specialistiche di settore (p. es. i bollettini della società archeologica valtellinese) nonché i cataloghi delle mostre e attività culturali organizzate negli anni. Abbiamo reputato importante e improrogabile realizzare uno spazio di tale natura che permetta di svolgere le attività che i servizi educativi della Direzione regionale Musei Lombardia progettano con le scuole e con le associazioni culturali, tanto nel periodo scolastico che durante l'estate. Attività in presenza lungo tutto il corso dell'anno: ad esempio in inverno si avrà la possibilità di svolgere la parte propedeutica o di approfondimento dei contenuti nell'aula riscaldata per poi fare esperienza diretta e autentica del patrimonio nei locali del museo.
Tale intervento si pone in continuità con l'intento programmatico di rendere il museo sempre più accessibile e accogliente per la comunità locale e attrezzato a sviluppare le numerose proposte culturali ed educative che possono essere previste in questo questo strepitoso complesso architettonico e artistico. Come con la sala relax al secondo piano (inaugurata nel 2019, ma riaperta solo recentemente a causa del covid), il museo si dota di nuovi spazi e diventa davvero un luogo vivo e fruibile da diverse tipologie di pubblici.
Un ringraziamento deve essere rivolto al personale del museo (Andreina Bruni e Carmen Mancini) che ha permesso la gestione del cantiere in tempi serrati e ai professionisti coinvolti che hanno lavorato fattivamente per concludere il lavoro ad inizio anno scolastico. E così è stato grazie a: Alessandro Branchi e Marco Cerasa Elettrotecnica Branchi), Massimo Martinelli, Claudia Melchionna e Alfredo Travaini.





Bormio t. 0342 951008 f. 0342 950185 Bormio (So) via Milano 119 –Feval Elettroforniture srl 23032 t. 0342 951008 f. 0342 950185 e. bormio@feval.itvia Nazionale Loc. Giardini 7/D - 23030 Chiuro (So) t. 0342 483048 - f. 0342 483050 - e. info@feval.it Delebio (So) via Legnone 14/A www.feval.it - 23014 t. 0342 696474 f. 0342 696484 e. delebio@feval.it Lecco Lecco (Lc) via Ghislanzoni 66/68 t. 0341 362647 - 23900 f. 0341 284460 t. 0341 362647 f. 0341 284460 e. lecco@feval.it
Lurate Caccivio (Co) via Lombardia 9 - 22075 t. 031 491290 f. 031 491186 e. lurate@feval.it Piateda (So) via Roma 71 - 23020 t. 0342 370217 f. 0342 371605 e. piateda@feval.it
Lurate Caccivio t. 031 491290 f. 031 491186
Delebio Piateda t. 0342 696474 t. 0342 370217 f. 0342 696484 f. 0342 371605
Tremezzina t. 0344 280010 f. 0344 280012

Una Storia lunga 400 anni
C'era la fame. I campi davano patate, segale, orzo, cerali minori. Ma poi lentamente i poveri contadini valtellinesi incominciarono a conoscere una nuova pianta che cresceva in fretta, che si poteva seminare subito dopo la raccolta della segale, che in 90/100 giorni produceva grossi semi di forma tetraedrica riuscendo a regalare un raccolto in più. Lo chiamarono furmentùn, fraina o farina negra, ma anche con nomi strani, öc'de rat o trecantón (Grosio), ed in poco tempo diventò un importante ingrediente della quotidiana alimentazione dei contadini della Valtellina. Circa 30/35 chilogrammi di farina per ogni pertica di campo. "A San Giacomo il grano deve essere nato o seminato" si diceva a Teglio per ricordare che il 25 luglio era l'ultimo giorno buono per seminare il grano saraceno, mietuto poi a settembre/ottobre. Infatti Il grano saraceno era seminato dopo la raccolta della segale ed era maturo dopo circa 90 giorni. Si mieteva e si faceva essiccare mettendo in piedi i piccoli covoni che nell'insieme ricordavano l'aspetto di un accampamento di indiani. Seguiva la battitura, spesso fatta in campo, per non perdere granella nel trasporto. Dopo la stesura di tappeti, i pelorsc, si iniziava a battere per separare la paglia dalla granella. Dalla macinazione si ricavava poi una farina grigia da mischiarsi a quella di mais o anche utilizzata da sola per preparare la polenta, il piatto più importante e certe volte unico nella mensa giornaliera.

Chi non ricorda quel passo del romanzo "I promessi sposi", quando Renzo va da Tonio ... e lo trovò in cucina, che con un ginocchio appoggiato sulla predella del focolare e tenendo con la destra l'orlo d' una pentola posta sulle ceneri calde, vi tramestava col mattarello ricurvo una piccola polenta bigia di grano saraceno..." Quante polente bigie sono state cotte sui focolari delle antiche case valtellinesi, a quanti bimbi contenti perché la polenta era più grande "...ritti accanto al babbo, aspettavano, con gli occhi fissi sul paiolo, che venisse il momento di scodellare la piccola luna, in un gran cerchio di vapori..." come diceva Manzoni. Il romanzo di Renzo e Lucia è ambientato tra 1628 e il 1630, ma in realtà il primo documento che dimostra la presenza in Valtellina del grano saraceno è del 1616. In
Raetia Giovanni Guler Von Weinech, governatore grigionese della Valle dell'Adda parla del grano saraceno coltivato soprattutto sul versante retico delle Alpi, in particolare nel comprensorio di Teglio, in quanto caratterizzato da un clima più mite grazie ad una maggiore esposizione al sole. Una storia lunga 400 anni che ha colorato di bianco i campi della Valtellina, e che si sviluppò soprattutto sul versante retico. Più o meno tutti i comuni retici da Traona a Tirano, ma anche alcuni comuni orobici come Talamona, Sernio, Lovero, Tovo e Mazzo. Teglio fu il paese dove questa poligonacea (il grano saraceno a differenza degli altri cereali non appartiene alla famiglia delle graminacee, ma a quella delle poligonacee) si espanse maggiormente. La coltivazione del grano saraceno si sviluppò per due secoli in tutta la valle interessando anche le zone alpine più alte, fino ad allora improduttive, ma che nei pochi mesi estivi riuscivano a regalare le condizioni climatiche ed ambientali adatte per la crescita e maturazione del saraceno.
Tutto il poco terreno disponibile diventò una coltivazione di grano saraceno e in certi vigneti fu seminato anche tra i filari delle viti. Uno sviluppo che portò il quantitativo di farina prodotta ad eguagliare nel 1830 quella del granoturco. Ma poi verso la metà del 19° secolo iniziò un lento abbandono che culminò alla metà del secolo scorso.Il paesaggio agrario valtellinese subì infatti profonde trasformazioni, la cerealicoltura di montagna vene abbandonata a favore di culture più redditizie, vite, mele, foraggere per l'alimentazione del bestiame. I terrazzamenti più alti, utilizzati come campi per la coltivazione del grano saraceno vennero abbandonati, i lavori e soprattutto la raccolta erano troppo laboriosi e costosi rispetto alla resa in granella. Sopravvissero poche coltivazioni, solo nei terreni più vocati. A Teglio, per esempio, che ancora negli anni cinquanta dedicava a questa coltura il 60% del proprio territorio. Negli anni 70 anche Teglio abbandona la coltivazione. Un lento recupero, sempre nel bellissimo borgo valtellinese, inizia nei primi anni 90 grazie ad agricoltori appassionati, che hanno sempre creduto ad un possibile futuro di questa coltivazione e grazie soprattutto ai contributi dell'amministrazione comunale di Teglio dato agli agricoltori per la coltivazione del grano saraceno sul territorio.
Negli anni 90 c'è poi un grande sviluppo della ristorazione valtellinese e soprattutto di quei piatti che proprio nel grano saraceno trovano l'ingrediente principale. Pizzoccheri, sciat, polenta taragna, diventano i piatti simbolo di una ristorazione sempre più apprezzata dai turisti che scoprono la Valtellina anche come una destinazione enogastronomica. Le cucine dei ristoranti richiedono sempre più grandi quantitativi di grano saraceno che non si trova localmente ed è quindi necessario importarlo dall'estero. Oggi si stimano circa 35 ettari di coltivazione in tutta la provincia di cui 16 nel comune di Teglio, con una produzione media di 7/8 quintali di granella per ettaro. Una produzione troppo bassa rispetto al fabbisogno di grano saraceno utilizzato nella ristorazione provinciale. In provincia abbiamo circa 1.300 ristoranti e d'estate in quasi tutte le feste paesane si cucinano un mare di piatti di pizzoccheri: una stima totale di circa 5 milioni di piatti all'anno. Calcolando un consumo di 80/100 grammi di farina di grano saraceno per piatto (ricetta dell'Accademia dei pizzoccheri di Teglio) per coprire tutto il fabbisogno della ristorazione provinciale ne occorrerebbero circa 4.000 quintali. Ovviamente poi dovremmo calcolare tutta la pasta secca e fresca venduta nei negozi, la farina per polenta, o per altre preparazioni e arriviamo facilmente a circa 8.000 quintali.
La resa per ettaro coltivato a grano saraceno è troppo bassa e troppo dipendente da un clima che spesso proprio nei mesi estivi è molto variabile non permettendo una produzione costante che potremmo comunque stimare in circa 7/8 quintali di granella per ettaro. Calcolando poi una resa in farina del 75% arriviamo ad una produzione di circa 6 quintali di farina per ettaro: circa 1200 ettari di terreno per coprire tutto il fabbisogno provinciale. Tantissimo se pensiamo che la superficie vitata della provincia è di 1250 ettari e quella dedicata alla melicoltura è di 1350 ettari. Pur non riuscendo mai a coprire il fabbisogno di farina di grano saraceno della provincia, il ritorno alla coltivazione potrebbe avere però un'importanza notevole per creare un circuito particolare, una ristorazione di nicchia che promuova il piatto di pizzoccheri a km0 con tutti gli ingredienti utilizzati provenienti dal nostro territorio. Senza dimenticare che la coltivazione del grano saraceno servirebbe anche ad incentivare la coltivazione della segale, a produrre un miele da un gusto particolare con importanti proprietà antiossidanti e antibatteriche, a valorizzazione i terreni abbandonati, a salvaguardare l'ambiente, a migliorare la bellezza del territorio. È quindi auspicabile la creazione di una nuova filiera segale-grano saraceno-miele partendo da una biodiversità alpina che riesca ad entrare nella ristorazione valtellinese Una ristorazione veramente identitaria, un circuito di ristoranti per consumatori disposti a pagare maggiormente un piatto di pizzoccheri preparato con ingredienti, totalmente legati al territorio, per offrire ai turisti un piatto che racchiude una storia di oltre 400 anni, che sostiene quei pochi agricoltori che negli ultimi anni sono stati custodi di un territorio valorizzando la biodiversità del nostro grano saraceno.





IL DISAGIO REALE NASCOSTO NEI SOCIAL

Qualche settimana fa in un post su Facebook di un media locale che annunciava l'inizio dei lavori (preparatori) per la costruzione della tangenziale di Tirano un lettore valtellinese commentava, lamentandosi, con “sempre di sabato”. Fine lavori della nuova arteria abduana: 2026 (si spera). Basta questo per dare una cornice d'insieme a quello che sono diventati (quasi) tutti i social network. Un contenitore dove tutto è permesso. Nel quale lamentarsi è la prerogativa. Attaccare, insultare e parlare di tutto senza capire (e approfondire) di nulla è la regola. Lamentarsi della “prima pietra posata nella strada tiranese non dovrebbe poter essere associato al fatto che sia stato di sabato o domenica nel mondo normale e reale. E sia chiaro commenti come questi non li fanno solo i sottoposti a Trattamento Sanitario Obbligatorio, ma su certi temi sono proprio la maggioranza. Basti pensare, e spiega anche il folle commento di cui sopra, che oltre il70% degli utenti di Facebook condividono i post solo leggendo il titolo e senza leggerne il contenuto. Tanto meno la fonte. Se la pagina FB si chiama CorNiere della SerVa a loro non interessa. Basta che scriva quello che nel profondo del loro IO esiste. Cioè rabbia e malcontento. Che ora si sfoga qui. Non più allo stadio o per strada. E non per questo meno pericoloso. Infatti chi desidera parlare alla pancia della gente non lo fa più dai media tradizionali, come televisione, radio e giornali. E nemmeno dal proprio sito internet. Troppo faticoso chiedere un minuto al popolo incazzato per ascoltare. O cercare le informazioni. Meglio il più veloce e incontrollato mondo social. Dove Facebook e i suoi prodotti la fanno da padrone. Se si parla di incanalare l'odio. Infatti Twitter, per esempio, in Italia per esempio è molto meno considerato nelle campagne pubblicitarie non commerciali. Non poter commentare come è invece possibile (e e semplice) sulla creatura di Zuckerberg implica non aver messo la miccia sulla fiamma della rabbia. La questione vaccinale, indipendentemente dai fatti e dalla scienza, a cui credi o no, ha messo in risalto proprio questo aspetto. Al netto del fatto che ogni opinione è rispettabile fino a quando non scivola nell'avanspettacolo e nella ricerca di visibilità ad ogni costo, quello a cui stiamo assistendo nasce nei social. Ma non è colpa dei social. Ci sono milioni di italiani che, purtroppo, non si sentono non solo ascoltati. Percepiscono di non essere parte di niente. Di non avere alcuna rappresentanza. Si sono convinti di essere soli in un paese corrotto nel quale non credere più a nessuno. I comportamenti della classe politica italiana negli ultimi decenni non ci hanno fatto mancare niente. Senza offesa, a tratti, se al posto di Italia le notizie parlavano di Sud America non c'erano grandi differenze. E quando ti senti deluso, abbandonato e senza riferimenti o ti lasci andare o protesti. E se andare in piazza non è per tutti scrivere un post sgrammaticato e far parte del gruppo “non siamo andati sulla luna per colpa del 5G” è un attimo. I numeri di coloro che non credono nel vaccino andrebbero studiati a fondo dal punto di vista sociologico. Mentre scrivo questo articolo sono oltre 7 milioni gli over 12 che non hanno fatto nemmeno una dose. Non possono essere tutti impazziti. Dietro a questa scelta (illogica per la maggioranza degli italiani, ma non per questo mi sento superiore a chi non la condivide) si nasconde un disagio e un problema sociale enorme. Molto di più della pandemia. E che se dovesse esplodere non sappiamo che potenziale distruttivo possieda. Il sistema si regge sulla fiducia, meglio se reciproca. Oggi invece si sopravvive nel compromesso di quello che siamo disposti a fare per stare nel sistema stesso. Ci sono tre mondi separati. Quello di chi fa parte del sistema e lo dirige, sempre di più senza averne le competenze, e che lo difende a denti stretti insieme ai privilegi che ne fanno parte, con un livello di autoreferenzialità da regime comunista ante 1989. Un mondo di mezzo, la maggioranza, che è indipendente o riesce ancora a esserlo dal sistema di cui sopra, per storia, capacità, vantaggi competitivi, rendite economiche o di posizione o fattori ereditati che però stanno scemando nel tempo. Il terzo livello è il mondo degli esclusi dai processi che dovrebbero portare normalmente i più capaci a salire la scala gerarchica in base al merito. Una moltitudine da cui escono 100mila italiani all'anno che lasciano il paese, spesso i più istruiti e giovani, pronti a portare all'estero le loro capacità, ambizioni, desideri e aspettative di una vita, se non migliore almeno, pari ai genitori. Ma gli altri che restano sono la più grave emergenza del paese dai tempi del dopoguerra. Che nani, ballerine o assidui frequentatori dei gazebi e del volantinaggio, eletti o nominati che siano, non potranno mai risolvere.
soccorso alpino

Abbiamo riferito in precedente articolo che è stata modificata la frase sulle Tessere del Club Alpino Italiano, utilizzando quella contenuta nel testamento di Luigi Bombardieri dove, fra l’altro, si afferma che “la montagna è scuola di solidarietà umana”, principio, questo, che è innato nel montanaro, per quello spirito che lo porta, senza alcuna esitazione, a prestare aiuto e soccorso alle persone che si trovano in difficoltà. Il CAI si è fatto interprete di questa necessità di pronto intervento per soccorrere persone ferite o in pericolo durante arrampicate, gite escursionistiche, speleologiche o sci-alpinistiche e nel 1954 istituiva il Corpo di Soccorso Alpino (CSA) per iniziativa del trentino dr. Scipio Stenico e del Presidente Generale del CAI Bartolomeo Figari.
Era composto da volontari che, alla richiesta di intervento, si organizzavano per andare nel luogo dove si trovava la persona bisognosa di aiuto o per la ricerca di sciatori sepolti da valanga. Partivano a piedi, con tutte le difficoltà e i lunghi tempi necessari per l’avvicinamento, e sappiamo benissimo quanto sia importante un intervento tempestivo per salvare vite umane, specie per quelle travolte da valanga. Ci si rese conto che era necessario trovare un sistema che mirasse a rendere il più rapido possibile l’arrivo sul luogo dell’infortunato e proprio Luigi Bombardieri fu tenace sostenitore che, solo con l’elicottero, si poteva arrivare con immediatezza. Bombardieri volle dare dimostrazione di quanto sostenuto, volando, il 28 aprile 1957, su un Samba 20 pilotato dal Maggiore Secondino Pagano, verso la Capanna Marinelli, dove era in corso l’VIII Rallye di Scialpinistico del CAF (Club Alpino Francese). Purtroppo, questo suo tentativo, che a quell’epoca era del tutto degno di nota perché si era ai primordi dei voli in montagna e raggiungere i 2813 m del Rifugio Marinelli era considerata un’impresa temeraria, non fu coronato da successo perché l’elicottero incocciò nel cavo della teleferica tra il Monumento degli Alpini e la Capanna Marinelli, precipitò e i due occupanti persero la vita. La strada era però aperta e il CNSAS (Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico), così modificata, nel 1990, l’originaria denominazione, dopo aver inglobato anche il Soccorso Speleologico nel 1968, utilizzò sempre di più questo velivolo per gli interventi di soccorso e si strutturò e organizzò sul territorio in maniera sempre più diffusa ed efficace. Anche le autorità pubbliche (Stato, Regioni e Province) pian piano si resero conto della necessità di organizzare il servizio di elisoccorso, con la collaborazione del CNSAS, non solo per prestare aiuto agi alpinisti, ma per un efficace servizio di pronto intervento in caso di incidenti stradali, di alluvioni, terremoti e altri eventi calamitosi naturali. Fu così che, con l’art. 11 della Legge 24 febbraio 1992, n. 225, il CNSAS venne riconosciuto come struttura operativa del Servizio Nazionale di Protezione Civile e attualmente si avvale di circa 7.500 soccorritori volontari sparsi in tutta Italia. Le finalità del CNSAS, oltre al soccorso degli infortunati e dei pericolanti sono: il recupero dei caduti nel territorio montano, nell’ambiente ipogeo e nelle zone impervie del territorio nazionale; la prevenzione e la vigilanza degli infortuni nell’esercizio delle attività connesse in queste zone; il soccorso in caso di calamità, in cooperazione con le strutture della Protezione Civile, nell’ambito delle proprie competenze tecniche e istituzionali. Nella nostra Regione, grazie all’attività dei rappresentanti valtellinesi in Consiglio Regionale, venne approvata la L. 18 luglio 1982, n. 44, con la quale venivano previsti interventi regionali a favore dei servizi di soccorso alpino operanti nella regione, dando così un’impostazione più moderna, passando dal volontariato puro creato dal CAI, a un sistema più complesso inserito nel Servizio Sanitario Nazionale. Si è così pervenuti alla programmazione di numerose esercitazioni a livello provinciale e regionale e a sperimentare e approfondire le tecniche di soccorso con l’elicottero, che hanno portato sino al più recente utilizzo della long line, usata non solo nelle Alpi, ma esportata, grazia anche al valtellinese Maurizio Folini, un po’ in tutto il mondo, in particolare in Himalaya. Dapprima fu necessario l’appoggio del SAR (Search And Rescue) di Linate per i voli effettuati in Media e Bassa Valle e dell’ALTAIR di Bolzano per l’Alta Valle, successivamente, per il grande volume degli interventi effettuati nella nostra provincia, si rese necessaria una base d’appoggio più vicina, realizzandosi così, grazie all’iniziativa della Comunità Montana Valtellina e della Provincia di Sondrio, un servizio provinciale affidato alle compagnie locali (Elilario ed Elitellina). Dal 1995 la gestione, nel frattempo passata all’assessorato alla Sanità della Regione Lombardia, è stata migliorata con l’aumento dell’equipaggio sull’elicottero composto, oltre che dal pilota e dallo specialista di bordo, dal medico anestesista-rianimatore, dall’infermiere professionale e dal tecnico di elisoccorso. Nel periodo invernale, all’equipaggio di base viene aggiunta l’Unità Cinofila da Valanga. Agli inizi degli anni ’90 venne attivato in provincia, primo in Lombardia, il Servizio di Urgenza ed Emergenza, con l’abilitazione del numero telefonico 118 per le chiamate di soccorso. Artefice di questa innovazione fu il dr. Giuliano Pradella, primario del reparto di Rianimazione dell’Ospedale di Sondrio, coadiuvato da uno staff di alcuni medici che già facevano parte del Soccorso Alpino, quali Axel Mezzar, Paolo della Torre e Giacomo Cecini. Il resto è storia recente, con una sempre maggiore specializzazione, efficacia, rapidità di intervento che ha posto questo servizio tra le eccellenze non solo italiane, ma mondiali. Ricordiamo che il CNSAS era una Struttura Operativa del CAI, sino a quando, nel corso dell’Assemblea Straordinaria di Verona del 19 dicembre 2010, divenne, al pari delle Guide Italiane (AGAI) e del Club Accademico (CAAI), Sezione Nazionale, alla quale i Soci del Club Alpino Italiano, possedendone i requisiti, possono iscriversi direttamente o in regime di doppia appartenenza contestuale (iscrizione a una Sezione territoriale e a quella nazionale). Il CNSAS ha un’organizzazione strutturata con servizi a livello regionale e delegazioni provinciali. Quella della Valtellina e Valchiavenna è la VII Delegazione, diretta da Valerio Rebai. Da ultimo, pensando di interpretare il sentimento di tutti i valtellinesi, ritengo di dover rivolgere un sentito ringraziamento a tutti i volontari del Soccorso Alpino che anche durante l’emergenza dovuta al Coronavirus hanno svolto la loro attività con grande capacità, professionalità, dedizione, spirito di solidarietà, aggiungendo al rischio insito in qualsiasi intervento di soccorso, anche quello della possibilità di contagio del maledetto virus. Sono uomini davvero eccezionali ai quali va rivolto un sentito e riconoscente grazie per tutto quello che fanno a favore di chi, per qualsiasi ragione, si trova in difficoltà in montagna e non solo.
Angelo Schena Presidente della Fondazione Luigi Bombardieri
VALTELLINA ECORICICLI s.r.l.

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Avviata negli anni 50 da Racchella Aldo e tramandata ai figli,da più di mezzo secolo Valtellina Ecoricicli raccoglie, seleziona,tratta e avvia a riciclaggio carta da macero di ogni tipo. Oggi Valtellina Ecoricicli è un'azienda in grado di trattare diverse tipologie di rifiuti riciclabili,come carta,materiali ferrosi,materiali non ferrosi, con una efficiente organizzazione operante sul territorio nazionale e quello elvetico. Pur conservando il core business storico nella carta da macero,Valtellina Ecoricicli ha saputo diversificare la sua offerta,attivando nuovi importanti servizi come il trasporto e recupero di rifiuti speciali non pericolosi e la distruzione di archivi e documenti riservati. Valtellina Ecoricicli ha esteso il raggio di intervento al settore rifiuti,specializzandosi nella cernita e nel trattamento/recupero di rifiuti speciali non pericolosi provenienti dai settori commerciali/produttivi e da raccolta differenziata. Quello che in gergo viene chiamato “rifiuto”,ossia quello che non è stato selezionato nella raccolta differenziata per noi è lavoro. Una buona parte della selezione del rifiuto avviene a monte, presso le famiglie e presso le aziende; a seguito del conferimento presso il nostro impianto il rifiuto viene sottoposto ad una nuova selezione e separazione per estrarne un’ulteriore quantità di materiali:carta, ferro,alluminio,materiali inerti, ecc. Successivamente, quanto recuperato viene rimesso nel circuito per il suo riciclo e riutilizzo,mentre quanto non più recuperabile per l’industria viene avviato a recupero energetico presso termovalorizzatori per poter avviare la minor quantità possibile di rifiuto alle discariche. L’azienda è iscritta all’Albo Nazionale delle Imprese che effettuano la gestione dei rifiuti,per le categorie 1 - 2 - 4 -5, autorizzata dunque al trasporto di rifiuti,rifiuti speciali avviati al recupero con procedure semplificate,nonché autorizzata al trasporto di rifiuti speciali non pericolosi,garantendo così un servizio ottimale sia per la piccola che per la grande industria.
VALTELLINA ECORICICLI S.R.L.
Recupero e preparazione materie prime da rigenerare Via Renèe - 23010 BERBENNO DI VALTELLINA (SO) Tel.+39 0342 563586 - Fax +39 0342 496445
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La montagna ha ormai due facce: quella del turismo, del benessere, dei servizi, del marketing. Qualcuno la chiama anche il "luna park" dei cittadini. Dove i tetti sono fatti di piode, più o meno originali, i balconi fanno sfoggio di gerani prefioriti in altri luoghi e trasferiti al momento su finti ballatoi e con i negozi che sfoggiano i “Tracht” se non addirittura i “Dirndl” anche se non c’azzeccano, come direbbe Di Pietro, con il luogo. Poi vi è l’altra montagna quella fatta di fatica, di silenzio, dello spopolamento ed abbandono. Quella dove i tetti spesso sono in lamiera, dove i balconi proprio non esistono e l’abbigliamento, o meglio il “toni”, è firmato dal noto stilista che di nome fa Ape e di cognome motosega. In questo fragor di alberi caduti e smottamenti vi è la stanchezza di un mondo cui tutti vogliono insegnar qualcosa, ma che in realtà pochi conoscono. Perché in quegli alberi che si arrendono, vi è la metafora di quello che sta accadendo a un pezzo delle terre ripide. Siamo dentro l’epoca in cui il significato di natura e naturalezza non è mai stata cosi distante dalla parola artificiale. Parola, questa, che dalle nostre parti non è altro che il lavoro del montanaro. Addirittura il concetto di “Land Etichs”, nato in un’epoca di poca consapevolezza ambientale, oggi si è trasformato, passando all’altro estremo, sull’assolutezza del naturale. Se questa è la strada intrapresa si mettano in conto le frane, i scivolamenti dei pendii, i torrenti imbizzarriti e il fatto che busserà, alle nostre case poste a valle, sempre più spesso, quel materiale che, per forza di gravità e mancata manutenzione, è costretto a farsi largo tra la cucina e la camera da letto. Ma, diciamola tutta, anche dentro le nostre comunità, non è che le cose vadano meglio. Viviamo nel tempo dell’omologazione culturale, dove tutto è appiattito. Abbiamo lasciato che il fusto si staccasse dalle radici, pescando un nutrimento artificiale, che non è il nostro. Stiamo diventando qualcosa d’altro, risucchiati da modelli che non ci appartengono e che ci fanno dimenticare la nostra genesi. E’ quindi inevitabili che il nostro passato sia messo in discussione. Per questo l’idea di collocare dei cartelli, all’ingresso del mio paese, vuole essere una sorta di provocazione e di riflessione per non dimenticare la nostra storia e il nostro precorso. E anche per rendere omaggio ad un mondo rurale troppo spesso bistrattato. Perché dentro questi luoghi si sono abbeverate centinaia di generazioni che ci hanno proceduto e che ci hanno consegnato la bellezza che ammiriamo, con il compito di custodirla e tramandarla. Perché come ha scritto lo storico francese Le Goof, nel suo libro “ La Fine del Villaggio”, quando la cultura metropolitana (globalizzazione) abbraccia le zone rurali, le campagne, le aree di montagna, inevitabilmente ne decreta la fine. Non ci rimane quindi che ribellarci a questa nuova cultura di massa, riprendendo il cammino dentro quell’alveo dove siamo nati e cresciuti. Lo dobbiamo ai nostri figli, ai quali dobbiamo ricordare che questi e ad altri luoghi delle terre ripide, fanno parte di noi e che quando alzano gli occhi hanno davanti una terra ricca di storia, tradizione e di infinito incanto. Aiutiamoli a vedere questa bellezza, perché come ha scritto Platone “la bellezza, quando è, è per sempre”. Guidiamoli a riscoprire questi luoghi, terre di sostentamento per i nostri avi, ma che celano ancora opportunità per il loro futuro. Basta coglierle.

Eppure c'erano anche i dolci
Nella storia alimentare valtellinese lo zucchero è sempre stato un ingrediente da utilizzarsi con parsimonia; solo in occasioni particolari la donna più anziana della famiglia (la regiura) ne estraeva alcune piccole cucchiaiate da un sacchetto di tela. Ne sono esempio le tante preparazioni dove lo zucchero viene sostituito della dolcezza della frutta come la bisciola o la cupéta prodotta coni miele o ancora i dolci preparate con le castagne. Sfogliandole pagine della storia gastronomica della nostra valle è possibile trovare vari dolci che hanno allietato le feste di tutti i bambini della valle. La bisciola (panun) preparato con un impasto di pane ,fichi secchi ( i fichi delle vigne fatti essicare al sole, infilzati sui tralci sechi della vite), noci, nocciole, castagne rappresentava il dono natalizio che generalmente i bambini ricevevano dal padrino di battesimo. La cupéta era invece il dolce dei santi, a Bormio per S. Lucia, a Morbegno per S. Antonio, a Sondalo per S. Agnese; si prepara facendo cuocere il miele per circa venti minuti e si aggiungono noci triturate finemente (la leggenda vuole che a Grosio questa triturazione venisse fatta dalle grosine con i denti), poi si toglie dal fuoco, si stende il composto su una cialda di ostia e si ricopre il tutto con un'altra cialda. Dopo una leggera schiacciatura si lascia raffreddare e si taglia in pezzetti rettangolari. Il carnevale era la classica occasione per preparare alcuni dolci per i bambini: le famose frittelle che a seconda della zona prendevano un nome diverso. A Bormio i manzoli, simili alle chiacchiere, preparate con farina, uova, burro alcune volte una spruzzatina di liquore, cotte nello strutto e infine spolverizzate di zucchero. La rüsümada preparata con le uova sbattute con lo zucchero fino ad ottenere un composto morbido e vellutato ed arricchito alla fine con il vino. Sempre con il vino va ricordato il Pan vì, fette di pane di segale rosolate nel burro, bagnate con il vino e spolverizzate con lo zucchero. Nella media valle la cutizza, frittella preparate con una pastella di latte e farina che avvolge una fetta di mela e fritta nello strutto. Le mele si cuocevano anche al forno, dopo averle farcite con il miele o anche tagliate a fette e fritte nel burro. il Panadèl, che si prepara impastando bene le uova con la farina, il latte,
lo zucchero (poco) e le mele tagliate a pezzettini e si fa cuocere il tutto in padella unta di burro o strutto da entrambi le parti per 10 minuti. Un frittellone particolare si faceva e si fa a Sondalo. Il curnat preparato con un impasto di farina, acqua o latte, uova, zucchero e cotto poi in padella con lo strutto o anche cotto direttamente sulla pioda (curnat su la piata). Sempre a Sondalo alcuni anziani preparano ancora oggi la squisita papa de cunfecc, una densa pappa di farina tostata con latte e le bacche mature del sambuco. La brazadèla di Teglio, è un dolce tipico la cui ricetta è tramandata di famiglia in famiglia negli antichi borghi di Teglio a forma di ciambella ribassata e fatta con farina di segale, zucchero, burro e uova. Il mulun si preparava nella zona di Talamona facendo cuocere castagne secche e fagioli nel latte fino ad avere una specie di polenta abbastanza dura che si tagliava a fette. Oggi questa antica ricetta è stata arricchita, le fette di mulun vengono coperte di panna assumendo le sembianze del più famoso Monte Bianco, dolce preparato con farina di castagne. In Val Chiavenna è ancora ricercata ed apprezzata la torta di fiorett, torta fatta con farina bianca, acqua, uova, zucchero spolverizzata con semi di anice e di sambuco. A Lanzada si ricordano la rinomata torta di noci e miele e gli oss de mord (ossa da mordere e non ossa dei morti) biscotti di farina bianca, mandorle, zucchero, chiara d'uovo e qualche chiodo di garofano. Naturalmente non si possono dimenticare i famosi Biscoutin de Prost, fatti con farina, zucchero e burro miscelati in proporzioni diverse in una antica ricetta tenuta ancora oggi gelosamente segreta dai proprietari del famoso mulino di Prosto di Piuro.


La Bisciola

Il Mulun La Brazadèla
