La Celere da Tullio

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“La CeLere” da Tullio Calzolaio storico in Genova Galleria Mazzini


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Ringraziamenti La realizzazione di questo volume è stata possibile grazie alla collaborazione e disponibilità di molte persone. Desidero ringraziare per il tempo dedicato al mio progetto, per il materiale, i suggerimenti e i testi forniti: Franco Ardoino, Franco Bampi, Stefano Barbieri, Annamaria Bavastro, Tommasina Tullia Bavastro, Andrea Bergamini, Alice Bruna, Armando Burlando, Marco Burlando, Silvio Curletto, Debora Dellacasa, Marta Gazzola, Alessandro Negrini, Laura Prato, Daniele Raco, Francesca Sobrero, Antonella Spalluto, Sergio Stella, Paolo Storace, Massimo Tradigo, la libreria Evoluzione di Via Garibaldi 10. Un particolare ringraziamento a Franco Manzitti che ha curato la prefazione e ad Aldo Padovano a cui si deve l’ampia ricerca inedita sulla figura del calzolaio. Mi scuso da subito per le eventuali imprecisioni o mancanze che si dovessero riscontrare nel libro, realizzato con le migliori intenzioni, restando a disposizione di quanti vorranno comunicarmi i loro consigli e spunti utili a questo e a futuri progetti. Testi di Franco Bampi, docente universitario, presidente dell’Associazione “A Compagna”, cultore del dialetto genovese Andrea Bergamini, giornalista, addetto stampa, consulente di comunicazione Sabrina Burlando, giornalista, consulente editoriale Franco Manzitti, giornalista, scrittore, autore e conduttore televisivo Aldo Padovano, storico locale, scrittore Daniele Raco, attore, scrittore, comico

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SOMMARIO Noi, che andavamo da Tullio in Galleria Mazzini di Franco Manzitti

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A tutti i bravi artigiani della nobile Arte

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“La Celere” Tullio: una bottega di famiglia “O caigâ” (di Giuseppe Marzari) Trascrizione e traduzione dal genovese di Franco Bampi

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“La Celere” in Galleria Mazzini, salotto dei genovesi

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La scarpa e i suoi segreti Come è fatta una scarpa Le regole per conservare al meglio le calzature Prodotti e accessori Dimmi che scarpa indossi e ti dirò chi sei di Andrea Bergamini Da Afrodite a San Francesco: la simbologia della scarpa

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Gli attrezzi del calzolaio

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I macchinari del mestiere di ieri e di oggi

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L’intervista in bottega

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La nobile arte del calzolaio di Aldo Padovano

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Le scarpe di mio nonno di Daniele Raco

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“La Celere” come si presentava negli anni Cinquanta

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“La Celere” Tullio una bottega di famiglia

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egli anni immediatamente precedenti alla Seconda Guerra Mondiale è attiva a Genova una catena di tre calzolerie di unica proprietà, note con il nome di “La Celere”, aziende ben avviate e conosciute, una in Galleria Mazzini, una in via San Vincenzo e una in corso Buenos Aires. Gli anni bui del Conflitto mettono a dura prova la popolazione e l’economia della città tra la paura dei bombardamenti, la fame, le devastazioni morali e materiali che lasceranno Genova in ginocchio e il suo centro storico parzialmente distrutto. Galleria Mazzini non ha subìto danni, nonostante le bombe sull’attiguo Teatro Carlo Felice e, lentamente ma progressivamente, le attività riprendono. Ambrogio Bavastro è divenuto nel frattempo proprietario de “La Celere” di Galleria Mazzini, dove lavorava già come operaio, e fa parte di quei genovesi, imprenditori di se stessi, che si rimboccano le maniche per dare un volto nuovo e una speranza alla città. Saranno gli anni della ripresa e successivamente del boom economico. Ambrogio affianca all’insegna del negozio il suo secondo nome, Tullio, scritto ben visibile accanto a “La Celere” ad identificare l’attività con il nome dell’artigiano, un’operazione perfettamente riuscita, poiché ancora oggi la clientela associa la bottega al nome

Tullio e la moglie Adelaide in una foto degli anni Quaranta

Un giovane e sorridente Ambrogio “Tullio” Bavastro

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“Giornale mensile per calzolai” – Genova 1889 Il primo giugno del 1889 vide la luce a Genova il primo periodico italiano interamente dedicato alle calzature. Si intitolava “La calzatura moderna” a cui faceva eco il sottotitolo “invenzione italiana” con l’ulteriore specificazione “Giornale mensile per calzolai”. Il direttore responsabile era Francesco Antonio Pullicanò, la sede si trovava nel quartiere del Molo e precisamente in vico

del Fico al civico 13 interno 12. Purtroppo uscì soltanto un numero di quattro pagine più una tavola con modelli di calzature. L’unica copia presumibilmente esistente si trova alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, ma è stata danneggiata dall’alluvione del 1966 e non si può visionare. Evidentemente “La calzatura moderna” non era proprio nata sotto una buona stella. 

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O caigâ (di Giuseppe Marzari) Trascrizione e traduzione a cura di Franco Bampi Era logico che nel secolo ventesimo tùtte-e bitêghe che dàn recàtto a-e scàrpe dêuviésan di tìtoli iperbòlici pe ’nvitâ quéllo co-e scàrpe rótte a ’nfiâse drénto. E coscì sono usciti tutti i nomi più roboanti: la Folgorante, la Lampeggiatrice, la Baleniera, la Precipitosa, la Momentanea, la Veloce, la Transatlantica. Pàn tùtte conpagnîe de navegaçión. Io no: io sono sempre ottocentista. Ò ’n cazòtto ’nte ’n pòrtego che pàn e gròtte de Finàl Marìnn-a. Però d’into mæ cazòtto gh’é sciortîo de tùtto, sénsa contâ i ràtti. Me fâ rîe i cartélli de çèrti caigæ: riparazioni accurate. Mi métiö i tàcchi a càlibro co-a bólla d’âia. Ghe scrîvan: consegna immediata. Pöi ghe-e sêgnan tànt’in bitêga che a són de gjâ quànde-e retîan àn za o tàcco frùsto. Però c’è una cosa di bello: sono lavorate a mano. Mi invêce ghe dàggo recàtto co-i pê. Me fàn rîe: frêza, sêga circolâre, tórno, màchina da trapanâ, fîzàia, prèssa, màggio, mêua smerìggio. Àn a bitêga pìnn-a de màchine che ve pâ d’intrâ a l’Ansàldo Sàn Giòrgio. E pöi pe cöse? Pe fâ quéllo che fàsso mi co-in scanbelétto, ’na læxina, doê fórme, un trincétto, stécchi, spâgo, péixe e spûo. Eppure anch’io ho la mia clientela affezionata! Gh’ò ’na scignôa co-î pê tîpo Torìggia, cioè pìn de patàtte. Ghe fàsso e scàrpe tîpo casaræa. Ghe n’ò ’n’âtra ch’a l’à ’n pê ch’o l’amîa inte bitêghe e l’âtro ch’o l’amîa o tranvài. Epûre a vêgne da mi perché a sa che a conténto sénpre. Òu, se tràtta ch’ò za fæto e scàrpe a tùtti-i vexìn. Provare per credere. Vantêi l’é vegnûo a sèrva da sciâ Repìggio e gh’ò dæto recàtto. Ò dæto recàtto a doî pâ de scàrpe che no gh’êa ciù nìnte da fâ. Inte mêz’ôa gh’ò fæto doê remónte, gh’ò adrisòu o mostascétto, gh’ò mìsso a lengoétta, gh’ò cangiòu ’n eugétto e gh’ò mìsse-e strìnghe. E cosa vogliono di più? Zebù, anfibio, capra, lucertola, serpente, vitéllo, camóscio. Tùtti dêuvian de pélle che quànde-e scàrpe són vêge ve tócca caciâle vîa. Mi invêce no. Mi fàsse-e scàrpe de stochefìsce: coscì quànde són vêge ve ghe fæ dâ doî bóggi e ve mangiæ e scàrpe. Il calzolaio Era logico che nel secolo ventesimo tutte le botteghe che riparano le scarpe usassero dei titoli iperbolici per invitare chi ha le scarpe rotte ad entrare. E così sono usciti tutti i nomi più roboanti: la Folgorante, la Lampeggiatrice, la Baleniera, la Precipitosa, la Momentanea, la Veloce, la Transatlantica. Sembrano tutte compagnie di navigazione. Io no: io sono sempre ottocentista. Ho un gabbiotto in un portone che sembra le grotte di Final Marina. Però dal mio gabbiotto è uscito di tutto, senza contare i topi. Mi fanno ridere i cartelli di certi calzolai: riparazioni accurate. Io metterò i tacchi a calibro con la bolla d’aria. Scrivono: consegna immediata. Poi gliele segnano tanto in bottega che a forza di girare quando le ritirano hanno già il tacco consumato. Però c’è una cosa di bello: sono lavorate a mano. Io invece le riparo con i piedi. Mi fanno ridere: fresa, sega circolare, tornio, macchina da trapanare, conceria1, pressa, maglio, mola smeriglio. Hanno la bottega piena di macchine che vi sembra di entrare all’Ansaldo San Giorgio. E poi per cosa? Per fare quello che faccio io con uno sgabello, una lesina, due forme, un trincetto, stecchi, spago, pece e sputo. Eppure anch’io ho la mia clientela affezionata! Ho una signora con i piedi tipo Torriglia, cioè pieni di patate. Le faccio le scarpe tipo mestolo forato. Ne ho un’altra che ha un piede che guarda verso le botteghe e l’altro che guarda il tranvai. Eppure viene da me perché sa che l’accontento sempre. Oh, si tratta che ho già fatto le scarpe a tutti i vicini. Provare per credere. L’altro ieri è venuta la serva della signora Repiggio2 e l’ho sistemata3. Ho riparato due paia di scarpe che non c’era più niente da fare. In mezz’ora gli ho fatto due rimontature4, gli ho raddrizzato il mostascétto5, gli ho messo la linguetta, gli ho cambiato un occhiello e gli ho messo le stringhe. E cosa vogliono di più? Zebù, anfibio, capra, lucertola, serpente, vitello camoscio. Tutti usano delle pelli che quando le scarpe sono vecchie vi tocca buttarle via. Io invece no. Io faccio le scarpe di stoccafisso: così quando sono vecchie gli fate dare due bolli e vi mangiate le scarpe. Il termine registrato non è fîzàia, come dice Marzari, ma fîtàia. In genovese “repìggio” vuol dire miglioramento: quando uno si riprende, ad esempio, da una malattia. 3 Come spesso Marzari faceva, questa è una battuta maliziosa perché la frase lascia intendere che abbia sistemato la serva e non le scarpe. 4 Riparazioni della tomaia delle scarpe. 5 I mostascétti sono le frange delle scarpe. 1 2

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Galleria Mazzini, costruita in stile Liberty nella seconda metà dell’Ottocento (foto La Casana, XVI, n. 3, 1974)


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“La Celere” in Galleria Mazzini, salotto dei genovesi

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alleria Mazzini nasce nella seconda metà dell’Ottocento in seguito all’attuazione del piano regolatore dell’architetto Carlo Barabino (1825), rielaborato con il progetto di un’importante arteria stradale in risposta all’espansione urbana di Genova. La strada fu realizzata in due tempi; il primo asse viario, costruito intorno al 1850, tracciando a monte il rettilineo di Via Assarotti, venne successivamente completato, tra il 1870 e il 1880, con un secondo asse di prolungamento più a valle corrispondente a via Roma fino a entrare nel cuore della città vecchia, terminando nell’allora piazza San Domenico, attuale piazza De Ferrari. La realizzazione di questo tratto di collegamento (via Assarotti, piazza Corvetto, via Roma, piazza De Ferrari e quindi via Giulia, odierna via XX Settembre) ha costituito una risorsa preziosa per la viabilità urbana, non senza sacrifici però da parte della città, costretta ad abbattere edifici di culto e testimonianze antiche di inestimabile valore storico - artistico. Parte della collina di Piccapietra fu smantellata. Dietro al teatro dell’Opera Carlo Felice furono demoliti la chiesa e l’ex convento di San Sebastiano, il conservatorio di San Giuseppe, l’oratorio della casaccia di San Giacomo delle Fucine, quanto rimaneva del convento di San Domenico. Fu necessario demolire anche un tratto dell’acquedotto

civico medioevale che, lungo il percorso delle Mura del Barbarossa, attraversava Salita di Santa Caterina. Nel 1871 l’impresa dei fratelli Bonino fu incaricata di eseguire il “protendimento” insieme con un tronco di via a esso parallelo coperto con una tettoia di cristalli, la futura Galleria Mazzini. Con regio decreto del 26 luglio 1874 si proclamarono di pubblica utilità i lavori che portarono all’apertura delle Galleria, terminata due anni dopo e intitolata al patriota genovese Giuseppe Mazzini. La Galleria fu costruita in stile Liberty con copertura metallica e immense volte vetrate alternate a quattro cupole, sempre di vetro, con arredi di bronzo fatti fondere appositamente a Berlino. Sulla cima esterna delle cupole, troneggia la statua di Giano bifronte, antica divinità romana simbolo di Genova, all’interno delle cupole quattro enormi lampadari bronzei con lo stemma di Genova e appliques a livello delle botteghe illuminano il passaggio. Esempio della cosiddetta “Architettura del Ferro” sviluppatasi in Francia e Inghilterra tra la fine del Settecento e la metà dell’Ottocento (Torre Eiffel, stazione King’s Cross…) e diffusa anche in Italia (Galleria Umberto I a Napoli, Galleria Vittorio Emanuele a Milano), la lussuosa Galleria Mazzini divenne il “Salotto di Genova”, ritrovo di personalità e intellettuali, intesa come 33


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Mostra dei fiori in Galleria Mazzini negli anni Trenta. In primo piano, sulla sinistra, l’antica insegna de “La Celere” (foto Archivio Binelli, Banca Carige)

luogo intermedio tra lo spazio pubblico e quello privato e, con i suoi negozi e i locali alla moda, nuovo palcoscenico dell’agio borghese. Sede della Posta Centrale, le sue ampie volute ospitarono il quotidiano “Caffaro” fondato nel 1874 da Anton Giulio Barrili e solo nel 1911 trasferitosi in via Caffaro. Il più noto tra i locali fu senz’altro il “Caffè Roma”, ritrovo di scrittori, poeti, artisti e giornalisti: Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Adelchi Baratono, Anton Giulio Barrili, il giovane Salvatore Quasimodo, Stefano Canzio e Antonio Burlando (Garibaldini dei Mille), Orlando Grosso (autore della Tomba di Mazzini nel cimitero di Staglieno e dei portici neogotici di via XX Settembre), Luigi Arnaldo Vassallo, detto Gandolin (giornalista, fotografo) i poeti Guido Gozzano, Eugenio Montale e Camillo Sbarbaro, i giornalisti Giuseppe Canepa, Paolo Panseri, Mario Maria Martini, lo scultore Bassano, ecc. La “Libreria Moderna” di Giovanni Ricci, poi “Editrice Moderna”, fu uno dei principali punti d’incontro della Scapigliatura locale, dove videro la luce molti libri di argomento ligure e di autori genovesi, frequentata tra gli altri da Edmondo De Amicis, Alessandro Varaldo, Giovanni Ansaldo, Carlo Pastorino, Edoardo Firpo ecc. Erano rinomati e alla moda il “ristorante della Posta”, gestito da Pippo Luce e frequentato dagli artisti dei Teatri dell’Opera; la “Birreria Zolezi” sede di concerti di musica melodica; il “Caffè Bardi”, locale dei repubblicani storici; la trattoria di “Carlin Pescia”, dove i giornalisti genovesi si riunivano dopo la chiusura dei giornali, il Caffè “Semeria” e il “Diana”. Grazie a questo fervore di ingegni a partire dal 1926 venne organizzata la “Fiera del Libro”, che diventò un appuntamento fisso: una lunga fila di coloratissime bancarelle esponevano ogni genere di libro, vere e proprie montagne di carta attorno alle quali si riuniva una folla eterogenea. Oggi la tradizione continua e la fiera si svolge due volte l’anno, durante le festività di Natale e quelle di Pasqua, movimentando la vita ai negozianti e 35


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Forme in legno di diverse misure nel laboratorio di Tullio

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La scarpa e i suoi segreti

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nsieme all’orologio e alla cravatta, la scarpa rappresenta uno dei principali segni distintivi dell’eleganza maschile. Per le donne, invece, è un vero e proprio vezzo modaiolo che ne definisce, insieme al resto dell’abbigliamento, lo stile e il portamento a seconda delle occasioni (casual, elegante, sportiva, ecc). Non dimentichiamo però quali sono le sue principali funzioni. Secondo l’etimologia, il termine “scarpa” risalirebbe al latino “scalpere”, incidere, verbo affine a “sculpere”, scolpire. Dunque il vocabolo significherebbe forma incisa e descriverebbe l’oggetto non in relazione alla sua funzione, bensì alla propria sagoma. Nate per proteggere i piedi dal contatto con il suolo e mantenerli caldi in inverno, le scarpe si sono moltiplicate nei generi a seconda della funzionalità (sportive, da cerimonia, da lavoro, da ballo ecc.) e hanno acquisito sempre più importanza estetica, seguendo i capricci della moda. Nonostante questa mistificazione, l’uso della scarpa resta pur sempre strettamente legato al ruolo di aiutare il piede a sostenere il peso del corpo con una calzata confortevole in grado di agevolarne la camminata, motivo per cui è importante la qualità dei materiali che la compongono. Se all’epoca dei faraoni egizi e dei romani si portavano i sandali, nel Medioevo le calzature sono prin-

cipalmente fatte di legno (zoccoli) o di stoffa. Diventano con i tacchi alti, ornate di fibbie, nella settecentesca corte francese del Re Sole - che si dice fosse piccolo di statura - e a stivaletto in Inghilterra dove nell’Ottocento si diffonde la scarpa bassa, portatrice dello stile inglese che ancora oggi rappresenta un’importante corrente estetica. Le calzature odierne invece hanno una struttura piuttosto complessa composta da diversi elementi.

Come è fatta una scarpa I componenti essenziali di una scarpa classica sono: la tomaia (il rivestimento che copre il piede), il sottopiede (l’anima della scarpa sulla cui forma viene sagomata la tomaia), l’intersuola (posta tra sottopiede e suola), la suola (la parte a contatto con il terreno), il tacco (“un rialzo” esterno in corrispondenza del tallone) o la zeppa (una rialzo lungo tutto il perimetro della suola), la fodera (il rivestimento interno), il puntale e il contrafforte per irrobustire rispettivamente punta e tallone La Tomaia è la parte superiore della calzatura, a vista. Il termine deriva dal greco tomàrion che significa “pezzo ritagliato su misura”. Si tratta, infatti, di una porzione di 39


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Dimmi che scarpa indossi e ti dirò chi sei di Andrea Bergamini (giornalista - shoes lover)

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i è mai capitato di osservare le scarpe di una tutto tratti psicologici, tendenze emotive e modalità persona e conseguentemente trarre spunti relazionali. personali o giudizi sulla persona stessa? Dalla ricerca sono emersi risultati interessanti: sembra Tutto ciò può apparire pretestuoso o comunque suche le calzature appariscenti e colorate vengano indossate perficiale ma (con le dovute cautele) non è così raro che da persone estroverse mentre scarpe non nuove ma il modo di essere o il carattere di un individuo trovino senza macchie appartengano a tipi coscienziosi e scrucorrelazione estetica nelle calzature indossate. polosi. Calzature comode, pratiche e funzionali in genere Vi sono certamente fattori estesono associate a persone piariori volti ad esprimere la propria cevoli e calme, non dipendenti individualità; l’abbigliamento, in senso dalle tendenze modaiole men“Mamma diceva lato, è uno di questi così come le tre stivaletti e anfibi sono insempre che dalle scarpe che, per la sconfinata varietà dice di temperamento più agdi stili - aspetti – forme, rappresengressivo. scarpe di una persona tano spesso “indicatori” della perIndividui ansiosi o persone si capiscono tante sonalità oltre che del proprio attegche si dimostrano preoccupate giamento. Sicuramente per molti nella gestione delle loro relacose, dove va, cosa fa, sono segno di distinzione. zioni scelgono di indossare dove è stata...” Anche inconsciamente il fatto di scarpe di marca nuove e sulle dal film “Forrest Gump”, 1994 scegliere determinate calzature riquali riversano cure particolari. sulta, a volte, percettivo dell’umore I ricercatori suggeriscono che triste o felice, di un momento parciò può essere indice di suscetticolare, di una tendenza emotiva o di un breve periodo tibilità alle critiche e al giudizio degli altri. contingente della propria vita. Pollice avverso per chi non esce mai senza mocassini: Alcuni studi teorizzano infatti che una scarpa la si pare che queste calzature siano sinonimo di noia, di sceglie non tanto per lanciare messaggi agli altri ma per indole passiva, introversa e abitudinaria. Coloro che li indossano sembra abbiano più difficoltà a formare relazioni, un’inconsapevole spinta interna che rispecchia i tratti salienti della propria individualità. non badano al giudizio degli altri e tendono a reprimere le loro emozioni. Pochi sanno che uno studio sviluppato dalla “UniÈ possibile dedurre aspetti della personalità anche versity of Kansas” (*) ha messo in luce che nel modo di indossare e curare la medesima tipologia di dalle scarpe indossate da una persona si possono scarpe? Per gli studiosi, dunque, la risposta è affermadedurre aspetti, non solo del suo status, ma soprat46


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tiva. “Le scarpe rappresentano una fetta sottile ma utile di informazioni su coloro che le indossano. Le scarpe servono ad uno scopo pratico ma sono anche messaggi simbolici nel linguaggio non verbale”. Le calzature possono dunque rappresentare davvero uno specchio del proprio modo di essere? Direi proprio di si. Dallo studio è inoltre emerso che le scarpe dalla caviglia alta e dalla fattura “tozza” sono un indicatore di amabilità della persona che le indossa: più sono pesanti e di conformazione mascolina (siano esse da maschio o da femmina) più la persona che le porta risulta chiusa, poco socievole, burbera e, a tratti, rozza. Lo stile e l’eleganza sono risultati invece indicatori di reddito (perlopiù abbastanza ovvi): le persone ricche indossano in genere calzature più alla moda rispetto alle persone meno abbienti. E le scarpe vecchie? Chi è estroverso ed emotivamente stabile le utilizza anche se sono consumate all’interno. Vediamo cosa ha rilevato questa ricerca focalizzando l’obiettivo in particolar modo sul “gentil sesso”. Secondo il parere degli psicologi, la donna che sceglie calzature appariscenti tende a sedare le proprie ansie mentre chi indossa le decolletè possiede invece un carattere calmo e mansueto che non ama gli imprevisti e si nutre delle proprie sicurezze. Chi veste sandali con tacco, magari impreziositi da decorazioni di pregio, possiede un temperamento estroverso, il desiderio di farsi notare e di sedurre con qualche dettaglio che cattura l’attenzione. Chi mette le ballerine è di solito una persona pratica, briosa, che vuole sentirsi comoda senza rinunciare alla femminilità. Si tratta perlopiù di donne estroverse, viaggiatrici e loquaci. Chi predilige semplici sneakers ama stare con i piedi ben piantati a terra, non segue molto le mode e vuole mostrarsi una persona pratica e diretta. Chi non rinuncia a zeppe o stivaletti è di solito una

donna aggressiva, dall’indole spiccata, che non ama le mezze misure. La scarpa è e rimane comunque un tratto distintivo del proprio ego. Sono convinto che, dopo aver letto queste righe, potrà succedervi di concentrare la vostra attenzione sulle calzature dell’interlocutore di turno ma, mi raccomando… non fatevi condizionare troppo da giudizi che potrebbero rivelarsi affrettati! (*) Studio estratto dalla pubblicazione “Journal of Research in Personality”

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Da Afrodite a San Francesco: la simbologia della scarpa

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ros e potere, ma anche il tempo che passa sono i principali simboli che la calzatura evoca fin dall’antichità: dal mito alla fiaba, dalla storia alla religione, passando attraverso l’arte, la tradizione, la canzone, fino all’interpretazione dei sogni! La statuetta in marmo di Afrodite che si slaccia un sandalo, riprodotta in diverse scene antiche accanto al dio dell’amore, prelude al simbolismo che fa della scarpa un oggetto erotico. L’immagine di Cenerentola che perde la scarpetta di cristallo mentre fugge a mezzanotte dopo aver danzato tutta la sera con il Principe Azzurro è stata riletta in chiave psicoanalitica come una metafora della perdita di verginità della giovane donna, mentre il ritrovamento della scarpetta stessa significa il coronamento d’amore: “A ogni piede la sua scarpa” si dice ancora oggi per indicare quando due persone sono fatte l’una per l’altra. Ma l’archetipo di Cenerentola è già nella storia della bella Elena di Troia, che perde un sandalo dorato, ritrovato da Paride che ne diventerà l’amante. Dalla trasparenza e fragilità del cristallo alla preziosità dell’oro, il mistero dell’eros passa attraverso la scarpa! Se questa dunque è stata e resta un afrodisiaco, in passato, oltre ad essere simbolo di seduzione, la calzatura era anche espressione di potere e ricchezza. Nel feudalesimo è emblema della trasmissione della terra, sia perché calcandola si esercitava un potere di proprietà sia poiché la scarpa chiusa ha valore di contenitore e, piena di terra, ne indicava il possesso: gettare una scarpa in un campo significava delimitarne la proprietà; togliersi le scarpe entrando in casa altrui indicava la rinuncia a ogni rivendicazione su quello spazio e sugli oggetti che vi appartengono. Da qui il “passo” è breve alla leggenda

della Befana che riempie di dolci la scarpetta come augurio di prosperità per il nuovo anno. Il modo di dire “fare le scarpe” per indicare quando si fa un torto o si lascia indietro qualcuno potrebbe, invece, risalire al Medioevo, quando ai pellegrini durante il sonno venivano spesso rubate le calzature che erano il bene più prezioso per un viandante. Secondo il Vangelo, invece, si dice che il buon seguace di Cristo deve abbandonare denaro, bastone, vesti, calzari … un insegnamento preso alla lettera da San Francesco che nella sua scelta di povertà assoluta andava scalzo. Questa decisione può essere interpretata anche come una rinuncia al potere e alla ricchezza da parte dei seguaci dell’Ordine Francescano e come presa di posizione nei confronti della Chiesa, le cui cariche ecclesiastiche erano contraddistinte anche dalla tipologia delle scarpe indossate. Va da se che, nell’interpretazione dei sogni, si attinga a tutta questa simbologia con varie sfumature in relazione al contesto: se una scarpa è troppo stretta probabilmente stiamo vivendo una relazione soffocante, se la perdiamo, il sogno può essere significativo della paura che un rapporto si rompa, camminare senza scarpe, invece, può rappresentare l’incapacità a lasciare una traccia di sé, di affermarsi, quindi la mancanza di autorevolezza nei confronti degli altri … e così via. Non meno suggestivo, infine, è il simbolo della scarpa come specchio del tempo che passa e della strada che con essa si è percorsa. “Vecchio scarpone quanto tempo è passato …” cita una canzona d’altri tempi per ricordarci che il cammino tracciato dalle nostre scarpe è in parallelo una metafora della vita stessa e delle esperienze trascorse. 48


La mano dell’artigiano

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Alcuni attrezzi del calzolaio fotografati nella bottega di Tullio: da sinistra 1. Cesoie per tagliare cuoio e gomma; 2. Pinza per tirare la pelle della tomaia, dotata di un martelletto laterale che consente contestualmente di picchiettarla; 3. Pinza speciale per la lavorazione del cuoio a guardolo; 4. e 5.Tronchesini per tranciare suola e cuoio; 6. e 8. Cacciavite, il primo interamente in ferro; 7. e 12. Levachiodi. In gergo è chiamato anche “unghietto”. Il secondo è interamente in ferro; 9. Punzone per segnare il cuoio; 10. Antico attrezzo per fare l’increna; 11. Strumento impiegato per lisciare il guardolo; 13. Marcapunti per segnare le cuciture; 14. Battichiodi, punzoni per ribattere i chiodi

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Gli attrezzi del calzolaio

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e vi è mai capitato di entrare nel laboratorio di un calzolaio, certamente avrete notato un’infinità di strani attrezzi dalle piccole alle grandi dimensioni e vi sarete chiesti a cosa servono. Riportiamo di seguito solo alcuni degli strumenti più comuni che vengono impiegati in questo mestiere e per i quali è necessaria molta pratica e, in taluni casi, particolare attenzione perché possono rivelarsi anche pericolosi se usati da mani inesperte. «La qualità di un lavoro artigianale dipende oltre che dalle capacità individuali anche dall’efficacia degli strumenti che si adoperano. Per quanto le tecnologie si siano evolute, nel nostro campo gli attrezzi di una volta sono ancora i più validi e resistenti, perché sono fatti con maggiore accuratezza e materiali più robusti rispetto a quelli di serie, seppur di buona fattura, che oggi si trovano sul mercato». La spiegazione è di Armando Burlando che, per tale ragione oltre che per una passione personale, ha spesso acquistato gli arnesi del mestiere, soprattutto i martelli, nei mercati di antiquariato, non solo per collezionarli, ma per utilizzarli tutti i giorni e preservare così la qualità e l’unicità del lavoro artigianale. «È un po’ come continuare a fare il pesto con il mortaio di una volta anziché usare il più moderno frullatore, se mi passate il paragone azzardato che forse solo i genovesi riescono a capire bene – aggiunge 51


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Marco Burlando al piantone, mentre sostituisce il tacco ad una scarpa. Sullo sfondo si intravvedono i rulli del banco di finissaggio. In alto a sinistra il guardolo per le suole degli scarponi


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I macchinari del mestiere di ieri e di oggi

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ella bottega di Tullio, il titolare Marco lavora in piedi davanti al piantone dove la sostituzione dei tacchi e delle suole viene fatta ancora a mano, utilizzando il trincetto per sagomare le forme, tenaglia e levachiodi per togliere le vecchie suole, colla, chiodi e martello per fissare quelle nuove … e tanta forza nelle braccia. A vederlo lavorare, veloce e sicuro, sembra semplice tagliare un pezzo di cuoio o dare una martellata e conficcare alla prima il chiodo, ma state sicuri che, se non avete forza e perizia, non scalfite nemmeno la sagoma con il coltello ma correte il rischio di ‘affettarvi’ una mano o di gonfiarvi un dito col martello. Incidenti, questi, che purtroppo possono capitare, soprattutto quando il lavoro è tanto, concitato e, dopo una giornata stancante a ritmi serrati, si cerca di accontentare il cliente per consegnare il lavoro in tempi brevi. L’artigiano richiede tempo e questo va un po’ in controtendenza con la frenesia della società attuale. Banco di finissaggio Il banco di finissaggio è la postazione in cui le calzature seguono il loro ciclo completo di lavorazione, venMacchinario elettrico girevole, impiegato per allargare e allungare le scarpe

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L’intervista in bottega

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er collegare il passato al presente in proiezione futura, chiediamo ai titolari e ai dipendenti de “La Celere” di raccontarci, in un’intervista collettiva, l’attualità del negozio e il confronto con i tempi lontani, qualche riflessione sul cambiamento delle mode e sull’evoluzione del mercato, quali sono le prospettive e le aspettative per il futuro. Cosa è rimasto del vecchio “caigâ” della Celere? La domanda è rivolta a Marco, nuova generazione, classe 1966, oggi alla direzione dell’azienda. «A pensarci bene … quasi tutto. – sorride Marco – I locali sono rimasti pressoché invariati nella struttura. Gli arredi in legno, i box, il bancone e le scaffalature sono le medesime del nonno. L’insegna purtroppo non è più quella originaria e con il tempo si sono resi necessari lavori anche alla pavimentazione.Tuttavia l’impronta è sempre la stessa, come si nota dal confronto tra le foto antiche e quelle attuali. Anche le attrezzature e gli strumenti del calzolaio sono rimasti quelli di una volta. Riguardando le immagini di famiglia mi sono fatto l’idea che persino lo spirito non sia cambiato poi molto da allora: impegno, passione e cura per il mestiere ma anche tanta voglia di sorridere e far passare Tutti al lavoro. Il coloratissimo retrobottega di Tullio, con gli attrezzi del mestiere in primo piano, scaffali e cassetti fino al soffitto pieni di materiali e prodotti per il lavoro

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Armando Burlando mentre taglia la pelle con il trincetto

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La nobile arte del calzolaio di Aldo Padovano segue da pagina 11

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l breve proemio in versi tratto da “The Gentle Craft”, ovvero “La Nobile Arte”(1), posto a inizio di questa pubblicazione, è forse il più alto omaggio alla professione di calzolaio che esista nella letteratura mondiale. L’autore, lo scrittore inglese Thomas Deloney, nel 1597 lo antepose a una serie di novelle in prosa in cui passa in rassegna i calzolai famosi nella leggenda e nella storia, per nobilitare la popolare e prestigiosa corporazione londinese che raggruppava i fabbricanti e riparatori di calzature. Questi erano famosi per le ballate che essi stessi componevano (“piacevoli canzoni e ritornelli”) in cui narravano le vicende dei loro colleghi del passato e di quelli contemporanei e i viaggi che intraprendevano per vendere i loro prodotti. Tra gli altri Deloney racconta di Simon Eyre, calzolaio e sarto del tempo di Enrico VI (XV secolo), il quale, diventato sindaco di Londra, fondò il mercato del cuoio di Leadenhall che donò alla City affinché in tempi di carestia venisse utilizzato anche come pubblico granaio. Inoltre istituì un giorno di ferie per i suoi antichi compagni di lavoro ai quali, in quell’occasione, offriva un rinfresco. Oppure di Richard Casteller: ricchissimo ciabattino sotto il

regno di Enrico VIII, lasciò tutto il suo ingente patrimonio ai poveri e agli ospedali; o di Mastro Peachey che inflisse insieme ai suoi uomini una solenne bastonatura a un gruppo di insolenti cortigiani che lo dileggiavano. O racconta la vita di Tom Now Now, ciabattino e menestrello. Ma ovviamente la professione di calzolaio ha nobili ascendenze molto prima del Medio Evo e del Rinascimento inglese descritto da Deloney. Le antiche origini della professione Fabbricante di sandali era Simone di Atene, un amico di Socrate. Spesso, quando al grande filosofo non era concesso esplicare le sue celebri dissertazioni nell’agorà, Simone ospitava lui e i suoi seguaci nella propria casabottega. Questa si trovava non molto distante dalla piazza principale di Atene i cui confini erano contrassegnati da pietre miliari alte circa un metro su cui era scolpita la seguente frase: «Io sono il confine dell’agorà». Simone, che secondo Diogene Laerzio era solito annotare tutto quello che Socrate diceva, fu arrestato subito dopo il suo maestro, ma in seguito venne liberato.

(1) Ho tradotto il titolo del libro di Thomas Deloney “Gentle Craft” con “Nobile Arte”. Il termine Gentle è qui reso nel suo significato più antico ovvero nobile, di condizione elevata (dal latino “Gens”) e “Craft” nell’accezione medievale di arte, artigianato, mestiere, corporazione. Non è da confondersi con la ben più nota “Noble Art” (la nobile arte), espressione inventata dal pugile inglese James Figg all’inizio del Settecento e con cui da allora in Gran Bretagna è soprannominato lo sport della Boxe. Due termini diversi in inglese ma una sola espressione in italiano.

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