Maggio 2012

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VARIE

di gravissime violazioni delle norme sui conflitti armati. Nell’affrontare la questione la Corte sottolinea come vi sia qualcosa di incongruo nell’approccio che fa dipendere la immunità dalla gravità del crimine, perché così opinando si finirebbe col dar vita ad un meccanismo in cui l’immunità può essere negata sulla base della abile costruzione dell’accusa e del fatto che in essa vengano dedotti gravi crimini contro l’umanità. Ad ogni modo la Corte esclude recisamente che si sia formata la deroga invocata dallo Stato italiano e ritiene che la pratica in uso presso la quasi totalità degli Stati non supporti in alcun modo il principio secondo cui l’immunità viene meno in presenza di gravi violazione dei diritti umani o del diritto che disciplina i conflitti armati. Infine la Corte si sofferma sull’argomento che fa discendere la deroga all’immunità dalla natura di jus cogens delle norme poste a protezione e garanzia dei fondamentali diritti umani, con la conseguenza che lo scudo procedimentale deve soccombere ogni volta che sia in conflitto con norme e principi che, loro sì, abbiano natura inderogabile. Per la Cor te non esiste l’invocato conflitto in quanto i due principi ruotano in differenti ambiti. La regola sull’immunità ha carattere procedurale ed è preordinata a stabilire se i Giudici di uno Stato possano o no esercitare la loro giurisdizione rispetto ad uno Stato estero, senza alcun rapporto con la duplice questione se e quanto grave sia la violazione per la quale è invocata la responsabilità dello Stato e quando la medesima sia stata commessa. È difficile sottrarsi ad una sensazione di profonda amarezza e perplessità. La raffinata costruzione della Corte sembra muoversi in un contesto segnato da vischiosità di concetti e principi e non tiene in adeguata considerazione la recente pratica internazionale, che invoca e pretende il massimo di tutela giudiziaria nel caso di gravi crimini contro i diritti umani, specie quando commessi da organi di uno Stato estero nel Paese che esercita la giurisdizione. Un ruolo essenziale è svolto dal diritto internazionale umanitario, consacrato nelle convenzioni di Ginevra del 1949, ed al progressivo intensificarsi della tutela giudiziaria legata alle sue violazioni. Negli ultimi due decenni

questa tendenza si è fatta particolarmente capillare nel campo della responsabilità penale individuale degli autori delle violazioni ed ha generato la istituzione di diversi tribunali internazionali per accertare e giudicare tali crimini, in processi che hanno coinvolti Capi di Stato e personalità di governo. Sicché diviene ineludibile il seguente interrogativo. Come è possibile affermare la responsabilità penale di soggetti che rappresentano, in quanto suoi organi, uno Stato e nel contempo escludere la responsabilità del predetto Stato nei confronti delle vittime? Eppure è questo lo scenario che si è venuto a delineare. I responsabili degli efferati ed atroci crimini di guerra sono chiamati a rispondere penalmente delle azioni commesse e nei loro confronti è pacificamente esperibile l’azione di risarcimento del danno. I soldati rispondono penalmente e civilmente. E rispondono civilmente per avere eseguito azioni belliche quali organi di uno Stato estero e in attuazione di scellerati e dettagliati piani di sterminio e distruzione. Ma sono solo loro a rispondere, quasi avessero agito in piena autonomia e senza alcun collegamento con gli ordini e le direttive ricevute. Non credo di esagerare se considero la decisione della Corte internazionale viziata da un approccio in cui la “Ragione di Stato” lascia privi di difesa e adeguata tutela tutti gli individui coinvolti nei gravi crimini: in primo luogo coloro che hanno visto distrutta barbaramente la loro esistenza, indi coloro che hanno vissuto l’intera vita nella aspettativa di un atto riparatorio, nei limiti dell’umanamente possibile; ed infine, non suoni improprio, anche gli stessi autori degli efferati crimini, chiamati ad affrontarne le conseguenze da soli, in un processo in cui è invocata anche la loro responsabilità civile e che paradossalmente non coinvolge, come concorrente responsabile civile, quello Stato per conto del quale essi hanno operato e devastato. Sono davvero tante le ragioni di amarezza e disagio. La Corte aveva a disposizione una opportunità preziosa e ricca di significativi elementi di sviluppo, come puntualmente rilevato dal Giudice Cançado Trindade nella sua ricca ed argomentata dissenting opinion, in cui si sottolinea come l’oggetto della disputa internazionale fosse strettamente connesso con l’imperati-

vo di “realizzare giustizia” e come in tale prospettiva fosse del tutto angusto ed inadeguato l’approccio basato esclusivamente sulla pratica delle relazioni interstatuali. Il giudice Trindade sottolinea come sia inammissibile collocare la questione della immunità in uno spazio di assoluta astrattezza e come sia doveroso collegarla con i drammatici fatti che hanno dato origine al contenzioso, soprattutto quando lo Stato citato in giudizio abbia riconosciuto la propria responsabilità per tali fatti ed quando sia imperiosa e sorretta da forte consenso l’istanza di non lasciare le vittime, tutte e ciascuna di esse, prive di adeguata e completa tutela. Ed è questo il dominante imperativo che promana dalla contemporanea dottrina di diritto internazionale e dalle tante istituzioni sorte a difesa dei diritti umani in ogni parte del mondo, che con voce forte e unitaria pongono l’accento sulla necessità di tutela e riparazione e lasciano soccombere l’antico dogma della immunità degli Stati. Voglio utilizzare, per chiudere questo sofferto capitolo, proprio le incisive e nobili parole del Giudice Cançado Trindade: «I crimini di guerra, i crimini contro la pace ed i crimini contro l’umanità sono commessi in modo pianificato ed organizzato e per ciò sono crimini che coinvolgono una responsabilità collettiva. Questi crimini fanno affidamento sulle risorse dello Stato e per ciò sono crimini di Stato. Per questo è necessario che vi sia una responsabilità congiunta: la responsabilità internazionale dello Stato e la responsabilità penale degli individui. Nessuno stato può, né mai gli è stato consentito, invocare la sovranità per ridurre in schiavitù o sterminare esseri umani ed evitare le proprie responsabilità trincerandosi dietro lo scudo dell’immunità. Non vi è immunità per così gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, per i crimini di guerra di guerra e contro l’umanità. L’immunità non è mai stata concepita per simili iniquità. L’approccio basato solo sulla pratica degli Stati conduce ad una manifesta ingiustizia e la presente controversia internazionale tra la Germania e l’Italia ne dà una eloquente testimonianza».* * libera traduzione a cura del dott. Vito Diana segue

AERONAUTICA 5/2012

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