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Quinta| periodico digitale di casaliquida numero 2 | giugno 2013

a cura di

Vivian Celestino Domenico Cogliandro testi e opere di

Mildred Lewis Ugo Rosa Federica Dubbini Signor L Dorotea Pace Anonimo Stefano Alaimo Mario Manganaro Pierangelo Bertoli fotografie

Domenico Cogliandro

Quest’opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/3.0/it/


Quinta|due Quinta| è in viaggio. Ha fatto i bagagli ed è partita, ha indossato un vestito sobrio, porta con sé un bagaglio leggero e qualche attrezzo a portata di mano. Abbiamo carezzato l’idea, la stiamo portando avanti. Quinta| viaggia paralella a CasaLiquida, segue percorsi che si biforcano ed è disposta a cambiare itinerario. Questo numero lo dedichiamo, appunto, ai viaggi. Tony Scott, regista, è volato giù da un cavalcavia, un viaggio di sola andata. I suoi film sono stati una corsa contro il tempo, a ben guardare, forme liminari di viaggio, per questo gli dedichiamo l’intro di Quinta|. La matassa si dipana, poi, lungo traiettorie differenti che cercano un’epifania nell’equilibrio tra parole e immagini: il reo confesso Ugo Rosa, per interposto eteronimo ignoto, ammette una scelta di vita che emergerà (*) nei prossimi numeri di Quinta|. Lo nascondiamo dietro nuvole striscianti, per ora, ma è un viaggio che inizia, dunque, e da noi si inoltra lungo i colori purpurei di Federica Dubbini che intravede orizzonti illusori, lo dice lungo le campiture di colore, fino a confondersi con un fantomatico L e una viscerale Dorotea: esTensori di sTorie con la T maiuscola. I narratori sono come i viaggiatori incalliti, sanno di partire per nonsodove certi che qualcuno li seguirà per quanto consci di scrivere per se stessi in attesa di fermarsi da qualche parte, un luogo mai esaustivo delle proprie necessità, seguendo mappe incaute: una riva, un albero, il bordo di un tavolo a casa di qualcuno che non si conosce. Talora basta la speranza di un pastis che si tramuta in greco. Può accadere ad un friulano che approdi in Calabria. Non, forse, a un siciliano perso nella tessitura metropolitana di Londra, ma non si può mai dire - quello che si vive potrebbe non corrispondere a quello che si vede, e la perifrasi di immagini della vita non aderire all’idea che ci si è fatti del mondo. Bisogna fermarsi, rallentare, appoggiarsi all’angolo di una strada del Belìce e testimoniare la propria presenza attraverso il ridisegno, pacato, di ogni singolo frame, la trascrizione di un arabesco, incomprensibile se letto in fretta, trasmettendo le pulsazioni e il respiro, mostrandone il profilo, svelandone la maschera. Il viaggio di Quinta| ricalca la suggestione di chi non riesce a coglierlo interamente, ma ha piacere a ricordarlo perdendovisi dentro. Trama di immagini e parole tesa da un suono che emerge tra le frasi, mai scomposto: il vento, l’acqua, il sole e le zolle di terra sollevate da chi non intende riposare e muove il passo per affrontare il mondo “a muso duro”.


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Tony Scott | Mildred Lewis According to reports, director Tony Scott has committed suicide. My heart goes out to his family, friends and co-workers. The shock is understandable. The understanding of suicide is lacking. Just because he had a life that many considered enviable with material wealth and professional prestige, doesn’t mean that he was untouched by despair. The spirit of suicide is a profoundly seductive one with a force that sometimes will not be denied, not by thoughts of family suffering or our hunger for the next project. This is where I get off the fan boy train. The hopes and desires that we write onto the canvas of other people’s body of work has nothing to do with their actual lives. Very few who are writing actually knew Scott. The people who did need nothing other than our unqualified support.


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L’eutanasista | Ugo Rosa [Eutanasia: morte indolore, provocata per porre fine alle sofferenze di un malato inguaribile]

“L’inverno era troppo spietato, ci incalzava, pretendeva delitti.” Gottfried Benn “…non è né un salvatore né un salvato: egli non ha vangelo né programma – privo di tesi e di spiegazioni, il suo pensiero, pensiero della sommossa e del capovolgimento, è un pensiero-assassino, soggetto, anch’esso, ad ogni istante, ad essere ribaltato” Jean-Noël Vuarnet

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na maturità tranquilla ed una serena vecchiaia è quanto credo di essermi meritato. Se mi sono sottoposto al fastidio di scrivere questo libretto, nel quale racconto ciò che la

memoria mi consente, è perché non trovo improbabile che esso possa contribuire all’edificazione del lettore e al suo divertimento. Viviamo tempi insulsi, su questo vorrete convenire. La spiritualità incalzante ci mozza ormai il respiro, non c’è cretino che non stia in rapporti meno che privilegiati con le correnti positive del cosmo. Dio, o chi per lui, è alla portata di tutti.

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per lo meno di chiunque sia in grado di guardare il televisore, leggere i giornali e “farsi un’opinione” circa il materialismo dilagante e la conseguente assenza di valori.

Alla filantropia si aprono mercati illimitati. Del resto si tratta di mercanzia praticamente inesauribile; i magazzini dell’epoca ne sono stracolmi costituendo essa un lenitivo assai efficace contro le occasionali emicranie che può provocare questo o quel massacro in una o nell’altra parte del globo.

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ra, se è vero che gli uomini si sono sempre scannati, e che l’hanno sempre fatto in nome di ottimi principi, la particolarità dei tempi, e ciò che li rende particolarmente

ripugnanti, è che adesso essi lo fanno in forma di varietà televisivo e, soprattutto, non senza affogare quel poco di dignità che il massacrato un tempo conservava, in un mare di melassa giornalistica. Colui che crepa difficilmente viene lasciato in pace e, anche dopo morto, gli vengono immediatamente praticati i conforti che la serata televisiva prevede: il cagnolino presso le macerie, il bimbo in lacrime, l’intervista alla vedova, il parere dell’esperto. In questi frangenti


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ho ritenuto opportuno esporre le mie modeste esperienze a sostegno di chi voglia opporre una qualche forma di resistenza pratica a questo stato di cose. La mia azione gli sarà d’aiuto pratico? Non so. Certo non pretendo di offrirgli un manuale, ma se ne trarrà giovamento fattivo io, di sicuro, non avrò da lagnarmene. Non vorrei, tuttavia, tirarla per le lunghe.

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l fatto è che a un certo punto ho deciso, di fare ciò che prima avevo sempre accuratamente evitato : scrivere un libro. Sempre che la memoria, come ho detto, mi aiuti e la mano non

tremi nella triste consapevolezza che assai di più, e meglio, avrei potuto. Perché me lo sono consentito? So bene di non potermi riparare sotto l’ombrello delle autorità competenti, mi manca un autorevole maître à penser.

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eppure De Quincey, che pure sarei lieto di evocare in qualità di padre spirituale e ispiratore, potrebbe essermi d’aiuto. La pura e disinteressata bellezza non viene in

soccorso delle mie azioni, che sono orfane e dovranno perciò fare da sole. colpi che ho assestato sono colpi modesti, frutto della rudimentale manualità di un artigiano autodidatta e, probabilmente, di modesto talento. E non è la vanità, credetemi, che mi ha

spinto a scriverne, quanto, piuttosto, la discreta speranza che forse anche lo scriverne costituisca un altro, pur se minuscolo, colpo a questa “Umanità” appiccicosa, zuccherina, a questa associazione a delinquere che oramai non ha avversari perché, così pare, li ha fatti fuori tutti. Dunque, si capisce, non reclamo il plauso. Ho fatto ciò che dovevo, l’ho fatto come potevo.

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ome noterete a seguire non ho operato in serie. Suppongo perciò che, taluno più moderno e attivo, mi possa rimproverare di scarsa efficacia. Ma, permettete, proprio questo

rivendico. È infatti proprio nella inattualità del mio gesto che può, se può, rinvenirsi una qualche avvenenza. Nel suo porsi, sin dal principio, come inefficace. E tuttavia come l’unica, tra le azioni possibili, a risultare effettivamente risolutiva e, in qualche modo, definitiva. Decisiva.

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n quale altro modo, se non in questo, potevo davvero farmi carico, e far carico alla mia opera, dell’orrore in cui si voltola il mondo, dello sconfinato dolore urlato dagli eventi, brutalizzati

ad ogni ora del giorno selvaggiamente e con il sorriso sulle labbra? Perché, vedete, non bastava rilevare tutta questa bruttezza, questa stupidità che offende il cristallino scintillio del mondo, occorreva farsene carico. Lasciar vivere, ahimè, equivale oramai a lasciar crepare, in quest’epoca priva di attenzione e di pietà io, invece, mi sono preso cura dell’esistente ed ho scannato chi mi riusciva intollerabile. Avrei potuto limitarmi alla filosofia, mi sono esteso al crimine.

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e pagine che seguiranno (*) sono un conciso ma, spero, esauriente resoconto dei miei anni migliori, spesi in questa missione silenziosa e oscura.


Orizzonti...| Federica Dubbini



...e illusioni| Federica Dubbini



Trasporti | Signor L |18marzo2013|

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ualche giorno fa il signor L. aspettava paziente il suo turno in un negozio di telefoni di rue Saint Antoine quando una ragazzina bionda, che gli pare viva nella sua stessa

strada, ha avviato una vivace discussione con uno dei commessi del negozio. Ella sosteneva la necessità di abbandonare per sempre l’automobile e spostarsi con la bicicletta o con i mezzi pubblici. A detta sua, chi proseguiva nell’utilizzo dell’auto inquinava anche la sua aria, intasava la sua città, le sottraeva spazio e minacciava la sua incolumità fisica. Il signor L. ha ascoltato con un crescente senso di colpa le osservazioni della ragazzina, che ha scoperto chiamarsi Gaelle, più ella illustrava il suo punto di vista al commesso, più egli sentiva di incarnare la figura dell’antagonista, del borghese che immagina lo spazio come una rete che si sviluppa attorno da lui e di cui egli può disporre individualmente, spostandosi a suo piacimento dove vuole.

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gli allora ha preso a riflettere sui luoghi ove si svolge la vita degli uomini, considerando anche quello in cui si trovavano, un negozio di telefoni, il tempio delle relazioni umane

che non hanno bisogno di un territorio. Ha ricordato la vita degli avi di cui ha solo conosciuto il racconto, incatenati alla terra per tutta la loro esistenza, impossibilitati ad immaginare un destino che non avesse a che fare con gli alberi e con la polvere. Poi di quelli venuti dopo di loro, i nonni dei suoi nonni, piccoli artigiani che avevano iniziato ad esplorare lo spazio per vendere le merci che producevano, dove la mobilità individuale era diventata mobilità sociale, l’aspirazione ad un destino non più subordinato ma finalmente autonomo. Per finire alla propria esistenza, un uomo che vive in due luoghi interiori distinti, tenuto insieme soltanto dal sistema dei trasporti.

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l signor L. avrebbe voluto dire alla ragazzina di non preoccuparsi, che tutto questo non durerà a lungo. Tra qualche anno nessuno si sposterà più, la rete si solleverà in alto e gli

esseri umani inizieranno a ridurre il contatto fisico tra loro, per poi annullarlo pian piano del tutto. Un giorno ogni cosa avverrà digitalmente, il lavoro si svolgerà sulle piattaforme, i viaggi attraverso un potentissimo street view, anche il sesso rinuncerà al corpo dell’altro e coinciderà sempre più con il desiderio di cui parlava Lacan. Dunque non deve temere per la propria incolumità fisica. Un giorno potrà pedalare felice per le strade vuote di Parigi, saranno tutte per lei.

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Tras-locare #2 | Dorotea Pace |16aprile2013|

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ras-locare. Por[si] in un luogo (al di là, oltre), passare da un luogo all’altro. a prima ancora, selezionare cosa portare con sé che è un modo per spazializzarsi – identificarsi, raccontarsi – nei confronti di un territorio ancora inesplorato, cosa invece

buttare che è un’attitudine a fare spazio per quello stesso territorio ancora inesplorato. Ecco perché non è mai così semplice come potrebbe sembrare selezionare cosa portare con sé e cosa invece buttare. Io, soltanto a pensarci su, mi sentivo parecchio molle.

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o iniziato enumerando le cose considerate di mia proprietà nel corso di tre anni a Milano, cose dalle più comuni alle più strampalate, ipotizzando e abbozzando montagnole e

cumuli dai quali, in sette giorni successivi, ma non consecutivi, sono derivati di fatto n° 10 scatoloni – senza contare le scatole dentro le scatole – rinforzati da scotch [di carta, da pacchi, da elettricista] all’interno dei quali il principio d’ordine per categoria stabilito in un primo momento è diventato sempre meno rigoroso dacché i vestiti in eccesso hanno trovato posto in Libri e Quaderni di viaggio, l’accappatoio in Pentolame, il carillon con la molla allentata in Profumeria e Farmacia, l’analogica Yashica in Scarpe, il sacco a pelo e la maschera da sub con i fori per poter respirare in Necessità di lavoro, così tanto per esemplificare; n° 2 borsoni di biancheria intima, calze, pigiami e qualche vestito ancora; n° 2 bustoni di coperte e cuscini; n° 1 branda; n° 1 mobiletto bucato e svuotato; n° 1 apparato alare con sistema di apertura e chiusura; n° 1 violino scordato e ammaccato.

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uel ch’è rimasto fuori, in altri termini lo scarto indipendentemente da qualsiasi categoria, è stato tale e impietoso che al massimo potrei scrivere n° elevato-ma-assai sacchi da

evacuare. Ho affinato la mia tecnica di scarto col passare dei giorni: dapprima disorientata, ho poi iniziato a destreggiarmi nella strategia uno-sguardo-e-via-nel-sacco-apposito. Le cose da scartare mi sembravano inesauribili e così la voglia di scartare.

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anche vero, infatti, che, dopo le prime incertezze, l’idea stessa di scartare [di alleggerirmi] mi sovreccitava. Vado a reinventarmi un’esistenza, uno-sguardo-e-via-nel-sacco-apposito,

segno virgola e via-nel-sacco-apposito. ado a essere libera, violentemente libera.


Dettagli|CasaLiquida

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Salvacondotto | Anonimo

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Metro| Stefano Alaimo

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i fissa. La sua attività preferita, prima di lanciarsi dietro una scrivania dalla quale fisserà un altro. Non ricordo quando ho iniziato a prendere la metro. Ricordo

perfettamente come ci si sente a buttarsi giù dal letto, però. Lo faccio, sempre, appena, rischiando. Io non posso lamentarmi della mia “vita”. Mi faccio lo stesso genere di domande che uno si fa quando: il volano/smette/di trasferire/moto/all’albero/motore.

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erchè l’auto si spegne? Forse è troppo pesante, regge poco il “minimo”, non la so ancora guidare. Ogni mattina è una lotteria: tra le migliaia di facce che si vedono

una sola volta nella vita, dentro questi treni, nascono i dubbi sulla mia realtà. Sguardi da ogni parte del mondo. Concentrati su unico posto dello stesso mondo, e come se già non bastassero le riflessioni su quanto siamo insignificanti... ci voleva anche questa fregatura della metro.

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essuno sa un cazzo di niente e, per ripetermi, nessuno. Sono sicuro che dalla propria parte ognuno inventi per sè una storia da offrire agli altri attraverso scarpe/

borse/copertine di libri/occhiali/(a volte anche) parrucche/zero colori e che, per tutta risposta, gli altri - gli stessi, ognuno - immaginino una storia del tutto diversa, che poco ha a che fare con la percezione che anche io ho di me/stesso. Bello e condito da un antico richiamo filosofico, in realtà confusionario.

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osso anche non guardarli negli occhi, i loro sguardi li ho già visti, mi guardano, lo so, ma non mi importa. Le distanze si misurano col suono, le prospettive sono limitate. L’unica

salvezza sembra essere nascosta nelle mappe che all’interno dei vagoni segnano/il percorso/ della/linea/metropolitana. Nessuno sa un cazzo di niente e, per ripetermi, nessuno.

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gni tanto v’è monotonia del nome della stazione su cerchio bianco, poi si alterna la novità di nuovi simboli: più elaborati, più colorati: sono altre stazioni, altre

derive, altri mondi. Questi luoghi offrono alternative. Si possono afferrare rifiutando la crux viarum di ogni mattina, abbandonando un treno che mi illude, che mi fa credere di conoscere la mia destinazione. Lo zio diceva che riderne è il miglior modo, per affrontare un problema.

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o, più che non ricordare quando tutto questo è cominciato o da quando ho cominciato, ho dimenticato chi sono, in tutti i modi in cui è possibile dimenticare se stessi e con

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tutte le opportunità/che questa/situazione/offre. Nessuno sa un cazzo di niente e, per ripetermi, nessuno. Taglio corto, non è necessario collegare le orbite, sento lo spazio che mi rimane. So a memoria le cose che/mi/avrebbero/dovuto/insegnare e invece le ho imparate, a memoria, lettera per lettera.

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to nella scia, per alcuni non esiste nemmeno, talmente sfila dinanzi, mentre è un corpo che contiene corpi, un tubo che sibila, fuori, e che attutisce, dentro, i battiti e

le pulsazioni. Tstumpf/fswsh. Ah, lo zio, sapesse. La stazione radio, la prossima stazione, staziono, sto, no, filo via come il vento, vengo, arrivo, tutte/le/parole/del/mondo/pullulano/ nelle mie/orecchie, e io vado loro incontro visto che aspettano me.

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ppena scendo non dirmi che strada fare, la conosco, so qual’è, mi ci trovo sempre dentro, il mio pilota automatico va a folate di vento e siccome nessuno sa un cazzo

di niente e, per ripetermi, nessuno, smettila di frignare. Lasciami stare, eh, non mi fissare.


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Per Gibellina| Mario Manganaro

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25 |20luglio2005|

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ppoggiato ad un pilastro dell’ala lunga del portico, vedevo affluire gente da tutte le parti. Entravano nella piazza senza fretta, come usano fare le persone che sono del

luogo. C’erano visi cotti dal sole, i più anziani, ma soprattutto facce di gente giovane, ragazze e ragazzi con vestiti, orecchini, anelli e borse variamente colorati. Coloro che si vedevano arrivare con andatura più frettolosa erano quelli provenienti da fuori città, i familiari e altra gente importante, forse giunta da Palermo o da altri posti più lontani. La piazza ancora aveva al centro un triangolo illuminato dal sole, mentre un gruppo di persone si assiepava all’angolo delle due ali del portico attorno ad un vecchio magro, severo ed elegante, che indossava un vestito color cannella e portava un panama bianco in testa.

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uando l’ultimo raggio di sole si nascose dietro la quinta degli uffici del municipio, tutta la platea, occupata dalle sedie di plastica bianca con i fori radiali nella spalliera, risultò

colma di persone. Arrivò in fretta anche una signora bionda dalla figura slanciata con un completo in pantaloni marrone. Dal suo comportamento si capiva che non era del posto, ma non del tutto estranea; tuttavia non si avvicinò al gruppo che faceva gli onori di casa. La vidi passeggiare nervosamente nella manica lunga del portico accanto ai pannelli di ceramica dai colori accesi, coperta a tratti dalla gente del luogo che vi sostava a gruppi; la rividi più tardi seduta in disparte, figura quasi contratta al margine esterno di una fila di sedie del settore, disposto nella piazza di fronte alla sala consiliare.

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n signore robusto e con i baffi passava tra la folla distribuendo il programma della cerimonia. Lo notai più tardi darsi da fare sotto i portici accanto ad un tavolo posto

strategicamente proprio all’incrocio delle due ali. Il tavolo era pieno zeppo di bottiglie in plastica di acqua minerale. Mi ricordo che sul foglio del programma appena distribuito, probabilmente stampato in fretta, compariva storpiato il cognome di Bertold Brecht.

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a gente che ancora affluiva, ma in modo più ridotto, s’incanalava nel corridoio tra le sedie ed i portici e sul calar della sera cominciò la cerimonia funebre di commiato in

onore dello scultore Pietro Consagra, che prima di morire, pur essendo nato a Mazara del Vallo, aveva espresso la volontà di essere sepolto nel cimitero di Gibellina, a cui si sentiva particolarmente legato per l’esperienza artistica e umana ivi vissuta. Una lunga fila di ragazzi delle scuole elementari e medie sfilò in silenzio posando ognuno un fiore sulla bara.


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n ensemble da camera con musicisti venuti da Palermo suonò brevi arie dalle musiche di scena di un’opera di Eliot, musicata da D’Amico, fu recitata la solenne orazione funebre

da parte di un critico d’arte, la figlia commossa ringraziò i presenti e lesse un telegramma del Presidente della Repubblica, parlò il sindaco giovane e brillante con la fascia tricolore al petto e concluse la parte oratoria un impacciato onorevole rappresentante dell’assemblea regionale. Prima, però, aveva parlato in un silenzio assoluto il vecchio dalla figura sottile e con il panama bianco, che avevo visto all’inizio tra la gente.

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e sue parole dal tono basso e profondo tracciarono sinteticamente l’esperienza artistica e sociale di Consagra in rapporto alla nascita faticosa di Gibellina, vissuta all’insegna del

concetto di arte totale. Disse delle riunioni con la gente all’interno delle baraccopoli e delle discussioni con gli artisti che presentavano le loro opere. Parlava lentamente e a voce bassa, ma intensa. Le sue parole risuonavano chiare nell’aria della sera, come fossero state scolpite sulla pietra. Era la prima volta che vedevo Ludovico Corrao. Disse alla fine delle frasi retoriche sulle stelle del cielo di Gibellina, ma era una retorica nel senso nobile ed antico del termine, particolarmente attinente ad illustrare il ruolo di guida artistica e spirituale, che il grande scultore aveva avuto nella rinascita di Gibellina.

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i sembrò per un attimo di essere in una città della Magna Grecia tanti secoli fa e che il popolo commemorasse il suo eroe eponimo. Capii in quel momento di Gibellina

più di quanto avessi mai appreso dai libri o visto e disegnato intensamente nei periodi trascorsi sul posto. Certo contribuì la presenza delle persone, così ampia e partecipe attorno alla salma dell’artista, che ritornava nella sua patria, accolto come un eroe di tempi passati, ma anche l’atmosfera rievocata dalle voci poco prima ascoltate, che pronunziavano la parola Belìce, con l’accento sull’ultima sillaba, nel modo giusto e naturale.

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er chi, come me, è stato per anni convinto dell’accentazione sulla prima sillaba per averla sentita pronunziare in modo scorretto ripetutamente (non so per quale persistente errore di

diffusione dei mass-media), la parola Belice acquistò un suono più limpido e musicale e un tono più amichevole e cordiale, sicuramente più vero.


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urante la cerimonia funebre passò in fretta una signora all’esterno del portico; notai con una certa meraviglia che le pendevano dai lobi delle orecchie luccicanti ciondoli d’oro

con la forma in miniatura della porta pentagonale della valle del Belice, posta all’ingresso di Gibellina.

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l loro dondolio aveva qualcosa di fatuo, o meglio di contraddittorio, nei confronti dell’opera, a cui si riferivano, poiché credo che nella maggior parte degli osservatori l’immagine principale

rimanga prevalentemente legata alle inflessibili leggi della statica. a cerimonia si avviava verso la conclusione, quando il sestetto di musicisti attaccò con i fiati le note dell’ouverture dell’Opera da tre soldi di Weill; allora mi allontanai in silenzio

con i miei amici dal luogo della cerimonia per raggiungere il parcheggio e far ritorno a casa (dovevamo arrivare all’altro capo dell’isola). Alcuni ragazzi parlavano tra loro, con i gomiti appoggiati alle biciclette all’altra estremità della piazza, dove le note della musica giungevano sfumate, ormai lontane e indistinte...


Canterò le mie canzoni per la strada ed affronterò la vita a muso duro un guerriero senza patria e senza spada con un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro. |Pierangelo Bertoli|


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