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A GAIRO TAQUISARA
isara fu chiuso, perché era economicamente un ramo secco da tagliare, e sostituito con le corriere. Poi il tracciato fu smantellato, i binari rimossi; e la boscaglia si impossessò di vasti tratti della vecchia ferrovia.
Ricordo l’ira di Ierzu. Dovette venire il senatore Mannironi a convincerci, ma mio padre quando lo sentiva nominare imprecava: “Su batticorru ki t’hat nasciu”.
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Intraducibile per gli italiani.
Non esiste più neppure la Stazione di Ierzu, cancellata anche nella vecchia insegna per lasciare spazio al Museo che conserva le opere di Maria Lai. Museo bellissimo, che non sarebbe certo deturpato se in un angolino venissero messe una locomotiva storica e una targa in ricordo di quanti si batterono per la ferrovia.
Io spero che ciò avvenga. Sono ottimista per natura e nonostante gli ulassesi. Decido di allenarmi per Santiago percorrendo il vecchio tracciato ferroviario Ierzu-Gairo, oggi sostituito da una strada percorribile in macchina. Zaino in spalla, due coccoi prena, tre arance e un gel per il tallone che fa le bizze.
Sono, andata e ritorno, 17 km, 25 mila passi e 700 calorie bruciate.
Ne vale la pena, perché la strada si sviluppa senza dislivelli e con piccole curve lungo il costone incoronato(segue pagina 4)
(segue dalla pagina 3) dalle dolomie e regala panorami bellissimi. È primavera e qui è una distesa di ciliegi in fiore, bianchissimi alla luce del sole oggi mite.
A monte, una foresta di querce ininterrotta, con alte barriere di ginestre in fiore e di erica, che alternano il giallo vivo al bianco sfumato; e macchie di ciclamini e viole sparse nel sottobosco curatissimo.
Peccato non conoscere i nomi dei fiori e delle piante, ma ne sono affascinato.
La strada ferroviaria silenziosa...non incontro un’auto...ricorda la fatica dei nostri padri.
Il tratto che dalla stazione di Ierzu porta al casello di Ulassai in Is Montis Longus, che attraversa la Provinciale, è scavata nella roccia scistosa o protetta a monte da muri ciclopici coperti di muschio.
Il silenzio è interrotto dal chiocchiolio dell’acqua nei canali o in piccoli torrenti coperti dalla boscaglia.
Qui c’era l’orto di nonno Costantino, che a ottant’anni saliva ancora su un fico gigantesco e tornava a casa con frutti dolcissimi, che a quelli di Cartagine gli facevano un baffo.
Sorgono ovunque case nuove, che disturbano un paesaggio intatto fino a pochi anni fa.
Non so se questi scavi deprimenti abbiano salvato il muro a camicia che nel
1820 fu costruito dagli ulassesi per evitare che il bestiame entrasse nel prato delle vigne.
Un lavoro immane, compiuto da tutta la popolazione, bambini compresi, che partiva da Funtana Ursa e arrivava a Nuragi, poi stazione di Ierzu e oggi “Stazione dell’arte”.
Ne trovai una trentina di metri vent’anni fa. Sarebbe bello se fosse scampata alla rovina.
A valle, la strada si affaccia sulla valle del Pardu, che poi diventa Pelau e sfocia a Museddu, vicino al mare di Ierzu.
Sì, si, lo so che Ierzu non ha sbocco al mare, ma si chiamava così perché per un mese gli ierzesi ne occupavano la spiaggia con baracche costruite sapientemente.
Erano le seconde case di allora.
E ricordano anni di festa, di riposo, di amori segreti. Da questo loggione privilegiato vedo i vecchi abitati di Osini e Gairo, abbandonati dopo l’alluvione del 1951: case in rovina, finestre vuote come le orbite spente di un cranio.
In fondo, Monti ‘e Ferru, monte Astili, le antenne di Tricoli; e il mare. Ovunque ciliegi in fiore.
Forse il Giappone è così, in questi giorni.
Attraverso la provinciale per entrare nel tracciato ferroviario, che è un viottolo stretto in leggera salita or- mai coperto dalla vegetazione. Il ponte su cui passava il treno é intatto, coperto di muschio e da qualche fico selvatico.
Poche decine di metri e sono nell’abitato di Osini, che nel 1893 era più a valle.

Dopo il 1951 si formò Osini nuovo, intorno alla stazione Ulassai-Osini, come si legge nella facciata dell’edificio ben conservato e testimone di una storia importante per lo sviluppo della zona.
Anche qui case alte, vaste, quando si poteva scegliere una tipologia diversa, con case più raccolte, più umane.
Il trionfo del “mal della pietra”, costruire comunque e ovunque, e male.
Peccato, perché Osini nuovo ha angoli suggestivi, ben curati, con alberi oggi di un verde tenero.
Bello e pieno di quiete il giardino che ci accompagna alla vecchia Stazione con sedili originali che ricordano antiche forme preistoriche, e la scultura di un mostro simil dinosauro ingentilito da occhi allegri. Come le strade nazionali avevano le cantoniere, dove i viaggiatori trovavano assistenza e ristoro e abitavano i cantonieri che si curavano della manutenzione del fondo stradale, anche la strada ferrata aveva i caselli, a distanza di circa un km l’uno dall’altro. Sorrido pensando a quel mio amico politico, perse- guitato da sa giustissia, che peró non aveva perso la sua proverbiale ironia. Aveva rubato per il Partito, mentre altri rubavano per sé, e mi diceva che aveva paura di andare in autostrada “per non incontrare Caselli”.

Fino a Taquisara ne ho contato cinque, tre ben conservati e due in rovina.
Erano abitazioni di servizio quasi lussuose. Dall’ampia ferita che ne deturpa la facciata, posso vedere come erano fatte: a piano terra, col pavimento in blocchi di pietra lavorata con perizia, un caminetto che, con il calore della canna fumaria, riscaldava anche il piano superiore cui si saliva con una scala sospesa di pietra.
Vicino al camino c’era anche il forno, che si sviluppava all’esterno dell’edificio dove, mi pare di capire, c’era anche il gabinetto.
Di questi edifici resta ben poco: la traccia del camino annerito dal fumo di tanti lustri, la bocca del forno distrutto, qualche pezzo del pavimento e monconi dei gradini della scala interna.
L’uomo costruisce, ma è l’animale che distrugge per il solo piacere di sedersi e ridere sulle macerie.
Fatevi guidare nella camminata proprio dai caselli, costruiti a picco sulla vallata e visibili a distanza.
Non potete sbagliare. (segue pagina 6)
(segue dalla pagina 5)
Ci sono molte stradette secondarie, ma sono in cemento e non pianeggianti.
Potete anche non portarvi da bere, perché incontrate almeno tre sorgenti di acqua gelida.
E camminate piano. Questo é il regno dei cinghiali e delle donnole. Rispettateli.
La strada ferrata segue ad un certo punto la provinciale per Ussassai.
La vedi tra le querce.
Gairo Taquisara appare all’improvviso dopo una curva, con le sue case dai tetti rossi e il tonneri sullo sfondo.
Mi accoglie un coro di cani alla catena e una fuga di gatti impauriti.
Ed ecco i binari, che hanno resistito al tempo e all’uomo.
Arrugginiti, tra l’erba alta, portano alla stazione, preceduta dal casello che vigilava sul passaggio a livello.
Tutto ben curato, anche la chiesa che ricordavo di aver visto in una bellissima foto in cui un gruppo di persone e alcuni bambini posava vicino alla locomotiva.
Quando ero sindaco le Ferrovie mi offersero una locomotiva d’epoca da mettere a Ierzu in ricordo di una battaglia vinta contro l’isolamento.
Non sapevo dove metterla, presi tempo e persi l’occasione.
Me ne pento ancora.
Tacu Isara, forse chiamato così da un tempio di Ishar, l’Astarte fenicia, ha oggi meno di duecento abitanti. Nessuno in giro, solo due persone che mi guardano curiosi ma senza invadenza.
Tonino Serra Contu, Ierzese con ascendenti di Tertenia e Ulassai, medico fisiatra, vive e lavora a Cagliari dal 1975. Sindaco del suo paese negli anni ´80, è stato consigliere provinciale e comunale di Cagliari dal 1990 al 1998.
Ha pubblicato Ierzu, storia di un paese contadino, Ierzu, la gente, i luoghi, la memoria, e alcuni saggi su Quaderni Ogliastrini. Con vari autori ha curato il libro monografico Ogliastra. Sta ultimando la monografia Ulassai, i percorsi della memoria.
Il più anziano mi sorride quando gli dico il mio nome: ha letto i miei libri e sa che mi piace ascoltare. Appare divertito quando gli dico che vengo a piedi da Ierzu.
Lui quella strada la faceva ogni giorno per frequentare le scuole medie di Ierzu.
Anche in inverno, quando la foresta si chinava sotto il peso della neve e i binari erano morsi dal gelo. Si offre di accompagnarmi al nuraghe Serbissi, il più monumentale della zona:
“Sa, prima lo vedevo dalla finestra, oggi non più perché i pini sono cresciuti e lo nascondono alla vista”. In realtà vorrei vedere il villaggio nuragico scoperto pochi anni fa. Sarà la prossima volta.

Vorrei sentire sotto i piedi i binari morti, ma devo visitare un paziente alle sei e io sono puntualissimo. Molti non lo sono e non li sopporto.
Torno indietro e vado incontro al vento gelido che viene da Gairo nuovo.
È da sempre così, per Gairo. Quando a Ierzu vogliamo sapere se fa freddo guardiamo verso Gairo: se le sue montagne sono bianche di neve allora fa sicuramente freddo e ci sentiamo autorizzati a sentirlo.
Devo coprirmi, ma mi piace ripercorrere la strada di ritorno perché vedo lo stesso paesaggio sotto una luce diversa.
Abituati a guardare per terra, dimentichiamo che essa è lo specchio del cielo e riverbera lo splendore del sole e le sue ombre, quando le nuvole si muovono lente spinte dal vento.
Buongiorno Vittorio .
Ecco un racconto che potrebbe piacerti , di Tonino Serra CONTU .

Se servono foto le cerco
Sono affascinata dalla tenacia e dall’amore con cui Luciana Cannas sta cercando di ricostruire la storia di Osini, il paese distrutto dall’alluvione del 1951.
Raccoglie foto, racconti, oggetti.
E, con altre osinesi, promuove iniziative culturali che possano far rivivere il paese perduto e recuperare in parte il vecchio abitato.
Sono sicuro che, con l’aiuto dell’amministrazione e delle sua gente, vincerà questa sfida contro il tempo: ogni ora che passa muore un frammento di Osini vecchio.
Per onorare il suo lavoro, ripropongo un racconto dell’aprile 2021 su Osini.
Luisanna Napoli
n cuore di vetro che ovunque riflette un cuore di marmo.
Ritornando a Osini Vecchio, ho trovato un cuoricino di vetro, uno dei tanti che Virginia posa tra i ruderi, uno di quei cuori che “metteinognidove” a farci riflettere sull’importanza di sensibilizzarci a trovare urgente rimedio al borgo in rovina.
Ho raccolto il cuoricino di vetro e l’ho posato in tanti angoli che riflettono il declino, quell’inesorabile declino al quale giorno per giorno va incontro. Ovunque crolli,nuovi e recenti che si sommano a quelli degli anni passati.
Non ho fatto una sola foto stavolta, perché ne avrei potuto scattare infinite,ma una più triste dell’altra e fa’ male guardarle.
Il cuoricino di vetro riflette il disastro creato da cuori di pietra che hanno permesso che tutto questo avvenisse.
Mai troverò perdono per loro.
E il tempo inclemente, ma senza colpe,facendo parte della natura, non posso, considerarlo colpevole.
Pareti dipinte crollano a terra come quadri appesi al cielo di nuvole minacciose.
Il sole illumina gli angoli bui,infondendo calore a ciò che vorrebbe preservare; basterebbe scaldare i cuori gelidi di chi avrebbe (segue pagina 7)
(segue dalla pagina 7) voluto e potrebbe ancora coprire con teche e rinforzi ciò che domani il cuoricino di vetro non potrà più riflettere. Amarezza infinita e impotenza davanti a uno scenario che ogni volta mi riporta alla stessa domanda:
”Cosa posso fare io?”. Alla fine,la risposta sta nell’evidenza:sto a guardare e ahimé...a sospirare.
Io parlo con le pietre e loro mi rispondono che le buone intenzioni non sono sufficienti a impedirle di cadere.
Se però posso rendermi utile, io ci sono. Sono belli gli eventi in chiesa di Santa Susanna per ricordare gli anniversari dell’alluvione del ‘51,ma il risveglio non sta’ solo lì......
Dipendesse da me riinviterei gli stessi artisti che negli anni si sono esibiti, a riesibirsi in spettacoli solidaristici di beneficenza destinando i proventi al recupero materiale del borgo visto che i nostri mezzi sono inesistenti anche alla sola pulizia dai rovi e arbusti che lo soffocano.
Sarebbe una concreta corsa contro il tempo. Ricordiamoci di quando il tetto della chiesa collassò sull’altare che per sempre ne conserva i segni ma il tetto è stato riedificato, le ruspe hanno scavato fino alle fondamenta umide e rinforzato in muri stabili su un pavimento nuovo che riaccoglie i fedeli e gli ospiti festanti. Sono felice di aver contribuito (non è un vanto ma un mio preciso dovere da cittadina) a ricollocare il tabernacolo dentro il quale...

C’è un detto in paese che dice:”Finia sa missa, acabàda sa festa “.(Finita la Messa,terminata la festa). Come dire che dopo un un’evento,tutto torna come prima.
Un po’ di cenere sparpagliata dal vento,rimane del falò che ha illuminato a festa la piazza della chiesa,poco tempo fa’,per ricordare i 70 anni dall’alluvione. Per non dimenticare e con la speranza di ricominciare ma non saprei da dove.
È impossibile rinascere dalle ceneri nel nostro borgo desolato perché alla distruzione non c’è rimedio. Una parvenza di quadro antico forse per salvare il salvabile ma con tinte tenui che conservino proprio quel fascino d’altri tempi che da sempre ci incanta ,altrimenti è meglio lasciare tutto così per non stravolgere ciò che dovremmo preservare.
L’inverno è la stagione migliore per scoprire ciò che il verde nasconde.
Gli alberi si sfogliano così le abitazioni e i ruderi si lasciano ammirare fin negli angoli più intimi. Non abbiamo imparato niente dall’architettura del nostro passato.
Gli archi di pietra in tantissimi magazzini ancora reggono solidi aggiungendo bellezza così come gli altri manufatti.
Se si potesse liberare il verde infestante, la visuale del borgo ne gioverebbe agli occhi dei visitatori. Sparsi ovunque alberi di fico dormienti ma insieme ai mandorli, noci, ciliegi e altri da frutto utili, sono gli unici di cui vorrei rivedere in primavera schiudersi le gemme perché da sempre parte del paesaggio. Se dipendesse da me,comincerei da lì; pulizia, ordine e decoro = rispetto.
Facciamo in modo che la festa continui. Qualcuno lassù ci dia la forza di ridare lustro a ciò che i nostri avi hanno creato e le cui ossa sono tornate alla luce in grandi e minuscoli frammenti rimossi da quei luoghi sacri (camposanto e sotto pavimento chiesa).
C’era una volta Osini Vecchio e c’è ancora. Avvolto in un velo di nebbia,il borgo si veste ancora di più di fascino misterioso.
Nel centro della via Principe Aimone che scende da Perdedu,e inizio via Cavallotti verso la chiesa e il camposanto,si regge ancora l’unico portico (su porci) di tutto il paese.(Gli altri tutti demoliti.)

Dal suo interno,traspare tutta la storia di un vicinato,impegnato nei comuni spazi condivisi nelle quotidiane molteplici attività.
Ormai, in una stanzetta attigua (sa stansia de forru), solo qualche traccia testimonia la presenza di un antico forno usato dall’intero parentado e in forma di cortese concessione, utilizzato anche da tutto il vicinato.
Archi e muretti di pietra si affacciano sugli orticelli coltivati oggi come allora.
Da essi si ricavavano i prodotti che lavorati e trasformati nello stesso cortile, fornivano il sostentamento a intere famiglie, dal sapore dolce e salato.
Dal grano lavato e steso al sole nei paraggi,ripulito dai setacci e frantumato dalle macine di pietra,trainate in tondo dall’asinello, continuava il laborioso lavoro delle donne nella panificazione che fornivano le dispense di ogni ben di Dio.
Le massaie del portico sapevano impegnare bene la lunga giornata,dalle prime luci dell’alba al tramonto.
Quel forno acceso il mattino presto,sfornava le fragranti delizie che facevano accorrere i bambini che scorrazzavano felici e spensierati nei dintorni. Fresco d’estate e soleggiato d’inverno,il portico ospitava le giovani donne intente a ricamarsi il corredo prima e il vestiario poi,per la famigliola.Anziane chine a rammendare,a filare e a tessere nel telaio di legno.
Uomini anziani a intrecciare canestri .
(segue pagina 10)
(egue dalla pagina 9)
Al rientro dai campi intenti a scaricare il pesante quanto fruttuoso carico dei cavalli e degli asini,prima di legarli ai ganci ancora oggi infissi nei muri dell’uscio o ricoverati nei magazzini in nottate fredde per il meritato riposo,prima di essere di nuovo sellati(sa sèdda) e caricati della bisaccia (sa bèrtula)la mattina successiva per un altra giornata di lavoro. Nel portico,anche la capretta e la pecora per il prezioso latte ,trovavano alloggio nella stanzetta del forno insieme al maiale e le galline che di giorno razzolavano nell’aia.
Le fascine di legna sempre pronte lì all’occorrenza per la prossima infornata con le pale(is paliasa de forru e is furconisi cun is iscovissasa po mundai su forru)e tutti gli accessori utili per ripulire il forno da braci e cenere prima di infornare pane e quant’altro. I contenitori di cereali nella mangiatoia degli indispensabilei animali domestici.
Il bucato fatto nella vicina fontanella della piazza di chiesa,steso al sole sui cespugli intorno alle case.

E come in tutti gli altri angoli del paese,anche sotto questo portico,il solito stuolo dei bambini in crescita, accoccolati intorno alle gonnelle delle anziane donne che con tutta la maliziosa fantasia li tenevano affascinati ad ascoltare quei raccon- ti che ancora è bello ascoltare. Osini Vecchio;la mia bella addormentata. Per forza dobbiamo aspettare il principe che la risvegli con un bacio?
Forse noi donne dovremmo imparare a svegliarci da sole. Aspettative vane.
Quanto vorrei organizzare la sagra delle ciliegie proprio lì, dove le ciliegie abbondano.
Creerei il giorno del recupero ; un giorno a settimana da dedicare a pulizia e recupero del borgo, in forma di volontariato.
Un volontariato responsabile e tutelativo.
Troppe piante invadenti che sradicano le case;motosega in mano farei dei suoi rami qualcosa di utile a costo zero di materiale per creare staccionate a protezione delle aperture prive di porte.
Con le canne in abbondanza organizzerei dei corsi di cestini per utilizzare il legname spontaneo.
Potremmo utilizzare le canne palustri per realizzare il nostro strumento più arcaico ; le lioneddas e imparando a usare bene il nostro fiato potremmo produrre quel suono magico in un concerto da destare il borgo sopito.
Ripulirei le pietre degli archi possenti che mani operose e menti abili sono riuscite a realizzare e far arrivare fino a noi;uno scenario ideale per la nostra sagra. Si,lo so,fantastico. Luciana Cannas
Via alla gara d’appalto per la realizzazione del Parco urbano della Quarta Regia a Cagliari. Il compendio, in località Sa Scafa e attualmente in stato di abbandono, verrà riqualificato e valorizzato per tornare a disposizione dei cittadini. L’intervento, di circa 2 milioni di euro, prevede la totale sistemazione del complesso, risalente alla metà del XIV secolo e utilizzato fino a qualche anno fa come luogo di rimessaggio delle reti ed osteria.

Il nome si riferisce alla quarta parte del pescato che i pescatori lagunari versavano alle casse regie sotto forma di dazio fino al 1956
Due, nel dettaglio, gli interventi relativi.
DOPPIO INTERVENTO – Il primo, recentemente completato con una spesa di circa 520mila euro, ha interessato il rifiorimento della scogliera frangiflutti a contenimento delle mareggiate e a protezione della torre e dell’area circostante.
Il secondo, i cui lavori dureranno 270 giorni, prevede opere di vera e propria riqualificazione e valorizzazione storico-paesaggistica del compendio di 11mila metri quadri, che diventerà un vero e proprio parco inclusivo (la metodologia progettuale è quella della Design for All stabilita dalla convenzione ONU), accessibile tutto l’anno, con percorsi diversificati, illustrati con pannelli didattici ed informativi che raccontano la storia del ples-