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CUORE DI CAMPIONE

“Non sottovalutare il cuore di un campione”. Rudy Tomjanovich, allenatore degli Houston Rockets, lo disse a proposito di Hakeem Olajuvon dopo la vittoria della sua squadra nell’NBA. Ma la frase sembra inventata per Sergio Parisse che, a quasi quarant’anni, a Dublino ha dimostrato ancora una volta le sue qualità e le sue ambizioni.

di Gianluca Barca

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“Papà, gioco titolare!”. La voce di Sergio, arrivò a casa Parisse, a Buenos Aires, nel cuore della notte argentina. Erano i primi di giugno del 2002. Dall’altra parte della cornetta, Sergio senior, che di rugby qualcosa sapeva, avendo vinto lo scudetto con la maglia de L’Aquila una trentina di anni prima, non poté far altro che balbettare: “ma Kirwan è impazzito…!?”. Mai entusiasmi troppo facili da parte del padre per il giovane figliolo.

Cominciava così, a Hamilton, in Nuova Zelanda, la carriera internazionale di Sergio Parisse, allora diciottenne, una promessa assoluta del rugby italiano.

Una promessa mantenuta, al punto che molti sognavano di vederlo concludere la sua spettacolare avventura di giocatore, il prossimo 29 settembre a Lione, al Mondiale.

Il cerchio da chiudere

Un cerchio perfetto, da chiudere ventun anni dopo l’esordio, nel modo più spettacolare: di nuovo di fronte agli All Blacks, i quali, chissà, magari, prima del fischio d’inizio all’OL Stadium, gli avrebbero riservato un’haka speciale.

Sergio alla sua sesta Coppa del Mondo, un record forse ineguagliabile perché di carriere così lunghe, a livello internazionale, andando avanti ce ne saranno sempre meno.

Alt, stop, basta fantasticare, si torna alla realtà più amara. Sergio senior se n’è andato pochi mesi fa, gli è stata risparmiata questa polemica stucchevole. Se fosse ancora tra noi forse, oggi come allora, si domanderebbe se qualcuno è impazzito quaggiù: Parisse nemmeno convocato per il primo raduno estivo dell’Italia. Ci sono ben 46 giocatori, praticamente tutti, fuorché l’ex capitano. “Io controllo solo quello che è che nelle mie possibilità” - dice Sergio-. “Quest’anno, tra coppa e Top14, ho giocato più di 1.200 minuti, venti partite, almeno quindici da titolare. Credo di aver parlato con i fatti, di aver dimostrato quello che posso fare. Da 22 anni, ho una media di 23 partite per stagione e, a quasi 40 anni, finirò ancora una volta molto vicino a quei numeri. Ho vinto la Challenge Cup con il Tolone, giocando per 71 minuti e segnando una meta”.

“Ho imparato dalle sconfitte, dai fallimenti, voi tutti sapete quante ne abbiamo subite con la maglia dell’Italia. Ma, per me personalmente, la determinazione non è mai venuta meno. Mi sono convinto che niente è impossibile, che ogni passo falso puoi tramutarlo nella base per una vittoria... Quando ho detto, e l’ho ripetuto più volte, che sarei stato disponibile per un altro Mondiale è perché conosco bene il mio fisico e la mia testa. E sapevo di poter affrontare una sfida così”.

In trionfo a Dublino, lo scorso 19 maggio, in maglia del Tolone, con la Challenge Cup. Sotto, a Canberra, Rwc 2003, placcato, Sergio riuscirà comunque a schiacciare in meta, la sua prima con la maglia dell’Italia.

E allora?

“Allora non ho altro da dire. Penso che la cosa sia difficile da spiegare, a maggior ragione fuori dall’Italia. A volte ci incagliamo in questioni piccole che non fanno bene alla nostra immagine e a quello che siamo. E non parlo di me, quello che ho fatto nella mia carriera è sotto gli occhi di tutti. Sono in pace con me stesso, ho il supporto degli amici, di una bella famiglia. Ho passato momenti difficili, infortuni, ne sono sempre venuto fuori. C’era una opportunità unica, secondo me irripetibile.”.

Cinque Mondiali alle spalle, il primo a meno di vent’anni. Prova a mettere in fila un flash per ogni edizione.

“Quello del 2003 è la meta al Canada, la mia prima in Nazionale. Del 2007 non posso non ricordare l’amarezza della sconfitta contro la Scozia a St-Étienne, quella qualificazione ai quarti svanita per un soffio nel finale. Del 2015 in Nuova Zelanda, nonostante le due vittorie con Usa e Russia, prevale il rammarico della partita con l’Irlanda a Dunedin, avevamo perso per un drop all’ultimo minuto nel Sei Nazioni ed eravamo convinti di poter fare di più. Il 2015 è stato il mio Mondiale più frustrante, mi ero infortunato a un polpaccio nell’ultimo match di preparazione a Cardiff contro il Galles, e in tutta la Coppa del Mondo riuscii a disputare solo un’ora contro l’Irlanda. E del 2019, in Giappone, resta la memoria di torneo che salutammo chiusi in albergo, senza poter giocare con gli All Blacks, per il tifone”.

Mai arrendersi

A settembre compirai 40 anni, la domanda sorge inevitabile: perché insistere, dopo tutto quello che hai dato e avuto? In uno sport nel quale c’è gente che a trent’anni getta la spugna perché il fisico e la testa non reggono più la pressione.

“La spinta è quella di un’enorme passione, forse la mia è addirittura un’ossessione. Ma per alimentarla ci vuole una grande forza mentale. La mia è d’acciaio. Anzi, posso dire che è molto più forte la mia testa del mio fisico. Perché se non ci fosse stata una volontà così forte a guidare le mie azioni, il fisico non avrebbe potuto sopportare il peso delle partite, degli allenamenti, del lavoro duro quotidiano”.

Ma qual è la ricetta che ti ha permesso di conservare questa forza all’infinito, o quasi?

“Negli anni ho imparato a non arrendermi mai. E ho capito quanto questo sia importante guardando gente come Michael Jordan, o Kobe Bryant, la loro volontà quando avevano un’età molto vicina alla mia di adesso. Ho imparato dalle sconfitte, dai fallimenti, voi tutti sapete quante ne abbiamo subite con la maglia dell’Italia. Ma, per me personalmente, la determinazione non è mai venuta meno. Mi sono convinto che niente è impossibile, che ogni passo falso puoi tramutarlo nella base per una vittoria. Poi, certo ci vogliono impegno, disciplina, devi imparare ad alimentarti bene, a riposare quello che serve, a gestire i carichi di lavoro, devi vivere in un ambiente sereno e mettere le cose nella giusta prospettiva. Accettare le critiche utili e ignorare la spazzatura, quella che a volte imperversa sui social e avvelena i rapporti tra le persone. Quando ho detto, e l’ho ripetuto più volte, che sarei stato disponibile per un altro Mondiale è perché conosco bene il mio fisico e la mia testa. E sapevo di poter affrontare una sfida così”.

Compresi i lunghi mesi di avvicinamento, i raduni di gruppo, lontano da casa, roba che nemmeno molti giovani a volte riescono ad assorbire?

“Se avessi avuto dei dubbi, se non ci avessi creduto fino in fondo, se avessi pensato di non poter reggere una preparazione con la squadra, tutti insieme, avrei detto da tempo che la mia carriera si chiudeva con la fine di questa stagione di club. Di soddisfazioni ne ho avute abbastanza, ho giocato a livello internazionale per vent’anni. Ho una famiglia che mi sta vicino, Non avevo bisogno di riconoscimenti ulteriori, ma volevo dare il mio contributo all’Italia un’altra volta ancora”.

Prestigio per tutta l’Italia

Molti hanno pensato e detto: ecco, Parisse voleva la sua personale passerella d’addio.

“Su questo voglio essere molto chiaro: ho giocato più di 140 partite con la maglia azzurra, sono stato capitano per più di dieci anni, ma non volevo premi “alla carriera”, né riconoscimenti “alla memoria”. Sono un giocatore di quasi quarant’anni, sì, ma fino a pochi giorni fa sono stato in piena attività, ho giocato più di settanta minuti in finale a Dublino. Pensavo di essermi meritato una chiamata per quello che potevo ancora dare in campo, non solo per quello che sono stato. Mi sono anche detto che sarebbe stato pazzesco se fosse rimasto inciso nella storia che l’unico ad aver raggiunto il traguardo dei sei mondiali era stato un italiano: attenzione, non Sergio Parisse, ma un Azzurro. Sarebbe stato un momento di prestigio per tutto il rugby italiano, che avrebbe regalato al nostro paese un traguardo storico nello sport mondiale”.

All’Aviva Stadium hai festeggiato con la bandiera tricolore, la stessa con la quale facesti il giro del campo dopo la conquista del Bouclier de Brennus del 2015.

“Tutti sanno quanto sia attaccato all’Italia e quanto significasse per me indossare la maglia azzurra… è stato un modo di dire grazie e salutare tutti i tifosi italiani presenti allo stadio e quelli che hanno visto la partita da casa”.

Forse qualcuno considerava la tua presenta un po’ ingombrante sul piano psicologico, in una squadra di ragazzi giovani.

“Io la penso diversamente, penso all’entusiasmo che ho visto nei ragazzi del Treviso quando siamo stati avversari qualche settimana fa nella semifinale che abbiamo vinto 23-0. Alle cose che mi hanno detto dopo la partita, al fatto che mi vedevano giocare, ahimè, quando loro erano ragazzini e io già un atleta affermato e maturo. Ho visto nei loro occhi entusiasmo e ammirazione e penso agli stimoli, all’esperienza e alla passione che avrei potuto trasmettere loro nei mesi della preparazione alla Coppa del Mondo. Credo sia peccato privare questo gruppo di un apporto così. Forse il peso era troppo grande per lo staff? Non lo so…”.

Un caffè amaro

Ti sei dato una spiegazione onesta del perché non ti hanno voluto chiamare? Sappiamo che Crowley è venuto a Tolone e ha parlato di scelta tecnica nella sua decisione.

“Cominciamo col dire che un paio di mesi fa ero stato io ad andare a Roma, dove avevo un appuntamento con il presidente e con il ct. Il mio volo purtroppo partì dalla Francia con un ora di ritardo e quando sono arrivato in Federazione, Crowley era già andato via.. senza lasciarmi né un messaggio, né farmi una telefonata. Sono anche rimasto sorpreso che l’allenatore dell’Italia fosse l’unico assente in tribuna allo Stadio Mayol, dove il Benetton, che lui aveva allenato per anni e che schierava non meno di due terzi dell’attuale Nazionale, celebrava un traguardo storico, la prima volta di una squadra italiana in una semifinale di coppa Europa. Dico, almeno per l’entusiasmo creato dall’avvenimento… Poi quando è venuto a Tolone, la settimana successiva, abbiamo pranzato insieme, abbiamo parlato di rugby, dell’Italia e, alla fine di un pranzo durato tre ore, arrivati al caffè, mi ha detto che non mi avrebbe chiamato. Ho chiesto spiegazioni, pensavo a delle motivazioni legate all’equilibrio del gruppo etc, invece sono rimasto perplesso dalle sue valutazioni tecniche”.

Di che tipo?

“Ha detto che non contesto abbastanza palloni sui punti d’incontro, che non sono sufficientemente rapido nella pulizia delle ruck, che a volte placco troppo alto.…”.

E tu come l’hai presa?

“Devo rispondere onestamente? Come uno scherzo mal riuscito. Sono il primo a essere critico con il mio gioco e credo che tutti sappiano quali erano, e quali sono, i miei punti di forza e non’’.

Pensi pertanto che ci sia qualcos’altro, che questa partita si sia giocata altrove?

“Penso semplicemente che le spiegazioni che mi sono state date siano risibili. È come se uno fosse andato a dire a Richie McCaw che non era bravo a saltare in touche o che il suo passaggio a sinistra non era proprio perfetto…Direi che la sua classe, il suo carisma e le sue qualità tecniche si esprimevano altrove”.

Al centro del gruppo di Azzurri durante un alllenamento, in versione leader. Da sinistra, Negri, Campagnaro, Ghiraldini, Lovotti, Sisi, Padovani, Tuivaiti, Steyn, Tebaldi (con la borraccia), Castello e Zanon ascoltano concentrati.

Forse è mancata da parte dei vertici la capacità di mediazione.

“Per quanto riguarda la Federazione, prendo atto che non ha voluto intervenire, sottostimando l’importanza che avrebbe avuto la mia presenza a 360°: un forte impatto su un gruppo cosi giovane, una maggiore scelta nel reparto delle terze linee per diversità tecnica, infine, certo, anche per l’interesse mediatico di cui il nostro paese avrebbe goduto, ancora di più nel caso che la Fir voglia un giorno portare il Mondiale in Italia. Il nostro Paese non ha una cultura rugbistica profonda, non ha il rugby nel DNA come c’è altrove, non ancora almeno, ed è veramente un peccato che tutti questi aspetti siano stati ignorati; per come la vedo io, si dovrebbe lavorare a tutto tondo per cercare di dare più forza possibile al nostro movimento, valutando e sfruttando ogni singola occasione: bisogna saper vedere lontano, a lungo termine occorrono pianificazione e organizzazione! Invece ho la sensazione che tante cose vengano lasciate al caso… cosi, in balia degli eventi, incrociando le dita e sperando che tutto vada bene per poter dire: è andata! E accettando, quando le cose non vanno come avremmo voluto, di trovare una scusa mediocre: che l’Italia è ancora indietro e ci vuole tempo”.

Il rugby oggi

Ma in questo rugby, così fisico, a volte così brutale , c’è ancora posto per giocatori come Sergio Parisse? “Per tanti aspetti è vero, questo non è più il mio rugby. Nella mia carriera ho sempre cercato di privilegiare il gesto tecnico, la fantasia. Oggi prevalgono i numeri, i dati dei Gps: se sui 30 metri non stai sotto un certo tempo, per dire, gli allenatori allargano le braccia e non ti prendono in considerazione. La paura di sbagliare induce a preferire un avanzamento sicuro, ancorché minimo, invece che invogliare alla ricerca dello spazio. Ne consegue un gioco più povero, più basico, nel quale devi anche avere delle abilità tecniche, è ovvio, ma se non hai il fisico c’è poco da fare. Certo io non sono mai stato piccolo, ma ho sempre preferito cercare di aggirare gli ostacoli piuttosto che andarmi a schiantare. E credo che nell’Italia di questo ultimo anno avrei potuto dare un contributo non banale con il mio tipo di gioco”.

A sinistra: l’urlo dopo la vittoria a Edimburgo nel 2015 contro la Scozia. Nelle due foto: a fianco un break, sempre contro gli scozzesi, a Roma nel 2016 con Giazzon, Minto e Castrogiovanni in sostegno e, sotto, ancora nel 2015, un off load da manuale, con Furno alle spalle.

Ecco, che idea ti sei fatto di questa Nazionale che, nell’ultimo Sei Nazioni, sembra tornata ad appassionare i tifosi, offrendo anche belle emozioni, salvo mancare ancora una volta in quello che nello sport professionistico è l’unico vero parametro della prestazione: il risultato.

“E’ una squadra che mi ha sorpreso piacevolmente per l’accuratezza dei gesti, per la capacità di esecuzione che, in questi ultimi tempi, è stata sicuramente superiore rispetto al passato. I movimenti sono più fluidi e abbiamo visto anche delle belle mete come quella di Bruno a Samoa (la prima delle due dell’ala delle Zebre, ndr), con un’azione a tutto campo par- tita dai nostri ventidue. Però è ovvio che devi anche trovare un equilibrio tra attacco e capacità di controllare il gioco perché non tutti gli avversari ti concedono gli spazi dei samoani”.

Qual è la differenza più grande, secondo te, rispetto alle prestazioni di una decina di anni fa?

“La squadra non crolla, regge il confronto fino alla fine, anche se spesso fatica a entrare in partita, concedendo un vantaggio che poi è difficile recuperare. Sicuramente, rispetto a una volta c’è meno enfasi sul gioco degli avanti, sulla mischia, sui drive, che sono fasi che assorbono molte energie e questa probabilmente è una delle ragioni per cui una volta pagavamo tanto nel finale. Avevamo anche molta meno fluidità nei movimenti, adesso probabilmente c’è più equilibrio fra i reparti, anche se in alcuni momenti forse servirebbe trovarlo anche nel gioco, alternando le scelte. Non abbiamo ancora una mischia dominante come un tempo, ma in prima linea ci sono piloni molto giovani che, sono certo, con il tempo cresceranno ancora e domineranno ancora di più di una volta”.

Contro il Sudafrica, alla Coppa del Mondo 2019, l’ultima di Sergio in maglia azzurra, inseguito da Lood de Jager, con Polledri al fianco. Gli altri Azzurri, sono, da sinistra: Morisi, Budd, Quaglio e Tebaldi. A destra, ieri e oggi: nel 2019, a Roma, contro la Francia, ultima partita all’Olimpico, con (da sinistra), Negri, Ferrari, Traorè e Ruzza; nel riquadro, selfie con la moglie Silvia, sul prato dell’Aviva Stadium dopo la conquista della Challenge Cup.

Confronto fra epoche

Qualcuno pensa che questa possa diventare la Nazionale più forte di tutti i tempi.

“Non mi piacciono i confronti fra epoche diverse e penso che tante volte ci sia troppa fretta nei giudizi. Abbiamo la tendenza a esaltare e a criticare senza mettere i fatti nella giusta luce. Questa Nazionale nell’ultimo anno ha fatto cose buone e altre molto meno buone: si é vinto in Galles, ma poi abbiamo rischiato di perdere in Portogallo e abbiamo perso in Georgia… si sono battute Samoa e l’Australia, ma in questo ultimo Sei Nazioni, nonostante prestazioni incoraggianti, non siamo purtroppo riusciti a portare a casa la vittoria. E io più di tutti so cosa vuol dire finire un torneo con buone sensazioni… e il cucchiaio di legno nella bacheca. E so quante volte abbiamo pensato di essere a un passo dalla svolta, o vicini a un grande risultato, salvo ritrovarci la volta dopo ancora daccapo. In ogni caso sono convinto che questa squadra può crescere molto, perché ci sono ragazzi tecnicamente molto bravi e sono molto giovani”.

E allora, visto che si parla di risultati, dacci il tuo pronostico sulla Coppa del Mondo, che tu ci sia o meno.

“In questo momento tutti dicono Irlanda e Francia, che sulla carta sono le due squadre migliori. Ma puoi escludere la Nuova Zelanda? Se gli All Blacks dovessero vincere la partita di esordio contro la Francia, anche dal punto di vista emotivo cambierebbe tutto per loro. In ogni modo, vorrei fosse chiara una cosa, con o senza di me, auguro a questo gruppo di fare un grandissimo mondiale, e dico sempre: forza Italia!”.

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