Archeo n. 463, Settembre 2023

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CAPO CORSO

ROVERETO

DEVOZIONE ETRUSCA

ROVERETO

IL FUTURO DEL PASSATO

DONNE DELL’AVENTINO

MODENA

MUSEO DI CRACOVIA

SPECIALE AREA SACRA DI LARGO ARGENTINA

Mens. Anno XXXIX n. 463 settembre 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

IN MOSTRA LA DEVOZIONE ETRUSCA

ROMA

RIAPRE L’AREA SACRA DI LARGO ARGENTINA POLONIA

UN MUSEO PRINCIPESCO A CRACOVIA

STORIE

TUTTE LE DONNE DELL’AVENTINO ARCHEOLOGIA SUBACQUEA

IL RELITTO DI CAPO CORSO

www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 8 SETTEMBRE 2023

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ROSPECIA M LE A

ARCHEO 463 SETTEMBRE

€ 6,50



EDITORIALE

UNA MERAVIGLIOSA CONFUSIONE Roma è una città complicata, e non solo per gli innumerevoli problemi che l’amministrazione di turno è chiamata a risolvere. La disposizione viaria, la stessa pianta della Città Eterna riflettono la storia edilizia di ben due millenni e molte delle strade moderne coincidono ancora con quelle antiche. L’urbanistica di Roma – almeno il vasto centro storico (il piú esteso del mondo) – si presenta come un insieme a prima vista incoerente, difficile da «leggere» per chi proviene da contesti urbani moderni o, anche, piú «univoci» (come le stesse città di fondazione coloniale romana, progettate «a tavolino»). Ora, agli occhi dell’eterno turista (tra cui il sottoscritto, che nella Città Eterna si è trasferito nel lontano 1975), quella complicazione ha, e avrà sempre, del meraviglioso. A districarsi in quel vero e proprio labirinto pluridimensionale (di tempi e di spazi) non bastano, d’altra parte, dedizione e buona volontà. Serve la guida di storici, storici dell’arte, archeologi. Senza di loro, anche il piú volenteroso dei visitatori immancabilmente si perde. Prendiamo l’esempio di quella strana, all’apparenza del tutto incongrua piazza ribassata, sulla quale si affaccia il principale teatro di Roma, «l’Argentina»: per decenni inaccessibile al pubblico, paradiso di un’antica colonia felina della città («un mio antenato ha conosciuto Giulio Cesare» recita lo slogan dell’associazione di volontari che se ne prende cura), continua a suscitare stupore (e smarrimento) nei migliaia di turisti che quotidianamente vi si accalcano per individuare – dietro la spinta di un passaparola globale – il luogo in cui, nel 44 a.C. fu assassinato il piú celebre dittatore dell’antichità. Ebbene, oggi quell’area al centro di Roma, cosí importante e dalla storia – antica ma anche moderna – cosí complessa, è stata resa finalmente «decifrabile», grazie alla perizia degli archeologi della Sovrintendenza Capitolina e alla lungimirante generosità di un mecenate quale la Maison Bulgari. Ne parliamo nello Speciale di questo numero. Concludiamo accennando a un ulteriore elemento di complicazione (se non di confusione), come se non bastassero quelli imposti da duemila anni di storia: il largo di cui parliamo prende il nome dalla Torre Argentina, costruita nel 1503 dal cerimoniere papale Johannes Burckard, nativo di Strasburgo, città il cui nome piú antico è… Argentoratum. La torre è integrata nel Palazzetto del Burcardo nella vicina Via del Sudario e non è piú visibile dall’esterno. La torre medievale che insiste sull’area archeologica, invece – e che tutti, Romani e non, spesso confondono con la Torre Argentina – si chiama Torre del Papito e non ha nulla a che fare con il presule alsaziano. Andreas M. Steiner Un gatto della colonia felina di largo Argentina dorme sul margine dell’area sacra, riconoscibile sullo sfondo con il Teatro Argentina.


SOMMARIO EDITORIALE

Una meravigliosa confusione 3 di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

ARCHEOLOGIA SUBACQUEA Quel carico mai consegnato... ALL’OMBRA DEL VULCANO Alle pendici dei Monti Lattari

MOSTRE 20

di Carolina Megale

ARCHEOLOGIA SUBACQUEA 6

Per grazia ricevuta

44

di Laura Maria Michetti, Carla Tulini e Cristiana Zanasi

Un mare di vetro prezioso 26 a cura della redazione

6 8

di Alessandra Randazzo

SCAVI Nei dintorni di Cures 10 di Giampiero Galasso

FRONTE DEL PORTO Tutto il Parco in un visore

MOSTRE Un brindisi per Fufluns

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44

26

STORIA

Le santissime donne dell’Aventino 54

INCONTRI

Da Rovereto uno sguardo attento sul futuro del passato

di Elena Bianca Di Gioia

34

di Claudia Beretta e Alessandra Cattoi

di Alberto Tulli

IN DIRETTA DA VULCI Bentornata! 14 di Carlo Casi

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In copertina veduta dell’area sacra di largo Argentina, Roma.

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2023

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€ 6,50

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ARCHEO 463 SETTEMBRE

ROSPECIA M LE A

54 IN EDICOLA L’ 8 SETTEMBRE 2023

di Mara Sternini

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o. it

A TUTTO CAMPO Le sfingi di Guadalupe

CAPO CORSO

Presidente

Federico Curti

ROVERETO

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

MODENA

IN MOSTRA LA DEVOZIONE ETRUSCA Mens. Anno XXXIX n. 463 settembre 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE AREA SACRA DI LARGO ARGENTINA

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

MUSEO DI CRACOVIA

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

ROVERETO

IL FUTURO DEL PASSATO

DONNE DELL’AVENTINO

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

DEVOZIONE ETRUSCA

Anno XXXIX, n. 463 - settembre 2023 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

ROMA

RIAPRE L’AREA SACRA DI LARGO ARGENTINA POLONIA

UN MUSEO PRINCIPESCO A CRACOVIA

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STORIE

TUTTE LE DONNE DELL’AVENTINO ARCHEOLOGIA SUBACQUEA

IL RELITTO DI CAPO CORSO

04/08/23 14:30

Comitato Scientifico Internazionale

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Claudia Beretta è curatrice del programma e responsabile dell’Ufficio Stampa del RAM Film Festival. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Alessandra Cattoi è direttrice della Fondazione Museo Civico di Rovereto e del RAM Film Festival. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professoressa ordinaria di storia romana presso Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. Francesco Colotta è giornalista. Elena Bianca Di Gioia è storica dell’arte. Luciano Frazzoni è archeologo. Giampiero Galasso è giornalista. Dorota Gorzelany è conservatrice della Galleria d’Arte Antica del Museo dei Principi Czartoryski di Cracovia. Carolina Megale è archeologa. Laura Maria Michetti è professoressa associata di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Claudio Parisi Presicce è Sovrintendente Capitolino ai Beni Culturali del Comune di Roma. Alessandra Randazzo è giornalista. Mara Sternini è professoressa associata di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena. Carla Tulini è dottoranda in etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Alberto Tulli è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Cristiana Zanasi è curatrice della sezione Archeologia Etnologia del Museo Civico di Modena.


76 MUSEI

Il senso di Władisław per l’antico 76 di Dorota Gorzelany

Rubriche TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO

Quando il vaso si fa bello

106

di Luciano Frazzoni

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Alla fine dell’arcobaleno 110 di Francesca Ceci

SPECIALE

110 LIBRI

84 Quell’area sacra all’ombra della torre

112

84

a cura della redazione, con un intervento di Claudio Parisi Presicce

Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio stampa Zètema Progetto Cultura: pp. 92-93, 94/95 (basso), 96, 100; Monkeys Video Lab: copertina e pp. 84/85, 96/97, 102-105; Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali: p. 90 – Shutterstock: pp. 3, 57 (alto), 58, 67, 69, 74-75, 88/89, 94/95 (alto) – Cortesia Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale: pp. 6-7 – Cortesia Parco Archeologico di Pompei: pp. 8-9 – Soprintendenza ABAP per l’Area Metropolitana di Roma e la Provincia di Rieti: p. 10 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 12-13 – Cortesia Fondazione Vulci: pp. 14-15 – Doc. red.: pp. 16-17, 57 (basso), 60-63, 66, 86/87, 99, 107 (alto), 108 – Cortesia degli autori: pp. 20, 59, 64, 110-111 – Cortesia Ufficio promozione e comunicazione della Soprintendenza Nazionale per il patrimonio culturale subacqueo Taranto: Manuel Añò-V. Creuze-D. Degez/SN Sub-DRASSM: pp. 26/27, 30, 31 (basso); Manuel Añò-ProdAqua/SN Sub-DRASSM: pp. 26, 28-29, 31 (alto), 32 – Cortesia RAM Film Festival, Rovereto: pp. 34-40 – Cortesia Museo Civico di Modena: p. 47 (alto); Paolo Terzi: pp. 44, 45 (basso), 46, 48-49, 50 (sinistra), 52; Elena Roveda: pp. 45 (alto), 53; Gianluca Pellacani: p. 47 (basso); Andrea Rossi, DI.AR Diagnostica: pp. 50 (destra), 51 – The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 54/55, 106, 107 (basso) – Mondadori Portfolio: AKG Images: p. 65; Electa/ Sergio Anelli: p. 68; Archivio Magliani/Mauro Magliani & Barbara Piovan: p. 71; Ann Ronan Picture Library/Heritage-Images: p. 72; Toring Club Italiano/UIG: p. 91; Archivio GBB: p. 101 – Inklink-Musei: p. 98 (consulenza scientifica Andrea Carandini) – Staatliche Museen zu Berlin: p. 109 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 56. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2022 è disponibile sul sito www.ulissenet.it Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o ARCHEOLOGIA SUBACQUEA Lazio

QUEL CARICO MAI CONSEGNATO...

I

l relitto di una nave oneraria romana databile tra il II e il I secolo a.C. è stato individuato nelle acque di Civitavecchia dai Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale, coadiuvati dal Centro Carabinieri Subacquei di Genova e dal Nucleo Carabinieri Subacquei di Roma, con l’ausilio della motovedetta d’altura del Servizio Navale della Compagnia Carabinieri di Civitavecchia. L’eccezionale rinvenimento è il frutto di un’attività investigativa della Sezione Archeologia del Reparto Operativo del Comando Carabinieri TPC, coordinata dalla Procura della Repubblica di Civitavecchia, in collaborazione con la Soprintendenza Nazionale per il Patrimonio Culturale Subacqueo di Taranto.

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Il sopralluogo ha permesso di rilevare, come detto, la presenza del relitto di una nave oneraria romana, adagiato a circa 160 m di profondità sul fondale sabbioso, con un carico di centinaia di anfore romane del tipo «Dressel 1 B», per la maggior

In alto e in basso: immagini del carico di anfore caricato a bordo della nave oneraria romana di cui è stato individuato il relitto nelle acque di Civitavecchia, a 160 m di profondità. Nella pagina accanto, in basso: uno dei ceppi d’ancora dell’imbarcazione.


parte integre, che hanno formato un giacimento che occupa una superficie di 12 m di larghezza per 17 di lunghezza; misure che autorizzano a ipotizzare che l’imbarcazione avesse dimensioni superiori ai 20 m. Le operazioni di ricerca e rinvenimento si sono svolte con l’impiego di avanzate attrezzature tecniche in dotazione al Centro Carabinieri Subacquei di Genova e al Nucleo Carabinieri Subacquei di Roma, con l’ausilio della motovedetta d’altura del Servizio Navale della Compagnia Carabinieri di Civitavecchia. In particolare, è stato impiegato il robot con sistema ROV (Remotely Operated Vehicle) comprensivo di sonar ed ecoscandaglio, che, unitamente alle performanti caratteristiche della modernissima motovedetta d’altura classe N 802 Frau, hanno consentito l’importante rinvenimento e la mappatura completa del sito archeologico sommerso, determinando l’ulteriore individuazione, nell’immediato

A destra: la motovedetta d’altura classe N 802 Frau e, sotto, il robot con sistema ROV (Remotely Operated Vehicle) utilizzato nel corso dell’operazione.

perimetro del relitto, di due ceppi d’ancora romani in metallo, appartenenti all’antica nave. L’eccezionale scoperta documenta il naufragio di una nave romana che aveva affrontato le insidie del mare nel tentativo di raggiungere la costa e costituisce una testimonianza delle antiche tratte commerciali marittime. Lo straordinario rinvenimento è altresí il frutto della sinergia e delle competenze tecniche e investigative dei comparti di specialità dell’Arma dei Carabinieri, in cooperazione con le

conoscenze storico-scientifiche del Ministero della Cultura. La nuova acquisizione ha una notevole rilevanza archeologica, artistica e storica e ribadisce il valore che lega l’attività di archeologia subacquea con quella tipica degli organismi investigativi. La Soprintendenza Nazionale per il Patrimonio Culturale Subacqueo di Taranto, previa autorizzazione della competente Autorità Giudiziaria, ha avviato le procedure necessarie per censire e salvaguardare l’area archeologica sommersa individuata dai Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale. (red.)

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ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandra Randazzo

ALLE PENDICI DEI MONTI LATTARI È STATO APPENA SIGLATO UN PROTOCOLLO D’INTESA GRAZIE AL QUALE VILLA CUOMO, UNO DEI PIÚ IMPORTANTI COMPLESSI DELL’AGER STABIANUS, SARÀ OGGETTO DI NUOVI INTERVENTI DI SCAVO E RESTAURO, FINALIZZATI A GARANTIRNE LA PIENA FRUIZIONE

D

opo la distruzione della città di Stabiae durante la guerra sociale nell’89 a.C., il ricco ager Stabianus vide sorgere numerose ville rustiche, nel contesto di ricchi latifondi votati alla coltivazione di terreni e alla pastorizia. Nell’attuale territorio di Sant’Antonio Abate (Napoli), paese situato sulle prime propaggini dei Monti Lattari, la fertilità della terra e il clima temperato favorirono questo fenomeno, ampiamente documentato dall’archeologia. Nel corso degli anni, in questo comprensorio sono state individuate ben diciotto ville rustiche, fra le quali spicca quella situata in via casa Salese, in una proprietà privata. Databile nel I secolo a.C., la villa si trova sotto le pendici dei Lattari, con affaccio sulla pianura e sul Vesuvio e in connessione con l’antico asse viario che collegava Nuceria a Stabiae e permetteva lo scambio di merci tra l’entroterra e l’approdo marittimo. La villa rustica fu scavata a partire dal 1974 su concessione dell’allora Soprintendenza Archeologica di Napoli dallo stesso proprietario del fondo, Carlo Cuomo, che riportò alla luce il peristilio e alcuni ambienti circostanti, impreziositi da affreschi in tardo III stile.

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Sant’Antonio Abate (Napoli). L’ambulacro del peristilio di Villa Cuomo, residenza realizzata tra la fine del I sec. a.C. e la prima metà del I sec. d.C. La storia della scoperta ha i caratteri di un’avventura: accortosi che un muro di recinzione della sua tenuta agraria aveva l’aspetto di una muratura antica, Cuomo chiese al soprintendente Alfonso De Franciscis l’autorizzazione a effettuare lo scavo a proprie spese, coinvolgendo il suo colono, alcuni parenti e diversi studenti. Un primo sterro meccanico portò alla luce resti di strutture antiche per circa 1 m di altezza, mentre lo scavo a mano liberò un’area piú ampia, restituendo oltre 200 reperti, che sono oggi in parte custoditi nel Museo Libero d’Orsi della Reggia di Quisisana a Castellammare di Stabia. Nuovi scavi intrapresi nel

2009 dalla Soprintendenza hanno quindi portato alla scoperta di altri ambienti della villa.

RIMANEGGIAMENTI E TRASFORMAZIONI Le indagini condotte nelle due campagne di scavo hanno provato che il complesso residenziale venne costruito tra la fine del I secolo a.C. e la prima metà del I secolo d.C. e fu rimaneggiato piú volte, con trasformazioni legate ai danni provocati dal terremoto del 62 d.C. e dallo sciame sismico che precedette l’eruzione del 79 d.C. Non si conosce il nome del proprietario del complesso, ma le decorazioni superstiti di tre


Dall’alto: Villa Cuomo: la scala d’accesso al secondo piano dell’edificio; il triclinio; il larario.

agricoli. Del materiale fanno parte anche grandi dolia destinati a contenere olio d’oliva, farinacei e vino, oltre a vasellame da cucina, lucerne, macine ed elementi architettonici di pregio, legati alle coperture, come antefisse di terracotta a palmetta e tegole con bollo «L. EUMACHI EROTIS» e perciò databili al I secolo d.C.

FUGA SENZA SCAMPO

ambienti ne suggeriscono la raffinatezza. Tra queste decorazioni figura un bel larario con la scena del sacrificio di un toro; la sala del triclinio, ampia e ancora conservata per quasi tutta la sua altezza, presenta affreschi con figure di animali, delicati motivi floreali e nature morte, oltre a un pavimento in cocciopesto con raffinato disegno geometrico, formato da tessere di marmo bianco. Allo stato attuale non è possibile conoscere l’intera estensione del complesso, la cui superficie scavata è pari a oltre 500 mq e non è quindi facile stabilire il carattere prevalente della sua funzione produttiva. Tuttavia un ruolo rilevante doveva avere la viticoltura. Tra i reperti recuperati, vi sono, infatti, numerose anfore vinarie e attrezzi

La tragedia dell’eruzione vesuviana del 79 d.C. è testimoniata anche dal ritrovamento degli scheletri di due individui che invano cercarono riparo all’interno di un collettore fognario che seguiva il perimetro della villa; poco distante dai resti umani sono state individuate una brocca e una scure, forse le poche cose portate con sé dai fuggiaschi. Tra le particolarità della villa anche alcune scritte leggibili in vari ambienti: una, a carboncino, di dubbia interpretazione, si trova alla base della nicchia del larario, mentre due graffiti riportano le frasi: «STABIANI HIC SINE THALAMO» («Qui gli Stabiani senza il letto») e «CRESO…MIGIA FEDAT», un’imprecazione. Di recente è stato firmato un protocollo d’intesa tra la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Napoli, il Parco Archeologico di Pompei, il Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli «Federico II e il Comune di Sant’Antonio Abate per la valorizzazione del patrimonio culturale cittadino e, in particolare, di Villa Cuomo con interventi di scavo, restauro e manutenzione che porteranno alla piena fruizione del complesso. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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n otiz iario

SCAVI Lazio

NEI DINTORNI DI CURES

U

na quantità considerevole di ex voto, in gran parte fittili anatomici, e uno scarico di vasellame di carattere anch’esso votivo sono venuti alla luce grzie a interventi di archeologia preventiva condotti nel distretto ASI di Passo Corese (Fara in Sabina, Rieti) per la realizzazione del Polo della Logistica. I materiali sono riferibili alla presenza nella zona, tra la media e la tarda età repubblicana (III-II secolo a.C.), di un possibile santuario di Ercole (sebbene il segno «H», presente su molti pezzi, non sia esclusivo del culto del dio, pure particolarmente venerato in Sabina anche con l’epiclesi locale di Semo Sancus), il cui culto era probabilmente legato Passo Corese (Fara in Sabina, Rieti). Lo scarico di materiali votivi e alcuni ex voto fittili anatomici.

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Passo Corese (Fara in Sabina, Rieti). Ortofoto dei resti della villa romana individuata grazie alle recenti indagini. ai percorsi che collegavano la valle tiberina con la Sabina interna e che si staccavano dalla via Salaria e dalle sue diramazioni proprio nella zona oggetto di indagine. Il materiale è stato recuperato scavando parte dei sistemi di pozzi e canalizzazioni che in antico caratterizzava quel distretto agricolo a breve distanza dall’importante centro di Cures, ormai in quell’epoca (IV-II secolo a.C.) incorporato nel territorio romano e in parte ripartito, quale ager quaestorius, nella proprietà fondiaria dei cittadini. Le attuali indagini hanno fatto seguito a precedenti sondaggi archeologici effettuati lo scorso anno in prossimità della SR 313 Ternana (inizio via dei Cavalli), che, come spiega Alessando Betori, funzionario archeologo responsabile di zona, hanno messo in luce «una sorta di piattaforma in cocciopesto, limitata sul lato lungo orientale da allineamenti di lastre in calcare e probabili fondazioni murarie in tufo. L’ambiente, che risulta danneggiato sull’altro lato dalle arature, doveva essere ripartito in almeno due navate per mezzo di sostegni lignei poggiati su elementi lapidei di recupero. Questo dato, come la presenza di un dolio interrato nei pressi del lastricato sul lato lungo, conferma la funzione utilitaria dell’edificio, il cui alzato, evidentemente in materiale deperibile, risulta completamente mancante.

La mancanza di crolli rilevanti delle coperture indizia come anch’esse fossero in materiali deperibili, a meno di non pensare a uno smontaggio volto al recupero delle tegole all’atto dell’abbandono. Dopo l’abbandono dell’edificio vi furono ammassati materiali di risulta tra i quali spiccano due statue funerarie, una virile, l’altra muliebre, riferibili a uno o piú sepolcri della prima età imperiale esistente lungo la viabilità ripercorsa dall’attuale Ternana, attualmente in corso di restauro presso il Museo Civico Archeologico di Fara in Sabina». Sulla dorsale collinare opposta, verso viale Europa, è stata messa in luce la pars rustica di una villa o insediamento produttivo databile all’ultimo secolo della repubblica, caratterizzata dalla presenza di un articolato sistema di utilizzo delle acque basato sulla presenza di una cisterna interrata singolarmente costruita in opera incerta e caratterizzata da piú fasi di utilizzo, fra le quali spicca la trasformazione in ambiente destinato alla lavorazione dei prodotti agricoli per mezzo dell’apertura di un ampio accesso, successivamente tamponato. L’intervento è stato condotto dalla società LAND s.r.l., responsabile di scavo Anna Romano, sotto la direzione scientifica della Soprintendenza ABAP per l’area metropolitana di Roma e la provincia Rieti. Giampiero Galasso



FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

TUTTO IL PARCO IN UN VISORE IL PATRIMONIO OSTIENSE HA DIMENSIONI ECCEZIONALI E SI COMPONE DI CINQUE POLI PRINCIPALI. ALLA CUI FRUIZIONE CONCORRE LO SVILUPPO DI UNA RICCA GAMMA DI SUPPORTI MULTIMEDIALI

S

ono cinque le sedi museali del Parco archeologico di Ostia antica oggi aperte al pubblico: l’Area archeologica di Ostia antica, il Castello di Giulio II, l’Area dei Porti imperiali di Claudio e Traiano, la Necropoli di Porto all’Isola Sacra e il Museo delle Navi, alle quali si aggiungono la Necropoli Laurentina, di prossima apertura, e una piccola costellazione di monumenti e aree archeologiche cosiddette «minori», visitabili solo occasionalmente: la somma delle

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dimensioni delle sedi elencate fa sí che il Parco archeologico di Ostia antica sia uno dei primi in Europa per estensione, con i suoi oltre 170 ettari di superficie totale, articolata peraltro su due territori comunali (Roma e Fiumicino). All’evidente complessità di gestione di un Parco cosí esteso dal punto di vista territoriale corrisponde – sul piano della fruizione e valorizzazione – la difficoltà di veicolare al visitatore, che di norma visita una sola delle

sedi del Parco, il concetto storicoarcheologico sulla cui base è stato fondato l’istituto stesso, rendendolo di fatto un unicum mondiale: il sistema integrato dei porti marittimi (Portus) e fluviali (Ostia), funzionale al soddisfacimento dei fabbisogni della capitale dell’impero. Da tempo al Parco si era convinti del fatto che una ricostruzione virtuale di questa ciclopica infrastruttura, fruita in modalità VR (Virtual Reality), potesse costituire


un supporto efficace ai fini della miglior comprensione della specificità di questo patrimonio; l’opportunità di sviluppare con mezzi economici adeguati un grande progetto di fruizione multimediale si è concretizzata solo recentemente, grazie a un finanziamento straordinario che ha consentito di conferire all’ipotesi di lavoro un respiro sufficientemente ampio e adeguato rispetto agli obiettivi prefissati. Il progetto, ormai in fase esecutiva, prevede infatti la realizzazione di un numero assai cospicuo di prodotti multimediali, al punto che si può ragionevolmente supporre che – a lavori conclusi – il Parco sarà l’istituto italiano maggiormente dotato in questo senso.

COME UN MARINAIO La prima tipologia di applicazioni, denominata «Esperienza immersiva VR indoor», è costituita da prodotti VR fruibili attraverso visori HMD in ambienti indoor, dotati di sedute fisse. A Ostia antica le visite virtuali prevedono due itinerari: il primo condurrà il visitatore da Porta Romana al Teatro, il secondo dalla via di Diana al Foro. L’esperienza a Portus prevede che il visitatore si immedesimi nel personaggio di un marinaio appostato sulla prua di una nave che attraversa l’intero porto di Claudio per attraccare in corrispondenza di uno dei sei lati del bacino di Traiano, consentendogli cosí di apprezzare

In alto, a sinistra: modalità di esperienza VR outdoor. Qui sopra: ricostruzione del sistema integrato dei porti marittimi e fluviali. Nella pagina accanto: modalità di esperienza immersiva VR indoor. nella sua interezza l’infrastruttura dei porti marittimi. Presso la Necropoli Laurentina, infine, il visitatore parteciperà virtualmente a un corteo funebre che attraverserà parte dell’area. Tutti questi prodotti accompagneranno l’utente attraverso architetture e manufatti antichi, la cui ricostruzione virtuale sarà improntata al massimo rigore scientifico da un lato e al massimo riguardo agli aspetti emozionali dall’altro. La seconda tipologia di prodotti è costituita da contenuti multimediali di tipologia «VR Outdoor per smartphone e tablet». In questo caso i pannelli didattico-illustrativi presenti nelle aree archeologiche costituiranno l’interfaccia fisica per la restituzione dei contenuti: attraverso lo scaricamento gratuito di una app e un sistema di identificazione OCR, inquadrando i pannelli con il proprio smartphone o tablet, il visitatore si vedrà restituiti sullo schermo del proprio device dei contenuti aggiuntivi

rispetto a quelli già presenti sul pannello fisico: materiale iconografico, traduzione dei testi dei pannelli in undici lingue, foto panoramiche 360° di interni non visitabili, riferimenti bibliografici e ricostruzioni virtuali di singoli monumenti, da fruire eventualmente anche in 3D con il supporto di Virtual Reality Glasses. Completano l’offerta dieci filmati «tradizionali» che, attraverso le parole dei funzionari e del direttore del Parco, forniranno in situ informazioni sul percorso che il visitatore sta per intraprendere. Fermo restando il concetto per cui questi prodotti devono configurarsi come strumenti di supporto e non come sostitutivi o surrogati della visita fisica, l’auspicio del Parco è che la loro fruizione da parte del pubblico contribuisca alla migliore comprensione del senso di unitarietà dell’antico sistema integrato delle due città portuali gemelle. Alberto Tulli

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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

BENTORNATA! LA BIGA DI CASTRO, UNO DEI PIÚ PREZIOSI MANUFATTI MAI SCOPERTI NEL TERRITORIO VULCENTE, TORNA «A CASA». IN UNA MOSTRA CHE RIPERCORRE L’EMOZIONANTE VICENDA DEL SUO RITROVAMENTO

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ltre mezzo secolo fa, nel 1967, le ricerche condotte dal Centro Belga di Studi Etruscoitalici nella necropoli etrusca di Castro portarono al ritrovamento di un pezzo eccezionale: la biga in bronzo di Castro. La mostra ora allestita nel Museo Civico di Ischia di Castro pone l’accento sullo straordinario ritrovamento che torna nella località dalla quale proviene, grazie alla disponibilità del Museo Archeologico Nazionale di Viterbo dove si trova normalmente esposto. Insieme alla biga di Castro sono esposti altri due esempi importanti di carri etruschi: il calesse femminile rinvenuto a Tarquinia, negli scavi dell’Università di Torino, all’interno del Tumulo della Regina, risalente alla prima metà del VII secolo a.C. e quello proveniente dalla Tomba delle Mani d’Argento (640-630 a.C.), scavato dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale insieme alla Fondazione Vulci, nella necropoli dell’Osteria a Vulci. Da questa ricca tomba provengono anche la testiera di cavallo con i preziosi finimenti bronzei, il collare e alcuni morsi equini che completano l’esposizione. La Tomba della Biga, che ha preso il nome del currus etrusco, è oggi visitabile nel Parco

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Archeologico Antica Castro, e si sviluppa con dromos e vestibolo a cielo aperto su cui si aprono i due ingressi che immettono nell’unica camera alla quale, probabilmente, doveva essere dedicato anche un terzo appena sbozzato sulla sinistra. L’improvvisa morte del destinatario, seppellito all’interno di un sarcofago ligneo posto sulla banchina, forse bloccò i lavori, costringendo la famiglia a un imprevisto funerale.

GIOIELLI E SCULTURE Nonostante sia stata violata in precedenza, gli scavi hanno permesso di riconoscere la presenza di una nobile aristocratica nel suo ultimo viaggio, riccamente vestita, come ben testimoniano i sandali decorati con oro e ambra, e i gioielli, tra i quali spicca uno scarabeo egizio incastonato in un pendente d’oro. Il monumento era decorato anche da alcune sculture in nenfro delle quali furono rinvenuti alcuni frammenti al momento della scoperta. Con uno dei due cerchioni appoggiati a una delle porte d’ingresso aperte sul vestibolo, stava la biga, in posizione leggermente inclinata, al momento della scoperta.

E i due cavalli che l’avevano tirata, si trovavano a poca distanza, distesi sul pavimento, l’uno dietro l’altro, con le teste rivolte verso di lei, quasi in ultimo rispettoso saluto. Non grandi di statura ma di corporatura robusta, i cavalli, avevano cinque o sei anni quando furono immolati per l’eternità al loro potente auriga. Un rituale non molto comune ma diffuso, quello del sacrificio equino sul luogo di sepoltura, a partire dalle piú antiche tombe reali di Salamina (Cipro), passando per Adria e Populonia sino ad arrivare al vicino centro egemone di Vulci.


Il carro rinvenuto nella Tomba delle Mani d’Argento, a Vulci. 640-630 a.C. A destra, in alto: Tarquinia, Tumulo della Regina. Il cerchione del carro. A destra, in basso: testiera e finimenti di uno dei cavalli della Tomba della Biga. Nella pagina accanto: la Biga di Castro, databile al 530-520 a.C. Immersa nel fango, la biga, separata prima dalle ruote, venne estratta in un solo blocco, grazie alla camicia di gesso che andò a inglobarne tutti i resti nella loro giacitura originaria, conservando cosí l’insieme polimaterico. Lo scavo e i successivi restauri, effettuati in laboratorio, permisero la restituzione a grandezza naturale del carro e consentirono di evidenziare anche lo splendido apparato decorativo dal quale emergono le figure di due efebi, eredi stilistici dei kouroi greci. Posti sulle fiancate, come nel piú famoso carro di Monteleone di Spoleto (al Metropolitan Museum of Art di New York), essi presentano l’atteggiamento tipico dell’iconografia ellenica, con una

gamba avanti, le braccia distese lungo i fianchi e i pugni chiusi dai quali sporgono i pollici, lo sguardo nobile perso nell’orizzonte incorniciato da un volto austero e diritto. Le incisioni a bulino che determinano i lunghi capelli raccolti in due ciocche laterali, evidenziano un’acconciatura ispirata ai canoni estetici delle sculture grecoorientali che tanta fortuna ebbero nei centri della Ionia asiatica.

MISSIONE IMPOSSIBILE Un carro a due ruote, usato nelle sfilate, finemente decorato in stile ionizzante e risalente al 530-520 a.C., in una ultima missione impossibile, quella di accompagnare l’aristocratico defunto nell’oltretomba.

La mostra è stata fortemente voluta dal Comune di Ischia di Castro e vede la collaborazione della Direzione Regionale Musei del Lazio, del Museo Archeologico Nazionale di Viterbo, della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale, della Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti di Roma, della Fondazione Vulci e della rivista «Archeo», quest’ultima in qualità di media partner.

DOVE E QUANDO «Il ritorno della biga. I carri in bronzo etruschi di Castro, Vulci e Tarquinia» Ischia di Castro (VT), Museo Civico «Pietro e Turiddo Lotti» fino al 31 dicembre Info tel. 0761 425455; e-mail: museoischiadicastro@simulabo.it; www.simulabo.it

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A TUTTO CAMPO Mara Sternini

LE SFINGI DI GUADALUPE CENTO ANNI FA CECIL B. DEMILLE GIRA LA PRIMA VERSIONE DE I DIECI COMANDAMENTI E, ULTIMATE LE RIPRESE, DISPONE LA DISTRUZIONE DEL SET. OGGI, INDAGATO DAGLI ARCHEOLOGI, IL LUOGO DI QUELLE RIPRESE HA FATTO AFFIORARE UN PEZZO D’EGITTO NEI DINTORNI DI LOS ANGELES...

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uadalupe è una cittadina della California, situata nella contea di Santa Barbara, circa 270 km a nord-ovest di Los Angeles. La presenza, nelle sue vicinanze, di una vasta zona di dune sabbiose fu determinante nella scelta della località come set per girare il film I dieci comandamenti, di Cecil B. DeMille (1881-1959). Non si tratta del remake del 1956, decisamente piú noto al grande pubblico, bensí della prima versione, realizzata precisamente un secolo fa, nel 1923. È un film muto, girato in bianco e nero (con alcune sequenze a colori), ed è suddiviso in due parti, una storica e una contemporanea. Nella prima si narrano la fuga degli Ebrei dall’Egitto, il passaggio del Mar Rosso e la consegna a Mosé delle tavole con i dieci comandamenti.

RIVALI IN AMORE Nella seconda, ambientata nell’età contemporanea, si racconta la storia di due fratelli, innamorati della stessa donna, ma molto diversi tra loro: il primo è tratteggiato come uomo decisamente disonesto, mentre il secondo è esattamente l’opposto. Naturalmente, il fratello che vive senza rispettare le leggi di Dio

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pagherà con la vita le proprie scelte, mentre l’altro conquisterà l’amore della donna contesa. Alla narrazione eccessivamente moralistica e scontata della seconda parte, che oggi non avrebbe grande riscontro nel pubblico, si contrappone la grandiosità delle scene e degli effetti speciali della prima parte, decisamente innovativi per l’epoca, che ancora oggi risultano spettacolari. Del resto, non mancava la disponibilità di mezzi a un regista che è stato tra i padri fondatori dell’industria cinematografica di Hollywood. Basti pensare che DeMille, nella prima edizione del film, ebbe a disposizione piú di un milione di dollari e impiegò migliaia di persone tra comparse e staff, oltre a numerosi cavalli, cammelli e mandrie di vario genere. Le scenografie erano, ovviamente, imponenti: templi, piramidi e statue colossali vennero realizzati in legno e gesso, con l’effetto di ricostruire una città dell’antico Egitto tra le dune della California. Terminate le riprese, il regista pretese la distruzione del set, per impedire che venisse utilizzato da altri registi, ma forse anche per

evitare le spese di smontaggio e trasporto negli studios di Hollywood: di quelle straordinarie scenografie non rimasero che frammenti sparsi tra le dune di Guadalupe, sepolti dalla sabbia nel corso degli anni, al punto da perderne la memoria.

ALLA RICERCA DELLA CITTÀ PERDUTA Almeno cosí è stato fino agli anni Ottanta del secolo scorso, quando un appassionato di cinema, Peter Brosnan, ha deciso di mettersi alla ricerca della città perduta di DeMille. L’impresa non è stata facile a causa della scarsità di fondi, delle difficoltà burocratiche e di una certa ostilità dei residenti, ma Brosnan non si è arreso e ha finalmente individuato il sito, anche se le indagini sul terreno sono state interrotte piú volte nel corso degli anni. I primi scavi sistematici, diretti dall’archeologo John Parker, sono iniziati soltanto nel 1990 e hanno portato alla luce strutture e monumenti del set cinematografico, con il risultato di far inserire il sito tra le antichità della California, assicurandone la tutela da parte delle autorità competenti. Alcuni dei reperti

Nella pagina accanto, in alto: una scena della prima versione del film I dieci comandamenti, diretto da Cecil B. DeMille. 1923. Nella pagina accanto, in basso e qui sotto: due immagini dello scavo archeologico che ha portato al ritrovamento dei resti del set del film.

riportati in luce sono ora esposti nel Guadalupe-Nipomo Dunes Center. Da questa spasmodica ricerca è nato anche un documentario, The Lost City of Cecil B. DeMille, girato dallo stesso Peter Brosnan e uscito nel 2016. Tra i reperti non vi sono soltanto i resti delle scenografie, ma anche oggetti legati alle esigenze quotidiane dello staff, vere e proprie testimonianze della cultura materiale degli anni Venti del Novecento: tra i piú curiosi, le numerose boccette di uno sciroppo per la tosse, molto apprezzato durante il proibizionismo per la gradazione alcolica. Nella sua autobiografia, pubblicata nel 1959, DeMille dedica alcune pagine ai preparativi del film, e vi si legge anche questa frase: «Se tra mille anni capitasse agli archeologi di scavare sotto la sabbia di Guadalupe, spero che non corrano ai giornali con la sorprendente notizia che la civiltà egizia, lungi dall’essere confinata alla valle del Nilo, si estendeva anche sulla costa nord-americana del Pacifico». Piú che un timore, queste parole sembrano tradire il desiderio del regista di estrarre dalla sabbia i resti del proprio set cinematografico, come infatti è accaduto, e senza nemmeno aspettare 1000 anni, ma poco piú di 60. Si conferma cosí, ancora una volta, un singolare risvolto dell’archeologia, quello di saper riportare in vita persone ed esistenze del passato, individuando le tracce di chi ci ha preceduto ed esorcizzando cosí, almeno in parte, la paura della morte che alberga in ognuno di noi. Il timore che non resti alcun ricordo del nostro passaggio sulla Terra fa talmente parte della natura umana che persino un regista di fama come Cecil B. DeMille ha voluto lasciare un messaggio rivolto agli archeologi, gli unici professionisti in grado di ridare vita al suo passaggio tra le dune di Guadalupe. (mara.sternini@unisi.it)

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

INCONTRI Paestum

XXV BORSA MEDITERRANEA DEL TURISMO ARCHEOLOGICO PAESTUM, 2-5 NOVEMBRE. IL PROGRAMMA

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a Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, unico appuntamento al mondo del suo genere, è un format di successo, che ha trovato la sua migliore realizzazione dal 2021 nel Tabacchificio Cafasso, l’attuale Next, che il Sindaco Franco Alfieri ha voluto fortemente per lo sviluppo turistico e culturale della Città di Capaccio Paestum e del territorio circostante. La BMTA nella sua ultima edizione ha avuto 8500 visitatori, 160 espositori (ben 18 regioni, il Ministero della Cultura con 500 mq e i prestigiosi Parchi e Musei Archeologici autonomi), 18 Paesi esteri, 100 tra conferenze e incontri in 5 sale in contemporanea con 500 relatori, 30 buyer europei e nazionali specialisti nell’ArcheoIncoming e nel turismo culturale, 140 operatori dell’offerta turistica, 150 giornalisti. L’edizione 2023, dal 2 al 5 novembre, assume una particolare importanza, in quanto la BMTA celebra il venticinquesimo anniversario, condividendolo con il Parco Archeologico di Paestum e Velia e la Certosa di Padula, che proprio nel 1998 furono inseriti nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO nell’ambito del riconoscimento attribuito al Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, oggi anche Alburni. Numerose le prestigiose iniziative nell’ambito del programma. Con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale ci si confronterà sul tema della cooperazione culturale, partendo dal 2015, anno in cui l’UNESCO lanciò l’hashtag «#unite4heritage» in occasione della distruzione di Palmira, sotto la direzione di Irina Bokova, che firmò nel 2016, con l’allora Ministro degli Esteri Gentiloni, l’accordo con l’Italia, che metteva a disposizione dei Paesi facenti parte dell’UNSCO la Task Force «Unite4Heritage», dal 2022 ridenominata Task Force Caschi Blu della Cultura, esperti civili del Ministero della Cultura, dotati di specifica formazione, e militari del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale;

La sala conferenze del Next, sede della BMTA.

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Con il Ministero della Cultura si approfondirà il confronto, nella governance di parchi e musei archeologici, tra istituti statali autonomi e organismi rappresentati dalle Fondazioni, che vedono la partecipazione di Comuni e Regioni, a seguito di concessione ministeriale delle aree archeologiche; Con l’Ufficio Italia del Parlamento Europeo e l’Associazione Civita si illustreranno le opportunità dei fondi europei per valorizzare il patrimonio culturale, migliorare l’attrattività delle destinazioni turistiche e rafforzare la competitività delle imprese, con la partecipazione dei vertici delle Organizzazioni Datoriali del turismo (Federturismo Confindustria, Assoturismo Confesercenti, Confcommercio), la Direzione Business Alta Velocità di Trenitalia, la Direzione Regionale Campania, Calabria e Sicilia di Intesa Sanpaolo, gli Assessori al Turismo e ai Beni Culturali delle Regioni del Sud, i Segretariati Generali del Ministero del Turismo e del Ministero della Cultura; Il Touring Club Italiano convocherà a Paestum i Consoli e i soci attivi del Centro Sud, in un incontro che vedrà la partecipazione del Presidente Franco Iseppi e del Vice Presidente Giuseppe Roma sul tema, molto sentito dal TCI, dello sviluppo del turismo sulle rive nord e sud del Mediterraneo. Inoltre, da sottolineare la Lectio Magistralis del Cardinale Ravasi dopo il conferimento del Premio «Paestum Mario Napoli» e, per la prima volta, la presenza nel Salone Espositivo della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra con il progetto «Catacombe d’Italia». Infine, da sottolineare la partecipazione di protagonisti internazionali tra cui l’École française di Roma, che riceverà il Premio «Paestum Mario Napoli», riconoscimento che testimonia la valenza culturale degli Istituti di Cultura nel mondo, e i Direttori dei Musei Archeologici del Mediterraneo (Atene, Beirut, Il Cairo, Marsiglia, Napoli, Roma, Tunisi), area geografica strategica in termini di valorizzazione del patrimonio culturale, ma soprattutto di dialogo interculturale, in considerazione delle migrazioni attuali. Il programma delle Conferenze, qualificato dai 50 Incontri messi in campo dal Segretariato Generale del Ministero della Cultura, sarà condiviso con l’Assessorato al Turismo e con la Direzione Generale per le politiche culturali e il turismo della Regione Campania, l’Ente che annualmente promuove la BMTA. Per info: www.bmta.it



n otiz iario

MOSTRE Toscana

UN BRINDISI PER FUFLUNS

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a storia del vino accompagna la storia dell’umanità, è espressione dei traguardi raggiunti attraverso l’evoluzione delle tecniche di coltivazione e di selezione della vite, iniziate intorno al 6000 a.C. nel Caucaso e giunte nella nostra penisola nel corso del II millennio a.C. Importante indicatore della cultura, delle credenze, dell’economia e della struttura sociale delle antiche comunità del Mediterraneo, il vino ebbe un ruolo fondamentale nella formazione della società etrusca: da indicatore di status nell’ideologia delle aristocrazie all’acquisizione dei rituali eroici di stampo omerico. Ebbe un valore simbolico saliente nella

costruzione dei rapporti e delle gerarchie sociali, nella sfera religiosa, in quella culturale e in ogni forma di attività cerimoniale e non, che prevedesse pasti comuni, di cui il simposio rappresenta solo l’esito piú noto. Il tema della mostra di Castagneto Carducci, che richiama nel titolo il gaudente dio etrusco del vino, è raccontato dai reperti della vita quotidiana provenienti dai territori di Populonia, Volterra e Vetulonia. L’esposizione è l’epicentro di un percorso narrativo diffuso lungo il territorio costiero e nell’immediato entroterra, che coinvolge i musei partner e prestatori della mostra. Sono esposti i cinerari provenienti dalle necropoli degli inizi dell’età del Ferro di Bolgheri, dal Museo Civico Archeologico di Cecina, e di Piano delle Granate a Baratti; una In alto: coperchio di sarcofago con defunta dal Museo Etrusco di Volterra. A sinistra: il pubblico in visita alla mostra nel giorno dell’inaugurazione. In basso: corredo funerario dal tumulo di Poggio Tondo, dietro le tazze dalla Casa del Re sull’acropoli di Populonia.

selezione di tazze appena restaurate rinvenute nella Casa del Re sull’acropoli di Populonia, grazie alla collaborazione con parchi Val di Cornia Spa; il corredo del principe etrusco di Poggio Tondo a Pian d’Alba con le coppe su alto piede e il kantharos (coppa/ cratere) monumentale del Museo etrusco di Scarlino, restaurati grazie al contributo dell’Azienda agricola La Cura di Massa Marittima; la rara tazza/attingitoio con iscrizione di dono conservata al museo della cantina «Rocca di Frassinello» a Gavorrano. E poi ancora i buccheri e i bronzi forgiati e utilizzati per consumare il vino dal Museo Civico Archeologico Palazzo Bombardieri di Rosignano Marittimo; i coperchi di urne cinerarie con defunto e defunta distesi a banchetto dal Museo Etrusco «Mario Guarnacci» di Volterra; un prezioso corredo funerario costituito da oggetti da simposio rinvenuto a Baratti e conservato al Museo Archeologico Nazionale di Firenze; la straordinaria cimasa di kottabos in bronzo raffigurante un sileno danzante dal Museo Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia; gli arredi in piombo di produzione populoniese dal Museo etrusco di Populonia Collezione Gasparri. Carolina Megale

DOVE E QUANDO «Nel segno di Fufluns. Il vino degli Etruschi» Castagneto Carducci (Livorno), Sala espositiva Espinassi Moratti fino al 5 novembre Info e-mail: info@pastexperience.it

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CALENDARIO

Italia ROMA Imago Augusti

Due nuovi ritratti di Augusto da Roma e Isernia Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 26.11.23

L’Amato di Iside

Nerone, la Domus Aurea e l’Egitto Domus Aurea fino al 14.01.24

La Roma della Repubblica Il racconto dell’archeologia Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli fino al 24.09.23

Caere

Storie di dispersione e di recuperi Museo delle Antichità Etrusche e Italiche, «Sapienza» Università di Roma fino al 28.02.24

BOLOGNA Gli Assiri all’ombra delle Due Torri Bronzo e oro

Roma, Papa Innocenzo III: racconto immersivo di un capolavoro Vittoriano, Sala Zanardelli fino al 01.10.23

Nuova Luce da Pompei a Roma Musei Capitolini-Villa Caffarelli fino all’08.10.23

Un mattone iscritto della ziggurat di Kalkhu in Iraq e gli scavi della Missione Archeologica Iracheno-Italiana a Ninive Museo Civico Medievale fino al 17.09.23

BRESCIA Luigi Basiletti e l’Antico

Brescia, palazzo Tosio-Ateneo di Brescia fino al 03.12.23

Il Pugile e la Vittoria

Brixia. Parco archeologico di Brescia romana fino al 29.10.23

CANINO (VITERBO) La «prima» Vulci

All’origine della grande città etrusca Museo Archeologico Nazionale di Vulci fino al 31.12.23

CASTAGNETO CARDUCCI Nel segno di Fufluns Gli Dei ritornano

I bronzi di San Casciano Palazzo del Quirinale fino al 29.10.23

Gladiatori nell’Arena

Tra Colosseo e Ludus Magnus Colosseo fino al 07.01.24 22 a r c h e o

Il vino degli Etruschi Sala espositiva di Palazzo Espinassi Moratti fino al 05.11.23

CAPO DI PONTE (BRESCIA) Sotto lo stesso sole Europa 2500-1800 a.C. MUPRE-Museo Nazionale della Preistoria della Valle Camonica fino al 30.09.23


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

FERRARA Case di vita

Sinagoghe e cimiteri in Italia Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS fino al 17.09.23

GAIOLE IN CHIANTI Cetamura 50 Materiali, persone, ricordi Museo alle origini del Chianti fino al 15.09.23

RIO NELL’ELBA Gladiatori

Museo Archeologico del Distretto Minerario fino al 01.11.24

TAORMINA Palinsesti

Il Teatro antico di Taormina: dalla storia al mito Teatro antico fino al 31.10.23

VETULONIA Corpo a corpo

Dalla bellezza classica dei capolavori del Museo archeologico nazionale di Napoli alla classicità del Bello nell’opera di Mitoraj Museo Civico Archeologico Isidoro Falchi fino al 05.11.23

VIGEVANO La Collezione Strada

Quasi 30 secoli di storia in piú di 260 reperti Museo Archeologico Nazionale della Lomellina fino al 04.12.23

ISCHIA DI CASTRO Il ritorno della biga

I carri in bronzo etruschi di Castro, Vulci e Tarquinia Museo Civico «Pietro e Turiddo Lotti» fino al 31.12.23

MILANO Le vie dell’acqua a Mediolanum Civico Museo Archeologico fino al 31.03.24

MODENA DeVoti Etruschi

La riscoperta della raccolta di Veio del Museo Civico Museo Civico fino al 17.12.23

PORTICI (NAPOLI) Materia Il legno che non bruciò ad Ercolano Reggia di Portici fino al 31.12.23

Grecia ATENE Ritorno a casa

Tesori delle Cicladi nel loro viaggio di ritorno Museo d’Arte Cicladica fino al 31.10.23

Stati Uniti NEW YORK L’albero e il serpente

L’antica arte buddista dell’india, 200 a.C.-400 d.c. The Metropolitan Museum of Art fino al 13.11.23 a r c h e o 23


ITA AR LE LIACH MI NE EOL SSIO AL OG NI L’E IC ST HE ER O

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

L’ARCHEOLOGIA ITALIANA NEL MONDO


Q Lo scavo della missione italopalestinese a Gerico, in Palestina.

uella delle missioni archeologiche all’estero è una tradizione ormai consolidata per l’Italia e, grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, sono centinaia gli studiosi attivi in olte 80 Paesi, dall’Europa all’Oceania. A questa importante realtà è dedicata la nuova Monografia di «Archeo», che propone la rassegna dei progetti attualmente in corso, illustrati in prima persona dai loro stessi protagonisti. Le schede dedicate a ciascuna missione, corredate da un ricco apparato iconografico, danno vita a un ideale viaggio intorno al mondo, che permette di scoprire quanto importante sia il contributo italiano allo studio, alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio archeologico e storico-artistico degli Stati in cui i progetti vengono svolti. Perché un tratto comune a tutte le missioni è proprio quello del coinvolgimento di istituzioni e studiosi locali, nella convinzione che ciò rappresenti un passo fondamentale sulla strada della conoscenza e della conservazione. In tutti i territori nei quali operano, gli archeologi italiani si fanno dunque portatori di un know how di altissimo livello, ma sono al tempo aperti alla ricezione delle istanze dei partner con i quali condividono le proprie attività sul campo.

in edicola a r c h e o 25


ARCHEOLOGIA SUBACQUEA • ITALIA-FRANCIA

Sulle due pagine: il relitto di Capo Corso 2, localizzato a circa 350 m di profondità fra Capo Corso (Corsica, Francia) e l’Isola di Capraia (Italia). A sinistra: le immagini inviate dai robot subacquei esaminate a bordo della nave appoggio Alfred Merlin. 26 a r c h e o


UN MARE DI

VETRO PREZIOSO ITALIA E FRANCIA HANNO CONDOTTO LA PRIMA MISSIONE DI STUDIO SU UN RELITTO INDIVIDUATO FRA LA CORSICA E L’ISOLA DI CAPRAIA. LÍ, A GRANDE PROFONDITÀ, GIACCIONO I RESTI DI UNA NAVE ROMANA, CHE AVEVA IMBARCATO UN SOLO E UNICO GENERE DI MERCANZIA... a cura della redazione

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i è conclusa di recente la prima campagna della «Missione italo-francese per lo studio del relitto profondo Capo Corso 2». Datato in via preliminare tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C., il relitto si trova a circa 350 m di

profondità nel tratto di mare fra Capo Corso (Corsica, Francia) e l’Isola di Capraia (Italia). Si tratta del secondo caso a oggi noto, nel Mar Mediterraneo, di un naufragio di una nave romana che aveva a bordo un carico composto

quasi esclusivamente da vetro, trasportato sia allo stato grezzo, in diverse tonnellate di blocchi di varie dimensioni, sia lavorato, sotto forma di migliaia di manufatti di vasellame da tavola di vetro soffiato. La missione bilaterale è stata coora r c h e o 27


ARCHEOLOGIA SUBACQUEA • ITALIA-FRANCIA A sinistra e a destra: uno dei due ROV utilizzati nel corso della missione, poco prima che venga calato in acqua e all’inizio della discesa verso il relitto. In basso: primo esame dei materiali recuperati grazie al ROV Arthur.

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dinata per la parte italiana dalla Soprintendenza Nazionale per il patrimonio culturale subacqueo (Ministero della Cultura), diretta dalla soprintendente Barbara Davidde, e, per la parte francese, dal Département des Recherches Archéologiques subaquatiques et sous-marine (Drassm, Ministero della Cultura), sotto la direzione dell’archeologa Franca Cibecchini, responsabile della Corsica. Alla missione di studio del relitto collabora anche l’Inrap (Institut national de recherches archéologiques préventives), con l’archeologa specialista del vetro antico Souen Fontaine (Responsable du Pôle Subaquatique-Inrap).

UNA MISSIONE MULTIDISCIPLINARE Per la prima volta, inoltre, alla ricerca archeologica è stata associata l’osservazione biologica marina della fauna di questi particolari ecosistemi profondi grazie alla partecipazione diretta dell’ecologa Nadine Le Bris (Sorbonne Université-Museum National d’Histoire Naturelle). La diagnosta Carlotta Sacco Perasso è stata incaricata dalla Soprintendenza Nazionale dello studio della colonizzazione biologica in alto fondale sui manufatti archeologici del carico, un lavoro che contribuirà alla valutazione dello stato di conservazione e del restauro dei reperti recuperati. Per lo svolgimento delle ricerche in alto fondale il Drassm ha messo a disposizione la sua nave di ricerca ammiraglia, l’Alfred Merlin, attrezzata con i suoi due ROV (Remotely Operated Vehicle) Arthur e Hilarion. Arthur è un nuovo prototipo di ROV progettato e creato con e per il Drassm dal professor Vincent Creuze (Università di Montpellier-LIRM), che ha partecipato attivamente alla missione. Questo robot, uno dei piú piccoli e leggeri della sua categoria, può raggiungere i 2500 m e permette a r c h e o 29


ARCHEOLOGIA SUBACQUEA • ITALIA-FRANCIA

Il relitto di Capo Corso 2 è il secondo caso, a oggi noto, di una nave romana con a bordo un carico composto esclusivamente da vetro, grezzo e lavorato non solo di effettuare riprese video ad alta definizione, ma anche di ventilare o aspirare il sedimento e recuperare oggetti. Il ROV Hilarion, pilotato dall’archeologo Denis Degez (Drassm), è in grado di realizzare video in alta definizione fino a una profondità di 500 m. Il relitto Capo Corso 2 si trova oggi per qualche centinaio di metri nelle acque territoriali italiane, in una zona in corso di delimitazione tra l’Italia e la Francia. Scoperto dall’ingegner Guido Gay nel 2012, il relitto era stato inizialmente dichiarato al Drassm, che aveva immediatamente svolto una prima indagine del sito nel 2013 seguita da una missione di documentazione fotogrammetrica e mini-campionatura nel 2015. Tuttavia, a seguito delle ultime 30 a r c h e o

trattative sullo spazio marittimo tra Italia e Francia, il Drassm, nel giugno del 2016, ha segnalato il relitto al Ministero della Cultura italiano, manifestando la disponibilità a collaborare a un progetto di studi congiunto. Il programma di collaborazione è stato avviato nel 2022, dopo la creazione della Soprintendenza nazionale italiana, e la firma dell’accordo scientifico tra il Drassm, diretto da Arnaud Schaumasse, e la Soprintendenza nazionale nell’aprile 2023.

L’ARTIGLIO DI ARTHUR Nel corso della prima campagna della «Missione italo-francese per lo studio del relitto profondo Capo Corso 2» è stato fatto un nuovo rilievo fotogrammetrico del relitto per verificare eventuali cambia-

menti del sito dovuti all’azione antropica (per esempio il passaggio di reti a strascico) e alla sedimentazione; il ROV ha poi realizzato la pulitura superficiale di alcune zone del giacimento per una migliore identificazione dei reperti. È stata infine effettuata una selezione di reperti, recuperati grazie a un sistema ad artiglio, molto delicato, montato sul ROV Arthur. Sono stati recuperati vari oggetti di vetro (bottiglie, piatti, coppette, coppe, un unguentario) ma anche due bacili di bronzo e alcune anfore. Tutti i materiali archeologici saranno trasportati nel laboratorio della Soprintendenza Nazionale a Taranto per le analisi scientifiche, per la caratterizzazione del degrado biologico e per il restauro. Al momento, come detto, il relitto


In questa pagina: un manufatto in vetro subito dopo il recupero e nelle immagini trasmesse dal ROV Arthur al momento della sua individuazione. Nella pagina accanto: l’artiglio montato sul ROV Arthur grazie al quale è stato possibile recuperare parte degli oggetti del carico del relitto di Capo Corso 2.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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ARCHEOLOGIA SUBACQUEA • ITALIA-FRANCIA

Oriente, forse dal Libano o dalla Siria e che fosse diretta verso la costa provenzale francese.

In alto e in basso: altri manufatti in vetro dal relitto di Capo Corso 2, dopo il recupero e all’indomani di una prima ripulitura.

si data tra la fine del I secolo e l’inizio del II secolo d.C., ma lo studio approfondito dei materiali potrà fornire ulteriori precisazioni sulla cronologia del naufragio e maggiori informazioni sulla rotta percorsa dalla nave nel suo ultimo viaggio. A una prima analisi del carico, vista la

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tipologia delle anfore visibili (anfore «a carota», anfore orientali tra cui delle probabili anfore tipo Beirut e qualche anfora Gauloise 4) e la quantità di vasellame di vetro e di blocchi di vetro grezzo, le archeologhe ritengono che la nave dovesse provenire da un porto del Medio

UNA SFIDA PER IL FUTURO A chiusura dei lavori, la Missione bilaterale ha avuto l’onore di ospitare a bordo la Segretaria della Convenzione UNESCO 2001 per la protezione del patrimonio culturale subacqueo, Krista Pikkat, direttrice dell’Entité Culture-Situations d’urgence che ha partecipato alle operazioni in mare. Il relitto di Capo Corso 2, con il suo carico perfettamente conservato, costituisce una sfida per i tutti i ricercatori coinvolti che potranno ricostruire una pagina di storia dei commerci del Mediterraneo, perfezionare le nuove tecnologie per esplorarlo e studiare un contesto ambientale peculiare, ancora poco indagato, che deve essere protetto e valorizzato per le future generazioni.Vista l’eccezionalità del relitto e i risultati di questa prima campagna d’indagine, i ricercatori di entrambi i Paesi sperano di poter avviare nei prossimi anni un progetto multidisciplinare di piú ampio respiro.



INCONTRI • ROVERETO

DA ROVERETO UNO SGUARDO ATTENTO SUL FUTURO DEL PASSATO Una foto tratta dal documentario britannico Saving Venice di Duncan Bulling, Lion TV. Nella pagina accanto, nel riquadro: una proiezione nel Teatro Zandonai di Rovereto, sede principale del RAM Film Festival, Rovereto Archeologia Memorie. 34 a r c h e o


Il RAM Film Festival, Rovereto Archeologia Memorie, riparte dal clima, e per l’edizione 2023 in programma dal 4 all’ 8 ottobre dedicherà spazio con alcuni dei film in concorso e importanti momenti di approfondimento proprio al tema sempre piú urgente dei cambiamenti climatici. I siti archeologici a rischio, le aree costiere che non potranno rimanere indenni all’innalzamento dei mari, monumenti e città, come la stessa Venezia, sul cui futuro va posta la giusta e urgente attenzione. Prima che sia troppo tardi di Claudia Beretta e Alessandra Cattoi a r c h e o 35


INCONTRI • ROVERETO

I

l RAM Film Festival, che si concentra in gran parte sull’archeologia, per il 2023 ha deciso di dare un taglio leggermente diverso, per approfondire alcune tematiche legate al clima e al patrimonio, con punti di vista e riflessioni che suscitano preoccupazione e allo stesso tempo interesse da parte di studiosi, ricercatori e decisori politici. Si parlerà di tutto questo a Rovereto con incontri dedicati, momenti di approfondimento, presentazioni di libri, ma soprattutto attraverso i film. Circa sessanta i documentari in concorso suddivisi in quattro sezioni – Cinema Archeologico, L’Italia si racconta, Sguardi dal mondo e Cultura Animata, con giurie suddivise per ogni sezione. In piú quest’anno verIn alto: una sequenza del documentario La terracotta preistorica di Saverio Caracciolo. Nella pagina accanto, in alto: foto tratta dal documentario serbo Roman wedding banquet di Milica Popovic. A sinistra e qui sotto: immagini degli incontri organizzati nel Teatro Zandonai per il RAM Film Festival.

A sinistra: da I tesori dei faraoni. Il papiro di Ebers, film tedesco di Denis Kliewer e Ulli Wendelmann.

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rà attribuito il Premio Paolo Orsi, dedicato al famoso archeologo di origini roveretane in onore del quale nel 1990 nacque il Festival. Il premio sarà attribuito da una giuria internazionale al miglior film di ambito archeologico, e sono proprio i film di questa sezione a rappresentare il corpo piú numeroso del RAM Film Festival 2023, complessivamente ventitré titoli. Molte le produzioni francesi, Paese che


TUTTI GLI EVENTI IN PROGRAMMA Anche gli ormai tradizionali aperitivi con gli esperti saranno dedicati alle sfide che il patrimonio culturale e chi lo tutela devono affrontare guardando al futuro che cambia, ma anche sul lavoro degli archeologi. Negli incontri informali tanto graditi al pubblico del festival si potranno incrociare archeologi, scrittori, giornalisti, e porre domande, esprimere curiosità e discutere con gli specialisti del settore. L’archeologo Umberto Tecchiati, docente dell’Università di Milano, parlerà dei cambiamenti climatici nella preistoria, lo scrittore e giornalista Giuseppe Caporale tratterà i temi del suo ultimo libro «Ecoshock. Come cambiare il destino dell’Italia al centro della crisi climatica», le archeologhe Maria Concetta Parello, funzionario dell Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento e Marta Coccoluto, Coordinatrice del parco archeologico di Baratti, e Populonia racconteranno delle ultime scoperte e della vita dei parchi archeologici, Barbara Caranza, restauratrice e presidente della onlus CHIEFS (Cultural Heritage International Emergency) parlerà con il pubblico della tutela dei beni culturali in aree di crisi. Questo e molto altro ancora, tra aperitivi, colazioni, conferenze climatiche dedicate ai giovani (in collaborazione con l’Agenzia di Stampa giovanile) con Sara Segantin, scrittrice e divulgatrice scientifica… Non mancherà la possibilità di fare nuove «scoperte»

a Rovereto, con l’apertura di spazi originali con patrimoni inediti, come le presentazioni di libri in collaborazione con Aboca Edizioni e le rievocazioni storiche al giardino di Palazzo Fedrigotti, o la visita guidata con il geologo al cimitero cittadino.

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INCONTRI • ROVERETO

RAM, SPECIALE VENEZIA Venezia con le sue meraviglie e le sue fragilità avrà uno spazio specialissimo il venerdí sera nel palinsesto serale dedicato al focus Sguardi sul Clima, con un nuovissmo film britannico dal titolo Saving Venice, Salvare Venezia. A introdurre la serata, il giornalista del Corriere della Sera Gian Antonio Stella, da sempre attento ai temi del patrimonio culturale, e Francesco Trovò, della Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio per il comune di Venezia e laguna, docente all’Università Iuav di Venezia. Un film, tra l’altro tradotto in italiano per il festival dagli studenti attraverso un progetto educativo in una collaborazione tra il RAM e il Liceo Maffei di Riva del Garda.

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IL RAM VA A SCUOLA

In alto, a destra: dal documentario francese di Stéphane Jacques Archaeology 3.0-Making the dead speak. Al centro: The Speech of Txai Surui, animazione diretta dagli studenti del Multimedia Project of Escola Parque, in Brasile.

Proprio alle scuole saranno dedicate tre mattinate del festival, sia alle scuole primarie che secondarie, con palinsesti dedicati, momenti di intrattenimento e soprattutto la restituzione dei progetti di critica cinematografica e di traduzione dell’audiovisivo che lo staff del RAM segue con i ragazzi durante l’anno. Un modo anche questo per accrescere la consapevolezza nei giovani dell’importanza di ragionare, anche attraverso il cinema, sui temi legati alla salvaguardia dei beni archeologici e culturali che sembrerebbero distanti dal mondo giovanile, e che invece Sulle due pagine e nella pagina accanto: altre immagini da Saving Venice di Duncan Bulling. A sinistra: dal film serbo Krošnja/Tree Crown di Predrag Todorovic.

riguardano da vicino la loro storia e la loro identità. Al contempo i ragazzi e le ragazze possono maturare migliori competenze nel linguaggio audiovisivo, quello che usano quotidianamente, ma spesso senza governarne le regole.

come ogni anno si impone per qualità delle produzioni e varietà dei temi documentati. Il festival, in linea con il focus dell’anno, ha deciso di organizzare un evento interamente green, eliminando la plastica, favorendo spostamenti con mezzi di trasporto piú sostenibili, coinvolgendo fornitori locali e in linea con lo spirito del festival di bassi consumi e tutela ambientale. Il focus riguarda anche questo: quanto una manifestazione dedicata alla cultura possa accrescere la cona r c h e o 39


INCONTRI • ROVERETO

sapevolezza riguardo al bene inesti- grandi storie in una narrazione che mabile che è il nostro mondo, da permetterà al pubblico di godere di valorizzare e tutelare. straordinarie immagini nell’atmosfera unica del Teatro Zandonai che in occasione del RAM diventa ecI FILM Tanti i popoli e le culture antiche cezionalmente sala di proiezioni, esplorate dai documentari in con- nella dimensione collettiva del cicorso, come da tradizione espressio- nema e con la possibilità del dibatne sia di grandi produzioni che di tito e del confronto. Come da qualautori indipendenti.Tutti però sono che anno, saranno infatti segnalati e accomunati dallo scopo di appro- presentati agli spettatori i registi e i fondire aspetti del patrimonio mon- produttori giunti in sala, in modo diale, di farne scoprire piccole e da stimolare il dibattito, che può In alto: dal documentario francese Archaeology 3.0-Making the dead speak. In basso: la facciata del Teatro Zandonai di Rovereto.

continuare negli spazi dedicati del teatro. In programma le piú recenti produzioni che spaziano dai Tesori dei faraoni, alla Preistoria, agli Etruschi, dall’archeologia subacquea a Petra, alla Grecia e ai banchetti nella Roma antica, alla musica nell’antichità, ai nativi americani. Ma anche documentari su epoche piú recenti o grandi personaggi, come quello dedicato alla vera storia dei pirati, o alla straordinaria figura dell’archeologo Champollion. Importante l’apporto delle altre sezioni, Sguardi dal Mondo e L’Italia si racconta, dedicate a film che narrano di un patrimonio meno tangibile rispetto a un monumento o a un sito archeologico, ma altrettanto importante, quello fatto di antiche tradizioni e stili di vita, che creano l’identità dei popoli. Particolarissima anche la sezione dedicata alle animazioni, che come ogni anno sorprendono per la capacità di stimolare la riflessione con corti di grande impatto. Oltre 20 le nazioni produttrici rappresentate, molte di piú le diverse nazioni del mondo di cui si racconta il patrimonio. Ma il RAM non è solo Cinema (vedi box alle pp. 37 e 38/39).

LA SERATA FINALE La serata finale del festival, straordinariamente riservata alla domenica vedrà la partecipazione di un personaggio amatissimo dal pubblico, l’attore Neri Marcorè, che parlerà di un interessante progetto di valorizzazione del patrimonio in zone terremotate, «Risorgimarche – Festival solidale, inclusivo ed ecosostenibile», intrattenendo il pubblico con uno spettacolo, tra recital e canzoni. DOVE E QUANDO RAM film festival Teatro Zandonai, Rovereto dal 4 all’8 ottobre 2023 Info tel. 0464 452832; e-mail: segreteria@ramfilmfestival.it 40 a r c h e o



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RICEVUTA VOLTI, PARTI ANATOMICHE, ANIMALI... AMPIO E VARIEGATO È IL REPERTORIO DEGLI EX VOTO ETRUSCHI DEPOSTI IN LUOGHI DI CULTO COME QUELLO SCOPERTO A VEIO, ALLA FINE DELL’OTTOCENTO, SUL PIANORO DI COMUNITÀ. MOLTI DEI REPERTI ALLORA RINVENUTI PRESERO LA VIA DEL MUSEO CIVICO DI MODENA, CHE LI HA RESI PROTAGONISTI DI UN IMPORTANTE PROGETTO ESPOSITIVO di Laura Maria Michetti, Carla Tulini e Cristiana Zanasi

V

eio, uno dei principali centri dell’Etruria meridionale, occupava un pianoro posto sulla riva destra del Tevere, in una posizione strategica a controllo dello sbocco al mare e delle saline di Ostia. Il confine fra Veio e Roma – e tra Etruschi e Latini –

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nella bassa valle tiberina era cruciale e pose le due grandi città in un perenne conflitto, ma nello stesso tempo si configurò come un elemento di incontro che favorí scambi e strettissimi rapporti sul piano culturale, soprattutto in età arcaica (a partire dal VI secolo

a.C.), in concomitanza con la presenza a Roma della dinastia dei Tarquini. A partire dal V secolo a.C. le fonti letterarie ci informano dell’inasprirsi del conflitto e della sempre crescente pressione romana sulla sponda destra del Tevere, fino ad arrivare al


A sinistra: allestimento e videoinstallazione nella sala dell’Archeologia del Museo Civico di Modena. In basso e nella pagina accanto: due teste, una femminile e una maschile entrambe velate. III-II sec. a.C. Scavo Lanciani 1889. Ex voto della raccolta di Veio del Museo Civico di Modena.

mitico decennale assedio conclusosi con la presa di Veio nel 396 a.C. a opera di Furio Camillo, che segnò il definitivo ingresso di Roma nel territorio degli Etruschi.

IL RAPPORTO CON LA SFERA DEL SACRO Tra le grandi città d’Etruria, Veio è certamente una delle piú importanti sotto il profilo delle testimonianze di carattere cultuale, non soltanto per la risonanza di scoperte eccezionali che nel secolo scorso hanno contribuito a diffondere la consapevolezza della specificità dell’arte etrusca rispetto a quella greca – basti pensare al celebre Apollo e alle altre statue acroteriali del tempio del Portonaccio – e per l’entità dei monumenti e dei reperti rinvenuti, ma anche per l’investimento che la città ha dimostrato di destinare ai luoghi sacri fin dagli inizi dell’età arcaica. Dalle attività di ricognizione condotte a partire dagli anni Cinquanta del Novecento da parte della British School at Rome, sotto la guida di John Bryan Ward Perkins, e dall’analisi dei depositi votivi relativi alle numerose aree di culto urbane e suburbane, emerge con chiarezza una continuità d’uso degli spazi sacri ben oltre la a r c h e o 45


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«Questa fu la fine di Veio, la città piú ricca di tutto il mondo etrusco e capace di dare prova della propria grandezza anche nel momento estremo della disfatta: dopo un assedio durato dieci estati e altrettanti inverni durante i quali aveva inflitto perdite ben piú gravose di quante non ne avesse subite, alla fine, benché incalzata ormai anche dal destino avverso, ciò non ostante fu espugnata grazie all’ingegneria militare e non alla forza vera e propria». (Tito Livio, ab Urbe condita, V, 22) data tradizionale della conquista della città (396 a.C.). Il caso certamente piú eclatante di continuità di frequentazione di aree destinate al culto sul pianoro dell’antica città etrusca in una fase successiva alla romanizzazione è rappresentato dall’area di Comunità, con la corposissima stipe votiva (nota come «stipe Lanciani») a cui appartiene la collezione di ex voto in terracotta del Museo Civi46 a r c h e o

co di Modena, nei cui spazi è allestita la mostra «DeVoti Etruschi», visitabile fino al prossimo 17 dicembre e che farà quindi tappa a Roma (vedi box a p. 53).

FREQUENTAZIONE ININTERROTTA L’immenso deposito, uno dei piú cospicui complessi votivi noti non solo in ambito veiente, ma nell’intero panorama etrusco-italico, atte-

sta la frequentazione ininterrotta a scopo cultuale – tra l’inizio del V e la metà del II secolo a.C. – di questo settore marginale del pianoro, dove si è supposto fosse localizzato il tempio poliadico (ovvero dedicato alla divinità protettrice di Veio) di Giunone Regina ricordato da Livio (V, 21, 1-4; 10). Tra il III e il II secolo a.C. l’area di Comunità appare pienamente inserita nel circuito sacro di santuari


La Sala Archeologia del Museo Civico di Modena nel XIX sec. In basso: Veio. I resti del Tempio di Portonaccio con ricostruzione dell’alzato. Nella pagina accanto: maschera rettangolare. Fine del IV-II sec. a.C. Scavo Lanciani 1889. Ex voto della raccolta di Veio del Museo Civico di Modena.

rivitalizzati o fondati ex novo dai coloni romani, tutti dedicati a divinità di stampo etrusco-italico e plebeo, che coronano il pianoro, fungendo da pendant meridionale del polo sacro di nuova fondazione

incentrato sulle aree di Macchiagrande e Campetti-Porta Caere ubicate nella propaggine centrosettentrionale. Si delinea in questo modo un sistema che, facendo perno su contesti e luoghi preesi-

stenti particolarmente simbolici ed evocativi, costituisce il fattore aggregante per l’abitato superstite e per la sua economia, come testimoniano le diverse aree produttive a essi connesse e destinate non solo alla realizzazione di terrecotte votive ma anche di ceramiche fini, ubicate soprattutto lungo le arterie principali e vicino alle porte, da interpretare nell’ottica di una continuità o rivitalizzazione di attività e funzioni già esistenti.

UNA LUNGA STAGIONE DI SCAVI La storia degli scavi ottocenteschi di Veio è popolata di figure rappresentative delle imprese archeologiche della seconda metà dell’Ottocento: un’aristocratica di alto rango, Teresa Cristina di Borbone, che aveva ereditato le tenute di Isola Farnese e Vaccareccia a Veio, animata dall’interesse per l’archeologia; un illustre archeologo, noto per le sue competenze, Rodolfo Lanciani; l’amminia r c h e o 47


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stratore dei beni italiani di Teresa Cristina, nonché cognato di Lanciani, il conte Francesco Vespignani. Se le indagini relative al deposito votivo di Comunità, dal quale proviene la raccolta del Museo Civico di Modena, iniziarono nel 1889, la lunga stagione delle ricerche a Veio ebbe inizio molto prima: dalla seconda metà del XIV secolo era nota la città romana, dal XVII secolo quella etrusca. Quest’ultima esercitò un forte richiamo soprattutto a partire dagli anni Venti del XIX secolo, quando il fascino e la popolarità della civiltà etrusca furono alimentati dall’influenza culturale del Romanticismo, da un incremento delle attività di scavi e ricerche e dal fiorire di un mercato antiquario di grandi proporzioni. Se a questo si aggiunge l’eco dei fatti storici sul decennale assedio di Veio da parte dei Romani, paragonato a quello di Troia, e il fascino di una splendida cornice naturale disseminata di «rovine», si comprende l’interesse che circondava Veio nell’Ottocento. Dopo le indagini topografiche degli anni Venti e Trenta, scavi veri e propri furono realizzati nei decenni successivi, prima per conto della regina vedova di Sardegna, Maria Cristina di Borbone, poi dalla nipote Maria Teresa Cristina di Borbone, imperatrice del Brasile. Al suo mecenatismo e alla sua passione si deve

In questa pagina : torso con viscere esposte (in alto) e mano mobile di statua che sorregge una pisside cilindrica. Fine IV-III sec. a.C. Scavo Lanciani 1889. Ex voto della raccolta di Veio del Museo Civico di Modena. Nella pagina accanto: statua di togato capite velato. III sec. a.C. Scavo Lanciani 1889. Ex voto della raccolta di Veio del Museo Civico di Modena.

una successiva campagna di scavi condotta nel 1889 da Francesco Vespignani, che si avvalse delle competenze del cognato, Rodolfo Lanciani, grazie al quale lo scavo fu 48 a r c h e o

condotto con un approccio scientifico caratterizzato dalla produzione di un’ampia documentazione grafica, con ogni probabilità realizzata in vista di una pubblicazione che però


FRA TEMPO E SPAZIO Le terrecotte votive del Museo Civico di Modena comprendono una gamma di figure ben note e ricorrenti nel piú ampio panorama degli oggetti devozionali. L’ex voto è un dono dal forte valore simbolico, che accompagna da millenni e a ogni latitudine il rapporto fra l’uomo e le entità alle quali viene attribuita la capacità di mutare la sorte. La pratica dell’ex voto, antropologicamente sospesa fra religione e superstizione, intercetta archeologia, etnologia, arte popolare e contemporanea. L’offerta del dono può supportare la richiesta di eludere un pericolo temuto o di ottenere un beneficio (nel linguaggio comune «chiedere una grazia»), ma può anche rappresentare la gratitudine per il conseguimento di quanto richiesto (nel linguaggio comune «per grazia ricevuta»). Se nell’antichità la realizzazione degli ex voto era in capo ad artigiani e artisti, la sua declinazione contemporanea è «industriale» e conta decine di siti per acquistare online oggetti seriali con le stesse raffigurazioni dell’antichità, attualizzate in un’ampia varietà di minacce contemporanee, dalla tossicodipendenza alle malattie del secolo, dalla pandemia alla guerra.

non venne mai portata a termine. Sulle pendici del pianoro di Comunità in due settimane fu portato alla luce il ricchissimo deposito votivo, coperto da 1,25 m di terreno e costituito, secondo Lanciani, da circa 2000 ex voto integri in terracotta e bronzo. Lo stesso Lanciani riferí il deposito votivo al tempio di Giunone Regina che Livio e Plutarco collocavano a Veio. Gli scavi furono

bruscamente interrotti dalla morte dell’imperatrice e i materiali andarono in parte a Isola Farnese, per finire poi dispersi e venduti a turisti e collezionisti europei, in parte trasferiti a Roma. L’ubicazione della struttura sul pianoro sommitale di Comunità – probabile acropoli della città all’epoca della conquista romana – è stata proposta anche in base al ritrovamento, nel corso delle ricognizioni della British School at Rome e delle indagini di scavo della Sapienza Università di Roma, di terrecotte architettoniche della seconda metà del VI e della prima metà del V secolo a.C.

CONFERME E NOVITÀ Le ricerche del settore di Etruscologia della Sapienza, intraprese in quest’area a partire dagli anni Novanta del secolo scorso nell’ambito del Progetto Veio, anche allo scopo di verificare la presenza di un edificio di culto, hanno confermato la destinazione sacrale – e non solo – della sommità del pianoro: frammenti di elementi decorativi fittili sono certamente ascrivibili a strutture di età arcaica ancora non identificate, forse in parte coperte dal complesso edilizio terrazzato già scavato da Lanciani, frequentato in età medio-repubblicana in connessione con la vicina stipe e caratterizzato da una lunga vita come molte altre ville rustiche a carattere residenziale e produttivo nate nei dintorni dell’Urbe. Lungo il fianco orientale del pianoro, gli scavi recenti hanno messo in luce opere di terrazzamento, infrastrutture viarie e idrauliche e la presenza di fornaci attive nella produzione di ceramiche fini da mensa (soprattutto bucchero) già dalla fine del VII secolo a.C., evidenze che hanno fatto ipotizzare l’ubicazione in questo luogo di un’area produttiva connessa anche alla presenza di un luogo di culto. Che questo tipo di funzione sia a r c h e o 49


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RESTITUIRE I COLORI La tavolozza di colori individuata grazie alle analisi sulla policromia condotte in occasione della realizzazione della mostra ci restituisce un’immagine, del tutto inedita, del cromatismo che doveva caratterizzare gli ex voto in terracotta, cosí come, grazie ad analisi simili, è avvenuto per sculture e architetture del mondo antico. Oltre a un monitor che illustra la procedura che è stata utilizzata e ai risultati ottenuti, si è scelto di

A sinistra: testa femminile velata. Seconda metà IV sec. a.C. Scavo Lanciani 1889. Ex voto della raccolta di Veio del Museo Civico di Modena. In alto: un momento delle analisi sulla policromia degli ex voto di Veio. Nella pagina accanto: immagini al microscopio che mostrano l’utilizzo ricorrente dell’ocra rossa (a sinistra) e la presenza di granuli di pigmento blu.

proseguita oltre la tradizionale data della caduta della città, è indicato anche dagli scarti di cottura e dai distanziatori da fornace individuati in piú occasioni nel corso delle ricognizioni di Ward Perkins e di Marcello Guaitoli.

DA VEIO A MODENA La raccolta di terrecotte votive provenienti dalla città etrusca di Veio, costituita da 118 ex voto raffiguranti statue, busti, volti di adulti e bambi50 a r c h e o

ni, raffigurazioni di arti e organi umani e di animali sacrificali, entra a far parte del patrimonio del Museo Civico di Modena nel 1894, grazie all’interessamento dell’astronomo modenese Pietro Tacchini. L’acquisizione della raccolta è uno degli ultimi atti della direzione di Carlo Boni, che morí nello stesso anno. Fondatore e primo direttore del Museo Civico, Boni, nel corso di oltre vent’anni, aveva dato corpo a un progetto di museo che nelle

sue intenzioni doveva accogliere e conservare «tutto quanto interessi l’intera popolazione». All’epoca della donazione della raccolta il Museo aveva infatti acquisito da tempo quella dimensione poliedrica che tuttora lo contraddistingue. Nato nel 1871 a partire dalle raccolte preistoriche delle terramare, l’istituto si era via via arricchito grazie alle ricerche archeologiche in città e nel territorio, alla creazione di una sezione etnologica e


dedicare una videoinstallazione alle figure dei «DeVoti Etruschi» esposti in corrispondenza del calco del portale dell’abbazia di Nonantola, un allestimento storico della Sala dell’Archeologia, quasi a evocare un luogo denso di spiritualità e nello

stesso tempo la funzione di accoglienza di ex voto che le chiese tuttora esercitano. L’installazione, a cura di Delumen, affianca a un approccio filologico che parte dalle evidenze cromatiche effettivamente riscontrate, una libera e artistica

interpretazione che, anche attraverso suoni e flebili voci che recitano dediche in etrusco e latino, ci collega nello spazio e nel tempo ai desideri e alle aspirazioni piú intime delle donne e degli uomini di questo antico passato.

al progressivo incremento delle raccolte d’arte e artigianato artistico, frutto soprattutto di cospicue donazioni di cittadini modenesi. La sezione archeologica, nata per accogliere e valorizzare le testimonianze della città e del territorio, nel corso del tempo aveva affiancato ai contesti locali reperti e collezioni archeologiche provenienti non solo da varie regioni italiane ed europee, ma anche da contesti archeologici extraeuropei, dal Perú precolombiano all’antico Egitto. Illustre astronomo e meteorologo modenese, scienziato aperto alle idee progressiste che permeavano l’Italia post-unitaria, Pietro Tacchini (1838-1905) non poteva non condividere il disegno culturale e politico che aveva portato alla nascita del museo della città, tanto che nel corso del tempo i suoi molteplici contributi non solo in-

crementarono le raccolte, ma ne orientarono le linee di sviluppo. Nel 1883, in previsione di un’eccezionale eclissi solare, Tacchini intraprese un viaggio dall’Atlantico al Pacifico che si tradusse in un’esperienza di conoscenza di paesaggi, modi di vita, popolazioni documentato attraverso fotografie, appunti e oggetti che raccolse per il Museo e per sé. Proprio questi ultimi avranno un ruolo fondamentale per l’arrivo a Modena della raccolta di Veio.

Tacchini sono assidui e funzionali a entrambi: a Pigorini per garantirsi l’incremento delle raccolte etnografiche e l’appoggio dell’astronomo per acquisire materiali archeologici del Modenese; a Tacchini per poter individuare nelle raccolte del museo romano nuclei utili all’esposizione del Museo Civico di Modena, guadagnandosi cosí anche la riconoscenza dei concittadini. Nel 1894, in cambio di oggetti della sua spedizione nel Pacifico, Tacchini chiede e ottiene da Pigorini una parte della raccolta di terrecotte votive provenienti da Veio. La selezione deve essere avvenuta sulla base di una ricognizione dell’intero contesto votivo, al fine di individuare e garantire all’istituto modenese una rappresentanza di tutti i tipi presenti, o almeno di gran parte di essi, nonostante sia stato inviato a Mode-

INTERESSI RECIPROCI Nel racconto di questa acquisizione entra infatti in gioco un personaggio chiave dell’archeologia italiana: Luigi Pigorini, uno dei padri della paletnologia, che a Roma aveva fondato, nel 1876, un grande museo nazionale di Preistoria ed Etnografia. I rapporti fra Pigorini e

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na soltanto il 13% della raccolta complessiva. Le percentuali di rappresentatività variano fra il 9% e il 14% circa delle categorie con il maggior numero di esemplari (teste maschili, teste femminili, teste di fanciulli, statuette animali) e arrivano al 50% per categorie meno consistenti (orecchie, uteri, placche poliviscerali) raggiungendo addirittura il 75% per gli organi genitali maschili.

LE NUOVE RICERCHE In occasione del progetto di riscoperta della raccolta di ex voto del Museo Civico, sono state affidate al Laboratorio DI.AR di Andrea Rossi analisi non invasive e micro invasive per l’identificazione e la caratterizzazione di eventuali pigmenti, avviando cosí una ricerca del tutto nuova nel campo delle terrecotte votive etrusche (vedi box alle pp. 5051). Le indagini hanno interessato la

Arto superiore sinistro. Fine IV-II sec. a.C. Scavo Lanciani 1889. Ex voto della raccolta di Veio del Museo Civico di Modena.

Ex voto in forma di ariete. Fine IV-III sec. a.C. Scavo Lanciani 1889. Ex voto della raccolta di Veio del Museo Civico di Modena. A destra, in basso: testa maschile della collezione modenese con numerosi interventi manuali del coroplasta, come l’uso della stecca sulla capigliatura.

superficie di 61 terrecotte che, a un esame autoptico, presentavano tracce anche minime di colore. Le tracce sono state effettivamente riconosciute su 41 esemplari: teste, statue o parti di esse, maschere, ex voto anatomici e statuette di animali. Oltre a un ingobbio bianco largamente presente, sono state individuate tracce di ocra rossa, nero, blu egiziano, quest’ultimo probabil52 a r c h e o


Un’altra immagine della videoinstallazione nella sala dell’Archeologia del Museo Civico.

mente utilizzato in miscela con altri pigmenti per restituire una cromia piú brillante. Il dato piú rilevante che emerge dalle analisi è l’individuazione, in una piccola percentuale di reperti, quasi tutte teste, della presenza di doratura, fino a oggi non riscontrata sulle terrecotte votive di ambito etrusco-italico. Un’altra indagine ha riguardato aspetti produttivi e, in particolare, il processo di fabbricazione a matrice delle terrecotte votive, che comportava la realizzazione di un prototipo a sua volta impresso su due valve di argilla, successivamente cotte fra i 750° e i 950°. La stessa matrice veniva utilizzata per piú votivi, determinando un progressivo abbassamento della qualità del prodotto. Quando le matrici erano molto «stanche», si rendeva necessario ritoccare con una stecca parti del volto quali naso e capelli. Nella catena operativa erano impiegati artigiani di diversa competenza: da un lato il coroplasta principale che re-

alizzava il prototipo, dall’altro i semplici esecutori che si specializzavano nella produzione seriale. Il gruppo degli ex voto anatomici della raccolta modenese, che offre una variegata e completa tassonomia di casi e di intenti, ha consentito anche di elaborare alcune ipotesi interpretative da parte dell’équipe di paleopatologi dell’Università di Bologna e del Gruppo Italiano di Paleopatologia (Gianandrea Pasquinelli, Mirko Traversari, Luca Ventura) che hanno esaminato questa categoria di oggetti devozionali nel quadro piú ampio delle patologie presenti nelle popolazioni etrusche e delle conoscenze mediche che avevano sviluppato. PER SAPERNE DI PIÚ Gilda Bartoloni, M. Gilda Benedettini, Veio. Il deposito votivo di Comunità (Scavi 1889-2005), Giorgio Bretschneider Editore, Roma 2011

LA MOSTRA La mostra «DeVoti Etruschi. La riscoperta della raccolta di Veio del Museo Civico di Modena» fa appunto parte di un articolato progetto di riscoperta delle raccolte archeologiche ottocentesche del Museo Civico di Modena. Conservate nei depositi, esse vengono integralmente ristudiate, sottoposte a indagini multidisciplinari impensabili all’epoca dell’acquisizione, e valorizzate attraverso esposizioni che coniugano elementi museografici ottocenteschi e installazioni contemporanee. La mostra espone un prezioso nucleo di ex voto in terracotta provenienti da Veio, una delle città etrusche piú importanti sotto il profilo delle testimonianze relative a luoghi di culto. L’esposizione e il catalogo che la accompagna (edito da L’Insegna del Giglio) sono stati realizzati in collaborazione con Sapienza Università di Roma, che vanta una lunga tradizione di ricerche e scavi nella città etrusca di Veio. Curatrici sono Laura Maria Michetti, docente di Etruscologia e Antichità italiche presso l’ateneo romano, Carla Tulini, dottoranda nella stessa disciplina, Cristiana Zanasi, curatrice della

sezione Archeologia Etnologia del Museo Civico di Modena. L’esposizione sarà visitabile fino al 17 dicembre, per consentirne la fruizione a diverse tipologie di pubblico anche grazie a un calendario di iniziative collegate (www.museocivicomodena.it/it/ notizie/iniziative-collegate-a-devoti-etruschi). Successivamente, la mostra verrà riallestita a Roma, nel Museo delle Antichità etrusche e italiche del Polo Museale Sapienza.

DOVE E QUANDO «DeVoti Etruschi. La riscoperta della raccolta di Veio del Museo Civico di Modena» Modena, Museo Civico fino al 17 dicembre Orario martedí-venerdí, 9,00-12,00; sabato, domenica e festivi, 10,00-19,00 Info tel. 059 203-3100 / 3125; e-mail: museocivico@comune.modena.it; www.museocivicomodena.it; Facebook e Instagram: museocivicomodena

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STORIA • ROMA

LE SANTISSIME DONNE

DELL’AVENTINO

LA TOPONOMASTICA DEL COLLE AVENTINO, A ROMA, EVOCA PERSONAGGI DELLA STORIA FORSE MENO NOTI, MA CHE FURONO PROTAGONISTI DI VICENDE DI GRANDE INTERESSE. È IL CASO, IN PARTICOLARE, DI UNA SCHIERA DI DONNE NOBILI E RICCHE, LA CUI ESISTENZA CAMBIÒ RADICALMENTE DOPO AVER ABBRACCIATO LA FEDE CRISTIANA di Elena Bianca Di Gioia 54 a r c h e o


il Campidoglio e i Fori – divenne una delle piú aristocratiche zone residenziali della città. Al culmine del suo sviluppo urbano, Rodolfo Lanciani (1845-1929; archeologo che seguí per anni i molti scavi di Roma e al quale si deve la pubblicazione della Forma Urbis, n.d.r.) ricorda sul colle centotrenta residenze nobiliari e, tra queste, quella dell’imperatore Vitellio, quella privata del futuro imperatore Traiano, alcune grandiose Terme e importanti edifici di culto.

L’

Aventino è uno dei colli piú affascinanti di Roma. Alto sulle pendici che svettano sull’ansa del Tevere, è il piú meridionale della città e, per le sue caratteristiche morfologiche e topografiche, appare isolato dal resto del contesto urbano per gran parte della sua estensione. Considerato esterno al pomerio fino all’epoca dell’imperatore Claudio (I secolo d.C.), fu protetto fin dal VI secolo a.C. dalla cinta muraria dell’età del re Servio Tullio. Nel 456 a.C. fu dichiarato di proprietà pubblica e i suoi terreni distribuiti al nuovo ceto della piccola borghesia imprenditoriale dei

plebei per costruirvi le loro abitazioni. A partire da quel momento e fino al II secolo a.C., il colle assunse le caratteristiche di quartiere popolare e mercantile. In seguito gran parte dei suoi abitanti e delle attività commerciali si spostarono sulle rive del Tevere, in prossimità del nuovo porto fluviale denominato Emporium, vicino ai grandi magazzini e ai depositi di derrate e merci degli Horrea. In età imperiale, proprio per le sue caratteristiche di spazio urbano appartato e allo stesso tempo contiguo ai luoghi del potere e della vita politica – i palazzi imperiali del Palatino affacciati sul Circo Massimo,

SACCHEGGI E DEVASTAZIONI Durante il Sacco di Alarico del 410 l’Aventino subí danni gravissimi. Attirati dalle dimore patrizie i Goti seminarono morte e devastazione. Molti edifici pubblici e privati furono saccheggiati e incendiati, come documentano gli scavi archeologici e le testimonianze dei contemporanei. Nobili famiglie furono decimate, i loro beni depredati, le domus date alle fiamme, i luoghi abbandonati. Da quel momento il quartiere subí un lento declino e un progressivo spopolamento che lo rese luogo ideale, tra l’età tardo-antica e l’Alto Medioevo, per l’insediamento di chiese e monasteri. Questo carattere di quieto isolamento ha continuato a caratterizzare l’Aventino fino al primo dopoguerra. Passeggiando oggi tra chiese, conventi, giardini e villini del primo Novecento, incontriamo piazze e vie che devono il loro nome al riordino della toponomastica degli anni 1931-1935, quando fu comSulle due pagine: le pendici occidentali dell’Aventino in una delle incisioni realizzate da Aegidius Saedler II sulla base di originali di Etienne Du Pérac e riunite nella raccolta Vestigi della antichità di Roma, Tivoli, Pozzvolo et altri luochi. 1606. New York, The Metropolitan Museum of Art. a r c h e o 55


STORIA • ROMA

pletata l’urbanizzazione del quartiere moderno: una toponomastica colta, che ha il merito di evocare luoghi e protagonisti della storia. Non desta meraviglia trovare strade intitolate a perduti edifici della Roma repubblicana e imperiale: il Tempio di Diana, quello di Giunone Regina, le Terme Deciane, o antichi assi viari quali il Clivo dei Publicii. Altre vie ricordano illustri personaggi legati alla storia di Roma e dell’Aventino come il tribuno Lucio Icilio, che nel 456 a.C. fece approvare la legge che consentiva ai plebei di costruirvi abitazioni private, o la famiglia dei Servilii, che aveva notevoli proprietà sul versante meridionale del colle. Incontriamo il nome del colto Asinio Pollione, che in età augustea aveva la sua casa in prossimità della Porta Capena, o quello della nobile Annia Fau-

stina, sorella minore di Marco Aure- E ancora santi e intellettuali domelio, che nel II secolo qui possedeva nicani: san Domenico, fondatore una grande residenza. dell’ordine nel 1216 e della casa generalizia dei Domenicani nel palazzo adiacente a S. Sabina; sant’AlMONACI E CAVALIERI Numerose sono le strade intitolate berto Magno, che nel convento doalle sue piú antiche chiese ancora menicano tenne cattedra; o il riforoggi officiate: S. Prisca, S. Sabina, S. matore benedettino Oddone di Alessio, S. Anselmo. Intorno a S. Cluny che, in visita a Roma alla Sabina sono ricordati il presbiter urbis metà del X secolo, sembra aver fonPietro d’Illiria, di nobile famiglia dato sull’Aventino un monastero. La dalmata, al quale dobbiamo la splen- piazza dei Cavalieri di Malta evoca dida basilica dedicata entro il 432 a la secolare presenza a Roma dei Sabina, santa martire del II secolo. Cavalieri di San Giovanni, con il

L’ORIGINE DEL NOME

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Secondo antiche leggende il nome Aventino deriverebbe da un mitico sovrano di Albalonga chiamato Aventinus. Salito sul colle, fu colpito da un fulmine e qui vi avrebbe trovato sepoltura. Altri hanno pensato al termine adventus (hominum), in riferimento a raduni religiosi o politici che si sarebbero svolti sull’altura. Alcuni studiosi hanno stabilito una relazione con il participio perfetto advectus (portato), in riferimento Isola Tiberina Colosseo S.Maria all’arrivo a Roma via mare di Via L Arco di Palatino in Trastevere abic Tempio uomini dalla vicina sponda del ana Costantino di Vesta S. Clemente Tevere o pensato a una ipotetica Trastevere S. Maria associazione con il fiume Avens, in Cosmedin S. Giovanni corso d’acqua sito nella regione in Laterano Circo di provenienza di immigrati Massimo S. Stefano Porta Portese S. Maria Rotondo cio in Domnica sabini. L’etimologia piú c ta S. Sabina es accreditata fa capo al mito di eT Aventino r e ev Piazza o ot fondazione della città di Roma e n g i t n di Porta en Lu Av alla leggenda di Romolo e Remo. Metronia e l a Via G Vi allia Il nome Aventino deriverebbe Piazza Albania dagli aves (uccelli). Remo dal Terme di Caracalla ni Mons Murcius, o piccolo a v l Ga Via Aventino, avrebbe visto per primo Piramide di Caio Cestio sei volatili provenire da destra, Porta Testaccio Ardeatina mentre Romolo, sul colmo Via dell’Aventinus Maior, ne avrebbe le Ma rc Porta visti successivamente dodici oP Stazione di San Sebastiano olo provenire da sinistra, direzione Ostiense considerata piú propizia: di qui il litigio sulla precedenza della visione del volo o sul numero Mappa che mostra l’ubicazione e degli uccelli, l’uccisione di Remo e la dedicazione del luogo del l’estensione del quartiere sacrificio con l’appellativo di Remuria. Romolo fondò la città di Roma dell’Aventino, con l’indicazione dei sul Cèrmalo (Palatino), delimitandone i confini con un solco tracciato luoghi e dei monumenti piú importanti. con l’aratro, nei pressi del luogo dove erano stati allevati da bambini i Nella pagina accanto, in alto: la due gemelli. Riferimenti di altra natura rivelerebbero l’ascendenza del navata centrale della basilica di S. nome da radici linguistiche di antichi popoli liguri. ulan

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Sabina. Prima metà del V sec.


quattrocentesco Palazzo del Priore e la candida chiesa di S. Maria del Priorato, ideata nel Settecento dalla fantasia di Piranesi; edifici magnifici, ben celati da alte mura e immersi in profumati giardini che solo occasionalmente si aprono al pubblico. Altre piú appartate strade e piazze sono intitolate ad alcune sante quasi dimenticate che avevano le loro splendide dimore sul colle o lí vi si riunivano: Marcella, Albina, Melania, nobili donne di Roma che in età tardo-antica, tra la fine del IV e i primi del V secolo, furono protagoniste di una vera e propria rivoluzione intellettuale e spirituale. Ricche, colte, determinate, sono le audaci protagoniste e promotrici delle prime comunità femminili di vedove e vergini votate all’ascetismo, alla carità e allo studio delle Sacre Scritture sotto l’egida di santi e intellettuali quali sant’Atanasio e san Gerolamo.

La targa di una delle strade che attraversano l’Aventino, intitolata a santa Melania, che rinunciò a tutte le sue ricchezze per dedicarsi alla fede.

Le vite di queste nobili donne, ben documentate dalle fonti contemporanee, sono scandite da episodi che hanno il respiro di un romanzo. La loro esperienza si intreccia con quella di altre nobili matrone appartenenti alla piú alta e antica aristocrazia romana, come santa

Paola (347-404), cugina di santa Marcella, che aveva fondato a Roma un’altra comunità cristiana domestica nel suo palazzo, probabilmente situato in Campo Marzio, ma che si riuniva con Marcella sull’Aventino per pregare, studiare la Bibbia e ascoltare Gerolamo. a r c h e o 57


STORIA • ROMA

L’adesione coraggiosa e sincera al cristianesimo di queste figure femminili, in contesti familiari ancora in parte legati alla religione pagana, le condusse a scelte radicali che misero in discussione i rapporti sociali e le norme che caratterizzavano la vita delle donne di alto rango nell’antica Roma. Rigide leggi governavano e tutelavano la successione dei grandi patrimoni. Le ricche matrone, se vedove – e spesso lo divenivano giovanissime, dato che contraevano matrimoni appena adolescenti – dovevano garantire la trasmissione dei beni ai figli ed erano spesso obbligate a nuove nozze con membri della nobiltà romana per non disperdere quelle ingenti fortune che erano il cardine dell’economia dell’impero.

ASCESI E CASTITÀ Tutte le nostre protagoniste, per vicende familiari dotate di vastissime proprietà, se giovani vedove si rifiutarono di contrarre nuove nozze per abbracciare la vita ascetica, se giovani spose convinsero il marito ad accettare una vita di castità, carità e preghiera. Rinunciando al loro invidiabile status sociale, intrapresero viaggi lunghi e pericolosi che portarono alcune di loro, tra tutte l’antesignana Antonia Melania, poi santa Paola con la figlia Eustochio e un’altra sua cugina, Melania la giovane, fino in Palestina, a Gerusalemme e a Betlemme, per condurre una vita di eremitaggio, studio, preghiera e carità. I ricchissimi beni di cui disponevano furono integralmente profusi per aiutare i poveri e i profughi cristiani, in fuga da guerre dogmatiche e dalle invasioni barbariche, e nella fondazione e dotazione di monasteri femminili e maschili costruiti vicino ai luoghi santi, su loro iniziativa e direzione. Altre, come la nobile Marcella, nella sua grande domus dell’Aventino, scelsero di creare a Roma una comunità femminile monastica di ver58 a r c h e o

Una veduta esterna della basilica di S. Sabina. Nella pagina accanto: dittico in avorio di Serena e Stilicone, realizzato in onore del primo consolato del generale, sul cui scudo compaiono i ritratti di Onorio e Arcadio. 400 d.C. circa. Monza, Tesoro del Duomo.

gini e vedove, dove lo studio delle Scritture, attraverso la disamina dei testi latini, greci ed ebraici, diventava palestra di vita e di sapienza. È difficile immaginare l’aspetto di queste sante donne. Una suggestione forse ci viene dalle due raffigurazioni femminili ai lati dell’iscrizione dedicatoria in esametri, realizzata a mosaico in tessere d’oro su fondo azzurro, nella controfacciata della chiesa di S. Sabina a Roma, databile entro il 432. L’iscrizione celebra la fondazione della basilica intorno al 425, regnante Celestino I, da parte del presbiter urbis Pietro d’Illiria, munifico finanziatore dell’impresa che «si fece povero per soccorrere i poveri», come recita il testo. Le due figure velate, una piú matura che tiene tra le mani un codice dell’Antico Testamento, l’altra piú giovane con il codice del Nuovo Testamento, rappresentano rispettivamente la Ecclesia ex Gentibus (la Chiesa che deriva dal ceppo

pagano, il cui principale testimone è l’apostolo Paolo) e la Ecclesia ex Circumcisione (la Chiesa che deriva dal ceppo ebraico, il cui rappresentante piú importante è l’apostolo Pietro). Potrebbero forse ricordare nel nobile aspetto e nell’abito castigatissimo, già quasi monacale, Marcella e la nipote Principia o forse Paola con la figlia Eustochio.

NOMI RICORRENTI La piú singolare di queste figure femminili, e forse l’antesignana di tutte loro, è Antonia Melania (349/50-410). Apparteneva all’aristocratica famiglia romana dei Marcelli e la madre, anch’ella ricchissima e di nobili origini, aveva vaste proprietà in Spagna. Melania si sposò giovanissima con Valerio Massimo, della potente gens Valeria, ambasciatore dell’imperatore Costanzo presso Antiochia e poi praefectus urbis nel 361-363. Melania rimase vedova a ventidue


anni circa e divenne erede di un enorme patrimonio. Intorno al 372, incurante dello sconcerto dei familiari e della classe senatoria, abbandonò alle cure di un tutore l’unico figlio che le era rimasto, Valerio Publicola, di appena sei anni, e partí da Roma per raggiungere la Terra Santa. Prima di mettersi in viaggio aveva trasferito i suoi beni al bambino, portando con sé solo parte

delle rendite del suo patrimonio e i suoi gioielli personali. Avrebbe investito tutto in opere di carità. Nel suo itinerario verso la Terra Santa sbarcò ad Alessandria, dove incontrò il vescovo Atanasio, per poi ritirarsi per sei mesi nel deserto egiziano. Qui, vestita come un uomo e coperta di stracci, conobbe i padri eremiti, il digiuno e la meditazione. Donna forte, anticonformista e sa-

piente, nella Historia Lausiaca di Palladio, suo contemporaneo, si ricordano le sue letture delle Sacre Scritture e dei commenti di Origene, Gregorio e Basilio. Dopo aver difeso coraggiosamente alcuni vescovi ed eremiti dalla persecuzione dell’imperatore ariano Valente, raggiunse Gerusalemme, dove, grazie alla vendita di alcune sue proprietà e all’aiuto

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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STORIA • ROMA Sulle due pagine: basilica di S. Sabina. Particolari del mosaico, in tessere d’oro e azzurro oltremare, recante l’iscrizione di dedica in esametri latini, visibile nella controfacciata della chiesa. 432-440. Le due figure di donne velate rappresentano l’Ecclesia ex Circumcisione (la Chiesa che deriva dal ceppo ebraico, il cui rappresentante piú importante è l’apostolo Pietro) e l’Ecclesia ex Gentibus (la Chiesa che deriva dal ceppo pagano, il cui principale testimone è l’apostolo Paolo).

finanziario della famiglia, riuscí a costruire due monasteri sul Monte degli Ulivi: uno per i monaci e uno per le vergini. Qui si ritirò in preghiera, in sintonia spirituale con Rufino di Aquileia, già amico e condiscepolo di san Gerolamo, poi da quest’ultimo osteggiato strenuamente per le sue opinioni sull’ortodossia di Origene. Nel 399, dopo ventisette anni di vita monastica, Melania decise di tornare a Roma, forse per raccogliere fondi e tentare di assicurare continuità alle sue opere. In città il suo destino si intreccia con quello della giovane nipote Mela60 a r c h e o

nia, figlia di Valerio Publicola. Quest’ultima, affascinata dalla personalità della nonna, seguirà dopo alcuni anni il suo esempio.

NEL MONASTERO DI PAOLINO San Paolino da Nola (355 circa-431) fu testimone oculare del ritorno di Antonia Melania in Italia. La santa donna, nel suo viaggio verso Roma, fece visita all’umile monastero campano di Paolino. Questi, di ricchissima famiglia cristiana di rango senatorio, dopo un brillante cursus honorum tra l’Aquitania, la Spagna e Roma, e do-

po aver ricoperto la carica di governatore della Campania, aveva liquidato il suo immenso patrimonio sparso nelle province dell’impero e, in comunione spirituale con la moglie Tarasia, aveva abbracciato la vita ascetica. In un’epistola dell’anno 400, Paolino racconta l’arrivo di Antonia Melania dalla Terra Santa: «Ella sbarcò a Napoli, a poca distanza dalla città di Nola nella quale noi viviamo. Qui, accolta dall’accorrere di figli e nipoti, si affrettò subito a venire nel nostro umile alloggio, accompagnata dal superbo corteo dei ricchissimi parenti. Noi abbiamo visto la gloria del


Signore in quel viaggio della madre e dei figli che l’accompagnavano con ben diverso ornamento. Lei, in groppa a un cavallino macilento, piú magro di un asinello, era scortata dai senatori con tutto lo sfarzo di cui questi signori onorati e ricchi potevano circondarsi, su carrozze ondeggianti trainate da cavalli ornati di borchie, cocchi dorati per le matrone e numerosi carri a due ruote sotto i quali la via Appia gemeva e risplendeva. Ma la grazia dell’umiltà cristiana brillava piú del fulgore della vanità degli uomini. La porpora, la seta e l’oro vennero confusi dai suoi vecchi e neri vestiti.Tutti questi uomini di mondo trovarono piú onore nella

povertà della loro madre che nello splendore del loro lusso». La famiglia di Antonia Melania andava fiera, secondo Paolino, di quella povertà estrema, esibita come un vessillo dalla santa donna a edificazione di tutti i presenti. Una scena memorabile che restituisce l’atmosfera di quegli anni e descrive bene le contraddizioni e le trasformazioni all’interno delle famiglie patrizie romane, nelle quali convivevano membri cristiani accanto ad altri ancora legati alla religione pagana e allo stile di vita del tardo impero e dove vedove, figlie e nipoti, sempre piú frequen-

temente, abbracciavano la religione cristiana con un radicalismo quasi «eversivo» e denso di conseguenze.

IDEALI DI POVERTÀ E CONDIZIONE FEMMINILE Gli studiosi hanno sottolineato come, tra la fine del IV e i primi del V secolo, numerosi membri cristiani dell’aristocrazia senatoria, agraria e latifondista, per inseguire gli ideali cristiani di povertà abbiano liquidato proprietà di immenso valore economico sparse per tutto il mondo romano. Ciò contribuí – insieme alle invasioni barbariche e ai disordini feroci a r c h e o 61


STORIA • ROMA

nella catena di comando di esercito e imperatori – al dissesto dell’ordinamento economico e sociale dell’impero. Una sorta di «suicidio finanziario, una colossale dispersione di patrimoni fondiari, con forti cali di rendite che crearono un vuoto spaventoso nell’economia generale» (Antonio V. Nazzaro, Paolino di Nola e l’aristocrazia cristianizzata del suo tempo, 2015) e in ultimo parteciparono al progressivo collasso di quel mondo secolare. Ma quanto avrà pesato in quelle scelte cosí drastiche l’insostenibile difficoltà della gestione di quelle grandiose proprietà che andavano dalla Britannia all’Africa, minacciate dai disordini politici e dalle invasioni dei barbari, beni che si reggevano sullo sfruttamento degli schiavi e generavano ricchezze enormi – tutti aspetti palesemente in conflitto con il credo cristiano – e quanto la condizione femminile dei membri delle famiglie senatorie, solo apparentemente privilegiata. Il matrimonio e la maternità, affrontati quando le giovani erano poco piú che bambine, con uomini spesso anziani, erano scelte imposte dai genitori e rischiose per l’alta mortalità nei parti. Le loro ricchezze le rendevano prede ambite e quasi sempre utili pedine nei giochi di potere delle famiglie aristocratiche. La consacrazione alla verginità, la castità nel matrimonio o il rifiuto di risposarsi, se vedove, erano scelte dettate da convinzioni cristiane, ma forse anche l’unico modo per liberarsi da un destino segnato dalla volontà d’altri. La raffinata educazione impartita in famiglia alle nostre protagoniste, la conoscenza delle lingue e l’amore per le Sacre Scritture le rendevano donne sapienti, in grado di difendere di fronte a tutti le ragioni delle loro scelte e divenire un modello di vita. Nel 403 Antonia Melania, dopo qualche tempo passato a Roma e in alcune sue proprietà dell’Italia meridionale vendute con l’aiuto del 62 a r c h e o

figlio, tornò a Gerusalemme. Qui si ritirò nel suo monastero dedicandosi alla preghiera e alle opere di carità fino al giorno della sua morte. Ma il suo esempio e la sua forte personalità avevano lasciato un’impronta indelebile sulla giovane nipote.

SANTA MELANIA Melania «la Giovane» (383439/440) era figlia di Valerio Publicola e di Albina Ceionia. La madre, fervente cristiana, apparteneva alla nobile Gens Ceionia, che occupava una delle piú importanti dimore dell’Aventino e annoverava tra i suoi antenati l’imperatore Lucio Vero (161-169). Albina era figlia di Ceionio Rufio Albino, prefetto dal 389 al 391. Uomo di solida fede pagana, apparteneva a un circolo di tradizionalisti devoti agli antichi culti e all’idea dell’impero; nondimeno sappiamo che fu amico di sant’Ambrogio che gli dedicò un trattato sull’Incarnazione. Il fratello di Ceionio Rufio, Albino, sposò Laeta, madre della futura santa Paola. Il fratello di Albina, Volusiano, era uno strenuo sostenitore della religione pagana e intimo amico di Rutilio Namaziano. Nonostante il peso della fede pagana professata in famiglia, Albina Ceionia fu una convinta cristiana. Sposò Valerio Publicola, unico figlio di Antonia Melania, anch’egli cristiano, che univa le fortune delle nobili famiglie dei Marcelli e dei Valeri, con enormi proprietà a Roma, in Sicilia, Spagna, Gallia, Aquitania, Bretagna e Africa Settentrionale. Rimasta figlia unica, Melania era stata educata dalla madre e dal padre alla fede cristiana ma, come esponente della nobiltà patrizia, fu destinata giovanissima dai genitori al matrimonio. A quattordici anni sposò il giovane cugino Valerio Piniano, appartenente a un altro ramo della famiglia dei Valeri, fattore che aumentò a dismisura l’entità del loro futuro patrimonio. L’intenzio(segue a p. 66)

ESEGETA E TRADUTTORE Uomo di profonda cultura ed erudizione classica e cristiana, Gerolamo era nato nel 347 a Stridone, piccolo centro probabilmente nei pressi di Aquileia. Allievo a Roma di Elio Donato, ebbe una lunga formazione di studi, viaggi e ritiri spirituali in Siria. Ordinato sacerdote intorno al 380, nel 382 raggiunse Roma per partecipare al Concilio indetto da papa Damaso per risolvere lo scisma di Antiochia. Divenne prima segretario del Concilio e in breve stretto collaboratore del coltissimo pontefice. Damaso lo incaricò di riordinare e rivedere le antiche traduzioni latine del Nuovo Testamento e dei Salmi allora in uso, lavoro che Gerolamo intraprese confrontando i testi discordi con quelli piú vicini alle

San Girolamo, olio su tela di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio. 1606 circa. Roma, Galleria Borghese.


versioni in lingua greca dei Vangeli. Nel 385, morto papa Damaso, Gerolamo partí da Roma per trasferirsi ad Antiochia. Di lí a poco venne raggiunto da Paola e dalla figlia Eustochio e con loro nel 386 si trasferí definitivamente a Betlemme. Qui perfezionò lo studio dell’ebraico e per oltre trenta anni, facendo tesoro dell’esperienza maturata a Roma sui testi del Nuovo Testamento, si dedicò allo studio e alla traduzione in lingua latina dei libri dell’Antico Testamento. Partendo dall’accreditata versione greca dei «Settanta», che risaliva al III secolo a.C. e che aveva collazionato i libri dell’Antico Testamento basandosi su testi ebraici (e cosí chiamata perché l’impresa sarebbe stata compiuta da settantadue saggi originari di Gerusalemme, nel giro

di altrettanti giorni, n.d.r.). Anche, Gerolamo si accorse delle differenze esistenti tra la versione in lingua greca e gli originali in lingua ebraica. A suo avviso, la traduzione aveva lasciato grande spazio alle interpretazioni e alle interpolazioni. Decise quindi di tornare filologicamente alle fonti originarie ebraiche, essendo riuscito nel tempo a padroneggiare quell’antica lingua con fatica e studio, e di intraprendere una nuova versione in lingua latina dei testi per dare la piú ampia diffusione

possibile ai libri della Bibbia. La sua traduzione, denominata piú tardi «Vulgata» (vulgata editio, traduzione divulgata, diffusa tra il popolo) si affermò subito nella Chiesa occidentale. Consacrata dopo secoli dal Concilio di Trento nel 1546, fu rivista solo dopo il Concilio Vaticano II nel 1961. Per comprendere l’importanza del suo straordinario lavoro, ricordiamo che la Bibbia latina di Gerolamo fu anche il testo del primo magnifico libro edito a stampa da Johann Gutenberg nel 1455.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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STORIA • ROMA

DA BETLEMME A ROMA Dopo una vita di sacrifici e studio dei testi sacri Gerolamo morí a Betlemme nel 419 circa e fu sepolto, per sua volontà, nei pressi della Grotta della Natività, dove riposavano le spoglie delle consorelle Paola ed Eustochio. Pochi, tuttavia, conoscono le incerte vicende legate alla successiva traslazione delle sue reliquie da Betlemme a Roma nella basilica di S. Maria Maggiore. Quest’ultima, tradizionalmente eretta per volontà di papa Liberio (352-366) dopo la miracolosa nevicata della notte del 5 agosto del 356, non sembra essere anteriore all’età Nella pagina accanto: miniature raffiguranti scene della vita di san Gerolamo, dalla Bibbia di Carlo il Calvo. 846 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso: Roma, basilica di S. Maria Maggiore. San Gerolamo nello studio discorre con Paola ed Eustochio, particolare del mosaico di Jacopo Torriti. 1295 circa.

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di papa Sisto III (432-440). Il pontefice la consacrò alla divina maternità di Maria, riconosciuta proprio dal Concilio di Efeso del 431, e la fece decorare con magnifici mosaici in larga parte ancora oggi conservati. Intorno alla metà del VII secolo, sotto il pontificato di Teodoro I (642-649), la basilica è denominata nel Liber Pontificalis Sancta Maria in Praesepium o ad Praesepe, forse in relazione alla costruzione di una piccola cappella destinata ad accogliere alcune sacre reliquie giunte da Betlemme: quelle della mangiatoia dove venne adagiato Gesú Bambino (praesepium) e quelle delle fasce in cui fu avvolto alla nascita (puerperium). L’arrivo delle reliquie dalla Terra Santa, la fondazione della cappella del Presepio e il titulus di Sancta Maria ad Praesepe – ricordiamo per inciso che Teodoro era di Gerusalemme e scappò a Roma dopo l’invasione araba del 636-637 per poi divenire papa – sono tutti fattori verosimilmente legati alla prima conquista musulmana della Palestina. Nell’impossibilità per i pellegrini cristiani di frequentare i luoghi santi, la Cappella del Presepio sembra assurgere al ruolo della Chiesa della Natività di Betlemme e l’intera basilica romana di S. Maria Maggiore a quello di «Seconda Betlemme». La Cappella del Presepio fu nel tempo oggetto di particolare attenzione nell’ambito del rinnovamento della basilica promosso dal francescano papa Niccolò IV (1288-1292) che, nell’ultimo decennio del Duecento, affidò ad Arnolfo di Cambio la ridefinizione architettonica, decorativa e scultorea dell’antico oratorio. Della cappella duecentesca, pesantemente modificata dagli interventi voluti dal francescano Sisto V (15851590) alla fine del Cinquecento, rimangono scarne documentazioni grafiche, alcuni lacerti di decorazione architettonica e musiva e le splendide sculture di Arnolfo, oggi esposte nella basilica, dopo il restauro, sull’altare di S. Gerolamo nella Cappella di Sisto V. Singolarmente, però, i due momenti salienti della storia della Cappella del Presepe, dalla fondazione alla metà del VII secolo al suo radicale rinnovamento della fine del Duecento, sono legati ad altrettante date cruciali per la cristianità: la caduta della Terra Santa nelle mani degli Arabi dopo la conquista di Cesarea nel 640 e la definitiva perdita dei territori della Palestina nel 1291 dopo la caduta della roccaforte di Acri, ultimo baluardo della difesa dei crociati contro l’avanzata musulmana. Nel 1291 papa Niccolò IV, persa ogni speranza di riconquistare alla cristianità i luoghi santi, diede massimo risalto alle preziose reliquie del Presepe in S. Maria Maggiore, affidando ad Arnolfo la ristrutturazione della cappella che, seppure ampliata,


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STORIA • ROMA Nella pagina accanto: Betlemme, chiesa della Natività. Altare e memoria dell’antica sepoltura di Gerolamo. In basso: Roma, basilica di S. Maggiore. Mosaico nel monumento funebre di Consalvo Garcia Gudiel.

sembra aver mantenuto la sua originaria posizione nella navata destra della basilica. Non vi sono prove documentarie né certezze sull’epoca nella quale le reliquie delle ossa di Gerolamo furono traslate a Roma: nel VII secolo, insieme ai venerati resti del Presepe oppure nel Duecento? Se si accetta l’ipotesi della loro presenza nella basilica mariana, si può supporre che, alla fine del Duecento, per sottolineare questo rinnovato ruolo di S. Maria Maggiore come «seconda Betlemme», fortemente voluto dal francescano Niccolò IV, le venerate reliquie di Gerolamo siano state tumulate nei pressi dell’oratorio del Presepe, come forte richiamo all’originaria posizione della sua antica sepoltura a Betlemme accanto alla Grotta della Natività. Possiamo considerare una testimonianza suggestiva della memoria di Gerolamo nella basilica, già entro il

ne delle famiglie dei due giovani era quella di non disperdere l’incalcolabile fortuna destinata ai figli che avrebbero generato. Ma Melania avrebbe percorso altre strade. Propose fin dal principio al marito una vita di castità ma, di fronte alla 66 a r c h e o

1295, un particolare del grandioso mosaico dell’abside di Jacopo Torriti dedicato all’incoronazione della Vergine e storie mariane. Nel piedritto sulla sinistra è raffigurato san Gerolamo in cattedra che discute animatamente di Sacre Scritture con santa Paola Romana e sua figlia Eustochio, scena piuttosto rara e non riconducibile alle storie mariane dell’abside, quanto piuttosto alla venerazione nella basilica delle reliquie o della memoria dei santi Gerolamo e Mattia (nel piedritto di destra compare infatti quest’ultimo, dodicesimo tra gli apostoli dopo il tradimento di Giuda). Ricordiamo ancora che nel grande mosaico del tardo Duecento o dei primi del Trecento di Filippo Rusuti, sul prospetto frontale della basilica medievale rivestita nel Settecento dalla nuova facciata di Ferdinando Fuga, nel registro inferiore, sotto la scena centrale del Cristo in

riluttanza di quest’ultimo a rinunciare ad avere eredi, si impegnò a generare figli, ma li perse prematuramente. Il suo percorso spirituale l’aveva già portata a digiuni, preghiere e al distacco progressivo dalle convenzioni sociali. Dopo il par-

to prematuro del secondo figlio, nel quale rischiò la vita e perse il bambino, cominciò ad affermare la sua volontà in modo piú radicale. Indossò un abito quasi monacale, convinse Piniano a divenire suo «fratello spirituale», a vivere in castità e a


gloria tra i simboli degli Evangelisti, sul lato sinistro, a fianco di Maria e di san Paolo, compariva la figura di san Gerolamo quasi del tutto perduta, ma documentata da un disegno seicentesco. Indubbia è la posizione di straordinaria importanza attribuita a Gerolamo, che ha le stesse dimensioni della Vergine e degli apostoli. Ancora piú suggestivo, in rapporto alla Cappella del Presepe, è il mosaico nel monumento funebre di Consalvo Garcia Gudiel, cardinale vescovo di Albano tra il 1298 e il 1299 e arciprete della basilica. Il monumento, originariamente nella navata destra, nei pressi della cappella arnolfiana e successivamente spostato in fondo alla navata, fu realizzato, firmato e datato 1299 dallo scultore romano Giovanni di Cosma, artista profondamente influenzato da Arnolfo di Cambio. Entro l’arco trilobo del monumento, sopra la scultura

impiegare le loro ricchezze in opere di carità. Il fine era quello di raggiungere un ideale stato di povertà. L’opposizione di genitori e congiunti fu feroce. Le difficoltà nel liquidare le loro proprietà immobiliari e fondiarie sparse per tutto

giacente del defunto, c’è un mosaico eseguito probabilmente da un collaboratore di Torriti che raffigura la Madonna con il Bambino affiancata dai Santi Mattia e Gerolamo, entrambi secondo la tradizione sepolti nella basilica. Nel cartiglio di Mattia c’è scritto «ME TENET ARA PRIOR»: «un tempo ero sepolto in un altare o nell’altare» (quello principale della basilica?), nel cartiglio di Gerolamo c’è scritto: «RECUBO P(RAE)SEPIS AD ANTR(UM)», che si può tradurre «sono sepolto presso la grotta del Presepio». È un riferimento all’antica sepoltura a Betlemme o alla Cappella del Presepio di Arnolfo in S. Maria Maggiore? Se accettiamo quest’ultima ipotesi, molto suggestiva, bisogna ammettere che le sante ossa di Gerolamo dopo centinaia di anni, e a dispetto di tutto, erano tornate a Roma dove tutto per lui aveva avuto inizio.

l’impero erano enormi. I loro beni erano protetti dalle leggi vigenti, che non consentivano la dispersione dei grandi patrimoni. Solo a Roma la coppia possedeva verosimilmente il palazzo dei Valeri al Celio, talmente sontuoso che nes-

suno fu in grado in seguito di acquistarlo. Nel suburbio erano probabilmente propr ietar i di una enorme villa, nella quale lavoravano migliaia di schiavi (forse la villa già dei Quintili sull’Appia, secondo alcuni studiosi). Schiavi che, a r c h e o 67


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alla notizia che la coppia li avrebbe voluti liberare in massa e vendere la proprietà, si ribellarono, temendo di non aver piú protezione e speranza di sopravvivenza. La carità attuata senza considerare i difficili equilibri della società e del sistema produttivo dell’impero poteva causare dissesti economici e sociali incalcolabili. Dopo la morte di Valerio Publicola, che alla fine della sua vita aveva compreso la scelta radicale della figlia e l’aveva messa in guardia contro le difficoltà che avrebbe dovuto affrontare, la madre Albina e lo stesso Pi-

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niano seguirono convintamene la L’incontro è descritto nei minimi giovane nel suo percorso di ascesi. dettagli da Geronzio, biografo e confratello della santa, che afferma di averne appreso i particolari dalla MADRE SPIRITUALE A questo punto, a soli vent’anni, viva voce della protagonista. Melania assunse il ruolo di madre Violando il protocollo, Melania si spirituale dei suoi congiunti e di presentò a corte con il capo velato e «pater familias». Comprese che avreb- in abito monacale. Portava in dono be dovuto procurarsi l’appoggio gioielli preziosi, vasi di cristallo, serdella corte per superare i vincoli vizi in argento e magnifici abiti di legislativi. Nel 404 ottenne con il seta ricamata. Serena, nello sfarzo marito un’udienza privata con Se- della sua persona e al culmine del rena, nipote di Teodosio, moglie del suo potere, fu colpita dall’aspetto generale Stilicone e suocera dell’im- dimesso e serio della giovane e, properatore d’Occidente Onorio, all’e- fondamente impressionata, chiamò poca la piú potente donna di Roma. tutta la corte per assistere all’incon-


Betlemme, la basilica della Natività. Nella pagina accanto: Partenza di Santa Paola romana per la Terra Santa, olio su tela di Giuseppe Bottani. 1745. Milano, Pinacoteca di Brera.

tro. Fece sedere Melania sul suo trono d’oro e disse: «Venite a guardare quella che noi potevamo ammirare quattro anni fa nello splendore della sua dignità mondana, ora è divenuta adulta nella saggezza celeste (...) ha rigettato la delicatezza della sua educazione, l’agio della ricchezza, il fasto della dignità, in una parola tutti i piaceri di questa vita. Non ha avuto paura né della debolezza della carne, né della povertà volontaria (...) cosí sta provando a tutti noi, per mezzo delle sue opere, che il sesso femminile non è affatto inferiore al sesso maschile, se la decisione è ferma e in ossequio alla virtú secondo Dio». Melania illustrò i suoi progetti e Serena, sinceramente commossa, comprese che la maggior difficoltà per la giovane coppia sarebbe stata quella di superare i vincoli di legge nella vendita dei loro beni e di attuarne le dismissioni senza essere preda di truffatori. Decise di intercedere a loro favore presso Onorio per ottenere un privilegio imperiale e riuscí nell’intento. Questo decreto, del tutto straordinario e inusuale, ordinava ai magistrati delle diverse province nelle quali si trovavavano le proprietà dei due giovani di venderle d’autorità imperiale per darne loro il ricavato. La dismissione dei beni a Roma e in Italia si protrasse con difficoltà

per quattro anni, ma le loro opere di carità iniziarono subito e si concretizzarono in aiuti che giunsero a comunità, chiese e monasteri di Oriente e di Occidente. Nel 408 Melania, la madre e il marito, abbandonarono Roma e si ritirarono in una villa del suburbio. Nei mesi successivi il loro fu un lungo viaggio attraverso l’Italia meridionale dove cercarono di vendere al meglio i loro vasti possedimenti in Campania, Puglia e Sicilia. Inseguiti dalle notizie di devastazione e saccheggi dei Goti e del drammatico sacco di Roma del 24 agosto del 410, partirono per l’Africa, dove, in Numidia e Mauritania, possedevano immensi latifondi. Con l’aiuto di sant’Agostino, vescovo d’Ippona, compresero che le elargizioni di denaro senza un criterio, a chiunque chiedesse aiuto, non avrebbero raggiunto i risultati sperati. Agostino suggerí loro di donare ai monaci le rendite dei loro beni, piú che il ricavato delle vendite. E cosí fu. Si fermarono poi a Tagaste, vicino a Ippona, dove Melania affinò gli studi biblici con Alipio, famoso interprete delle Sacre Scritture. Nel 417, venduta gran parte delle proprietà in terra d’Africa, raggiungeranno la Palestina. Visitarono i luoghi santi con un lungo pellegrinag-

gio per poi ritirarsi a Gerusalemme. Dopo la morte della madre e del marito, Melania decise di costruire sul Monte degli Ulivi un monastero femminile, nel quale si ritirò con numerose consorelle. In seguito, fonderà anche un monastero maschile. La vita di questi eremi era scandita da regole severe di preghiera, digiuni e studio. E proprio l’analisi e la trascrizione dei testi sacri furono parte fondamentale della sua identità spirituale e intellettuale. Lo studio prevedeva anche la comparazione dei testi su manoscritti antichi, da lei ricercati con passione, per giungere a una conoscenza profonda delle Sacre Scritture.

PAROLE PIENE D’AMMIRAZIONE Ma torniamo di poco indietro nel tempo, verso la fine del IV secolo a Roma, dove incontriamo Albina, che san Gerolamo considera la madre spirituale di tutta la comunità dell’Aventino. Gerolamo ricorda Albina, discendente della nobile famiglia dei Marcelli e madre della futura santa Marcella, in una lettera del 384 indirizzata alla figlia (epistola XXXII), dove la chiama «nostra madre comune» e alla quale rivolge la sua riconoscenza «in quanto in una sola persona a r c h e o 69


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posso amare simultaneamente una cri- figli. Rimasta vedova nel 380, rifiu- famiglia e i figli e, con la sola Eustostiana e una madre». Ancora le inviò i tò nuove nozze e intraprese una chio, intraprese un lungo pellegrisuoi saluti nel 385 in un’accorata vita ascetica e di studio, frequentan- naggio in Egitto e Palestina, visitanlettera (epistola XLV), quando è do assiduamente la comunità di do tutti i luoghi santi, superando costretto a lasciare Roma e si con- Marcella sull’Aventino. fatiche e pericoli inimmaginabili: geda in lacrime dalle comunità di «Nobile per casato – afferma Gerola- «Che ardore meraviglioso! Che tempra Paola, Marcella e della stessa Albina, mo (epistola CVIII) – ma molto piú d’animo, appena appena immaginabile che aveva frequentato assiduamente nobile per santità; potente per le sue in una donna!», commenta Gerolae guidato spiritualmente nei suoi ricchezze, un tempo, ma ora maggior- mo. Poi si fermerà a Betlemme, anni romani tra il 382 e il 385. mente insigne per la povertà di Cristo; dove, con le ultime sostanze, fondò Le accuse contro di lui di una parte della stirpe dei Gracchi, discendente de- e organizzò, con regole severissime, del clero romano e le calunnie sui gli Scipioni, erede di Paolo del quale ha un monastero per le consorelle e suoi rapporti troppo stretti con la preso il nome (…), lei a Roma ha pre- uno maschile, che affidò alla direfutura santa Paola lo costrinsero a ferito Betlemme e ha fatto cambio di zione di Gerolamo. «Io desideravo che subire un processo canonico. Rico- tetti risplendenti d’oro con un po’ di fosse piú prudente nell’amministrazione nosciuto innocente, fu comunque misera grossolana argilla. (…) Quando dei beni di famiglia; ma lei, con la sua invitato a lasciare Roma, città alla il marito le mancò, lo pianse fino quasi fede piú vibrante, si rimetteva con tutta quale non farà piú ritorno. Si trasfe- a morirne lei stessa. A che scopo, allora, l’anima al Salvatore e in povertà di rirà ad Antiochia e poi in Palestina ricordare l’erogazione che fece ai poveri spirito seguiva il Signore nella sua poe di lí a poco venne raggiunto vertà, restituendogli quanto aveva a Betlemme da Paola e dalla ricevuto, facendosi povera per lui. figlia di quest’ultima Eustoraggiunse l’oggetto dei Paola lasciò Roma e, Ebbene, chio, seguace spirituale della suoi desideri: lasciò la figlia copermadre, considerata da Geroladebiti, tanto che non ha ficon la sola Eustochio, tanitodiadesso mo figura ideale e «prima giodi saldarli». intraprese un lungo vane della nobiltà romana che ha Gerolamo tratteggia anche le offerto a Roma lo spettacolo di sue doti spirituali e intellettuauna verginità consacrata a Dio» pellegrinaggio in Egitto li: «La Scrittura la sapeva a me(epistola XXII). Ne amava il senso letterale e Palestina, visitando moria. In tre anni, tra il 386 e il 389, perché – diceva – era il fondamentutti i luoghi santi l’ingente patrimonio della to della verità, ma preferiva andar nobile Paola fu impiegato dietro al senso spirituale, ed era nella costruzione di tre moquesto il tetto che le proteggeva nasteri a Betlemme: uno femminile, di quasi tutte le sue ricchezze del suo l’anima lungo la via ascetica. Finí poi per non lontano dalla basilica della Na- grande e nobile palazzo che tempo ad- costringermi a spiegarle l’Antico Testatività, uno maschile, affidato allo dietro era uno dei piú sontuosi? (…). mento che lei, assieme a sua figlia, rilesse stesso Gerolamo, e uno per i pelle- Cosí spogliava i figli, ma quando i pa- da capo. Io da principio, per un senso di grini. Gli studi e gli scritti di questi renti le rinfacciavano questo come colpa, modestia, mi rifiutai; ma poi, data l’insianni di Gerolamo devono dunque lei rispondeva che a essi lasciava l’eredi- stenza e le ripetute richieste, dovetti acmolto, se non tutto, al costante e tà piú considerevole: la misericordia di consentire a far loro da maestro su quanto sororale sostegno spirituale, intel- Cristo». Durante il Concilio di Ro- avevo imparato, non come autodidatta, lettuale ed economico di questa ma del 382 ebbe modo di conosce- con quella presunzione che è la peggior grande donna di Roma. Gerolamo re e ospitare Paolino vescovo di qualità per un docente, ma alla scuola di ne tracciò un commosso elogio fu- Antiochia ed Epifanio vescovo di illustri personalità della Chiesa. Se su un nebre in una lettera del 404 inviata Cipro: «Le loro virtú le misero a fuoco qualche punto ero esitante e finivo per alla figlia Eustochio, qualche mese il cuore e in poco tempo cominciò a pen- confessare candidamente la mia ignorandopo la morte della madre a Bet- sare di abbandonare la sua patria. Di- za, lei non si dava affatto per vinta; conlemme (epistola CVIII). menticò casa, figli, servitú, possedimenti, tinuava a farmi delle domande per coNata a Roma nel 347 da antica fa- tutto quanto dice relazione al mondo; la stringermi a dirle quale, fra le molte opimiglia senatoria, Paola aveva eredi- bruciava il desiderio di andarsene sola nioni che avevano una certa validità, era tato un grande patrimonio dal pa- – se si può dire – e senza seguito, nel secondo me la piú probabile. Un’altra dre Ceionio Albino, che aveva vaste deserto degli Antonio e dei Paolo». cosa ancora devo dire, che forse può semproprietà in Italia e in Epiro. Dal Come già aveva fatto Antonia Me- brare incredibile, a chi cerca di starle alla nobile marito Tossozio ebbe cinque lania, Paola abbandonò a Roma la pari: l’ebraico – che io fin da giovane ho 70 a r c h e o


imparato con grande fatica e sudando sette camicie per impossessarmene completamente – (…) pure lei ha voluto imparare e se ne è impossessata al punto da cantare i Salmi in ebraico e da parlarlo senza la minima inflessione latina; è un fatto questo che constatiamo tutt’oggi nella santa Eustochio».

UN RUOLO TUTT’ALTRO CHE SECONDARIO Nella magnifica Bibbia di Carlo il Calvo conservata alla Bibliothèque nationale de France di Parigi, prodotta nell’846 circa nell’abbazia di S. Martino di Tours, nel foglio miniato dedicato alla vita di Gerolamo, nella scena centrale, sono ritratte chiaramente Paola ed Eustochio, ricordate nell’iscrizione sottostante. Le due donne, con il capo velato, sono raffigurate mentre esaminano con attenzione manoscritti e rotuli e li porgono poi a Gerolamo, con il quale sembrano discuterne animatamente il contenuto. Alle spalle di Gerolamo alcuni monaci trascrivono verosimilmente i testi in latino sotto dettatura. Nella porzione inferiore della pagina Gerolamo distribuisce ai monaci la Bibbia in latino per diffonderla in tutto l’Occidente cristiano. Paola quindi fu in grado di sostenere Gerolamo anche come intellettuale e studiosa nell’immane lavoro di traduzione e interpretazione della Bibbia dal greco e dall’ebraico in lingua latina, impresa che consentí la diffusione della Bibbia fino ad allora poco accessibile nel mondo romano. Non è improbabile che il suo apporto non si sia limitato a un ruolo secondario, vista la sua profonda preparazione e conoscenza delle antiche lingue nelle quali erano sopravvissuti i testi della Bibbia, che andavano decodificati, comparati, interpretati e discussi. La stessa santa, con la figlia Eustochio, si deSanta Marcella, affresco di Bernardino Luini. 1516-1518 circa. Milano, Pinacoteca di Brera. a r c h e o 71


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LA DISTRUZIONE DELL’AVENTINO All’inizio del V secolo il raffinato quartiere residenziale dell’Aventino venne quasi completamente distrutto. Le sue ricchezze e il richiamo dei suoi magnifici edifici pubblici e privati furono la causa della sua rovina. Roma aveva già da tempo perduto l’effettiva funzione di centro del potere. Nel III secolo, con Diocleziano, la corte imperiale si era trasferita a Milano, città che nel 395 divenne la capitale ufficiale dell’impero d’Occidente dopo la divisione attuata da Teodosio tra la parte orientale e occidentale dell’impero. Nel 405 Ravenna assunse il ruolo di centro politico e militare. Roma, trascurata e senza piú difese, subí un violento assedio dei Goti nel 408 e nel 409. I Romani cercarono di riscattare la propria vita a peso d’oro, versando ai barbari quantità enormi di beni preziosi. Ma nel 410 l’imperatore Onorio rifiutò le condizioni di pace imposte da Alarico e abbandonò Roma alla violenza degli aggressori. Le conseguenze furono devastanti. Con la città, l’Aventino venne pesantemente saccheggiato e poi rovinato con particolare accanimento: subí rapine, devastazioni e incendi. Le uccisioni furono numerose e pochi abitanti vennero risparmiati. Alla violenza dei barbari seguí lo sciacallaggio di schiavi senza piú padroni, malfattori e fuggitivi. Fu interrotto ogni segno di vita e l’abbandono dei luoghi fu la conseguenza piú grave e duratura. Quel «tempo di lacrime», per sant’Agostino, era lo Incisione raffigurante i Goti di Alarico, che si danno al saccheggo di Roma nel 410, dall’opera di Georges de Scudery Alaric ou Rome vaincue, poème héroïque scritta. Parigi, 1654.

dicò nell’ultima parte della sua vita a ricopiare i manoscritti della versione latina con grande dedizione per favorirne la conoscenza e la circolazione. Paola morí nel 404 a Betlemme, amata e venerata già come una santa. Venne sepolta accanto alla Grotta della Natività, dove le dedicarono alcune iscrizioni ancora oggi esistenti e dove in seguito furono sepolti la figlia Eustochio e lo stesso Gerolamo.

SANTA MARCELLA Figlia di Albina (da non confondere quest’ultima con la madre di Melania la giovane), Marcella era anch’es-

scontato epilogo delle colpe del paganesimo e del mondo romano che lo aveva incarnato. Mentre Gerolamo, che ben conosceva Roma e l’Aventino e le persone care che vi avevano vissuto, scrive da Betlemme in una lettera a Principia nel 413: «Arriva una notizia terribile da Occidente: Roma è assediata, a prezzo d’oro viene riscattata la vita dei cittadini, ma una volta spogliati sono di nuovo accerchiati e cosí oltre ai loro beni perdono anche la vita. La voce mi muore in gola e i singhiozzi interrompono le parole mentre detto. La città che aveva conquistato l’universo intero cade sotto l’occupazione dei nemici, anzi muore di fame prima che di spada: è un miracolo che se ne siano trovati da far prigionieri» (Epistola CXXVII). Rodolfo Lanciani afferma che in quei giorni di terrore l’Aventino, il quartiere piú aristocratico della città, fu anche quello che subí i danni maggiori: «Il volto del colle mutò completamente. Si formò un notevole accumulo di detriti, assumendo spessore di consistente strato di macerie che andarono a sovrapporsi alle costruzioni e ricostruzioni che in precedenza vi s’erano avvicendate. Il tempo fece il resto, poiché non s’ebbe la forza né s’ebbero i mezzi per ripristinare alcunché del precedente abitato; mancarono soprattutto gli uomini interessati a qualche operazione del genere, cancellati dal tragico evento».

sa dotata di ingenti ricchezze. Rimasta vedova giovanissima rifiutò nuove nozze e decise di seguire un ideale spirituale, fondando nella sua casa sull’Aventino una comunità di vedove e vergini che desideravano votarsi liberamente a Dio. Della vita della santa ci parla ancora Gerolamo in una epistola del 413 scritta da Betlemme alla vergine Principia, erede spirituale di Marcella (epistola CXXVII). Si erano incontrati a Roma nel 382 e Marcella era rimasta affascinata dalla santità e dalla scienza di Gerolamo. La sua dimora sull’Aventino era diventata in breve tempo luogo di incontro e di studio della Bibbia, frequentato dalla comunità di Paola e dai sacerdoti romani. Marcella era molto colta e una profonda conoscitrice dei testi sacri. Gerolamo ricorda come «non venne mai da me senza

interrogarmi su qualche passo della Scrittura; e non si arrendeva soddisfatta alla prima spiegazione, bensí mi sottoponeva altre questioni, non per il gusto di disputare, ma per imparare, attraverso le domande fatte, le soluzioni a quelle obiezioni che lei capiva si sarebbero potute opporre» (epistola CXXVII). Nonostante i ripetuti inviti della cugina Paola, di Eustochio e di Gerolamo a unirsi a loro a Betlemme, Marcella rimase a Roma a gestire la sua comunità di donne pie e sapienti, sostenendo dalla capitale Gerolamo anche nella polemica contro Origene e gli origenisti. Il fascino della sua personalità e del suo insegnamento traspare nella lettera del 392/93 che le inviano Paola ed Eustochio (attribuita a Gerolamo), con la quale la supplicano di abbandonare Roma per raggiungerle in Terra Santa (epistola XLVI): a r c h e o 73


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La Fontana del Mascherone in piazza Pietro d’Illiria, realizzata nel 1936 da Antonio Muñoz, che assemblò un mascherone cinquecentesco e una vasca in granito d’epoca romana. A destra: il clivo di Rocca Savella, sull’Aventino. Il tracciato riprende un percorso di epoca romana, mentre il suo nome attuale deriva dal fortilizio qui costruito nel Medioevo dai Savelli e oggi non piú esistente.

«Tu sei stata la prima a far sprizzare la scintilla sotto il nostro desiderio incosciente; ci hai stimolate con la parola e con l’esempio a questa ascesi e, da buona chioccia, ci hai strette come pulcini sotto le tue ali. Come puoi lasciarci svolazzare senza controllo, lontane dalla madre, in balia del terrore del falco e dell’angoscia continua di ogni ombra di uccello che ci sorvola? Purtroppo siamo lontane e non possiamo far altro che rivolgerti accorate preghiere per esprimerti il nostro desiderio, magari con lacrime e singhiozzi: facci riavere fra noi la nostra Marcella; fa in modo che quella creatura cosí mite, cosí soave, piú dolce d’ogni miele e d’ogni essenza si lasci piegare dal loro 74 a r c h e o


desiderio, non corrughi con tristezza la fronte, dal momento che è stata proprio la sua affabilità a spingerle al suo stesso ideale di vita». Nel 410 la casa di Marcella sull’Aventino venne messa a ferro e fuoco dalla furia dei Goti e lei stessa subí gravissimi maltrattamenti. I barbari cercavano oro e tesori che lei aveva da tempo profuso in opere di carità. Rifugiatasi in S. Paolo fuori le Mura con la nipote Principia, di lí a poco morí. Gerolamo nella lettera del 413 ne tracciò un ritratto umanissimo (epistola CXXVII).

GRADITA A DIO Significativo è il brano nel quale descrive le sue doti di vedova cristiana di alto rango a confronto con le matrone pagane: «Il mondo pagano per la prima volta restò confuso di fronte a una simile donna, poiché a tutti fu manifesto che cosa era effettivamente la ve-

dovanza cristiana che essa faceva risplendere con la sua rettitudine interiore e col suo contegno. Le vedove pagane normalmente si dipingono il volto con il rossetto o con la biacca, vogliono spiccare nelle loro vesti di seta brillante, avere gemme splendenti, portare collane d’oro attorno al collo, appendere alle orecchie perforate perle preziose del Mar Rosso e profumarsi di muschio; mostrano insomma la loro gioia per essersi finalmente liberate dal dominio dei mariti e vanno in cerca d’altri (…). La nostra vedova indossava vestiti atti a proteggerla dal freddo e non tagliati apposta per metterle a nudo le membra. L’oro non lo poteva sopportare (…) preferiva nasconderlo nel ventre dei poveri (…). Le vesti che indossava erano tali da richiamarle alla mente la tomba e offriva sé stessa come ostia spirituale, viva, gradita a Dio». Gerolamo la giudica una donna sapiente, profonda conoscitrice delle Sacre Scritture, quasi un suo alter ego nell’interpreta-

zione dei testi sacri, e afferma che «tutto quel sapere che ho potuto accumulare in me con uno studio assiduo e che ho trasformato quasi in una seconda natura mediante un lungo esercizio, essa l’aveva imparato, se n’era abbeverata e se n’era impadronita a tal punto che, dopo la mia partenza, se qualche disputa sorgeva a proposito di un testo della Scrittura, si ricorreva al suo giudizio». Di queste donne cristiane, colte e coraggiose si è perso quasi il ricordo, ma credo sia importante interrogarsi sul motivo per il quale la storiografia, anche quando ricostruisce le vicende di grandi uomini come san Gerolamo, le abbia quasi dimenticate o abbia sottovalutato l’importanza del loro fondamentale contributo e del loro esempio. Ringrazio Francesca Ceci e ancora Giuseppe, Paola e Livia Di Gioia per la loro preziosa collaborazione. PER SAPERNE DI PIÚ

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Silvano Cola, San Gerolamo, Le Lettere, Introduzione, traduzione, note e indici di Silvano Cola, Voll.IIV, Città Nuova Editrice, Roma 1997 Rodolfo Lanciani, La distruzione di Roma, ediz. postuma, Armando Curcio Editore Roma, 1986. Vincenzo Di Gioia, L’Aventino. Un colle classico tra antico e moderno, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 2004 Andrea Giardina, Carità eversiva. Le donazioni di Melania la giovane e gli equilibri della società tardo romana, in Studi Storici, 29, 1988; pp. 127-142. Andrea Giardina, Melania la santa, in Augusto Fraschetti (a cura di), Roma al femminile, Editori Laterza, Roma-Bari 1994; pp. 259-285. Giovanni Santaniello (a cura di), Paolino di Nola. Le lettere, Strenae Nolane, 4-5, I-II, LER, Napoli-Roma 1992 Tomas Špidlík, Melania la Giovane. La Benefattrice (383-440), Jaca Book, Milano 1996 a r c h e o 75


MUSEI • POLONIA

SENSO DI WŁADISŁAW PER L’ANTICO IL

IL MUSEO DEI PRINCIPI CZARTORYSKI, A CRACOVIA, È UNA SIGNIFICATIVA TESTIMONIANZA DEL GUSTO COLLEZIONISTICO DI STAMPO OTTOCENTESCO, IN QUESTO CASO, PERÒ, ACCOMPAGNATO DAL DESIDERIO DI DIVULGARE LA CONOSCENZA DELL’ARTE ANTICA di Dorota Gorzelany

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a Galleria d’Arte Antica allestita nell’Arsenale del Museo dei Principi Czartoryski, una delle sedi del Museo Nazionale di Cracovia, custodisce una collezione di arte antica senza eguali nella Polonia meridionale e che comprende oggetti provenienti da quasi tutte le culture del bacino mediterraneo. Nel maggio 2021, l’esposizione è stata aperta al pubblico in un nuovo allestimento, nell’ambito di una delle fasi della ristrutturazione completa del museo. L’ampia sala, con la sua esposizione open space, vuole evocare l’idea di un viaggio nel tempo e nello spazio

intorno al Mediterraneo. Percorrendo la sala, contraddistinta da un tenue e accogliente colore verde chiaro, il visitatore può correlare i fenomeni culturali, notare le somiglianze e le differenze tra opere che si sono susseguite, o tra quelle sorte nel medesimo periodo in diversi paesi del Mediterraneo. Il viaggio, circolare, parte dall’Egitto faraonico sino all’Egitto tardo-antico, passando per l’Italia etrusca e romana, la Grecia, il Medio Oriente. Il nucleo principale dell’esposizione è formato dagli oggetti antichi acquisiti dal principe Władysław Czartoryski (1828-1894) nella se-

In alto: ritratto del principe Władysław Czartoryski (1828-1894), olio su tela di Teodor Axentowicz. 1892 circa. Cracovia, Museo dei Principi Czartoryski

Salvo diversa indicazione, tutte le opere riprodotte in questo articolo sono esposte nella Galleria d’Arte Antica del Museo dei Principi Czartoryski, una delle sedi del Museo Nazionale di Cracovia. Sarcofago in terracotta, con figura di donna sul coperchio, da Tuscania. Produzione etrusca, fine del III-inizi del II sec. a.C. a r c h e o 77


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conda metà del XIX secolo, anche se la tradizione collezionistica familiare prese avvio all’inizio dello stesso secolo, quando sua nonna, la principessa Izabela Czartoryska (1746-1835), fondò a Puławy il primo museo polacco aperto al pubblico. L’istituzione era ospitata in due edifici: il Tempio della Sibilla, sul modello del Tempio di Vesta a Tivoli, e la Casa Gotica. La collezione della principessa era di natura storico-romantica, in contrasto con l’idea del pr incipe Władysław di creare un museo come «ente scientifico», il cui scopo era quello di diffondere la conoscenza dell’ar te. Inaugurato a Cracovia nel 1876, in un’esposizione in due sale, offriva ai visitatori l’opportunità di conoscere un gruppo forse non numeroso, ma rappresentativo di oggetti della cultura egizia, greca, etrusca e romana. La raccolta di antichità r iunita dal pr incipe Władysław Czartoryski si basa su oggetti comprati in vendite all’asta di famose collezioni d’arte – come quelle appartenute a Isidore-Hippolyte de Janzé o Alessandro Castellani – e materiali acquisiti in Egitto e in Italia.

UNA PREZIOSA RETE DI CONOSCENZE Czartoryski fece numerose conoscenze nel mondo antiquario italiano, grazie al contatto con il collezionista, archivista e paleografo francese Charles Casati (18331919). Incontrò cosí Riccardo Mancini, un antiquario che scavava a Orvieto dal 1877.Vasi di importazione greca da lui ritrovati nella 78 a r c h e o

Nella pagina accanto: il Tempio della Sibilla a Puławy, nel quale Izabela Czartoryski inaugurò il primo museo polacco aperto al pubblico. In basso: Izabela Czartoryska, olio su tela di Alexander Roslin. 1774. Cracovia, Museo Nazionale.

necropoli di Cannicella e altri oggetti rappresentativi dell’arte etrusca giunsero a Cracovia nel 1888. Tra questi, possiamo menzionare un’anfora etrusca del Pittore di Micali (500 a.C. circa), un’anfora greca assegnata a un artista del Gruppo di Leagros (fine del VI secolo a.C.) e vari vasi di bucchero. Mancini fece da intermediario anche per l’acquisto di reperti provenienti da altre regioni d’Italia, come vasi di botte-

ghe campane, ma anche sarcofagi in terracotta provenienti da Tuscania con l’immagine del defunto a banchetto sul coperchio (II secolo a.C.), che colpirono particolarmente Czartoryski durante la sua visita a Orvieto nel 1884. Tuttavia, gli oggetti etruschi di maggior valore provengono da altre fonti. Czartoryski acquisí successivamente oreficerie greche, etrusche e romane, principalmente da Alessandro Castellani. Della collezione originaria, composta da circa 160 oggetti, solo una dozzina di pezzi è sopravvissuta dopo la seconda guerra mondiale. Fra questi vi sono due bracciali in oro dell’VIII-VII secolo a.C. finemente decorati a filigrana e granulazione (vedi foto alle pp. 80/81). Di particolare pregio è anche uno specchio in bronzo con la scena della liberazione di Prometeo da parte di Eracle e Castore (metà del IV secolo a.C.; vedi foto a p. 81). Realizzato con una rara tecnica a rilievo convesso, suscitò, per lungo tempo, dubbi tra gli studiosi riguardo la sua autenticità. Il principe Czartoryski lo acquistò alla vendita della collezione di Julien Gréau tenutasi nel 1885 all’Hôtel Drouot di Parigi. Tuttavia, le fonti archivistiche non lasciano dubbi: lo specchio fu rinvenuto nel maggio del 1831 durante gli scavi, ben documentati e che restituirono un gran numero di reperti di elevata qualità, condotti da Luciano Bonaparte principe di Canino (1775-1840) nella necropoli di Vulci. Da qui proviene anche la kylix a figure rosse (inizio V seco-


lo a.C.) dipinta da Onesimos, scoperta nel marzo 1829. Il conservatore del Museo Nazionale di Napoli, Giuseppe Mele, e suo figlio Augusto, attivi sul mercato antiquario, furono importanti interlocutori di Czartoryski in Ita-

lia. Per piú di vent’anni, il principe comprò da loro ceramiche a figure nere e rosse e statuette di terracotta, che formano una parte essenziale degli oggetti scelti per documentare la cultura greca. La pittura vascolare offre peraltro l’opportu-

nità di vedere da vicino la vita quotidiana dei Greci e scoprire il mondo dei loro miti, come nel caso della scena dell’infanticidio commesso dal re Licurgo di Tracia, che orna la kalpis di un anonimo tardo manierista (460-450 a.C.;


MUSEI • POLONIA

vedi foto a p. 82). Tra i reperti ellenistici, vale la pena di ricordare i frammenti di sculture greche, rari nelle collezioni polacche, con teste di efebi e la testa di donna ritagliata da una stele funeraria, acquistate dal direttore del museo, Marian

Sokołowski nel 1884 durante un viaggio in Panfilia e Pisidia. Pochi frammenti di scultura sono entrati a far parte della collezione di arte romana, che comprende soprattutto oggetti di artigianato: si tratta vasi di vetro, lampade a

In alto: il Museo dei Principi Czartoryski a Cracovia. In basso: bracciale in oro. Produzione etrusca, VIII-VII sec. a.C.

Władysław Czartoryski comprò pregiate oreficerie da Alessandro Castellani 80 a r c h e o

olio, figure di divinità in bronzo e un mosaico del II secolo proveniente da una tomba di Ostia, nonché frammenti di affreschi. La prima opera scultorea è una statua di Venere del tipo Medici, databile agli inizi del I secolo, che il prin-


cipe acquistò a Napoli dall’antiquario Vincenzo Barone, mentre le altre – torsi da Ostia e imitazioni del XIX secolo – provengono da Roma, cosí come tre frammenti di sarcofagi paleocristiani. Le parti rimanenti di due di essi, il sarcofago con la scena della traditio legis e il sarcofago con gli Apostoli, sono conservate al Museo Pio Cristiano di Roma, dove è possibile ammirare la loro ricostruzione con copie degli elementi di Cracovia. La maggior parte delle sculture e dei rilievi romani della Galleria d’Arte Antica, tuttavia, proviene da un’altra collezione di Cracovia. Gli oggetti, infatti, furono acquistati dal conte Artur Potocki e da sua moglie Zofia nel 1829, a Roma, presso il noto antiquario Ignazio Vescovali, che commerciava in antichità, opere d’arte moderna e raccolte di sculture. Nel 1940 le opere furono depositate nel Museo dei Principi Czartoryski per proteggerle dal saccheggio da parte dei Tedeschi.

RITRATTI REALI E IDEALIZZATI Questi pezzi arricchiscono in modo sostanziale l’allestimento della Galleria d’Arte Antica, costituito

In alto: specchio in bronzo sul quale è raffigurata la liberazione di Prometeo da parte di Eracle e Castore. Produzione etrusca, metà del IV sec. a.C.

da un insieme di statue in posizione centrale, ma completano anche la collezione di busti esposti nella vetrina, tra cui spiccano un ritratto idealizzato di Alessandro Magno del II secolo, un’immagine realistica di un anziano romano (50-30 a.C.) e due ritratti di mummie (prima metà del III secolo). I dipinti che ritraggono un uomo e una donna romani, unici nella collezione polacca, furono acquistati da Władysław Czartoryski durante il suo viaggio in Egitto, intrapreso per motivi di salute, nell’inverno del 1889/90. Il suo interesse per l’arte egizia si manifestò tardi e la maggior parte della collezione egizia del Museo proveniva da acquisti effettuati non personalmente, ma da agenti che coma r c h e o 81


MUSEI • POLONIA L’allestimento della Galleria d’Arte Antica del Museo Czartoryski, Museo Nazionale di Cracovia. In basso: kalpis greca attribuibile a un artista tardomanierista. 460-450 a.C. Nella pagina accanto, in basso: affresco con scena sacroidilliaca. Terzo venticinquennio del I sec. a.C.

pravano da intermediari arabi. Cuore della sezione egizia sono un sarcofago e un cartonnage con la mummia di Asetemachbit, sacerdotessa del dio Amon, moglie del sacerdote del dio Min nel tempio di Tebe (IX secolo a.C.), nonché il sarcofago con la mummia di Tachenemti (metà del VII secolo a.C.). L’insieme dei manufatti egizi è completato da mummie di animali, stele funerarie, statuette di divinità, frammenti di papiri con il testo del Libro dei Morti e oggetti di uso quotidiano.

DONAZIONI DI PREGIO I pochi materiali provenienti dalla Mesopotamia comprendono sigilli, frammenti di rilievi e coni di fondazione, nonché tavolette cuneiformi. La maggior parte dei reperti del Vicino Oriente proviene da donazioni fatte al Museo Nazionale di Cracovia. Si tratta di ceramiche cipriote (2000-30 a.C.) e palestinesi 82 a r c h e o


(1700-1550 a.C.) rinvenute, tra l’altro, durante gli scavi a Tell el-Fara, vicino a Nablus, nel sud della Palestina, guidati da William Matthew

Flinders Petrie nel 1930 e nel 1932. Unica in Polonia è la collezione di manufatti cartaginesi donati al Museo Nazionale da Antoni Grubissich

de Keresztur (1853-1922). Si tratta di gioielli punici in oro, statuette di terracotta, ceramiche, lampade a olio e stele votive del tofet di Salammbò (300-146 a.C.). La Galleria d’Arte Antica del Museo dei Principi Czartoryski, parte del Museo Nazionale di Cracovia, riflette l’idea del principe Władysław Czartoryski di creare un museo come luogo di educazione alle culture antiche, ma è anche una testimonianza del collezionismo polacco nato nella seconda metà del XIX secolo a opera di nobili e personalità in esilio e dello sviluppo della museologia del Paese est-europeo. DOVE E QUANDO Museo Nazionale di Cracovia, Museo Czartoryski Cracovia, Ul. Pijarska Orario ma-do, 10,00-18,00; chiuso il lunedí Info https://mnk.pl/ a r c h e o 83


SPECIALE • LARGO ARGENTINA

QUELL’AREA SACRA ALL’OMBRA DELLA TORRE DOPO LUNGHI ANNI DI ATTESA È STATA RESA ACCESSIBILE AL PUBBLICO UNA DELLE AREE ARCHEOLOGICHE PIÚ AFFASCINANTI – E POCO CONOSCIUTE – DI ROMA ANTICA. NUOVI PERCORSI DI VISITA E AREE ESPOSITIVE REALIZZATE DALLA SOVRINTENDENZA CAPITOLINA PERMETTONO OGGI DI ACCEDERE AI MONUMENTI DI LARGO ARGENTINA. E, INSIEME ALLA PRESENTAZIONE DI UNA SERIE DI IMPORTANTI RESTAURI, APRONO ALLA COMPRENSIONE DI UNA STORIA BIMILLENARIA, CHE DALL’ETÀ REPUBBLICANA GIUNGE FINO AI GIORNI NOSTRI a cura della redazione, con un intervento di Claudio Parisi Presicce Roma, area sacra di largo Argentina. La testa della statua colossale di una divinità femminile, forse Feronia, rinvenuta tra il 1926 e il 1928, nel nuovo allestimento del sito. 84 a r c h e o


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SPECIALE • LARGO ARGENTINA

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uando nel 1926 fu intrapresa la demolizione del quartiere racchiuso nel quadrilatero di via del Teatro Argentina, via Florida, via San Nicola de’ Cesarini e corso Vittorio Emanuele II per la costruzione di nuovi edifici, ben presto iniziarono ad affiorare strutture antiche di tale rilevanza da indurre il Governatorato di Roma a sospendere i lavori e a estendere le ricerche archeologiche. Nasce cosí l’Area Sacra di largo Argentina, un complesso di edifici sacri repubblicani che occupa un ruolo di primissimo piano nel panorama della topografia romana, e al cui fascino contribuisce la connessione con l’assassinio di Giulio Cesare, episodio celeberrimo che andò in scena nella Curia di Pompeo i cui resti sono ancora visibili nel basamento alle spalle dei templi centrali. Da quel 21 aprile del 1929, giorno in cui venne inaugurata, l’Area Sacra si è offerta agli sguardi dei passanti romani e stranieri, che affacciandosi dal piano stradale possono osservare strutture di cui si coglie l’impatto visivo, ma che sono di non facile lettura, spazialmente e spiritualmente distanti. Il lavoro di valorizzazione intrapreso dalla Sovrintendenza Capitolina – e reso possibile grazie all’atto di mecenatismo della Maison Bulgari – ha avuto come primo obiettivo quello di annullare le distanze e far rivivere da vicino l’area archeologica al pubblico, che ha ora l’opportunità di toccare quasi con mano la sua storia millenaria percorrendo un itinerario corredato di pannelli informativi e arricchito di nuove aree espositive. Quest’ultime, allestite nel portico della medievale Torre del Papito e nel limite orientale dell’Area Sacra sotto il piano stradale di via di San Nicola de’ Cesarini, ospitano una selezione dei numerosi reperti provenienti dagli scavi e dalle demolizioni operati nell’area sotto il regime fascista, e che da allora erano stati conservati in deposito. Frammenti di statue colossali di divinità femminili, epigrafi, decorazioni architettoniche, sarcofagi, ma anche sculture di età medievale, lapidi dalla scomparsa chiesa di S. Nicola de’ Cesarini e materiali antichi reimpiegati in età moderna sono ora restituiti alla fruizione del visitatore, testimoniando le fasi di vita e le trasformazioni avvenute nel corso dei secoli. Per annullare le barriere fisiche e culturali e farlo nella dimensione piú ampia possibile, grande attenzione è stata dedicata al tema dell’accessibilità: le persone con disabilità motoria o mobilità ridotta possono entrare nell’area attraverso l’utilizzo di una piattaforma elevatrice, mentre all’interno il percorso su passerella rende agevole la visita eliminando ogni dislivello o salto di quota. Supporti tattili, come i due grandi pannelli posizionati all’ingresso dell’area e nello spazio espositivo orientale, sono pensati per le persone ipovedenti e non vedenti, fornendo informazioni sulla posizione dei monumenti e consentendo la lettura tattile di alcuni reperti, scansionati in 3D e riprodotti. Gli interventi effettuati, pur nella loro rilevanza, si pongono come punto di partenza di un programma che mira ad ampliare ulteriormente il percorso di visita e gli spazi espositivi attuali, dando finalmente completa espressione al valore storico, archeologico e artistico dell’Area Sacra di largo Argentina. Claudio Parisi Presicce

Morte di Giulio Cesare, olio su tela di Vincenzo Camuccini. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. Commissionato all’artista nel 1793, il dipinto fu ultimato solo nel 1818. a r c h e o 87


SPECIALE • LARGO ARGENTINA

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n nuovo percorso di visita, dopo accurati interventi di restauro che hanno permesso il recupero e la valorizzazione di nuovi spazi, permette finalmente al pubblico di conoscere l’area sacra di largo Argentina, uno dei siti archeologici piú importanti e significativi per ricostruire la storia di una parte della città, leggendone le fasi di vita dall’età repubblicana attraverso l’epoca imperiale e medievale, fino alla riscoperta avvenuta nel secolo scorso con le demolizioni degli anni Venti. I lavori, condotti sotto la direzione scientifica della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, sono stati resi possibili grazie a un atto di mecenatismo da parte della Maison Bulgari, finanziatrice del progetto. Il principale obiettivo dell’allestimento è stato quello di garantire a tutti l’accessibilità al sito; grazie a un percorso su passerella completamente privo di barriere architettoniche. Da via di San Nicola de’ Cesarini, i visitatori possono vedere l’area archeologica allo stesso livello delle strutture, prima visibili soltanto dall’alto del piano stradale. Si possono cosí apprezzare a distanza ravvicinata i resti dei quattro templi e degli altri edifici compresi nell’area. Una piattaforma elevatrice consente l’accesso alle persone con mobilità ridotta, mentre all’interno sono stati eliminati tutti i dislivelli e salti di quota, rendendo agevole la visita anche in sedia a rotelle o con passeggini.

I PILASTRI DELL’IMPERATORE Elemento di novità sono i due spazi espositivi allestiti nel portico della Torre del Papito e negli ambienti al di sotto del lato stradale di via San Nicola de’ Cesarini. Questi sono caratterizzati da una serie di pilastri rivestiti di stucco, realizzati dall’imperatore Domiziano dopo l’incendio dell’80 d.C., che delimitavano l’area nel lato est. Questi pilastri, decorati sul lato posteriore da semicolonne, fiancheggiavano una via porticata (dove forse si svolgevano i percorsi trionfali in epoca repubblicana), che separava l’area sacra dalla Porticus Minucia (ora in parte conservata in via delle Botteghe Oscure). Ancora ben conservata è anche la pavimentazione originale in lastre di travertino. Gli interventi hanno consentito di recuperare e valorizzare questo spazio, precedentemente adibito a deposito. I reperti qui esposti, provenienti dagli scavi e dalle demolizioni del secolo scorso, disposti 88 a r c h e o

su cinque pannelli, comprendono frammenti di rilievi, epigrafi, sarcofagi, decorazioni architettoniche di epoca romana. Altri tre pannelli presentano elementi scultorei di età medievale, lapidi tombali e lastre pavimentali costituite da materiali antichi reimpiegati, provenienti dalla chiesa di S. Nicola de’ Cesarini. Concludono il percorso espositivo due teste marmoree di statue colossali appartenenti a divinità venerate nell’area, una di divinità maschile, l’altra pertinente a un acrolito raffigurante forse Feronia, parte della statua di culto del tempio C e alcune antefisse facenti parte delle decorazioni terminali delle falde dei tetti dei templi. Per raccontare al meglio la storia del sito e delle trasformazioni avvenute nel corso dei secoli, l’intero percorso di visita è dotato di pannelli illustrativi con testi in italiano e in inglese e di un ricco corredo fotografico. Per le persone ipovedenti e non vedenti sono stati realizzati due grandi pannelli tattili, in italiano, inglese e braille con le indicazioni dell’intero complesso e dei singoli monumenti e con la lettura tattile di due reperti scansionati in 3D: un frammento di lastra con uccellino che becca un frutto e la testa di una statua colossale di divinità femminile, verosimilmente identificabile con Feronia. È stata realizzata una nuova illuminazione su tutta la passerella e negli espositori situati nello spazio museale, mentre a livello stradale

L’area sacra di largo Argentina in una foto aerea e la sua ubicazione nel centro storico di Roma.


è stato illuminato il portico della Torre del Papito. L’offerta didattica comprende inoltre l’organizzazione di visite guidate per le scuole e i visitatori, con la possibilità anche della presenza di un interprete in lingua LIS (Lingua dei Segni Italiana).

LA SCOPERTA La scoperta, inaspettata, dell’Area Sacra avvenne durante le demolizioni seguite alle grandi trasformazioni urbanistiche previste nei Piani Regolatori che a partire dal 1870 e fino alla prima guerra mondiale interessarono molte zone di Roma, divenuta Capitale d’Italia. Nel 1917, con l’approvazione della variante al Piano Regolatore del 1909 che prevedeva di collegare i due assi stradali di corso Vittorio Emanuele II e via Arenula, si progettò infatti di demolire l’intero isolato attorno alla chiesa di S. Nicola de’ Cesarini. Tra il 1926 e il 1929 fu pertanto completamente demolito l’intero quartiere compreso tra via del Teatro Argentina, via

LA TORRE DEL VESCOVO Il termine Argentina deriva dal nome latino di Strasburgo, Argentoratum, città di origine del vescovo Johannes Burckardt, cerimoniere di papa Alessandro VI Borgia; il prelato abitava in un palazzo di via del Sudario, che comprendeva la torre da lui chiamata Argentina, oggi sede del Museo Teatrale, nei pressi del Teatro Argentina.

Florida, via di San Nicola de’ Cesarini e corso Vittorio Emanuele II, per fare posto a un nuovo isolato costituito da un grande edificio con tre corpi di fabbrica. L’importanza dei resti archeologici che man mano emergevano (la presenza dei templi A e B era già nota: il tempio A era stato individuato all’inizio del XVI secolo da Antonio da Sangallo sotto la chiesa di S. Nicola de’ Cesa(segue a p. 92) a r c h e o 89


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GIUSEPPE MARCHETTI LONGHI, UNA VITA PER L’ARCHEOLOGIA Uno dei protagonisti delle vicende che porteranno alla scoperta dell’area sacra di largo Argentina, al cui impegno si deve in qualche modo anche il «salvataggio» dell’area dalle demolizioni previste nel progetto originario, è senza dubbio Giuseppe Marchetti Longhi. Nasce a Roma nel 1884, da padre magistrato e da madre di nobile casata, essendo figlia del marchese di Fumone e della duchessa Caetani, imparentata anche con le famiglie Sforza-Cesarini e Mattei. Laureatosi in giurisprudenza nel 1911, non segue però la carriera del padre, interessandosi invece all’archeologia influenzato dalla sorella Maria, che nel 1910 aveva cominciato gli studi di topografia romana sotto la guida di Rodolfo Lanciani. Proprio accompagnando spesso la sorella alle lezioni e alle escursioni archeologiche organizzate da Lanciani, nasce in lui la passione per l’archeologia che segnerà tutta la sua carriera. Arruolatosi come volontario con il grado di ufficiale di complemento nel 1915, trascorre tre anni sul

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fronte, dove viene ferito due volte, guadagnandosi due medaglie al valor militare. Durante la convalescenza dalla seconda ferita, scrive il suo primo saggio archeologico-topografico sulla zona di largo Argentina, che viene pubblicato nel 1920, probabilmente anche grazie all’interessamento di Lanciani, sul Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma. Nel 1923 consegue la libera docenza in topografia romana presso l’Università di Roma, dopo essere stato nominato anche Ispettore onorario ai monumenti di Roma. Dopo molte insistenze, finalmente, nel 1926, Marchetti Longhi, in virtú dei suoi studi e della particolare conoscenza della zona di largo Argentina, riceve l’incarico dal Governatore di Roma di «seguire e controllare tutti i lavori di demolizione e di scavo della zona», incarico che porterà avanti fino al 1942, pubblicando sul Bollettino Comunale e altre riviste dettagliate relazioni e studi sull’area. A seguito delle scoperte avvenute nell’area di largo Argentina tra il

1927 e il 1928, che porteranno alla luce gli altri due templi oltre quelli già noti, Marchetti Longhi è tra i piú ferventi promotori, attraverso articoli sui giornali e anche scrivendo direttamente al Capo del Governo Mussolini, della conservazione dell’area, salvandola dalla costruzione di nuovi edifici come prevedeva il progetto originario. Dopo vari dibattiti, e anche grazie alla pressione di Corrado Ricci, il progetto di costruzione dell’Argentina viene bloccato, in seguito a una decisione presa direttamente da Mussolini («PROVVEDIMENTO D’IMPERIO.PER L’ARCHEOLOGIA E PER L’IGIENE!»), il quale impone che l’area sacra di largo Argentina «dovesse rimaner definitivamente libera, unicamente consacrata alla visione dei resti cosí felicemente riapparsi», anche perché ben si inquadravano nel programma celebrativo della romanità perseguito dal regime. Da questo momento, si pone il problema di chi dovrà essere incaricato della sistemazione dell’area archeologica, incarico che Marchetti Longhi considera, data la sua competenza, gli spetti di diritto. Ma in questo troverà forti contrasti, soprattutto con Antonio Muñoz, divenuto da poco Direttore della X Ripartizione, istituzione che aveva sostituito le Antichità e Belle Arti. Questi infatti era contrario ad affidare a un esterno all’Amministrazione il compito di dirigere gli scavi e di sistemare l’area archeologica. Lo scontro tra Marchetti Longhi e Muñoz diviene sempre piú aspro durante i lavori di sistemazione dell’area in vista dell’inaugurazione del 21 aprile 1929. Marchetti Longhi infatti critica i lavori e i restauri approssimativi effettuati per volere


di Muñoz, il cui unico obiettivo è fare presto, senza andare troppo per il sottile e anzi distruggendo alcune strutture antiche. Dopo un articolo uscito qualche giorno prima dell’inaugurazione, in cui tutto il merito delle scoperte viene attribuito esclusivamente a Muñoz, e a cui Marchetti Longhi controbatte il giorno successivo in uno scritto sul Corriere d’Italia, in cui rivendica i suoi meriti per aver seguito, anche senza retribuzione, per tanti anni i lavori all’Argentina, che provocherà le ire del Sovrintendente, si arriva a un violento alterco tra i due proprio il 21 aprile, poco prima della cerimonia d’inaugurazione dell’area archeologica. I fatti, descritti dallo stesso Marchetti Longhi in una lettera al Governatore del 22 aprile, portarono addirittura a un cartello di sfida lanciato da Marchetti Longhi a Muñoz per le parole ingiuriose e ingiustificate a lui rivolte. Fortunatamente il duello non avvenne, dato che i rispettivi rappresentanti delle parti troveranno un accordo, ribadendo la «completa onorabilità e qualità di gentiluomo sia del Prof. Marchetti che del Prof. Muñoz». Negli anni successivi fino al 1942, quando a causa della guerra i lavori nell’area archeologica dell’Argentina verranno sospesi, e nonostante l’ostilità da parte di Muñoz, Marchetti Longhi riuscirà a ottenere di continuare gli scavi, che porteranno ad altre scoperte, tra cui le scalee dei templi C e D, l’ara di Aulo Postumio Albino e l’isolamento della Torre del Papito. L’interesse di Marchetti Longhi per l’Area Sacra di largo Argentina continuerà anche nel dopoguerra, e sarà oggetto di numerosi scritti e relazioni (ben otto pubblicate sul Bullettino Comunale fino al 1970-

Due immagini della scoperta della testa della statua di culto colossale della dea Fortuna huiusce diei (la Fortuna del giorno presente), rinvenuta alla fine degli anni Venti e oggi conservata presso la Centrale Montemartini.

1971), ancora oggetto di studio imprescindibili per chi si occupa di questa area del Campo Marzio. Marchetti Longhi, nella sua lunga carriera di archeologo, si occupò anche di altri filoni di ricerca, tra cui quello sui teatri antichi, sui centri e i castelli del basso Lazio, sulle famiglie nobili romane. Per l’Enciclopedia Italiana Treccani ha redatto importanti voci di carattere archeologico (Roma medievale, Forma Urbis).

Nel 1943 fondò anche l’Istituto di storia e di arte del Lazio meridionale, di cui fu Presidente fino al 1975. Morí a Roma l’11 ottobre 1979. Al suo impegno e alla sua tenacia, la storia dell’archeologia di Roma è altamente debitrice, per aver sottratto a una delle tante speculazioni edilizie una delle aree archeologiche piú importanti della città, che oggi finalmente ritorna pienamente fruibile.

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rini, mentre del tempio rotondo B si scorgevano alcune colonne nel cortile annesso alla chiesa e Rodolfo Lanciani li aveva già individuati nel 1883 in un frammento della Forma Urbis severiana; degli altri due edifici sacri, invece, si ignorava completamente l’esistenza), insieme alle proteste di alcuni studiosi, primo tra tutti Giuseppe Marchetti Longhi che dirigeva gli scavi nel cantiere, portarono dapprima a una sospensione dei lavori e, successivamente, alla revoca della concessione edilizia all’Istituto dei Beni Stabili, proprietario dell’area e proponente del progetto. Ciò comportò, comunque, la demolizione della cinquecentesca chiesa di S. Nicola de’ Cesarini e dei palazzi Acquari, Rossi e Chiassi-Cesarini, al fine di riportare, secondo la volontà del Direttore della X Ripartizione Antichità e Belle Arti del Governatorato, Antonio Muñoz, i quattro templi al loro «primitivo isolamento». Condotte in maniera frettolosa e senza alcun criterio scientifico le demolizioni dell’area – che cancellarono gran parte delle testimonianze di epoca medievale e postmedievale –, si arrivò all’inaugurazione

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della nuova area archeologica, fortemente voluta da Muñoz, il 21 aprile del 1929, alla presenza di Benito Mussolini e delle piú alte autorità dello Stato, sebbene i lavori fossero ben lungi dall’essere ultimati.

UNA GRANDE PIAZZA LASTRICATA L’area sacra di largo Argentina è uno dei piú importanti complessi archeologici di età repubblicana del Campo Marzio. Essa comprende un’ ampia piazza lastricata, situata nel Campo Marzio meridionale, su cui sorgono quattro templi indicati con le lettere A, B, C e D in mancanza di una loro identificazione certa. In origine, i quattro edifici erano indipendenti l’uno dall’altro, e solo con i successivi rifacimenti furono unificati, innalzando i livelli del piano di calpestio. Il primo edificio a essere costruito sull’originario piano di campagna fu il tempio C, risalente alla fine del IV-inizi del III secolo a.C.; successivamente vennero edificati il tempio A (intorno alla metà del III a.C.) e il piú grande tempio D, nel lato meridionale della piazza

Sulle due pagine: ortofoto e planimetria dell’area sacra di largo Argentina, con l’indicazione dei templi e degli altri complessi riconosciuti al suo interno.


(inizi II a.C.). Davanti a essi erano aree sacrali sopraelevate con are. Probabilmente, dopo l’incendio che nel 111 a.C. distrusse gran parte della città, o secondo studi recenti, in seguito a una piena eccezionale del Tevere da collocare intorno al 130 a.C., che sigillò con uno strato limoso le fasi piú antiche dei templi A e C, tra cui un altare posto davanti al tempio C dedicato dal console del 180 a.C. Aulo Postumio Albino, ancora perfettamente conservato sotto il pavimento in tufo, tutta l’area davanti ai templi A e C venne rialzata di 1,40 m e pavimentata con lastre di tufo; vennero anche parzialmente rifatti i podi. Lo spazio rimasto libero tra i templi A e C, non interessato dalla nuova pavimentazione di tufo, venne occupato alla fine del II secolo a.C. dal tempio B, l’unico a pianta circolare su alto podio preceduto da una scalinata, posto a un livello leggermente piú alto rispetto alla piazza lastricata. In questo periodo, l’area venne delimitata almeno su tre lati (della zona a sud del tempio D non si conosce molto; secondo una recente ipotesi di Daniele Manacorda, basata su un frammento della Forma

CURIA DI POMPEO

Urbis, probabilmente qui sorgevano i templi di Vulcano, di Giunone Curite e di Iuppiter Fulgur); sui lati nord e ovest da portici a pilastri, su quello est da un muro a blocchi di tufo su cui si aprono alcuni ingressi.

LE FATIDICHE IDI DI MARZO Questo complesso, che conferisce un aspetto unitario all’area, è identificato con la Porticus Minucia Vetus, realizzata dal console M. Minucius Rufus nel 107 a.C. dopo il suo trionfo sugli Scordisci, antica popolazione della Tracia (vedi piú avanti). Tra il 61 e il 55 a.C. venne costruito, nell’area a ovest dei quattro templi, il Teatro di Pompeo con i suoi portici. Di questi ultimi, nello spazio retrostante tra i templi B e C rimane ancora ben visibile un grande podio a blocchi di tufo, parte del basamento della Curia di Pompeo; si tratta di una grande sala posta nel lato est del grande complesso monumentale comprendente il teatro con il tempio di Venere Vincitrice, e un maestoso porticato. In questo ambiente, durante una seduta del senato (da qui il nome di Curia) alle Idi di Marzo del 44 a.C. (15 mar-

GRANDE FORICA

TEMPIO D TEMPIO C TEMPIO B

TEMPIO A

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SPECIALE • LARGO ARGENTINA

PER LA GLORIA DI SAN NICOLA A partire dal IX secolo, le strutture del tempio A vennero occupate da una chiesa della quale non si conosce la dedicazione, e che poi, nel 1132, venne intitolata a san Nicola de’ Calcarario. A questo impianto

sono riferibili l’abside in grandi blocchi (attualmente visibile in fondazione) e una cripta semicircolare a cui si accede dalla parte posteriore del podio del tempio. Al XII secolo risale il rialzamento

zo) venne ucciso Giulio Cesare. Il portico nel lato nord, oltre il tempio A, è da identificare con l’Hecatostylum, ossia portico delle 100 colonne, noto anche come Porticus Lentulorum, che si addossa al portico pompeiano, del quale è di poco posteriore. Secondo un’ipotesi, sarebbe infatti stato costruito tra il 51 e il 47 a.C. da P. Cornelius Lentulus Spinther, console nel 57 a.C., o da P. Cornelius Lentulus Crus, console nel 49 a.C., forse fratelli, alleati di Pompeo. Nella seconda metà del I secolo a.C. venne anche collocato, nello spazio tra i templi A e B, l’edificio riconosciuto come la Statio Aquarum, sede dell’Ufficio preposto alla fornitura e distribuzione dell’acqua pubblica nella città. Si tratta di due grandi sale comunicanti, una delle quali con pavimento a mosaico a tessere bianche con una fascia nera e pareti dipinte. Dopo il grande incendio che, nell’80 d.C., sotto Tito distrusse gran parte del Campo Marzio (episodio ricordato da Cassio Dione), importanti lavori di restauro e trasformazione in quest’area dell’Urbe vennero realizzati a opera di Domiziano. L’intera area sacra venne

ulteriormente rialzata e pavimentata con lastre di travertino (si tratta del piano pavimentale tuttora visibile), venne rifatto il portico orientale e i templi in parte modificati. Gli spazi ancora vuoti tra questi vennero occupati da nuovi ambienti che unirono gli edifici sacri in un’unica grande struttura. La datazione di questi lavori di restauro al tempo di Domiziano è confermata da alcuni bolli su laterizi, appartenenti a questo periodo.

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UN OSTELLO PER I PELLEGRINI Dopo i restauri domizianei, l’area non sembra subire ulteriori rifacimenti, rimanendo immutata per tutto il periodo tardo antico. Durante il corso del V secolo d.C. ha inizio un periodo di abbandono e trasformazione degli edifici presenti nell’area, che fino a quel momento avevano conservato il loro aspetto risalente all’epoca domizianea. Un edificio in opera listata, di cui si conservano alcuni ambienti di fronte al tempio A, è forse da riconoscere nello Xenodochium Boetianum, un ostello per pellegrini collegato a un monastero (Monasterium Boetianum).

A sinistra: l’area oggi occupata da largo Argentina, nella Nuova piante et alzata della città di Roma con tutte le strade piazze et edifici di Giovanni Battista Falda. 1676. Amsterdam, Rijksmuseum. In basso: i resti del tempio A, nel quale, nel Medioevo, furono ricavati dapprima un oratorio e poi la chiesa di S. Nicola de’ Calcarario (poi de’ Cesarini).


dell’abside, in cui sono resti di affreschi con teoria di santi, il pavimento cosmatesco e l’altare a cippo. Una piccola abside, attualmente conservata sul lato sinistro della chiesa, è databile al XIV secolo. Agli inizi del Seicento, fu realizzato un nuovo edificio, dedicato a san Nicola de’ Cesarini, al di sopra delle strutture medievali, concesso ai Chierici Regolari Somaschi da papa Innocenzo XII (1691-1709), a cui subentrarono i Carmelitani nel 1847 per concessione di papa Pio IX (1846-1881), che vi rimasero fino alla demolizione nel 1927.

In alto: l’abside della chiesa di S. Nicola de’ Calcarario (poi de’ Cesarini), edificata sui resti del tempio A.

In epoca altomedievale, tra l’VIII e il IX secolo, vennero realizzate strutture relative a una dimora aristocratica. Al IX secolo risalgono le prime testimonianze di una chiesa, sorta all’interno del tempio A, a cui appartenevano forse numerosi elementi marmorei relativi al suo arredo liturgico (lastre di pluteo, pilastrini), rinvenuti nei pressi dell’area. Su questo impianto altomedievale sorse la chiesa di S. Nicola de’ Calcarario (toponimo che indica la presenza in questo periodo di calcare per la fabbricazione della calce; vedi box a p. 103), consacrata nel 1132 sotto l’antipapa Anacleto II, di cui si possono ancora vedere alcune pitture dell’abside sopra il podio del tempio A. In epoca barocca, su questa chiesa venne edificato un nuovo edificio, dedicato a S. Nicola de’ Cesarini, demolito nel 1927. La chiesa e altri edifici, tra cui quello della famiglia Boccamazzi di cui faceva parte la torre del Papito, inglobarono infine le strutture antiche, di cui si perse memoria fino alle demolizioni degli anni Venti del secolo scorso.

L’IDENTIFICAZIONE DEI TEMPLI Un problema che ha interessato molti archeologi è l’identificazione dell’area sacra e dei quattro templi. Sembra ormai accertato che l’area, nella sua fase repubblicana di fine IIinizi I secolo a.C. sia da identificare con la Porticus Minucia Vetus, mentre il portico presente sul lato est, con al centro un tempio ancora in parte visibile su via delle Botteghe Oscure (dedicato alle Ninfe, sede probabilmente degli archivi del frumentum publicum) costituisca un suo ampliamento di età imperiale, da identificare con la Porticus Minucia Frumentaria, dove avvenivano le distribuzioni di grano al popolo. Anche la presenza della Statio Aquarum nell’area, i cui archivi forse erano conservati nel tempio A, confermerebbe questa identificazione, dato che i due uffici (delle acque e delle frumentazioni) vennero riuniti da Settimio Severo sotto un’unica amministrazione alle dipendenze di un curator aquarum et Minuciae. Grazie all’identificazione della Porticus Minucia, anche i quattro templi sono stati identificati nel seguente modo: il tempio A con quello dedicato a Giuturna, costruito da Lutazio Catulo nel 241 dopo la vittoria sui Cartaginesi nella battaglia delle Egadi; il tempio B con quello della Fortuna huiusce diei (la a r c h e o 95


SPECIALE • LARGO ARGENTINA

In seguito forse a un’alluvione, nel II secolo a.C. il piano di calpestio dell’area subí un notevole innalzamento; venne pertanto realizzata una nuova pavimentazione in blocchi di tufo davanti ai templi A e C (gli unici due esistenti allora), che obliterò anche l’altare, al di sopra del quale ne fu realizzato un altro. Un ampliamento dell’edificio è da collocare nella seconda metà del I secolo a.C., quando viene realizzato un tempio piú grande con 6 colonne sulla fronte e 9 sui lati lunghi, che inglobò quello precedente. Il rifacimento domizianeo seguito all’incendio dell’80 d.C. comportò un innalzamento del podio, la sostituzione di due colonne e il rialzamento delle altre. Altri interventi riguardarono alcuni restauri in epoca severiana (fine II-inizi III secolo d.C.). Con la fondazione nell’area del Monasterium Boetianum nel VI secolo, a opera del filosofo Anicio Severino Boezio (autore dell’opera La Consolazione della Filosofia) la cella del tempio, molto proFortuna del giorno presente), opera del console Q. Lutazio Catulo dopo la vittoria di Vercelli del 101 a.C. contro i Cimbri; il tempio C è stato identificato con quello di Feronia, divinità italica il cui culto fu introdotto a Roma dopo la conquista della Sabina, di cui è originario, da parte di M. Curio Dentato nel 290 a.C. (secondo un’altra ipotesi sarebbe questo il tempio dedicato a Giuturna, e non il tempio A); infine il tempio D, da riconoscere con quello dei Lari Permarini, dedicato nel 179 a.C. il quale, come riporta il calendario Prenestino, sorgeva «in Porticu Minucia».

IL TEMPIO A L’edificio è probabilmente da identificare con quello fatto costruire dal console Caio Lutatio Catulo dopo la vittoria sui Cartaginesi nel 241, e dedicato a Giuturna, mentre secondo alcuni studiosi sarebbe dedicato a Iuno Curitis, epiteto con il quale Giunone era venerata a Falerii (odierna Civita Castellana), costruito dopo la vittoria su questa città nello stesso anno, o a Feronia. L’impianto originario era costituito da un alto podio in blocchi di tufo con una scalinata di 18 gradini e 4 colonne sulla fronte (del podio di questa prima fase si conservano ancora le strutture al di sotto dell’odierna pavimentazione). Davanti a esso era una piattaforma con al centro un altare in peperino, simile a quella davanti al tempio C. 96 a r c h e o


babilmente, venne utilizzata come oratorio, mentre l’edificio in opera listata di fronte al tempio, ne costituiva forse il luogo per accogliere i pellegrini (xenodochio).

IL TEMPIO B L’unico tempio a pianta circolare su alto podio cui si accede da una scalinata, è quasi sicuramente da identificare con quello dedicato alla Fortuna huiusce diei (Fortuna del giorno presente), votato dal console Quinto Lutazio Catulo dopo la battaglia di Vercelli del 101, che pose fine alla guerra contro il bellicoso popolo dei Cimbri. A questa divinità femminile sembra anche riferirsi il grande acrolito (statua di dimensioni colossali con alcune parti come la testa, le braccia, le gambe in marmo, e altre parti in materiale diverso come legno o bronzo) rinvenuto durante gli scavi effettuati nel 1929, e di cui si conservano presso la Centrale Montemartini la testa colossale, un braccio e i piedi. Nella sua

Sulle due pagine: veduta d’insieme e particolare del tempio B dell’area sacra di largo Argentina, cosí come si presenta oggi al termine del nuovo intervento di musealizzazione del sito, che è cosí tornato a essere visitabile.

fase originaria l’edificio era un periptero, con la cella centrale circondata da 18 colonne in tufo, con due basi sempre in tufo alla base della scalinata dove erano gruppi di statue. Agli inizi del I secolo a.C. la cella venne ingrandita incorporando il colonnato, e anche il podio fu allargato e rivestito in peperino, diventando cosí un tempio pseudoperiptero. Un’ulteriore trasformazione avvenne in seguito ai restauri succedutisi dopo l’incendio dell’80 d.C., quando lo spazio tra le colonne venne chiuso con un muro in laterizio decorato da paraste in stucco (ancora in parte conservate), e venne rifatta la scalinata in travertino insieme a un nuovo piano di calpestio. Su questo era collocata un’ara in laterizio, tuttora visibile, in origine rivestita con lastre di marmo.

IL TEMPIO C Molto probabilmente il tempio era dedicato alla dea Feronia, divinità originaria della SaDidascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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SPECIALE • LARGO ARGENTINA L’area sacra di largo Argentina in età imperiale e i principali edifici circostanti: 1. Tempio A; 2. Tempio B; 3. Tempio C; 4. Tempio D; 5. Teatro di Pompeo; 6. Teatro di Balbo; 7. Crypta Balbi; 8. Porticus Minucia; 9. Portici di Pompeo; 10. Portico del Bonus Eventus; 11. Odeon di Domiziano; 12. Circo Flaminio.

bina, il cui culto fu introdotto a Roma dopo la conquista di questo territorio da parte del console M.Curio Dentato nel 290 a.C. (anche se alcuni studiosi lo identificano con quello dedicato a Giuturna nel 241 da C. Lutazio Catulo). L’impianto originario presentava 4 colonne sulla fronte e 5 sui lati, con un alto podio in tufo cui si accedeva tramite una scalinata di 20 gradini. Successivamente davanti al tempio fu collocata una grande piattaforma sopraelevata con un altare in peperino al centro, su cui è iscritta la dedica da parte di Aulo Postumio Albino, molto probabilmente da identificare con il console del 151 a.C., che consacrò l’ara dopo la pestilenza del 142 a.C.Tale ara è attualmente perfettamente conservata al di sotto dei successivi piani di calpestio. Infatti, alla fine del II secolo a.C. nell’area antistante al tempio fu realizzata una nuova pavimentazione in tufo, che obliterò l’ara. Al di sopra venne rea-

lizzato un nuovo altare, probabilmente rivestito di lastre, di cui ora rimane il nucleo cementizio. Dopo l’80 d.C. venne restaurata la cella con muri in laterizio e con pavimento a mosaico. A questa fase risalgono anche le basi delle colonne e un terzo altare, demolito durante gli scavi, posto al di sopra della pavimentazione in travertino di età domizianea.

IL TEMPIO D È il tempio piú grande per dimensioni, edificato all’inizio del II secolo a.C., le cui strutture sono per la maggior parte conservate al di sotto dell’attuale via Florida. La fronte, composta probabilmente nella sua fase originaria da 6 colonne, era allineata con quella degli altri templi, mentre la parte posteriore era piú sporgente di circa 10 m rispetto agli altri edifici. Alla fine del I secolo a.C. venne ampliato e rinnovato, pertanto poco si conosce della sua fase precedente. Attualmente

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rimangono il grande podio in opera cementizia rivestito da lastre di travertino e la scalinata di accesso fiancheggiata da due fontane. Probabilmente al restauro di età domizianea appartiene la cella, che occupa tutta la larghezza del podio, decorata all’esterno da paraste in stucco come nel tempio B.

GLI ALTRI EDIFICI DELL’AREA L’identificazione della Porticus Minucia è tuttora dibattuta. Le fonti riportano la notizia dell’esistenza di due Porticus Minuciae, la Vetus, costruita nel 106 a.C. dal console M. Minucio Rufo per celebrare il suo trionfo sugli Scordisci, e la Frumentaria, dove avvenivano le distribuzioni gratuite di grano (frumentationes), collocabile nella metà del I secolo d.C. Secondo l’ipotesi di alcuni studiosi (tra cui Filippo Coarelli) la Porticus Minucia Vetus andrebbe identificata proprio con l’area sacra di largo Argentina, e pertanto il tempio D sarebbe quello dedicato ai Lari Permarini, che secondo le fonti si trovava all’interno della porticus di epoca repubblicana. Il vasto quadriportico adiacente il lato est dell’area sacra, comprendente anche un tempio, i cui resti sono ancora visibili lungo via delle Botteghe Oscure, sarebbe invece la Porticus Minucia frumentaria, databile nella metà del I secolo d.C. A questo complesso si riferisce anche il frammento della Forma Urbis con l’iscrizione MINI[CIA]; il tempio, dove era anche custodito l’archivio delle frumentationes, sarebbe quello dedicato alle Ninfe. Secondo un’altra ipotesi (sostenuta da Fausto Zevi), invece, il quadriportico di via delle Botteghe Oscure andrebbe identificato con la Porticus Vetus, nella sua ricostruzione di epoca domizianea seguita all’incendio dell’80 d.C. e il tempio al suo interno sarebbe dunque quello dei Lari Permarini, mentre la Porticus Minucia frumentaria sarebbe da identificare con una struttura a pilastri (craticula) localizzata in via S. Maria dei Calderari, presso via Arenula. Un’ulteriore ipotesi suppone l’esistenza di due complessi distinti, entrambi di epoca repubblicana e riferibili alla gens Minucia, uno da identificabile con quello in via delle Botteghe Oscure, poi restaurato da Domiziano, l’altro in un’area ancora sconosciuta.

niene, da identificare con la grande aula rettangolare a esedra, raffigurata anche in un frammento della Forma Urbis severiana, situata al centro del lato orientale dei portici di Pompeo, di fronte al teatro e al tempio di Venere Vincitrice. In quest’aula, dove si riuniva sporadicamente il Senato, di dimensioni maggiori rispetto alle altre esedre dei portici del complesso pompeiano, si trovava la colossale statua di Pompeo raffigurato in nudità eroica, ai cui piedi cadde Giulio Cesare trafitto dalle pugnalate dei congiurati, durante la riunione del Senato che qui si svolse il 15 marzo del 44 a.C. Il luogo dell’uccisione di Cesare fu dichiarato sceleratus e sigillato da un muro da Augusto, secondo Svetonio, mentre Cassio Dione riferisce che fu tramutato in latrina. La statua di Pompeo – attualmente conservata presso Palazzo Spada - fu spostata in un arco alle spalle della porta centrale della scena del teatro.

Statua colossale tradizionalmente identificata con un ritratto di Pompeo Magno. Roma, Palazzo Spada. Vuole la leggenda che l’assassinio di Giulio Cesare si sia consumato ai piedi di questa scultura, che in origine era collocata nella Curia antistante il teatro fatto costruire dallo stesso Pompeo nel Campo Marzio.

LE FORICHE Ai lati del basamento della Curia di Pompeo, si trovano due strutture, una di forma allungata a nord, alle spalle del tempio A, terminante con un’abside, l’altra di forma rettangolare a sud verso largo Arenula, dietro il tempio C. Si tratta di due latrine pubbliche, la Grande Forica e la Forica Pensile – termini coniaLA CURIA DI POMPEO Alle spalle del tempio B sono ancora visibili i ti da Marchetti Longhi - che potevano essere resti di un edificio in blocchi di tufo dell’A- frequentate da decine di persone contempoa r c h e o 99


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raneamente (si è calcolato che la Grande Forica potesse avere una capienza di 60 sedute). Questi bagni pubblici, di cui si sono ritrovati nel corso degli scavi molti dei sedili di marmo dotati di ampi fori al centro (sellae pertusae) dove gli utilizzatori potevano comodamente sedersi, facevano molto probabilmente parte del complesso dei portici di Pompeo, anche se in epoca imperiale, subirono varie modifiche. La presenza di bagni pubblici è infatti una caratteristica di luoghi dove si riunivano diverse centinaia di persone come i teatri (una latrina è infatti presente anche nell’esedra opposta al teatro di Balbo).

LA TORRE DEL PAPITO Isolata dopo le demolizioni eseguite per l’allargamento di via delle Botteghe Oscure, che comportarono l’eliminazione degli edifici che nel corso dei secoli vi si erano addossati, la torre medievale caratterizza oggi l’aspetto dell’area sacra di largo Argentina. È una delle poche torri di epoca medievale conservata nella sua interezza. L’origine del nome Papito è incerta: potrebbe derivare da «Papetto», soprannome attribuito all’antipapa Anacleto II (1132-1138), appartenente alla famiglia Pierleoni, cosí chiamato in quanto giovane e piccolo di statura, o dalla famiglia dei Papareschi, chiamata anche de Papa. Secondo Giuseppe Tomassetti (1848-1911; storico e topografo, noto soprattutto per l’opera La Campagna Romana, antica, medioevale e moderna, n.d.r.), la torre del Papito sarebbe stata costruita nel secolo XIV dai Papareschi. La stessa famiglia avrebbe consacrato nel 1132 la restaurata chiesa di S. Nicola de’ Calcarario e l’altare dedicato alla Santa Croce, alla Vergine Maria e al beato arcivescovo Nicola. Le notizie d’archivio relative alla torre sono purtroppo frammentarie. Dai Papareschi la torre passò ai Foschi «de Judeis», famiglia di origine ebraica, e successivamente ai Boccamazza (la torre è nota infatti anche con questo nome). Da un documento dell’Archivio di S. Angelo in Pescheria risulta che la torre è ancora dei Boccamazza nel 1369. Infatti il 12 marzo dello stesso anno Angela, vedova di Pietro di Guglielmo di Cesario Cesarini, vende a Francesco di Pucio, notaio del rione Campitelli «un palazzo casa annessa e giardino circondato da chiostro e con pozzo, posto nella stessa regione e nella parrocchia di S. Nicolò di Calcarario». Tale palazzo era prospi100 a r c h e o

ciente su due lati la via pubblica e confinava con gli altri, «da un lato col forno de’ Cesarini, dietro con Cecco del fu Luzio Foschi, erede di Giovanni Boccamazza, da un altro lato con la torre di un certo Nicolò de’ Boccamazza, che è detta Torre del Papito».

ORNATA DI PITTURE In un altro documento d’archivio che reca la data del 23 aprile 1369, è riportato che il palazzo era ornato di pitture ed era di recente costruzione; ciò ha indotto Marchetti Longhi a ipotizzare che si trattasse dell’antica abitazione di Giovanni de’ Cesarini addossata alla torre e con ingresso al numero 43 di via S. Nicola de’ Cesarini, ricordata nell’Itinerario di Cencio Camerario. Nel 1383, secondo il Tomassetti, la torre fu lasciata con testamento da Lella Boccamazzi, vedova di Cecco Montanari, al figlio Giovanni Montanari. Alla fine del XIV secolo la torre appartene-


Benito Mussolini sul cantiere delle demolizioni avviate nell’area di largo Argentina e, nella pagina accanto, la medievale torre del Papito, liberata al termine dell’intervento.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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Un particolare dell’allestimento degli spazi sotterranei dell’area sacra di largo Argentina.

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va ai Cesarini, che, nel 1444, edificheranno nelle immediate vicinanze un grandioso palazzo, costruito sull’area precedentemente occupata dalle modeste abitazioni di proprietà dei Montanari, dei Cesarii e degli Orsini e la situazione rimarrà invariata fino al primo quarto del secolo XVIII, quando la proprietà passerà ai Persiani, proprietari terrieri e allevatori di bestiame.

LE CALCARE Gli scavi, come si è detto condotti in maniera affrettata e con scarso criterio scientifico, per giungere alla inaugurazione dell’area il 21 aprile del 1929, hanno restituito migliaia di reperti, sia marmorei che ceramici, oggetto di schedature da parte della Sovrintendenza a partire dagli anni Novanta del secolo scorso. Tali reperti coprono un arco cronologico molto ampio, dall’età repubblicana a quella moderna. Il problema però, data l’assenza di un criterio di indagine stratigrafica (nonostante la puntuale documentazione eseguita da Marchetti Longhi, ancora oggi oggetto di studio), è stabilire, per quanto riguarda i materiali marmorei, se e quali effettivamente siano pertinenti agli edifici sacri di largo Argentina. Occorre infatti considerare che durante l’epoca medievale, tutta l’area era denominata «Calcarario» (come testimonia anche il nome della chiesa piú antica di S. Nicola), per la presenza di un gran numero di calcare. Un esempio è quella rinvenuta all’interno dell’esedra della Crypta Balbi, insieme a una catasta di marmi pronti per essere cotti. Si tratta di grandi forni dove i marmi recuperati da edifici antichi e trasportati da altri luoghi della città, venivano cotti per essere trasformati in calce. Non si può pertanto escludere che molti dei marmi rinvenuti nel corso degli sterri degli anni Venti, che hanno portato alla distruzione delle stratigrafie medievali, provenissero da altri luoghi e monumenti, e siano in qualche modo «scampati» alla sorte di essere trasformati in calce da costruzione.

Dall’alto: riproduzione tattile di una testa di statua colossale e frammenti di decorazione architettonica.

Nella pianta del Catasto Urbano ordinato nel 1818 da Pio VII, la torre è prospicente il vicolo dell’Olmo ed è racchiusa su due lati, a settentrione e a occidente, da due fabbricati, cosí come appariva alcuni anni prima nella pianta di Giovan Battista Nolli. Nell’isolato che comprende la torre, è probabile, anche se non ne abbiamo testimonianza, che nella metà dell’Ottocento siano stati attuati interventi di ristrutturazione edilizia, cosí a r c h e o 103


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come avvenne per il Palazzo Cesarini. Per quanto riguarda la proprietà, Rodolfo Lanciani nella Forma Urbis Romae, alla fine del XIX secolo, la indica ancora di proprietà dei Persiani. Nel 1917, con l’approvazione della Variante al Piano Regolatore, si attiva il procedimento che si conclude con la Convenzione stipulata tra l’Istituto Romano dei Beni Stabili e l’Amministrazione comunale (2 febbraio 1926) in base alla quale l’Istituto si impegnava, tra le altre cose, al restauro ed eventuale consolidamento del portico medievale della Torre. Con Decreto Legge del 6 luglio 1931, di approvazione del Piano Regolatore Generale, fu previsto l’allargamento di via delle Botteghe 104 a r c h e o


e il settembre del 1941 fu attuato l’isolamento della torre, con la demolizione degli edifici che la cingevano su due lati, il quale mise in evidenza le aperture che nel tempo erano state create nelle murature per il collegamento dei corpi di fabbrica. Si rese quindi indispensabile l’intervento di restauro con ripresa della struttura laterizia. Le ristrutturazioni comportarono la chiusura di alcune aperture sia al piano terra che ai piani superiori, la realizzazione di una scala in legno in sostituzione di una in ghisa, che tuttora mette in comunicazione i vari livelli, il ripristino dei solai e del tetto. Il portichetto in finto stile medievale alla base della torre, in corrispondenza di via di San Nicola de’ Cesarini, risale in realtà agli anni Trenta, e fu realizzato secondo il volere di Antonio Muñoz, Direttore della X Ripartizione del Governatorato, reimpiegando alcune colonne provenienti da un edificio demolito nell’area circostante. Attualmente vi sono esposti quattro capitelli di parasta facenti in origine parte della facciata della chiesa di S. Nicola de’ Cesarini, e l’architrave di palazzo Aquari, entrambi demoliti tra il 1927 e il 1929. In un ambiente sotterraneo prospiciente il tempio D, è invece esposto il rosone della chiesa di S. Nicola de’ Calcarario, degli inizi del XIII secolo. PER SAPERNE DI PIÚ

Un’altra veduta dell’area sacra di largo Argentina e, nella pagina accanto, in basso, l’inaugurazione del sito.

Oscure, con il taglio dei fabbricati che si affacciavano sul lato sinistro della strada.

DEMOLIZIONI E RESTAURI I lavori di demolizione saranno completati dopo la fine della guerra, mentre tra l’agosto

Vanessa Ascenzi, Monica Ceci, Sergio Palladino, Stefania Pergola, Federica Michela Rossi, L’area sacra di largo Argentina e la Torre del Papito, con testo inglese a fronte, Gangemi Editore Roma, 2023 www.gangemieditore.com

DOVE E QUANDO Area sacra di largo Argentina Roma, ingresso via di San Nicola de’ Cesarini (di fronte al civico 10); biglietteria e libreria presso la Torre del Papito, piazza dei Calcarari snc Orario martedí-domenica, 9,30-19,00 (ora legale); 9,30-16,00 (ora solare); chiuso il lunedí, 25 dicembre, 1° gennaio e 1° maggio Info Call center 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00) a r c h e o 105


TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO Luciano Frazzoni

QUANDO IL VASO SI FA BELLO LA PRODUZIONE DEI MANUFATTI CERAMICI RISPONDE NON SOLO A ESIGENZE FUNZIONALI, MA RAPPRESENTA ANCHE UN’OCCASIONE IDEALE PER LASCIARE BRIGLIA SCIOLTA ALL’ESTRO DI QUANTI DAVANO ALL’ARGILLA INFORME LA SUA NUOVA E DUREVOLE VITA

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in dalla comparsa dei primi vasi in ceramica, i loro creatori hanno elaborato una vasta gamma di motivi decorativi, che rispondevano sia a esigenze pratiche che al gusto estetico, spesso riproducendo oggetti realizzati in altro materiale, come, per esempio, il vasellame metallico, imitato in argilla perché

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piú economico. Alcuni elementi decorativi, come le cordonature a rilievo, avevano anche uno scopo pratico, in quanto servivano per facilitare la presa dei vasi in mancanza di anse, o anche permetterne la sospensione mediante cordicelle nel caso di bugne perforate. Si possono distinguere decorazioni

plastiche, modellate a mano e applicate a crudo sul corpo del vaso, o anche impresse, incise, a rilievo ottenuto mediante matrice o rullo, alla barbottina, a rilievo applicato, e infine decorazioni ottenute con la tecnica pittorica. Tipiche delle ceramiche preistoriche e protostoriche sono la decorazione plastica a cordoni e quella


impressa, ottenuta, la seconda, con vari accorgimenti, dalla semplice pressione delle dita, con una stecca rigida, una cordicella, o con il bordo della valva di una conchiglia, in quest’ultimo caso ricavando un motivo ad arco di cerchio. Mediante uno strumento a punta rigida, si ottiene invece la decorazione incisa. Anche queste decorazioni si trovano, magari associate ad altre come le bugne o le impressioni digitali, sulle ceramiche pre- e protostoriche, su cui compaiono anche motivi complessi, che vanno da quelli geometrici (bande, zig-zag, linee ondulate, triangoli, scacchiere, svastiche) a quelli figurati, nei quali spesso compaiono figure umane e animali stilizzate. Queste decorazioni vengono realizzate su manufatti ancora crudi, quando l’argilla non è ancora essiccata e prima di essere sottoposta a cottura.

scorrere sulla superficie del vaso ancora fresca un cilindretto o una rotella su cui sono impressi i motivi ornamentali in negativo; a rilievo applicato, consistente nell’applicare piccoli motivi ottenuti a stampo (maschere, palmette, figurine umane), come si trova su

Particolare della decorazione di un vaso a figure rosse in cui si vede un vasaio all’opera. Pittore di Leningrado, 470-460 a.C. Napoli, Gallerie d’Italia. In basso e nella pagina accanto: due coppe megaresi, caratterizzate da decorazioni ottenute mediante l’uso di matrici. III-II sec. a.C.

SOLUZIONI DIVERSIFICATE Le decorazioni a rilievo si possono inoltre ricavare anche con altre tecniche: da matrici, come sulle coppe megaresi e sulla terra sigillata, a imitazione di oggetti in metallo pregiato come l’oro e l’argento; a rullo, presenti per esempio su alcune produzioni in bucchero, ottenute facendo

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La dea Atena sul frammento di un cratere attico a figure rosse. Nella pagina accanto: coppa in ceramica invetriata romana. In basso: cratere attico a figure nere con episodi dei poemi omerici. 530 a.C. circa. Atene, Museo Nazionale Archeologico.

alcune sigillate della Gallia; alla barbottina, tipica delle ceramiche a pareti sottili: in questo caso, mediante un pennello sottile il vasaio applica un composto di argilla depurata molto denso sul vaso, realizzando semplici motivi vegetali, antropomorfi e zoomorfi.

Le decorazioni possono essere anche di tipo pittorico, in monocromia o policromia. La ceramica greca, soprattutto quella a figure nere e a figure rosse, è stata una delle espressioni piú alte dell’artigianato ceramico, che ha restituito veri e propri capolavori, costituendo un utile strumento anche per ricostruire molti aspetti della pittura greca, andata in gran parte perduta. La decorazione a figure nere viene eseguita dipingendo le figure sullo sfondo «risparmiato» del vaso, che in cottura assume il colore della terracotta. La «vernice» è costituita da una sospensione di argilla finissima ricca di minerale ferroso, in cui il ceramografo intinge il pennello per disegnare le scene e gli elementi ornamentali (volute, palmette, meandri, ecc.).

COTTURA IN TRE FASI Per le parti del vaso che devono essere ricoperte solo dalla vernice nera, l’artigiano si avvale del tornio per applicare piú velocemente il rivestimento. I dettagli delle figure, come i particolari anatomici o le pieghe delle vesti, vengono eseguiti mediante incisioni praticate con uno strumento a punta rigida, che creano dopo la cottura contrasti di colore tra la vernice nera e il corpo del vaso. Si pratica poi una sola cottura, che comprende però diverse fasi: una prima, in cui si immette aria nella fornace, favorendo cosí la combinazione dell’ossigeno con le sostanze ferrose (ossidazione); la seconda, in cui l’aria viene sottratta, determinando la presenza di fumo all’interno della camera di cottura (riduzione); la terza, nuovamente in presenza di aria, prevede il graduale raffreddamento del vaso. Il risultato cosí ottenuto vede le zone ricoperte dallo strato piú denso di vernice di un nero brillante, le figure di un colore dal nero al bruno, che risaltano sul

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fondo di colore corallino. Nella tecnica a figure rosse il procedimento è inverso: le figure vengono lasciate «in argilla risparmiata», mentre lo sfondo del vaso è ricoperto dalla vernice nera. Il ceramografo traccia dapprima il contorno delle figure, poi riempie lo sfondo con la vernice nera, quindi mediante sottili tratti disegna i dettagli anatomici e gli altri elementi pittorici (pieghe delle vesti, decorazioni). Per far risaltare alcuni dettagli, il vasaio applica inoltre altri colori, come il bianco (ottenuto con argilla caolinica), il giallo e il violaceo, anch’essi applicati sulla terracotta risparmiata o sulla vernice nera. Altre classi ceramiche non presentano motivi decorativi, ma

sono caratterizzate da vari tipi di rivestimenti (anche se spesso rivestimento e decorazione si trovano associati in un unico manufatto). I rivestimenti vengono applicati sui vasi per eliminare la porosità dell’argilla, per renderli impermeabili e migliorarne anche l’aspetto estetico.

SUPERFICI IMPERMEABILI Si possono distinguere rivestimenti argillosi e vetrosi.Tra i primi l’ingobbio, ottenuto diluendo in acqua l’argilla depurata che, a seconda delle percentuali di ossidi di ferro, può assumere dopo la cottura un colore rosso o bianco, quando è presente una forte componente caolinica. I rivestimenti vetrosi, che rendono impermeabile

e lucente la superficie del vaso, si distinguono in vetrine, ottenute da silice sotto forma di quarzo, cui si aggiungono altri componenti per abbassarne la temperatura di fusione, come gli ossidi di piombo (vetrina piombifera presente per esempio sulle ceramiche a vetrina pesante altomedievali) e smalti, ottenuti con l’aggiunta di ossidi di stagno, che caratterizza le maioliche arcaiche medievali e le maioliche policrome rinascimentali. Le vetrine si possono presentare trasparenti, lasciando vedere il colore di fondo del vaso, o colorate, aggiungendo pigmenti naturali come ossidi di ferro, che danno un colore dal giallo chiaro al rosso e al bruno, e ossidi di rame, che conferiscono un colore dal verde al blu.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

ALLA FINE DELL’ARCOBALENO IL COLOSSEO FA BELLA MOSTRA DI SÉ SU MOLTE EMISSIONI MODERNE. COMPRESI I DOLLARI «ROMANI» BATTUTI DALLA REPUBBLICA DI PALAU

L’

Anfiteatro Flavio, a tutti piú noto come Colosseo, è l’immagine iconica della storia e della grandezza di Roma imperiale per la sua mole enorme, la complessa organizzazione tecnico-architettonica e per il suo essersi conservato in larga parte intatto fino ai nostri giorni. Raffigurato in età antica e moderna senza quella frequenza che ci si sarebbe aspettati, in particolare nel mondo romano, il monumento è oggi il soggetto di monete e medaglie da premiazione o da collezione, di qualità artistica variabile, per le quali è stato scelto per il suo valore simbolico e per l’immediata riconoscibilità. Tra le emissioni contemporanee, vale la pena di menzionare un interessante progetto di riproduzioni dall’antico messo in atto nella Repubblica di Palau, nazione insulare nell’Oceano Pacifico formata da centinaia di isole (e il cui nome ha assonanza con la cittadina di Palau – palazzo, in catalano – in Sardegna). Tra i piú giovani Stati del mondo, l’arcipelago fu «scoperto» dai navigatori spagnoli nel XVI secolo, passò poi sotto il controllo della Germania alla fine dell’Ottocento e quindi del Giappone nel 1914; nel 1947, alla fine della seconda guerra

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Rovescio della moneta d’oro della Repubblica di Palau (Micronesia) che mostra il Colosseo, ispirandosi alle emissioni di Severo Alessandro del 223 d.C. mondiale, fu inserito nel territorio della Micronesia amministrato dagli Stati Uniti d’America, raggiungendo quindi l’autonomia nel 1979 e infine l’indipendenza nel 1994.

GLI AUREI DI PALAU Mantenendo sempre stretti rapporti con gli USA, la repubblica ha adottato come propria moneta il dollaro americano, affiancando alle coniazioni ufficiali il «dollaro di Palau», una ricca e variegata serie di emissioni commemorative, celebrative e destinate al collezionismo, contraddistinte da

una grande e fantasiosa varietà figurativa. Alcune di queste monete hanno corso legale, ma esclusivamente nel territorio di Palau. Tra queste emissioni, dedicate ai temi piú disparati che vanno dalla fauna locale al Natale, si distingue una serie in oro ispirata agli aurei e solidi romani, composta da 24 esemplari a rovesci diversi. Il dritto è per tutti lo stesso, con legenda Republic of Palau e in basso il valore, 1 $. In alto è raffigurata una canoa polinesiana o a bilanciere, imbarcazione che tanta parte ha


svolto nella colonizzazione delle isole dell’Oceania. Al centro campeggia uno stemma decorato sui bordi nel quale compare un fondale marino con un maestoso Nettuno al centro, sormontato da una stella e seduto su una conchiglia; il dio posa la mano su un forziere ricolmo di preziosi, mentre nell’altra tiene il tridente. A lato lo affianca una procace sirena. Sotto la scena è riportata la scritta Rainbow’s end («la fine dell’arcobaleno»), che allude probabilmente all’antichissima leggenda irlandese secondo la quale alla fine dell’arcobaleno si troverebbero un forziere o una pentola piena d’oro nascosti lí da un folletto, una leggenda legata alla festa di san Patrizio e che ricorre, con varianti, in tutta la favolistica europea.

VOLTI IMPERIALI Emessa a partire dal 2009, la serie di monete d’oro «romane» da un dollaro della Repubblica di Palau riporta sui rovesci i volti degli imperatori a partire da Giulio Cesare sino a Romolo Augusto, mentre compaiono solo tre tipi antichi: quello rarissimo in oro (a

oggi solo 2 esemplari) di Bruto con pileo e pugnali ai lati a celebrare le Idi Marzo, la Lupa con Romolo e Remo battuta in età repubblicana sulle didracme romano-campane e il Colosseo. In alto: dritto della moneta d’oro da collezione della Repubblica di Palau, con lo stemma locale. A sinistra: rovescio di un aureo di Severo Alessandro. 223 d.C. Si riconoscono l’Anfiteatro Flavio con la Meta Sudans e un edificio porticato ai lati.

L’incisore che ha creato il dollaro per la Repubblica di Palau ha scelto, tra i pochi coni dedicati all’Anfiteatro Flavio, quello rarissimo e prezioso dell’aureo emesso da Severo Alessandro nel 223 d.C. per commemorare il suo parziale restauro dell’anfiteatro dopo l’incendio ivi scoppiato sotto Marcino nel 218. La moneta di Palau riporta correttamente la legenda del rovescio P M TR P II COS P P. Rispetto al tipo originale mancano però due strutture ai lati dell’anfiteatro di identificazione incerta, forse un tempietto con una statua a sinistra e una colonna a destra. Il Colosseo è coronato dai sostegni del velarium e sono raffigurate anche le gradinate della cavea, assenti nella moneta originale. In esergo, infine, è riportato in numeri romani l’anno della coniazione, MMXI, a confermare, ancora una volta, la millenaria fortuna del Colosseo.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Silvia Pallecchi

RITESSERE E RACCONTARE Appunti sulla comunicazione dell’archeologia All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino (FI), 220 pp., ill. col. 30,00 euro ISBN 978-88-9285-193-1 www.insegnadelgiglio.it

Silvia Pallecchi affronta l’argomento in sei sezioni principali, che spaziano dal Parlare e scrivere di archeologia alla Comunicazione in cantiere. È dunque un excursus ampio, al cui interno viene fornita una mole importante di dati e notizie, affiancata da riflessioni sul loro significato e, soprattutto, dalla documentazione di quale sia lo stato dell’arte nel nostro Paese. E qui emergono molti elementi positivi, ma anche qualche ombra, prime fra tutte il ritardo con qui l’Italia ha riconosciuto alla comunicazione il suo valore e ha dunque avviato procedure per

dotarsi di strumenti e persone attraverso i quali praticarla. Oppure quando l’autrice sottolinea come ancora oggi la divulgazione – che della comunicazione è quasi un sinonimo – sia vista, da parte di istituzioni e di non pochi accademici, come un’attività marginale e comunque secondaria rispetto alla ricerca scientifica. Tanto che, per esempio, le opere ritenute di taglio divulgativo non vengono prese in considerazione nella valutazione dell’attività dei docenti universitari da parte dell’ente preposto allo scopo, l’ANVUR. Non mancano comunque i segnali incoraggianti, tra

i quali spicca la sempre piú ampia diffusione delle pratiche di archeologia pubblica. In chiusura Pallecchi suggerisce le molte possibili strade da percorrere per favorire la comunicazione archeologica, lasciando spazio, come scrive, alla fantasia! Fra le quali propone, per esempio, il ricorso alla teatralizzazione di determinati eventi: una soluzione alla quale sta lavorando per portare sulle scene la storia delle fasi rinascimentali del sito di Policastro Bussentino (Salerno), da anni oggetto di ricerche di cui è una delle responsabili. Stefano Mammini

Ipotesi ricostruttiva di una parte del quartiere rinascimentale del sito di Policastro Bussentino (Salerno), modellata sull’utilizzo del programma LightWave (elaborazione di Duccio Calamandrei). Da addetti ai lavori, non possiamo non salutare con piacere la pubblicazione di questo volume, che propone una ricognizione ampia e puntuale della comunicazione in archeologia. Una questione che, ai fini della conoscenza della storia e del nostro passato, è di importanza vitale, perché, come si legge in apertura «senza una adeguata comunicazione, non è possibile una condivisione con la società civile dei temi, dei problemi e delle potenzialità connessi con il patrimonio culturale». Muovendo da questo e altri assunti, 112 a r c h e o



presenta

MEDICI

IN PRIMA LINEA

FOLLIE, LEGGENDE E CONQUISTE DELLA MEDICINA NELL’ETÀ DI MEZZO Al di là dell’argomento a cui è dedicato, questo nuovo Dossier di «Medioevo» offre l’ennesima conferma di quanto poco credibile possa ancora essere considerata la vulgata secondo la quale i secoli dell’età di Mezzo avrebbero costituito una fase «buia» nella storia dell’umanità. Infatti, forti della consolidata tradizione greca e romana, i medici attivi nel millennio medievale furono artefici di importanti sviluppi nel campo della pratica terapeutica e della chirurgia. Senza dubbio, alcuni dei rimedi e delle cure proposti ai pazienti possono apparire ai nostri occhi piú vicini a riti sciamanici o stregoneschi, ma si tratta di casi circoscritti e, comunque, dettati dal desiderio di trovare soluzioni a malattie non di rado devastanti, prima fra tutte la peste. E, a riprova di un approccio razionale e sistematico, non si può dimenticare che proprio nel Medioevo venne fondata la Scuola Medica di Salerno, furono create le prime facoltà universitarie di medicina e al ricovero dei pazienti si fece fronte con la realizzazione dei primi grandi ospedali. Vicende che nel nuovo Dossier di «Medioevo» vengono puntualmente ripercorse e illustrate da immagini in molti casi coeve, segno tangibile della diffusione su larga scala di pratiche sempre piú specializzate.

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