Basta una settimana per imparare una mise en place
Contribuire davvero al cambiamento
Non sottovalutiamo i palati stranieri

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Basta una settimana per imparare una mise en place
Contribuire davvero al cambiamento
Non sottovalutiamo i palati stranieri

Cultura, rapporti umani, territorio racchiusi in una pizza

Mario Benhur Tondini
presidente Edizioni Catering srl
Imprenditore nel settore della distribuzione alimentare, gestisce con il fratello Oscar l’azienda di famiglia a Cavriana (MN), dove ha svolto anche l’incarico di sindaco.

Le competenze maturate sul piano professionale e su quello amministrativo lo hanno portato alla convinzione che il principio della condivisione sia la miglior modalità di crescita. Molte sue iniziative, anche all’interno del gruppo Cateringross (che detiene la titolarità della casa editrice), di cui è consigliere d’amministrazione, vanno in questa direzione. A questo affianca una forte sensibilità per ogni azione che dia valore al suo territorio.
benhurtondini@salaecucina.it
Marina Caccialanza
Redazione
Milanese, un passato come traduttrice, da diversi anni giornalista e redattrice per riviste del settore alimentare rivolte al mondo dell’artigianato e all’industria, in particolare nel campo della ristorazione, del dettaglio specializzato e della ricerca. Contribuisce alla realizzazione di importanti libri di comunicazione gastronomica in Italia e all’estero diretti ai professionisti e ai consumatori. Collabora con le redazioni di sala&cucina, Ecod e Trenta Editore.

Luigi Franchi
Direttore responsabile
Prima fotografo di cibo e territori, poi comunicatore, autore di numerosi libri di enogastronomia e di turismo enogastronomico. e infine giornalista di enogastronomia. Tra le sue principali pubblicazioni, scritte e/o coordinate: La prima edizione della Guida al turismo del vino in Italia, per conto del Movimento Turismo del Vino, (1997), I parchi e il turismo enogastronomico (2004), Il marketing delle Strade del Vino edizioni Agra – Rai Eri (2005), Atlante Alimentare Piacentino, con Valentina Bernardelli (2007), “cuo chi, due anime in cucina”, con Alessandra Locatelli, GL.Editore (2009), Dalle Terre Traverse al Po, GL.Editore (2010), ideatore e coautore dei Maestri del lievito madre, Edizioni Catering (2014), coautore della guida online dedicata alla ristorazione Meglio Prenotare, Edizioni Catering, Le interviste (2018) editore Mediavalue. Co-direttore di Food & Book, festival nazionale di editoria enogastronomica luigifranchi@salaecucina.it

marina.caccialanza@salaecucina.it
Redazione
Ricorda con esattezza il profumo del primo pane preparato all’età di sette anni.
Forse il suo primo traguardo e, soprattutto, l’inizio di una grande passione: per le cose semplici, per la genuinità, per gli alimenti che crescono e prendono forma. Dopo la Laurea in Scienze Gastronomiche, la specializzazione in comunicazione enogastronomica, e un periodo di alternanza nelle cucine, ha chiara la missione: scrivere per comunicare. Come? Utilizzando gli strumenti di oggi e la curiosità di sempre. Gionalista pubblicista, collabora anche con la guida di Identità Golose.

Simona Vitali
Redazione
Laureata in filosofia, ha lavorato nella comunicazione e organizzazione di grandi eventi a Parma.
Ha ricevuto una prima inconsapevole educazione al gusto per il cibo grazie all’ indimenticato oste dell’Osteria della Stazione di Felino (PR), il nonno materno Massimino. Con gli studi umanistici è poi arrivata una seconda, consapevole, educazione al gusto per l’utilizzo delle parole secondo il loro significato. Poi sono seguiti un corso di Alta Formazione alla scuola Holden e un master in Filosofia del cibo e del vino. Della ristorazione l’affascina il pensiero e la componente umana. Della formazione di settore segue movimenti ed evoluzioni.

giuliazampieri@salaecucina.it
Gabriele Adani
Grafico
Modenese, appassionato di arte figurativa, fotografia e linguaggi di comunicazione visiva.
s.vitali@salaecucina.it

Nel 1992 inizia il suo percorso professionale presso una casa editrice. Lavora poi in uno studio grafico e fonda una piccola agenzia di comunicazione in cui ricopre il ruolo di direttore creativo per 18 anni.
Viaggiatore, utilizza i frequenti viaggi a Londra e nel Sud Est asiatico per arricchire il suo bagaglio culturale e placare la sua innata curiosità per le altre culture.
Dal 2019 lavora in proprio, occupandosi di fotografia, grafica e consulenze nel campo della comunicazione.
grafica@salaecucina.it









7 LA LETTERA APERTA
Basta una settimana per imparare una mise en place | Luigi Franchi
9 L'EDITORIALE
Le relazioni importanti | Benhur Tondini
10 IL CONFRONTO
Bob Alchimia a spicchi | Luigi Franchi
14 LA FORMAZIONE
Contribuire davvero al cambiamento | Simona Vitali
20 LA RIFLESSIONE
Non sottovalutiamo i palati stranieri | Giulia Zampieri
24 IL RISTORANTE
L'hanno chiamata Trinità | Simona Vitali
30 EMERGENTE SALA
Il futuro della sala | Luigi Franchi
35 EMERGENTE PIZZA
Il mondo della pizza è cambiato radicalmente | Luigi Franchi
39 I CUOCHI
Alcune riflessioni sulla cucina tra sala, accoglienza e lavapiatti | Rocco Cristiano Pozzulo
41 LA NEUROVENDITA
La gola guida il viaggio, il potere dell’enogastronomia nel turismo | Lorenzo Dornetti
44 DOGUSTO
Pesto alla genovese DoGusto | Guido Parri
46 IL VINO
Temporary wine e Komb(w)ine | Giulia Zampieri
50 LA STORIA
L'ultimo ballo del gattopardo | Alessia Cipolla
54 AMODO LA RETE DEI RISTORANTI ETICI
Soj Vino e Cucina | Luigi Franchi
56 LA PIZZERIA
Piccola Piedigrotta, il valore della ricerca | Marina Caccialanza
59 L'OLIO AL CENTRO
Orgogli e pregiudizi | Luigi Caricato
61 LA DIGITAL TRANSFORMATION
Google AI Overview: il futuro della ricerca online | Claudia Ferrero
62 LA RISTORAZIONE
All’ombra del cupolone | Marina Caccialanza
66 LE CONTAMINAZIONI
Georgia Gilmore, la cuoca della liberazione | Federico Panetta
70 LA FIC
Cronache dall’assemblea nazionale della FIC | Guido Parri
75 LA PRODUZIONE
Il gusto di fare impresa con cura | Marina Caccialanza
76 LA PRODUZIONE
Farine che vivono con noi | Marina Caccialanza
78 LA PRODUZIONE
Centro Carni Company punta sul benessere dei suoi dipendenti: numerose le iniziative promosse negli ultimi mesi | Guido Parri
80 I LIBRI
Il primo a prender fuoco fu Totò | Luigi Franchi

N° 94 maggio 2025 foto di copertina: Alberto Blasetti
EDITORE
Edizioni Catering srl Via Margotti, 8 40033 Casalecchio di Reno (BO) Tel. 051 751087 – Fax 051 751011 info@salaecucina.it - www.salaecucina.it
PRESIDENTE
Benhur Mario Tondini benhurtondini@salaecucina.it
DIRETTORE RESPONSABILE
Luigi Franchi luigifranchi@salaecucina.it
COLLABORATORI ESTERNI
Luigi Caricato, Alessia Cipolla, Lorenzo Dornetti, Rocco Pozzulo, Claudia Ferrero, Elena Monteverdi, Federico Panetta, Guido Parri, Francesco Parrotta.
FOTOGRAFIE
Archivio sala&cucina, Archivio IAL Emilia-Romagna, Archivio FIC, Archivio Witaly, Alberto Blasetti
* L’editore è a disposizione per eventuali crediti fotografici di cui si ignora la fonte
RIVISTA PARTNER di AMODO

PUBBLICITÀ
Tel. 331 6872138
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PROGETTO GRAFICO
Gabriele Adani - www.gabrieleadani.it
STAMPA
EDIPRIMA s.r.l. – www.ediprimacataloghi.com
TIRATURA E DISTRIBUZIONE – 28.900 copie Ristoranti, trattorie e pizzerie 20.700 – Bar, pub e birrerie 4.000 – Hotel 3.100 – Grossisti e distributori f&b 1.100
Costo copia mensile: 4,00 euro abbonamento annuo 40,00 euro Per abbonarsi: info@salaecucina.it




In questo mese abbiamo sottoscritto due importanti documenti che daranno vita a un rapporto di parternariato con strutture orientate a dare valore al mondo della ristorazione: l’associazione degli Ambasciatori del gusto e lo IAL Emilia-Romagna, specializzato in attività formative di elevata qualità.
Fare rete è sempre stato nel dna di questa rivista, ogni volta che si è presentata l’occasione di dare il nostro contributo di idee e di azione per valorizzare uno dei settori strategici del nostro Paese – la ristorazione – lo abbiamo fatto.
E, in ogni caso, con gli articoli di sala&cucina abbiamo sempre prestato attenzione all’evoluzione e, a volte, anche all’involuzione di certe pratiche ristorative, condannandole.
Oggi è arrivato il momento di agire più efficacemente, di far uscire la ristorazione da qualche pantano che ogni tanto si crea, di far emergere il valore delle professioni (tutte) che il settore può offrire.
Il paradosso è proprio questo, infatti: la ristorazione è l’unico settore, o uno dei pochissimi, dove il lavoro è garantito ma non si trova il personale adeguato. E questo, nonostante, o forse per qualche colpa, di trasmissioni televisive o di chef che giocano a fare le star e che hanno contribuito, seppur involontariamente, a dare un’immagine sbagliata di questo mondo.
Avere relazioni strutturate con chi, in quel settore, ha idee da portare avanti, mettere a disposizione le nostre pagine, i nostri strumenti digitali, partecipare in prima persona al cambiamento di prospettiva è un dovere morale, è un impegno che non possiamo non sottoscrivere.
Guardare dal di dentro la ristorazione, vederne le potenzialità ma anche gli ancora enormi difetti nel far vivere questo lavoro, far emergere le contraddizioni che

Benhur Tondini presidente sala&cucina
benhurtondini@salaecucina.it
ancora esistono – far star bene le persone a tavola e non quelle che lavorano per ottenere questo risultato, ad esempio – sono aspetti che non vengono mai affrontati con determinazione ma, ricordiamocelo, se non si trovano persone disposte a lavorare nella ristorazione, il problema risiede principalmente nella qualità del lavoro che si offre.
Per questo abbiamo scelto di allacciare questi rapporti con Ambasciatori del Gusto, presieduta da Alessandro Gilmozzi, uno chef sulla cui onestà intellettuale mettiamo entrambe le mani sul fuoco, e con IAL Emilia-Romagna, presieduta da Ciro Donnarumma, una persona che ha molto a cuore le politiche attive del lavoro (approfondiamo questo argomento a pagina 15 di questo numero della rivista). Persone che danno un contributo fattivo alla soluzione dei problemi, persone come piacciono a noi di sala&cucina.
Cosa emergerà da queste relazioni ancora non lo sappiamo con certezza ma siamo sicuri di una cosa: saranno azioni concrete, volte a dare risposte ai problemi che interessano il settore, a creare quella dignità e cultura del lavoro che, purtroppo, spesso viene messa in secondo piano rispetto ad altri argomenti non sempre così interessanti.
Noi ci crediamo, crediamo che il modo migliore di vivere una professione sia dare il meglio di sé, di confrontarsi con tutti, di essere aperti a ogni visione che tende a migliorare le situazioni.




Come si fa a conoscere la Calabria? Quella regione che, in un lungo crogiuolo di culture che si sono sovrapposte nel corso dei secoli, è stata, dai tempi di Enotria, l’inizio del percorso che ha dato vita a una parola: Italia.
Per capire un Paese bisogna assaggiarlo, scrive Massimo Montanari, storico dell’alimentazione, nel suo ultimo libro Geografia del gusto, e questa definizione si adatta alla perfezione con la storia che vi raccontiamo in questo articolo; la storia di un giovane ragazzo, Roberto Davanzo, e di sua moglie, Anna Rotella, che stanno cercando di annullare i pregiudizi che circondano la loro terra, quella Calabria ancora troppo sconosciuta, e lo fanno attraverso il cibo, usando la pizza, il piatto popolare per eccellenza, quello che supera meglio di qualsiasi altro, i confini, “per affermare una cultura che unisce, mette insieme le diversità, ne moltiplica il valore e ne fa un patrimonio comune”, per citare ancora una volta Massimo Montanari.
Roberto Davanzo forse non dice nulla come nome perché è stato scardinato dal soprannome che oggi tratteggia uno dei più bravi pizzaioli d’Italia: Bob Alchimia. E Bob è l’acronimo di Band of Brothers, per rafforzare un concetto a cui Roberto tiene molto: quello di squadra, ma di questo parleremo diffusamente più avanti.
Come, quando e perché hai scelto questa professione?
“Per un caso fortuito. Ero un ragazzino, ancora minorenne, nei primi anni del 2000, quando mio padre mi manda a trascorrere qualche mese a Eraclea, in Veneto, a casa dei miei zii. Uno di loro faceva il pizzaiolo e io mi ero legato a lui, mi piaceva stare a guardare, affascinato, le pizze che crescevano nel forno fino a che mi suggerì di frequentare un corso per pizzaioli. A pochi chilometri, a Caorle, era nata la Scuola Italiana Pizzaioli, e io feci il mio primo corso con Graziano Bertuzzo. Era un corso di base ma sufficiente a darmi una forte spinta verso quel mondo. Quando tornai in Calabria unii il lavoro, lo studio universitario e i corsi per approfondire la conoscenza della pizza. Dopo qualche mese presi la decisione di lasciare l’università, anche se temporaneamente dal momento che posso riprendere quando lo vorrò, e di diventare, a mia volta, consulente formatore della Scuola Italiana Pizzaioli in Calabria. Solo dopo, nel 2016, decisi di aprire la mia pizzeria e lo feci insieme ad Anna, mia moglie. Era un’idea romantica, vivere insieme, avere una bottega per il pane – ne facevamo nove tipi – e la sera sfornare pizze tonde. Il romanticismo durò qualche mese, fino a quando esplosero file chilometriche davanti alla bottega. Era un piccolo locale di 50 metri quadrati. Decidemmo di acquisire anche il garage che c’era sotto, lo trasformammo con i posti a sedere. Poi, durante il periodo pandemico, decidemmo di trasferirci dove siamo ora, sempre però qui, a Montepaone Lido, provincia di Catanzaro, perché il nostro è un progetto costantemente in divenire ma legato indissolubilmente alla nostra terra calabrese”.
Un progetto che ha conquistato molti premi…
“Si, e questi premi – tre spicchi del Gambero Rosso; nelle cento pizzerie migliori del mondo; premio per la miglior pizza dolce; premio di Identità Golose come Miglior Impresa Pizza “per aver fatto diventare un piccolo paesino una destinazione di gusto” – servono a due cose: darci maggior stimolo e motivazione; affermare la Calabria come meta da scoprire e conoscere meglio”.

L’alchimia, parola che usi per definirti, è una sorta di pratica magica affermatasi nel periodo medievale fino al Rinascimento; oggi sta a significare, prevalentemente, un accostamento insolito di elementi che porta a un risultato originale. E per voi cosa significa alchimia?
“Per noi si tratta di un concetto impalpabile, che si trasferisce in qualcosa o in qualcuno nel momento in cui si fanno le cose con amore. Dico sempre che si rincorre spesso la felicità senza conoscerne la chiave. Io la mia l’ho trovata nelle persone che mi circondano, mia moglie, i ragazzi che lavorano con me, gli ospiti di ogni sera in pizzeria. Tutto questo è un’alchimia, un sentimento che riusciamo a trasferire al nostro prodotto”.
Mangiami con le mani! Questa è la regola per chi sceglie di venire nel tuo locale. Perché questa scelta e quali sono le reazioni dell’ospite che viene per la prima volta?
“Cominciamo dalle motivazioni che ci hanno portati a fare questa scelta. Dal punto di vista tecnico tagliando a spicchi una pizza, nel momento stesso in cui esce dal forno, ne facilita l’evaporazione dell’umidità in eccesso. Ogni spicchio viene poi farcito singolarmente per consentire un maggior coinvolgimento di sapori ad ogni morso. Con le mani perché anche il tatto, un senso molto im-

portante quando parliamo di cibo, deve fare la sua parte: creare un contatto diretto con il cibo, toccare l’impasto è un gesto intimo, che crea una maggiore consapevolezza. Infine, vedere mangiare tutti insieme, tutti uguali, con la stessa confidenza è come gettare uno sguardo diverso sul mondo. Davanti a una pizza siamo tutti uguali. Nonostante l’alta qualità delle materie prime e la costante ricerca, la pizza resta un piatto popolare e come tale deve essere gestito. Le reazioni dell’ospite? Le più disparate: gente che si porta le posate convinti che non ce ne accorgiamo; coppie che si lasciano, lei che si alza e va via per il rifiuto di mangiare con le mani, lui che resta o viceversa. Noi li invitiamo a provare e spesso riusciamo a convincerli, anche perché c’è studio dietro al nostro spicchio: viene portato su un tagliere di legno, fatto con un torchio speciale da artigiani trentini che assorbe tutta l’umidità in eccesso, lo spicchio non sbava a destra e a manca, resta compatto al morso e, di conseguenza, non c’è pericolo di sporcarsi”.
Pizza dolce e pizza in caduta: due invenzioni strepitose che non fanno parte del bagaglio abituale di un pizzaiolo. Mi racconti?
“La pizza dolce è un caso ma è stato il primo riconoscimento che ci ha fatto conoscere oltre i confini regionali: la pizza ricotta e bergamotta è stata premiata come miglior pizza dolce dal Gambero Rosso nel 2019. Non prevediamo nulla di diverso dalla pizza perché quella è il nostro elemento identitario: creare un prodotto steso con le mani da cui esce un disco alveolato che si sposa bene con molti topping, anche dolci. Per la pizza in caduta, invece, faccio un passo indietro, quando eravamo un panificio. Il pane si cuoce infatti in caduta di temperatura. Abbiamo applicato il metodo alla pizza, con una prima cottura veloce e violenta a 400° gradi a cui fa seguito un passaggio in forno elettrico a 280° gradi. In questo modo andiamo a creare una pizza leggera, con tutti gli elementi del topping cotti a bassa temperatura. È stato un grande successo anche se è più difficile di altre pizze. Siamo in nove pizzaioli per 250 coperti, un numero spropositato

ma il volume d’affari ci consente di avere il tempo per poter gestire anche la pizza in caduta che necessita di una cottura molto più lunga rispetto ai tre minuti di una pizza tonda”.
Il vostro impasto è davvero di una leggerezza assoluta; come siete arrivati a ottenerlo?
“È uno studio che non finisce mai, ogni giorno c’è il dubbio che ci tiene allertati. Questo significa lavorarci per tanto tempo, capire il ruolo di proteine e amidi, gestire il forno con cotture lente per non fare del male agli impasti. Un impasto di facile gestione cuoce più velocemente mentre il nostro genera ricadute sul servizio che si fa, per forza, più lento, con un numero di tavoli che deve essere proporzionale e quindi minori; pizze che, se non sono perfette, finiscono nel cestino”.
Come insegni ai ragazzi queste regole?
“Coinvolgendoli in ogni singolo aspetto della gestione. Bob non per caso è l’acronimo di Band of Brothers. I ragazzi che ci accompagnano dall’inizio li abbiamo assunti non per competenze acquisite ma per il tipo di sensibilità che riuscivano a far trasparire. Un lavoro non facile all’inizio, fatto di sfaccettature, dove cerchiamo di far emergere la loro visione etica dl lavoro. Crediamo, infatti, che tutelare gli interessi anche dell’azienda in cui lavori e ti trovi bene voglia dire tutelare sé stessi”.
La domanda sorge spontanea: come siete riusciti a creare una squadra di collaboratori che sembrano i

Autrice: Simona Vitali
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Le azioni concrete di IAL Emilia Romagna per i protagonisti del mercato del lavoro: ragazzi, adulti e imprese
Cercare, cercare, continuare a cercare e trovare, come accade quando i cacciatori di pietre preziose setacciano il fondo dei fiumi, finché non resta in superficie un minerale di valore. Si invoca spesso un cambiamento che si inneschi su questo nostro tormentato mondo del lavoro, a partire dalla formazione, e accade che non ci accorgiamo adeguatamente di chi questa azione l’ha già avviata e la sta amplificando con cognizione di causa.

ma veniva la formazione e l’addestramento ora, con l’aumento della fragilità dei ragazzi, la priorità è sul fronte educativo. Abbiamo potenziato notevolmente gli educatori nei convitti, che gestiscano i ragazzi nel tempo libero”.
L’approdo a Eurhodip ha consentito a IAL di poter arricchire il curriculum degli studenti con un bel programma di mobilità internazionale (esperienze all’estero) per classi intere (non qualche studente) presso le scuole di Eurhodip (no stage come Erasmus). In più oltre all'ottenimento della consueta specializzazione di cucina, sala e pasticceria, si aggiunge anche un’ulteriore qualifica, relativa alle competenze professionali, nello specifico l’European Diploma in Hotel & Restaurant (livello EQF 5), peraltro convalidato da un consiglio di rappresentanti qualificati delle aziende di ospitalità, ristorazione, industrie del turismo e agenzie per l’impiego, quali: direttori generali, direttori di hotel, capi dipartimento, direttori delle risorse umane, responsabili del reclutamento ecc… Esperienze mettono gli studenti a prova sulle conoscenze linguistiche e nelle condizioni di entrare in una logica internazionale (conoscenza del mondo)” - sottolinea il direttore progetttazione IAL Emilia Romagna nonché consigliere CdA Eurhodip, Daniele Calzolari

Sul fronte delle scuole c’è poi una procedura di accreditamento, Eurhoqual, che consente loro di organizzare il proprio sistema di qualità, imparando dalle migliori istituzioni europee del settore turistico e alberghiero.
“Recentemente un’Università dell’Arabia Saudita si è mossa in questa direzione – ci spiega il presidente Donnarumma – per poter lavorare in qualità rispetto agli standard europei”.
Dalla conoscenza e collaborazione con le aziende
Academy delle carni e dei salumi
Sapere ascoltare le necessità, persistere nel credere nella fattibilità di un progetto cullato da qualche anno (le cose serie non si improvvisano!) anche quando tutto sembrava remare contro, ha portato IAL Emilia Romagna con il patrocinio del Comune di Castel-
nuovo Rangone (MO) e il sostegno di nove aziende del territorio (Agricola Tre Valli, Alcar Uno, Bellucci, Salumificio Vecchi, Gigi Il Salumificio, Villani, Prosciuttificio San Francesco, Industria Salumi Simonini, Globalcarni) a creare l’Accademia delle carni e dei salumi, per sostenere l’occupabilità nel territorio compreso tra Castelnuovo Rangone, Castelvetro, Spilamberto e Vignola, dove c’è una concentrazione unica in Italia di grandi e medie imprese specializzate nella lavorazione delle carni. Ma anche per mantenere e tramandare le competenze professionali e pure crearne delle nuove, favorire il ricambio generazionale (nel settore lavorazione carni, infatti, il 25% dei lavoratori supera i 50 anni di età, mentre il 16,5% ha dai 57 ai 62 anni) e sostenere la qualificazione di un comparto che ambisce a diventare un punto di riferimento non solo in Italia, ma anche a livello internazionale. Ci tiene a sottolinearlo Ciro Donnarumma: “L’accademia si pone a disposizione non di un’azienda bensì dell’intero distretto. I primi corsi rivolti principalmente a disoccupati, su “lavorazione e preparazione prodotti salumeria e macellazione e sezionamento delle carni”, sono partiti a gennaio e termineranno a giugno 2026 (624 ore di formazione). I docenti sono tutti professionisti e tecnici operanti nel settore Agrifood e, nello specifico, nella filiera della lavorazione delle carni”.
A marzo ha preso il via a Modena anche il corso sulla lavorazione e preparazione dei prodotti salumeria, che è solo uno dei corsi a catalogo, che contempla 13 progetti riguardanti una vasta gamma di contenuti, modulabili fra loro.
Tutti quanti sono interamente finanziati dalla Regione Emilia Romagna e dall’Unione Europea, e quindi
Conoscere l'Aceto Balsamico per bocca di Mario Gambigliani Zoccoli, presidente del Consorzio
Produttori Antiche Acetaie

gratuiti, e si rivolgono sia a lavoratori che a disoccupati.
Non mancheranno corsi ad hoc per singole aziende che hanno bisogno di sviluppare nuove competenze. Ma di questo non tarderemo a parlarne meglio prossimamente
Poter cambiare strada in età adulta Un ulteriore potenziamento degli IFTS arricchisce i curricula dei corsisti
Gli IFTS sono corsi di formazione tecnica superiore post diploma, attivati già da qualche anno, organizzati da più pulpiti.
Qui ci soffermiamo su un corso specifico che IAL Emilia Romagna propone a Parma, Castelfranco Emilia (MO), Bologna e Forlì per Tecnico esperto in valorizzazione delle tipicità enogastronomiche del territorio, mirato a stimolare i partecipanti a “promuovere esperienze territoriali integrate (ambiente, storia, enogastronomia, sport, cultura ecc.), re-interpretare le tradizioni del territorio in funzione dell’evoluzione dei gusti, con particolare attenzione alla biodiversità e sostenibilità ambientale (riduzione dello spreco nel processo di produzione e riuso),usare i canali social e altri strumenti digitali per comunicare l’enogastronomia del territorio, realizzare menu a base di prodotti tipici selezionando i fornitori che offrono garanzie di qualità e curando anche elaborazione e presentazione dei piatti, fra le altre cose… quindi decisamente multidisciplinare” come ci spiega Daniele Calzolari Il corso si rivolge a giovani e adulti disoccupati, inoccupati o occupati, di norma in possesso del diploma di istruzione secondaria superiore (ma anche dell’am-

Autrice: Giulia Zampieri

La cucina italiana all’estero ha connotati qualitativi diversi rispetto al passato. Ma tante attività di ristorazione in Italia non ne tengono conto

di carattere naturalistico. Prendiamo il riferimento del popolo statunitense, dunque, solo per una questione numerica e per non risultare a-specifici. Premettendo che la stessa oculatezza va, naturalmente, adottata con qualsiasi visitatore straniero, a prescindere dal potere d’acquisto, dai volumi di presenza e dalla tipologia di soggiorno. L’accoglienza, per definizione, non si pone limiti!
Come ci relazioniamo al turismo
statunitense
Visto che non si tratta di una dinamica insolita, non bisogna aver molto spirito di immaginazione per prefigurarsi la scena a cui ho assistito qualche mese fa, in una calle di Chioggia: un ristoratore fa accomodare dei turisti e poi si volta verso il cameriere commentando “tanto sono americani”. L’altro sogghigna con fare approssimativo e, ciondolando, va a prendere i listini. Il locale era semi-deserto (ci sarà un motivo?) ma non è questo il punto: è un modo di atteggiarsi gonfio di pregiudizi, privo di intelligenza, che merita di essere estinto… e invece in molte attività perdura, arrecando danni a tutti, anche a chi non si occupa di ristorazione. Mentre rievoco questo siparietto sgradevole - avvenuto per altro in una città entrata nel 2022 nella magica lista delle città da vedere secondo il NYTimes - la mente corre a una pizza davvero straordinaria assaggiata un anno fa in una piccola località situata tra Los Angeles e San Diego. Si trattava di una tonda classica,
lievitata e cotta alla perfezione, farcita con ingredienti italiani straordinariamente buoni, dalla salsa di pomodoro alla scarola. Il servizio era informale, piacevole e organizzato.
In quella pizzeria dalla qualità indiscutibile si riversano ogni giorno decine e decine di americani affezionati ai gusti e allo stile italiano. Non servono manuali di cultura gastronomica per leggere tra le righe: se negli Stati Uniti ci sono insegne come queste (non è un caso isolato, tutt’altro) anche il palato degli americani si sta allenando in modo diverso.
Ce lo hanno confermato in passato Paul Bartolotta, autentico ambasciatore della cucina italiana con svariate attività di ristorazione a Milwaukee; Andrea Giuliani, titolare del ristorante Pausa di San Francisco; e in ultima Eva Furletti, giovane chef trentina trapiantata in California da qualche anno.
“Vedendo l’Italia dall’altra parte del mondo, e raccogliendo il feedback dei clienti che rientrano dai viaggi nella Penisola, posso dire che mi è chiara una cosa: noi italiani sottovalutiamo molto la loro capacità di interpretare e apprezzare la nostra cucina” inchioda subito Eva.
“Oggi il palato degli americani, mediamente, è abituato a una cucina o a una pizza italiana realizzata da italiani trapiantati in America, non da italo-americani. Sono abituati a frequentare attività imprenditoriali a cui fanno capo italiani, in particolare negli stati costieri e nelle metropoli. Questo cosa significa? Che la qualità,


la fedeltà ai prodotti e alle ricette italiane si è alzata visibilmente. Circolano di più, c’è più conoscenza”.
Un’altra osservazione riguarda il commento di molti americani rispetto ai piatti provati in Italia. Continua Eva: “Non metto più in dubbio la capacità degli americani di apprezzare i piatti della nostra tradizione. Ne sono affascinati, ammaliati, e sono disposti a spendere per fare esperienza, per capire origini e consuetudini. Semmai mi domando come possano tanti locali, soprattutto nel contesto urbano italiano, proporre una cucina turistica che non tiene conto delle cotture, della qualità degli ingredienti, delle tipicità regionali. È importante trasferire identità a chi fa visita a un luogo… partire prevenuti e incentrati sul profitto non giova sicuramente. Si traduce solo in un ricordo negativo!”.
Sono ancora troppi gli italiani convinti che la nostra sia la migliore cucina al mondo ma che non le rendono onore e non si mettono nei panni del cliente straniero che bussa alla porta per conoscere. Poniamoci un obiettivo di ospitalità, veridicità e divulgazione per invertire la rotta!
I turisti statunitensi - e non solo loro - trovano stimolante osservare le preparazioni, avere certi rituali come sfondo, e questo può essere uno spunto. Se non dovessero avere una pizzeria come quella sopracitata nelle vicinanze di casa, oltreoceano, vale lo stesso

discorso: dobbiamo mostrare loro la nostra cultura per quella che è quando ci fanno visita, senza riadattamenti né compromessi.
La pasta precotta condita con del sugo anonimo, mangiata lungo una via turistica di una città italiana, dimostra solo una cosa: l’assenza di interesse e di tutela per la nostra cultura.
Piuttosto che perpetuare certe modalità di ottimizzazione dei costi e dei tempi spieghiamo ai turisti stranieri quanto deve cuocere la pasta di semola di grano duro, come si mangia al dente e perché. Diamogli modo di provare davvero i nostri sapori, le nostre usanze, le lentezze: la maggior parte di loro è qui proprio con quel proposito.
Stimolare l’effetto wow può essere un’opportunità economica (è facile che venga premiata) ma è soprattutto un’occasione di trasparenza culturale e una forma di rispetto per le proprie origini.
Per garantire futuro, continuità e tridimensionalità alla cucina italiana dobbiamo dare il meglio di noi stessi a chi ci fa visita. Non basta semplicemente essere.

L’hanno chiamata Trinità
E in effetti una speciale aura c’è
Con tutto il “cucinato come si deve” che una solida trattoria può offrire, iniziare col discorrere da un bel tagliere di salumi, da cui svettano Coppa, Salame e Pancetta rigorosamente piacentini e, a eventuale coronamento, una selezione di Prosciutto di Parma, Culatello e Culaccia, può far pensare di non rendere abbastanza giustizia alla natura di quel locale.
Non è così per la Trinità di Vernasca (PC) che con quella triade d salumi piacentini sta dando la migliore espressione di sé da 52 anni, dal momento che li produce e li stagiona divinamente in una cantina di terra e sassi. E questo fin dall’inizio, quando i piatti in menù erano pochi e c’era da spianarsi la strada davanti, stringendo i denti per conquistarsi poco a poco i clienti in quella piccolissima frazione di Vernasca, da cui dista 12 km, che prima che di pranzi o cene aveva bisogno di servizi. E qui potremmo aprire una bella parentesi sul cosa significhi mettersi a disposizione di una comunità che necessita di tutto… ecco, il senso di “servizio”, che oggi andiamo sbandierando farcendolo di parole, potremmo andarlo a pescare da qui. Anzi lo facciamo, perché certi passaggi vanno narrati, se possibile con dovizia di particolari.
Innamorarsi come nei film
Correvano gli anni ’60 quando un ragazzino, senza saperlo, iniziava a tracciare la strada che avrebbe coinvolto una famiglia intera, la propria. Lo hanno mandato a fare il cameriere, Giovanni, Giovanni Solari, che un mestiere doveva impararlo. Ha iniziato come per gioco ma poi
si è appassionato. Ha fatto anche una stagione all’Hotel Londra di Sanremo, frequentato dai cantanti del festival (Mina, Massimo Ranieri, Johnny Dorelli), ma questo non è bastato a convincerlo a stare mesi lontano da casa e, soprattutto, a continuare a lavorare per altri. Così ha maturato di fare qualcosa di suo. “Ti do il locale” gli propone un compaesano che da qualche tempo ha avviato una piccola trattoria che andava a velocità ridotta… “Non ho i soldi” si premura di rispondergli Giovanni, oltre al fatto che da solo non potrà mai affrontare quell’attività così impegnativa. Da qualche tempo sta frequentando Ornella Rizzi, l’unica delle tre figlie dell’oste e proprietario del locale ad aver giurato che non farà mai quel lavoro. “Se dici che mi aiuti nell’attività, trovo il modo di comprare l’osteria” - confida, ad un certo punto, Giovanni ad Ornella. E lei: “Ma dobbiamo ancora innamorarci”, intendendo dire con questo, il rendere ufficiale la frequentazione, sposarsi. Così intensificano il vedersi, il padre di Giovanni impegna il proprio podere per poter ottenere un fido dalla banca e i due giovani si sposano in un lunedì di agosto, l’unico giorno in cui i colleghi del ristorante dove lui sta lavorando possono essere presenti.
L’originaria insostituibile funzione sociale della trattoria
La trattoria apre i battenti nel novembre del 1973. A supportare Ornella, giovane sposa, in cucina, la suocera principalmente, ma anche la mamma. Non è semplice lì a Trinità, fra un pugno di case, richiamare gente da fuori. “Il primo ultimo dell’anno lo abbiamo trascorso


guardandoci in faccia” - racconta Giovanni -. “Avevamo cinque o sei maiali da cui ricavavamo coppa, salame e pancetta e proponevamo anolini in brodo…ne facevamo dei cabaret e capitava che li mangiassimo noi per non consumarli, dato che ne vendevamo pochi. Poi ha iniziato pian piano a girare. Arrivavano da Fiorenzuola, Fidenza. Capitava che venissero a pescare nello Stirone e ci portassero i pesci da friggere… Eravamo molto scomodi in quella struttura su due piani (cucina sotto e saletta sopra) che era anche la nostra casa.
Fatti due soldini, abbiamo deciso di costruire qualcosa a misura delle nostre necessità. Preso accordi con quatto o cinque diversi proprietari di case vecchie, confinanti fra loro, abbiamo buttato giù tutto e fatto costruire ex novo”. Ornella interviene con un ricordo nitido: “Abbiamo inaugurato prima del tempo il nuovo locale in occasione dele cresime: erano troppi gli ospiti, nella vecchia struttura non ci stavano”.
Una trattoria, unico punto di socialità di un nugolo di
case, c’è per la mescita (il servizio bar), la bottega con i generi alimentari di prima necessità, il servizio di telefono pubblico e pure quello della vendita delle bombole del gas. È chiara la funzione non semplicemente commerciale ma sociale di una simile attività, che in questo modo rende meno ostico abitare quel luogo ma si carica di oneri ulteriori, capaci di fagocitare la giornata dell’oste per intero. Proviamo solo a immaginare telefonate che arrivano a tutte le ore, cercando dell’uno e dell’altro, e il dover andare ad avvisare i diretti interessati di raggiungere la postazione entro l’orario accordato e magari sentirsi chiedere: “Puoi dirgli che non ci sono?” oppure rimanere impantanati con l’auto e dover tornare indietro a prendere il trattore per tirarla fuori… per una telefonata! O il vedersi arrivare mezzogiorno qualcuno che dice: “Sono rimasto senza gas”.
“Era una forma di rispetto che noi portavamo verso le persone. Adesso, cose del genere non le fanno nemmeno se si paga” - chiosa, Ornella, schietta e verace,


che dal mestiere ha imparato che ci sono situazioni in cui è meglio tacere -. “Da più di 50 anni sono cuoca, mamma, moglie. A volte ho fatto da avvocato, a volte da carabiniere” è solita dire.
Mentre la trattoria si coloriva di questi momenti, rimaneva fedele al proprio ruolo di servire piatti, pochi, ma ben fatti: i salumi, accompagnati dalla bortellina (pastella di acqua e farina, fritta), non mancavano mai, nemmeno gli anolini e i tortelli d’erbette e i pisarei e fasõ e i vari arrosti. Un giorno, durante il pranzo, è accaduto che terminasse il pollo al forno. I tempi stretti hanno fatto optare per friggerlo (a quarti, o coscia o ala) ed è piaciuto tantissimo. Da quel momento il pollo fritto è diventato un piatto immancabile, ancora in carta oggi. L’ingegno di Giovanni ha affinato la modalità di cottura. Se all’inizio infatti il coperchio della padella veniva compresso da un mattone per tenere schiacciato il pollo, lui ha ideato e fatto realizzare dal fabbro un anello in ferro con il manico da sostituire al mattone. Questo piatto ha segnato la storia di Trinità e ancora oggi è in carta come allora, cotto con la medesima tecnica.
Anche per i pisarei, i tipici gnocchetti piacentini a base di ingredienti poveri – acqua, farina e pane grattato -, c’è qualcosa da raccontare. Si dice infatti che quando la futura sposa veniva presentata in famiglia, la suocera controllava che il pollice avesse piccole callosità, segno che sapeva fare i bene i pisarei. Per alleggerire questo lavoro certosino ancora eseguito a mano, Giovanni ha pensato bene di fare realizzare una forma con quattro buchi per la macchina della pasta, per produrre biscioline regolari di pasta da tagliare e lavorare rigorosamente
a mano. In questo Ornella è sempre stata molto veloce: “Una macchina, tanta è la sua rapidità e precisione nel realizzarli” dice di lei il marito.
Ma riprendiamo quel magnifico piatto di salumi da cui abbiamo iniziato a raccontare questa storia, che a ben guardare emana profumo ed esprime stagionatura anche dalla foto di questa pagina della rivista, e immaginiamo di coronarlo con un traboccante cestino di torta fritta dalla pasta liscia, gonfia che quasi sembra scoppiare e, soprattutto non unta, e un bel bicchiere di vino giusto. Il vino. Ecco l’elemento segnalatore di una squadra familiare che si è rinforzata. È l’ingresso di Filippo e Cristian, i due figli della coppia - che hanno pensato bene di coltivare passioni e interessi “al di fuori”, semplicemente studiando, facendosi una cultura nel proprio - a portare nuova linfa all’attività che peraltro è rimasta sempre sulla breccia.
Ornella e Giovanni sono ancora lì nel ruolo rassicurante di chi garantisce che i capisaldi non sono venuti a mancare, impegnati in prima linea in ciò che hanno sempre fatto mentre con Filippo, il figlio più grande e primo a far capolino, entra nel locale la grande passione per il vino e l’offerta diventa più ricca e mirata. A contagiarlo un coinvolgente rappresentante, Graziano Pagliari, che ha pure mandati di cantine importanti, ben inserito nei ristoranti piacentini.
Un’ulteriore entusiasmente avventura: la nascita dell’azienda vitivinicola La Margherita
Ben sapendo della passione di Filippo per i vini, i due cugini, Nicola e Sabrina Mangiavacca, proprietari di
un podere in quel di Bacedasco Basso, a Vernasca (PC), che hanno sempre affittato, propongono a lui e a Cristian di aprire una azienda vitivinicola bio insieme in un’area, quella di Bacedasco, assolutamente vocata per il vino, vuoi per il terreno vuoi per la sua esposizione, così vicina per queste caratteristiche alla zona dello Champagne. Sei ettari di terreno coltivati a Barbera, Bonarda, Malvasia, Ortrugo, Marsanne. La chiameranno La Margherita, che è il nome della bimba della coppia. Il 2014, l’anno di partenza, si rivela poco fortunato perché continua a piovere ma si rifanno negli anni a seguire. L’ incontro di un bravo enologo gli farà fare un bel salto di qualità, come i riconoscimenti che stanno arrivando dimostrano. Giusto quest’anno il Gutturnio superiore è stato fra gli otto vini premiati dalla guida Slow Wine (conferita la “moneta” per l'ottimo rapporto qualità-prezzo). E già questo è un ottimo abbinamento per quella torta fritta con salume di cui stiamo parlando. Per chi invece vuole osare qualcosa di più è il caso di pescare nelle vinificazioni a fermentazioni spontanee in cui i quattro soci credono molto, che gli consente di tirar fuori, con macerazioni più o meno lunghe vini meno standard, diversi. Prendiamo, ad esempio, Incanto Sur Lie, un vino molto territoriale che con quei suoi sentori di salvia e rosmarino si sposa benissimo con i salumi piacentini. Con la sua acidità spiccata va a sgrassare questa salumeria, che è buona quando è grassa.
Il fronte della cucina rinforza la sua solidità con Cristian, che ha fatto la scuola alberghiera e non ha mancato negli anni di alimentare quella sapienza che lo fa essere acuto nella delicata gestione dei loro salumi (“si stagiona con il clima in nostro salume, non abbiamo cel-
le. Ventola e deumidificatore che tolga l’umidità sono tutta la nostra attrezzatura” ci tiene a specificare). C’è poi la scelta di tenere un orto come occasione, prima di tutto, per godersi il suo piccolo Riccardo - che sta crescendo con sana curiosità dentro la cultura delle cose buone - oltre ad occuparsi dei secondi e dei dolci. Un’equilibrata spartizione dei compiti questa fra i due fratelli, che è innanzitutto rispetto per quello che i genitori hanno e stanno ancora seminando. Arrivare a Trinità e trovare una trattoria di buon gusto, accogliente, recentemente ristrutturata al suo interno, con grandi pareti di bella carta da parati, è ciò che non ti aspetti. La nuova stagione estiva inaugurerà una veranda completamente rinnovata, pure questa. Il menù è fatto di tanti capisaldi, che sono i piatti consolidati negli anni - piatto che vince non si cambia - con variazioni e piccole novità stagionali via via introdotti. Non si lesina sulla ricerca della qualità a costo di guadagnarci un po’ meno.
Come dev’essere un oste oggi? Come Filippo Solari. Entusiasta, volitivo, mai contento e sempre alla ricerca di qualcosa di meglio, convinto – e lo siamo anche noi –che il verso in cui si taglia il salume fa la differenza nel gusto. Letteralmente innamorato del suo lavoro. E la famiglia, che è la sua scuola, è con lui.
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Autore: Luigi Franchi
Se ne è discusso in un convegno a Emergente Sala
A fine aprile, a Monza, si sono svolte le finali di Emergente Chef, Emergente Sala ed Emergente Pizza, le tre manifestazioni ideate da Luigi Cremona e Lorenza Vitali per mettere in risalto il ruolo delle giovani generazioni nel mondo della ristorazione. Eventi che, in questo 2025, hanno compiuto esattamente 20 anni per Emergente Chef, 15 anni per Emergente Pizza e 10 anni per Emergente Sala. Per valorizzare ulteriormente questo format, a fine gara, si sono svolti tre talk sui rispettivi argomenti: sala, pizza e cucina. In questo numero parliamo di due di questi talk, iniziando da quello dedicato alla sala, condotto da Lorenza Vitali. Il futuro della sala. Ospitalità e servizio al centro, ma non ancora messi in valore quanto merite-
| maggio 2025
rebbero: cosa fare?
Questo il titolo del talk a cui hanno partecipato: Simone Giorgi, general manager del Park Hyatt Milano e riconosciuto come miglior GM di hotel al mondo al Virtuoso Global Awards 2024 a Las Vegas; Renata Cumino, dirigente scolastica dell’Istituto Alberghiero Adriano Olivetti di Monza; Mauro Santinato, CEO di TeamWork Hospitality ed esperto di marketing alberghiero; Federico Gordini, fondatore della Milano Wine Week; Tany Nardi, co-titolare dell’Hotel de la Ville di Monza.
“C’è ancora tantissimo da fare. E non vedo ancora, qui ve lo dico, non vedo ancora questo entusiasmo, non vedo ancora, nei ristoranti, negli imprenditori, questa tensione per far crescere un risultato così importante come il servizio di sala, così determinante per il futuro della ristorazione”, ha esordito così, mettendo subito il dito nella piaga, Lorenza Vitali prima di dare la parola agli ospiti.
Comincia Simone Giorgi raccontando i suoi inizi e come è arrivato al titolo di miglior General Manager di hotel al mondo: “Sembra strano, ma io a quasi 60 anni mi emoziono ancora di fronte al pubblico, nonostante lo faccia continuamente in diversi paesi del mondo. Vorrei cominciare con un aneddoto importante. Ho iniziato a lavorare, a 14 anni, all’Enoteca Pinchiorri di Firenze e la sala, a quei tempi, era considerata il cuore del ristorante. Negli anni è cambiata la visione ma non dimentichiamo mai che chi lavora in sala ha in mano
le sorti del ristorante perché dal personale di sala dipendono i risultati economici, dal saper vendere bene un piatto, un menu degustazione o un vino. Nei miei quarant’anni e più di carriera ho visto tutte le trasformazioni intervenute nella ristorazione e nell’ospitalità. Oggi sono a capo di una brigata di 260 persone di cui circa 80 impegnate nella ristorazione. Quindi quasi un terzo del nostro business riguarda questo settore, sempre più importante anche per l’immagine di un hotel. La ristorazione è cresciuta tantissimo in Italia, raggiungendo livelli importanti sul piano della promozione per il nostro Paese, quindi il servizio è da considerarsi un elemento fondamentale della ristorazione. Che fare, ci si chiede nel titolo di questo talk? In primis è cercare di lavorare in un ambiente di qualità, creare un ambiente sereno, favorire un ambiente professionale dove l’esperienza, perché ormai si parla di esperienza, non si parla più di altro, che si riesce a trasmettere agli ospiti lasci un segno indelebile. E poi cura della persona! Per fare questo, per prendersi cura dell’ospite è importante, oltre a pianificare tutti i vari livelli di attenzione, tutti i dettagli, praticare un’ospitalità autentica costituita da vari elementi: l’informalità, la conoscenza, la cultura. Ma qual è il segreto, se si può dire, davanti a un compito di questo tipo? Non c’è un segreto, c’è un duro lavoro come in tutte le cose. Quello che dico sempre è che tutto quello che arriva veloce, va via veloce. Ricordatevelo, lo studio è fatica, lentezza, tempo ma poi vi regala tantissime


soddisfazioni. Ci vuole tanta dedizione, tanto amore, tanta passione per questo lavoro che è la ristorazione di sala, un settore fondamentale che oggi è, in molti casi, ridotto a quello di portapiatti. Invece bisogna cambiare questa mentalità e dar vita a una formazione adeguata all’oggi. Le aziende devono investire di più sui giovani. Io ho un target di età molto basso, perché continuo a cercare di investire e promuovo i ragazzi, cercando di mandarli fuori all’estero, cercando di formarli e di aiutarli a vivere. I ragazzi vanno lasciati andare. Questa è la grande capacità, solamente non quello che vuoi da loro, di capire quando è il momento di lasciarli andare”.
L’intervento di Renata Cumino, dirigente scolastica dell’Istituto Olivetti di Monza, inizia chiedendo un attimo di attenzione da dedicare alla quarantina di ragazze e ragazzi presenti, “in rappresentanza di almeno 200 studenti, dei docenti, assistenti tecnici, collaboratori scolastici che sono stati coinvolti nell’organizzazione di Emergente. Per questo vi chiedo un applauso ai miei studenti”. “Adesso però – continua la Cumino - vorrei focalizzarmi su quella che era la tua domanda iniziale, cioè come fare in modo che la sala possa essere riabilitata e avere il ruolo che merita. Io riprendo un concetto che ovviamente riguarda tutti i settori di questo campo e, secondo me, anche la gestione di qualunque organizzazione complessa. È indispensabile creare un ambiente di lavoro piacevole, dove si ha voglia di andare tutti i giorni, in cui si lavora e ci si sforza ma con soddisfazione. Dove viene riconosciuto l’impegno e il modo di lavorare. La seconda parola chiave è qualità. Perché se gli studenti non riconoscono la qualità dell’esperienza che viene pro-
posta, partecipano per dovere la prima volta, la seconda sono già recalcitranti, alla terza non vengono più. Il nostro sforzo come istituzione scolastica è davvero fornire ai nostri studenti delle esperienze di qualità come quella di questi giorni. All’interno della scuola, un’esperienza di valore è il ristorante didattico dove gli studenti vivono direttamente l’esperienza del pubblico, l’emozione, l’adrenalina che questa professione esprime. E poi le azioni di partenariato internazionali che aprono la mente; abbiamo avuto circa 150 studenti che hanno lavorato a progetti di scuola – lavoro persino in Australia e questo è un grande valore aggiunto. Siccome la scelta viene fatta su selezione, anche lo studente meno voglioso di mettersi in gioco capisce che ne vale la pena. Con questi strumenti abbiamo anche ridotto la percentuale di dispersione al termine della scuola”.
Mauro Santinato ha iniziato il suo intervento con una piccola ma dirompente provocazione. “Il mio primo lavoro è stato fare il cameriere e devo dire una cosa: per imparare a fare una mise en place ci impieghi al massimo una settimana e poi te lo ricordi per tutta la vita come si fa tecnicamente. Perché dico questo? Perché ai ragazzi, oggi, dobbiamo dare strumenti diversi, studi diversi, modi di vedere il mondo diversi. Se oggi siamo qui a dover ancora affermare l’importanza del lavoro del cameriere credo che ci sia un problema enorme nel nostro settore, perché non riesco a credere come sia possibile non capire che il servizio di sala rappresenta la forza commerciale di qualsiasi ristorante. Provate a immaginare questa sera 100.000 ristoranti in funzione, se non ci fossero camerieri il 99% chiuderebbe. La sala è il cuore dell’accoglienza, ma viene ancora trattata come
un accessorio. È il momento di cambiare questo film. Basta con l’idea che chi sta in sala ‘serve’ e chi sta in cucina ‘crea’. La verità è che il cliente non ricorda solo cosa ha mangiato, ma soprattutto come lo hai fatto sentire. E questo, lo decide la sala. Parliamoci chiaro: il cliente di oggi è più esigente, più informato, e ha meno tempo. Quando entra in un ristorante o in un hotel, non vuole solo mangiare o dormire bene. Vuole sentirsi capito, accolto, riconosciuto. E questo non lo fa il cuoco o l’architetto. Lo fa la sala. Lo fanno le persone. È lì che si crea la magia –o si rompe tutto. Eppure chi lavora in sala viene spesso visto come un ripiego, un lavoro temporaneo, una tappa. Ma io dico: chi sa accogliere, chi sa leggere il cliente, chi sa gestire un imprevisto con classe... è uno che ha più skill di tanti manager che girano con la cravatta e PowerPoint. Noi possiamo fare tutti i corsi del mondo, ma se i ragazzi non vedono un futuro, se non capiscono che questa può essere una carriera vera, con crescita e soddisfazione, mollano. E mollano subito. Perché non basta insegnare come si apre un vino o come si serve

un piatto: bisogna ispirare. Dobbiamo raccontare storie di chi ce l’ha fatta, di chi ha fatto carriera, di chi oggi è maître, restaurant manager, direttore di sala, e si è costruito un’identità forte. Servono modelli, serve narrazione. E serve rispetto. Perché un grande servizio di sala può salvare una serata storta. Una cucina stellare, con un servizio scadente, può invece rovinare tutto. Se oggi siamo qui a parlare del ‘futuro della sala’, è perché il presente non basta. E la verità è che se non cambiamo mentalità, perdiamo il futuro. La nuova generazione non è meno motivata: è solo meno disposta a lavorare in posti dove non viene rispettata, dove non vede prospettive, dove il lavoro è solo fatica e non è riconosciuto. E allora dico: investiamo nei giovani, formiamoli, trattiamoli bene, e – soprattutto – diamogli un senso. Perché se dai un senso a quello che fanno, ti danno l’anima. L’ospitalità non è un prodotto. È un’esperienza, fatta di persone. E tra tutte le persone, chi lavora in sala è quella che fa la differenza vera. Facciamola contare. Facciamola brillare. È ora”.
Federico Gordini ha esordito ricordando come, nel 2015, ai tempi di Expo, era vicepresidente di Confcommercio Giovani e, “in quegli anni, si era raggiunto il 500% di richieste in più di accesso ai corsi professionalizzati in cucina rispetto all’offerta, dovuto alla valorizzazione mediatica dei ruoli, mentre mi resi conto che la sala non veniva mai valorizzata. Partiamo da quel dato, un momento di crisi pesantissima per questo tipo di professione che non

Autore: Luigi Franchi
Ad Emergente Pizza si è tenuto un talk, condotto da Dominga Cotarella, sul tema Il mondo della pizza è cambiato radicalmente: la sua identità è stata finalmente sdoganata nel suo ruolo d’impresa!. Il talk si è svolto al termine della gara che ha visto vincitore di Emergente Pizza 2025 Antonio Coppola della pizzeria Fratelli Coppola di Milano.
Gli interventi sono stati di: Ottavio Di Brizzi, direttore editoriale del Touring Club Italiano; Alessandro Gilmozzi, chef e presidente dell’Associazione Italiana degli Ambasciatori del Gusto; Renato Bosco –
Maestro pizzaiolo e innovatore, fondatore di Saporè a San Martino Buon Albergo (VR); Giorgio Agugiaro, owner Agugiaro & Figna Molini e una delle voci più autorevoli nel settore molitorio; Ferdinando Del Vecchio, cuoco contadino e titolare dell’Agriturismo Cecauciello a Nusco (AV); Franco Pepe, maestro pizzaiolo di fama internazionale e protagonista di “Chef’s Table: Pizza”.
Ottavio Di Brizzi
La parola, all’inizio, è stata quella di Ottavio Di Brizzi che ha ammesso di non conoscere, fino a poco tempo fa, l’evoluzione del mondo pizza anche se campano di origine e consumatore di pizza ma abitudinario: “Mangiavo quella sotto casa e mi rifiutavo di mangiarla altrove”. ”Cosa c’entra il Touring Club Italiano con la pizza? – ha continuato – Il nostro è un mestiere di cartografi ma descrivere oggi il mondo pizza significa anche saper disegnare mappe di geografia sentimentale,

nel 2015, in concomitanza con Expo, oggi è l’interlocutore privilegiato del ministero delle politiche agricole, con le istituzioni abbiamo un tavolo di lavoro permanente che ha dato vita anche ad alcuni decreti legislativi. Siamo un gruppo di quasi 240 professionisti che amano confrontarsi sulle tematiche dell’alimentazione, della cucina italiana e della ristorazione. Perché questi sono temi che creano quella cultura italiana per la quale siamo apprezzati nel mondo intero”.
Renato Bosco
Renato Bosco, invece, ha parlato degli stimoli che lo hanno portato a credere nella figura del pizzaiolo: “Ho avuto la fortuna, tantissimi anni fa, di partecipare a degli approfondimenti proprio nel momento in cui Agugiaro lanciava il suo progetto di farine dedicate alle pizze e questo mi ha favorito un’apertura mentale diversa, mi ha dato la possibilità di vedere quel futuro nel mondo pizza che oggi è realtà. Incontrarsi, parlare, confrontare le diverse idee è stato l’elemento che ha consentito la svolta, ha permesso a un prodotto popolare come la pizza di assurgere a una dimensione così importante nei consumi fuori casa, di far diventare i nostri locali luoghi dove si resta più a lungo perché sono belli, comodi, alla portata di tutti”.
Ferdinando Del Vecchio è stato presentato da Dominga Cotarella come uomo contadino, imprenditore che fa agricoltura multifunzionale.
“Per chi non ha conoscenza profonda dell’agricoltura multifunzionale, – afferma Del Vecchio - è quella legge di orientamento che ha permesso di trasformare il produttore in imprenditore. Quindi non è soltanto uno che produce, è quello che trasforma, colui che gestisce anche un agriturismo. Io produco vino a Nusco, sono un’azienda multifunzionale, cerealicola, castagne, vino, faccio quasi un po’ tutto ad eccezione della carne. Produciamo pasta
fresca e, essendo io un appassionato di farina, mi sono dedicato anche alle pizze. Ma quello che voglio dire è che bisogna rispettarsi i tempi della stagionalità, avere amore verso la terra, lasciare che viva i tempi giusti per dare sempre i suoi frutti migliori”.
Franco Pepe è il testimone diretto di come la pizza possa cambiare un territorio: la sua Pepe in Grani sposta decine di migliaia di persone ogni anno a Caiazzo e lui inizia da qui il suo racconto: “Vennero da me Luigi Cremona e Lorenza Vitali mentre stavo ristrutturando i locali che avrebbero ospitato Pepe in grani, a quel tempo lavoravo nella pizzeria di mio padre e vollero visitare il cantiere. Io ero in preda al panico per il salto che avevo deciso di fare. Giorni dopo Luigi scrisse che a Caiazzo stava nascendo il Relais e Chateaux della pizza. Non volevo crederci, eppure dopo anni quella profezia è realtà. Vengo al tema della pizza strana: io faccio la margherita sbagliata che potrebbe rientrare nelle stranezze ma la mia margherita sbagliata è la margherita della semplicità. Con essa voglio far capire che l’identità della pizza e l’identità della pizzeria deve essere sempre popolare, un luogo popolare. Quindi dobbiamo lavorare con la semplicità. Io dico che più elementi abbiamo a disposizione, più riusciamo a regalare delle emozioni ai nostri ospiti. Per farlo dobbiamo partire, non dal topping, ma dall’impasto. Noi dobbiamo saper conoscere le farine che utilizziamo, dobbiamo tirarne fuori le caratteristiche migliori. Dobbiamo far parlare l’impasto per dare valore al nostro lavoro. Poi dobbiamo coinvolgere i produttori del nostro territorio. Io ho cominciato con sette contadini, oggi sono una quarantina quelli che mi forniscono i prodotti. Ho ridato vita a un’agricoltura che era di sussistenza. E per dare certezze all’ospite ho dato vita a un team scientifico con una biologa, un agronomo che lavora insieme ai contadini, a una squadra di ragazzi che condividono le mie idee”.





Rocco Cristiano Pozzulo Presidente nazionale FIC
Non è stato certo un caso che la Federazione Italiana Cuochi abbia scelto di arricchire il programma della propria Assemblea nazionale dei Soci, svoltasi il 14 e 15 aprile scorsi a Milano, al Palazzo della Regione Lombardia, con il focus sul tema: “La cucina del futuro e quale futuro per i giovani cuochi”. Un percorso molto interessante, solcato con il contributo di prestigiose firme della ristorazione italiana, stellata e non, che ha fatto riflettere non solo sul fronte della cucina e dei fornelli, ma anche degli altri settori fondamentali del comparto: vale a dire l’accoglienza, la sala, la sommellerie, fino alle professioni che si svolgono nel più profondo anonimato, dietro le quinte, ma non per questo meno importanti o meno fondamentali, come il lavapiatti, con la pulizia e la preparazione delle stoviglie.
Così, dinanzi ad un’attenta platea di centinaia di Cuochi professionisti, Chef del calibro di Davide Oldani, Filippo La Mantia, Alessandro Negrini, Terry Giacomello, Enrico Crippa, dirigenti nazionali FIC come Carlo Bresciani, Giovanni Guadagno ed Ermando Paglione, oltre che giovani e brillanti Chef della NIC, Andrea Serale, hanno dibattuto e aiutato a riflettere su cosa renda la cucina italiana così speciale rispetto al resto del mondo, su dove stia andando la stessa e su cosa realmente regga le sue sorti, sia oggi che nell’immediato futuro. Se da un lato, infatti, si continua a parlare sempre più di una cucina inno, ogni giorno che passa sempre più basata sulle nuove tecnologie, sui nuovi traguardi raggiunti dalla scienza, dall’altro lato continua (e, a nostro avviso, continuerà sempre) a pesare il volto concreto di una cucina “sociale”, che possa valorizzare le competen-
ze umane e ogni singolo gesto che l’ha resa grande nei secoli. Sottolineando ciò, così, i vari intervistati sul palco durante i lavori dell’Assemblea sono stati concordi nel ribadire quanto siano importanti anche le altre figure che compongono un ristorante e l’immagine stessa del suo successo. Chi potrebbe mai negare, infatti, che trovare la massima pulizia in un locale, potersi specchiare tra posate e piatti brillanti e poter degustare vini eccellenti in calici perfettamente limpidi, non sia il primo biglietto da visita per poter apprezzare quel ristorante e magari sceglierlo anche per le prossime volte? Ed ancora, chi di noi vorrebbe mai trascorrere qualche ora a pranzo o a cena in un locale dove il cliente è poco considerato o, addirittura, non trattato secondo i canoni dell’accoglienza e della buona educazione? Aspetti, questi, che troppo spesso sono stati dati per scontati nel nostro settore e che invece ne sono una delle colonne portanti. E siamo davvero lieti che tali riflessioni siano uscite direttamente dalle dichiarazioni di alcuni degli Chef più stimati del nostro Paese e in un contesto come i lavori dell’Assemblea FIC, svoltasi come da tradizione ogni anno proprio per gettare nuove basi sul presente e sul futuro della ristorazione.
Forse, allora, ripartire tutti insieme da considerazioni come queste, dove un lavapiatti o un cameriere sono considerati altrettanto fondamentali quanto un maitre, uno chef o un sommelier, ci fa comprendere il vero volto sociale, oltre che economico, della cucina italiana e che il gioco di squadra di cui sempre parliamo deve realmente essere messo in pratica ogni giorno.

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Cosa spinge a scegliere una destinazione turistica piuttosto che un’altra? Le neuroscienze cognitive offrono oggi strumenti sempre più raffinati per comprendere i meccanismi che governano le decisioni, comprese quelle legate alle vacanze. L’immaginazione di un viaggio attiva specifiche aree cerebrali. La corteccia visiva elabora immagini mentali vivide, mentre il sistema limbico, la “centralina” delle emozioni, genera piacere anticipato e desiderio. Accanto ai fattori razionali (tempo disponibile, logistica, …), emerge un elemento fortemente emotivo: l’enogastronomia. Mangiare non è solo una necessità fisiologica, ma un’esperienza multisensoriale capace di attivare il circuito dopaminergico del piacere, lo stesso coinvolto nei processi di ricompensa e motivazione. Gli studi parlano chiaro. Immaginare il gusto di un piatto tipico vissuto nel contesto dove è stato pensato e creato genera una risposta emotiva più intensa di quella evocata dall’immagine di un monumento o di un paesaggio di quel luogo. Il cibo diventa così un attivatore emozionale potente, in grado di orientare le scelte turistiche. I ricercatori parlano di contrasto al “pain of paying”, il dolore associato alla spesa. In altri termini il film mentale della vacanza si scontra con la necessità finale del pagamento. Quando l’immagine mentale della vacanza – costruita su esperienze enogastronomiche coinvolgenti – supera questo attrito emotivo, la decisione diventa prenotazione. In altre parole, un piatto immaginato, diventa il fattore decisivo della scelta turistica.
Tradizionalmente due sono i driver principali che guidano la scelta di una destinazione: heritage ed experience. Il primo include storia, arte, paesaggi e cultura. Il secondo è il vissuto diretto, concreto e sensoriale. Ed è qui che l’enogastronomia emerge con forza. Rappresenta l’esperienza per eccellenza, capace di connettere luogo,

Dornetti ceo Neurovendita
identità, tradizione e piacere. Mangiare una pizza napoletana in una pizzeria storica, assaporare una ribollita in una trattoria toscana o gustare una pasta alla Norma sotto il sole siciliano non è solo un atto gastronomico. È un’immersione totale, che coinvolge vista, olfatto, tatto, gusto e perfino udito. Per questo motivo, le destinazioni che riescono a integrare un forte patrimonio culturale con un’offerta enogastronomica autentica creano immagini mentali più influenti, diventando dei magneti turistici. Si potrebbe fare ancora meglio, usando questa leva di marketing per valorizzare le aree meno turistiche tradizionalmente, ma che hanno una forte tradizionale enogastronomica, oggi che se ne comprende il peso decisionale.
Il cuore pulsante del turismo è la ristorazione, che passa da essere servizio a driver fondante la scelta. Il turismo è oggi la prima industria italiana, con un valore superiore al 13% del PIL e milioni di occupati. Ma spesso si dimentica che gran parte di questa ricchezza passa in primis dalle mani e dal talento dei professionisti dell’ospitalità: ristoratori, chef e camerieri. La ricerca neuroscientifica lo conferma. Il cibo è un linguaggio emotivo e culturale, capace di guidare le scelte. Ecco perché chi lavora nella ristorazione non offre semplicemente un pasto, ma crea valore, identità e desiderio di viaggio. Perché in un mondo dove tutto è replicabile, ciò che resta unico è l’esperienza. E quella esperienza, molto spesso, inizia con un piatto sul tavolo, immaginato da chi sceglie dove andare in vacanza. Queste ricerche sul cervello che sceglie mostrano ancora di più la centralità del mondo Ho.Re.Ca. per l’intero sistema paese, creando negli operatori del settore un senso di importanza e di accresciuta responsabilità.





















Autore: Guido Parri
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Risale ai primi del Novecento la coltura in serra del basilico a Prà, una località a ridosso della città di Genova, che garantisce continuità alla preparazione di una specialità gastronomica tipica della Liguria: il pesto alla genovese. Il pesto di Prà è quello scelto da DoGusto per far parte di una gamma di prodotti di qualità certa ed elevata. Gli ingredienti sono quelli più preziosi: basilico di Prà, Parmigiano Reggiano DOP, Pecorino Romano DOP, olio extravergine ligure, pinoli italiani. Il pesto di DoGusto è anche nella versione senz’aglio. La confezione è stata appositamente realizzata per garantire una shelf life di 65 giorni.
Il pesto è una salsa apparentemente semplice, fatta con cinque ingredienti che, un tempo, venivano assemblati con la forza delle braccia, di un mortaio di marmo e di un pestello di legno. Oggi la tecnologia ha permesso di superare una parte della manualità ma il pesto resta comunque identico se realizzato, come nel caso del brand DoGusto, con prodotti di elevata qualità.
Si adatta a mille usi, secondo le esigenze del cuoco o del pizzaiolo: sulla pasta, nel minestrone, sulla focaccia o sulla pizza.
Un’abitudine gastronomica che risale al XVII secolo, nel 1618 per la precisione, quando lo speziale Guglielmino Prato scrive il suo ricettario di cucina inserendo una ricetta che richiama il pesto citando i tre elementi fondanti della ricetta: basilico, aglio e parmigiano.
Ai giorni nostri la tendenza è quella di utilizzare un basilico piccolo, come quello di Prà per il pesto DoGusto, per avere un sapore più delicato seppur molto profumato.

Le caratteristiche del pesto alla genovese DoGusto
• Il basilico coltivato sulle colline intorno a Genova gode di condizioni microclimatiche ideali, l’esperienza contadina gli conferisce caratteristiche organolettiche uniche.
• Filiera cortissima, sapere antico che si traduce in produttività moderna e si manifesta negli standard qualitativi eccellenti
• Confezionato in packaging di plastica termosaldata con azoto per una conservabilità da 65 giorni
• Prodotto finito fresco, senza conservanti, premiato a livello internazionale



Autrice: Giulia Zampieri

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Avevamo conosciuto l’enologo Andrea Moser due anni fa, quando non aveva ancora intrapreso il progetto da solista, che riporta le sue iniziali - AMProject.
All’epoca ne avevamo apprezzato la visione schietta e pragmatica, abbinata a una lettura lunga che guarda al presente e al domani, del mondo del vino e del rapporto tra uomo e produzione. Oggi lo ritroviamo con due capitoli maturi e decisamente innovativi: i Temporary wine e Komb(w)ine. Vale la pena esplorarli non solo per la qualità delle referenze, già introdotte in alcune attività di ristorazione, ma soprattutto perché la matrice è la stessa di due anni fa: un’analisi critica e consapevole di cosa mettiamo - e metteremo - nel bicchiere.
C’è un altro modo di far parlare il territorio
In quale direzione è andata la narrazione del vino in questi anni?
Non possiamo parlarne in termini assoluti, perché l’eterogeneità sta caratterizzando questo settore… ma guardiamo alle prose più diffuse.
Dilagano le aziende che poggiano su una lunga storia familiare, legata al territorio e alle tradizioni; si tratta di indirizzi solitamente muniti di cantine accoglienti, organizzate, che hanno tradotto un’attività familiare in un’impresa a tutto tondo.
In risposta alle sopracitate, sono germogliate (a volte senza che sussistessero le condizioni ideali di viticoltura, altre invece si sono distinte per qualità, originalità e coerenza) realtà più piccole, condotte da vignaioli con l’approccio rivoluzionario, con la tendenza a produrre poco, a riscoprire vitigni locali e a muoversi in lungo e in largo per raccontare di sé.
E se dietro a una bottiglia non ci fosse uno stabilimento di proprietà e nemmeno un piccolo garage d’arrangio per iniziare con le prime fermentazioni? E se i vini fossero l’esito di una collaborazione tra più figure e cambiassero ad ogni annata?
E, ancora: se questi vini, senza un’apparente connessione tra il produttore e il territorio fossero comunque capaci di esprimere una zona vitivinicola?
Andrea Moser lancia sul tavolo questa provocazione con il progetto Temporary Wine.
“È una sfida. Avevo il desiderio di rompere con l’idea tradizionale di enologia e di dare vita a vini provenienti da diversi territori. I Temporary wine di AMProject sono vini prodotti in quantità limitate senza che vi siano ‘solidità convenzionali’ alla base, come una cantina e una vigna di proprietà. Sono il frutto del dialogo con le persone e di un lavoro attento, ma non massivo, in cantina, e prima ancora in vigna. Quello che facciamo è adattare metodi, tecniche e strumenti a seconda del caso e in modo specifico”.
Insomma un progetto che si sottrae all’aura romantica che avvolge il mondo del vino, raccontando un modo di agire diverso, che poggia sulla tecnica, solo dove è necessaria.
C’è un termine, a proposito di narrazioni e lessici contemporanei, che è rimbalzato a destra e a sinistra negli ultimi tempi, a volte per giustificare bottiglie imbevibili
(con volatili fuori dai ranghi), altre volte per confermare la bravura di alcuni produttori. Ce l’avrete in nota: il non interventismo.
“Anche in enologia devi sapere quello che non fai. Mi spiego: per scegliere di non intervenire devi sapere cosa significa intervenire. Il segreto non è abbandonare la tecnica ma conoscerla a fondo per capire quando e in che misura deve essere adottata. Come faccio ad ottenere delle uve sane, e quindi un vino auspicabilmente buono, se non so come prevenire alcune complicazioni, per esempio sul piano fitosanitario? Con i Temporary wine proponiamo un approccio che limita allo stretto necessario gli interventi dell’uomo ma senza lasciare che la natura decida tutto per sé. Non dimentichiamoci che l’uva è un prodotto della natura ma il vino non lo è” rimarca Andrea.
C’è un altro modo enologico di fotografare il tempo
Gli altri tratti che caratterizzano i vini AMProject sono l’unicità e l’irripetibilità.
“Avevo l’esigenza di fotografare cosa rappresentano le uve in un preciso momento storico. Questi vini sono la rappresentazione di una sola annata e non il frutto di una stratificazione di interventi atti a uniformare le annate. Tante aziende puntano a rendere simili le produzioni tra un annata e l’altra per essere riconoscibili e per dimostrare una certa coerenza produttiva. Quello che conta per noi è valorizzare l’espressività di quel momento. In questo periodo storico, segnato da condizioni climatiche che cambiano repentinamente, mi sembra sensato fotografare quell’intervallo temporale e metterlo in bottiglia”.
Le fotografie che possiamo degustare oggi, firmate AMProject, sono Fly e Run: due vini gemelli ma dalle personalità profondamente diverse, usciti nel mese di aprile.



















































Nel testo, è suggestivo l’intreccio dei piani del racconto: la fine dei Borboni con l’arrivo di Garibaldi e dei Savoia, la vita dell’aristocrazia siciliana e delle sue cucine negli splendidi palazzi e nelle dorate sale da pranzo, la vita nei propri feudi dove l’aristocratica famiglia Salina si siede alla stessa tavola con i propri fittavoli, i nuovi parvenu. Ma vi è poi l’amore tra la seduttiva Angelica Sedara, dotata di grande bellezza e di una dote consistente, figlia di un arricchito mezzadro di Don Fabrizio, e il passionale Tancredi, l’amato nobile nipote del Principe, di grande fascino ma senza eredità. Tra i due si trova Concetta, depositaria di un nobile codice etico-comportamentale e linguistico da rispettare, la figlia preferita di don Fabrizio, innamorata di Tancredi, ma sacrificata, proprio dal padre, a favore di Angelica. Non certo per bieco calcolo, naturalmente, ma per andare incontro al nuovo che avanza, accettandolo, senza scomporsi come il suo lignaggio impone, dove la spregiudicatezza e il denaro dei nuovi Sedara sostituirà la nobile classe feudataria e borbonica dei Gattopardi. Tra le splendide pagine del romanzo, l’elegante servizio a tavola e la descrizione del cibo, con i suoi profumi, forme e colori, diventano un elemento centrale del racconto attorno al quale si apparecchia la storia d’Italia, della Sicilia e della famiglia Salina.
Su tutto e tutti c’è lui, il principe di Salina con la sua statura morale e intellettuale superiore agli altri e i suoi
occhi penetranti che osservano, con disincanto, il proprio mondo in agonia. Come premonizione alla sua fine, in una delle scene a tavola, “uno dei suoi bicchieri era rimasto a metà pieno di marsala; egli lo alzò, guardò in giro la famiglia fissandosi un attimo più a lungo sugli occhi azzurri di Concetta “alla salute del nostro caro Tancredi” disse. Bevve il vino di un solo sorso. Le cifre F.D. che prima si erano distaccate ben nette sul colore dorato del bicchiere pieno non si videro più.”
Menu e monzù
Tra il Settecento e l’Ottocento la cucina francese regnava in tutta Europa. Con l’arrivo della regina Maria Carolina d’Austria (1752 –1814), nata arciduchessa d’Austria (e sorella di Marie Antonietta), moglie di Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia nel Regno delle Due Sicilie, si diffusero ancor più le mode francesi, a tavola e in cucina. Ne sono l’esempio il menu dalla rigida impostazione d’oltralpe e la gran moda della presenza di cuochi francesi a servizio delle nobili casate meridionali, detti monsù o monzù, dall’abbreviazione dialettale di “monsieur”. La struttura del menu alla francese prevedeva il primo servizio dei potage (ricche minestre) di hors-d’oeuvre (una sorta di ricchi antipasti) ma anche di relevé (portate di carne) ed entrée. Dopo un punch o poncio alla romana, servito per preparare lo stomaco, veniva portato a tavola il secondo servizio, il più importante del pasto, costituito da rotis (arrosti), legumi e contorni. Per il terzo erano

serviti, infine, i dessert quindi gli entremets (intermezzi dolci), la pasticceria, i dolci e la frutta. I vini erano principalmente francesi.
Un ordine prestabilito e sovvertito solo in rare occasioni, come durante la prima cena dei principi di Salina all’arrivo nella casa estiva del feudo di Donnafugata, alla presenza di Angelica e del padre in un inadeguato frac: con approvazione dei presenti viene, infatti, servito un timballo come prima portata, profumato di zucchero e cannella, dalla dorata pasta con all’interno “fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio.” Ma il principe era uomo di mondo e sapeva come dovevano andare le questioni della vita, anche in cucina: “il principe, benché rapito nella contemplazione di Angelica che gli stava di fronte, ebbe modo di notare, unico a tavola, che la demi-glace [la salsa n.d.r. ] era troppo carica, e si ripromise di dirlo al cuoco l’indomani; gli altri mangiavano senza pensare a nulla, e non sapevano che il cibo sembrava loro tanto squisito perché un’aura sensuale era penetrata nella casa.”
Citato da Angelica, il cuoco di casa Salina era monzù Gaston. Un ruolo importante quello dei monzù, i cuochi delle nobili casate, i quali godevano di grande fama e responsabilità: nelle loro mani c’era la gestione della cucina, dei menu, della tavola e della buona riuscita dei tanti banchetti mondani dell’aristocrazia siciliana che definivano il successo o meno, in società, di tutto un casato.
Il ballo a Palazzo Ponteleone
Due anni dopo gli avvenimenti dell’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia, la mondanità palermitana si riunisce per uno sfavillante ballo nelle sale dorate del palazzo della famiglia Ponteleone: qui Don Fabrizio si aggira tra “specchi appannati” e vecchie suppellettili simili a “catacombe”. La sua fine e quella del suo mondo è sempre più vicina. Non gli piace la casa, che considera dal gusto passato di moda, e neppure le donne presenti,

alcune, un tempo, sue giovani e belle amanti, oggi “sciattone”. Dopo il celebre ballo con Angelica, l’unica soluzione è dirigersi verso il buffet e in quel campo di battaglia vi è l’unica momentanea resa del Gattopardo, omaggiando la padrona di casa: “Caspita quanta roba! Donna Margherita sa far bene le cose. Ma ci vogliono altri stomaci del mio per tutto questo.”
Preferisce i dolci alla lunghissima e stretta tavola allestita con “piramidi dei “dolci di riposto” [piccoli dolci di pasta reale a varie forme n.d.r. ] mai consumati”, “aragoste lessate vive, cerei e gommosi gli chaud-froids di vitello [letteralmente caldo-freddo, un tipo di preparazione che viene cucinata a caldo e servita fredda n.d.r. ], di tinta acciaio le spigole immense nelle soffici salse, i tacchini che il calore dei forni aveva dorato, i pasticci di fegato grasso rosei sotto le corazze di gelatina, le beccacce disossate reclini su tumuli di crostini ambrati, decorati delle loro stesse viscere triturate, le galantine color d’aurora, dieci altre crudeli, colorate delizie.”
Il principe, infatti, “si diresse a sinistra verso la tavola dei dolci. Lì immani babà sauri come il manto dei cavalli, Monte-Bianco nevosi di panna; beignets Dauphine [specialità culinaria francese, bignè a base di pasta choux e patate, fritte in olio n.d.r. ] che le mandorle screziavano di bianco ed i pistacchi di verdino; collinette di profiteroles alla cioccolata, marroni grasse come l’humus della piana di Catania dalla quale, di fatto, attraverso lunghi rigiri esse provenivano, parfaits [dolci al cucchiaio francesi n.d.r. ] rosei, parfaits sciampagna, parfaits bigi che si sfaldavano scricchiolando quando la spatola li divideva, sviolinature in maggiore delle amarene candite, timbri aciduli degli ananas gialli, e ‘trionfi della Gola’ col verde opaco dei loro pistacchi macinati, impudiche ‘paste delle Vergini’.”
Sotto la calotta verde pistacchio dei “trionfi di Gola” tra gli strati di pan di Spagna, farciti da biancomangiare profumato alla cannella, crema di ricotta con canditi, scaglie di cioccolato e pistacchi tritati, la nuova società si accalca. Ma i Gattopardi non moriranno mai.

•CIDNI A ZIONEGEOGRAFICAPRO T ATTE•
Da selezionati bovini grass fed: allevati all’aperto per almeno 220 giorni l’anno, alimentati per il 90% con erba

Metterci la cultura, senza troppe sovrastrutture
Il racconto ha una sua valenza sia per la rete Amodo, come saprete, sia per i ragazzi di Soj.
“Ci sono tante modalità di narrazione. Noi abbiamo scelto di non soffermarci sulle spiegazioni tecniche ma di accompagnare al tavolo il piatto aggiungendo ciò che per noi ha un valore vero. Ovvero la storia, la memoria gustativa, il legame tra la materia prima e la terra. Ci agganciamo alla cultura gastronomica locale non solo quando si tratta di concepire un piatto, ma anche quando lo portiamo a tavola”.
Il menu di Soj sin dall’inizio ha accolto pietanze apparentemente ‘nobili’ (le lumache, il piccione, l’anatra, l’anguilla) ma, ci ricordano Eugenio e Federico proprio in questi giorni di cambio menu, “sono in realtà cibi che appartenevano alla cultura rurale locale e quindi li abbiamo riproposti con accostamenti contemporanei, con l’intento di valorizzarli”.
Si occupano di primo pugno del servizio, non c’è personale di sala, come anticipavamo prima. Quindi il registro narrativo è costante, sempre sulla stessa linea: quella della rievocazione e dell’empatia, per trasferire un significato culturale, di prossimità geografica e di grande rispetto per ciò che abita ancora oggi la campagna emiliana, costellata di bravi produttori.
“Naturalmente la parte narrativa ci piace molto… e la coltiviamo ogni volta che il tempo ce lo permette!”.
Soj in questi anni ha sempre proposto un ricco programma di serate che hanno coinvolto viticoltori, esperti di vino, mixology, narratori e molti altri. Dietro a questa scelta, che si concretizza sempre lì, in quel gruzzolo di tavoli, c’è la voglia di mettere in connessione le persone.

“Abbiamo voluto delle finestre di approfondimento variegate perché dietro al cibo vero c’è sempre cultura. E così è anche per il vino, per il cibo e per varie forme espressive. Sarebbe un peccato sciupare l’opportunità di mettere in relazione valori, talenti e contenuti. Aggiungiamo che oggi i produttori credono molto nel dialogo con i ristoratori, è una particolarità del nostro tempo che vogliamo sostenere”.
La sala di Soj, in cui si muove sempre una prosa conviviale, è nata proprio con questo fine: il dialogo. Le sedute e i tavoli vicini, che lasciano margine alla cena intima ma invitano anche alla condivisione, non sono lì per caso.
“L’ambiente del ristorante raccolto si presta a far interagire le persone, a creare sinergie. Siamo felici di vedere che i clienti hanno risposto positivamente a quello che era il nostro proposito, prima ancora di parlare di cibo: la convivialità” ci raccontano.
Dopo pochi minuti dall’aver preso posto capita che i clienti inizino a conversare, allungarsi i bicchieri, ad uscire dalle geometrie del tavolo per scambiare anche solo una parola. È proprio il caso di ribadirlo: il fattore umano è troppo importante per un ristorante… e va custodito. Amodo questo valore lo difenderà sempre!
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Un omaggio all’imprenditorialità agricola italiana
Perché la pizza di Giovanni Mandara è il risultato di uno studio profondo, dell’applicazione di metodi e saper fare antichi suffragati da cognizioni scientifiche che si manifestano attraverso la proposta di un prodotto finito buono, leggero e digeribile, appagante e salutare. Un esercizio di alchimia divulgato attraverso la fruizione e comunicato a chiare lettere. “C’è voluto molto tempo e tanta fatica – afferma Giovanni – prima di trovare il giusto bilanciamento degli ingredienti, ma oggi sono molto soddisfatto tanto che ormai posso dichiararlo in carta in modo che i miei clienti possano essere informati e scelgano con cognizione. A partire da giugno, infatti, indicheremo anche i marchi delle aziende molitorie che partecipano al progetto e fanno parte della formulazione del blend. Un ulteriore passo avanti e una dichiarazione di trasparenza a riscontro dell’enorme lavoro di ricerca fatto finora”.
Il menù di Piccola Piedigrotta rispecchia lo studio e l’evoluzione che Giovanni Mandara mette quotidianamente nel suo lavoro; “Con questo impasto preparo tutte le pizze in carta, tra cui una pizza che ricorda quello che un tempo veniva chiamato ‘pane dei marinai’, biscottato, con le acciughe. Si preparava per il giorno dei morti, lo facevano tutti i panifici della costiera e ci mettevano anche il finocchietto, che qui però non incontra il gusto e allora ho deciso di ometterlo. È una questione culturale, penso che non sia giusto imporre, meglio rispettare i gusti della gente, e comunque è interessante anche ristudiare certe ricette e adeguarle al contesto. Bisogna sempre studiare nuovi abbinamenti, accompagnare le persone all’assaggio proponendo con discrezione”. È un percorso in continuo divenire, quello che Mandara affronta ogni giorno per trovare nuove formule, scovare materie prime e ingredienti insoliti, eccellenti, che

aggiungano valore a un impasto straordinariamente innovativo, come la pizza con germogli di cipolla, cedro, acciuga, uva caramellata e pepe; o come la pizza classica – che ha chiamato col suo nome, Mandara – con cipolla rossa di Breme, acciughe di Sciacca, olive Peranzana in acqua di mare e mozzarella Vacche Rosse che, afferma: “Ricorda la stagione che si sta affacciando, perché la cipolla di Breme, molto dolce, matura a fine giugno. La stagionalità delle materie prime che utilizzo è importante. In questo periodo per esempio metto sulle pizze l’asparago bianco e l’asparago rosa. Mi piace cercare prodotti insoliti: ho scoperto l’asparago rosa di Cilavegna, straordinario”.
Non si tratta solo di fare una buona pizza, è un lavoro di divulgazione culturale il suo: “Mi piace fare ricerca e portarla sulla pizza. Prendere gli ingredienti lì dove li fanno, conoscere chi li produce e imparare come si mangiano”. Per questo impegno in occasione del recente Vinitaly Giovanni Mandara e il suo gruppo di lavoro hanno ricevuto da parte della Regione Campania e dell’Assessorato alla Cultura un premio come Ambasciatori del Vino Campano. “Perché abbiamo puntato su vitigni poco noti, di cui la nostra regione è ricca, e li abbiamo valorizzati proponendoli nel nostro locale”. E sì, la sua terra d’origine è sempre nel suo cuore. Giovanni Mandara vive a Reggio Emilia da tanti anni (ha perfino preso l’accento emiliano quando parla…) ma la Campania è sempre presente: “Il mio prossimo progetto sarà tornare nella mia terra madre”. E chissà allora cosa si inventerà.

Ogni gesto in cucina è precisione, creatività, impegno. Lo sappiamo, perché siamo al fianco, da oltre due secoli, di chi ogni giorno trasforma ingredienti in esperienze. Da oggi nasce una gamma studiata appositamente per le necessità e le richieste dei professionisti, apponendo la firma Zucchi come sigillo dei nostri valori e della nostra qualità.









Prestigiosa e ricca “collezione” di funghi di prima scelta lavorati con cura e attenzione, tagliati e trifolati delicatamente secondo tradizionale ricetta. Indicati come accompagnamento per primi o secondi piatti, contorni e per la farcitura di pizze.
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Google ha recentemente introdotto AI Overview, una nuova funzione basata sull’intelligenza artificiale generativa che promette di rivoluzionare il modo in cui gli utenti trovano informazioni online. Questo aggiornamento segna un passo significativo verso una ricerca più veloce, intuitiva e dettagliata, combinando l’intelligenza artificiale con l’ecosistema già consolidato di Google Search.
Cos’è Google AI Overview?
AI Overview è un sistema che fornisce risposte generate dall’intelligenza artificiale direttamente nella pagina dei risultati di ricerca, offrendo agli utenti una sintesi delle informazioni chiave senza dover navigare tra più siti web.
Come funziona?
Quando un utente digita una domanda su Google, AI Overview elabora rapidamente le fonti più rilevanti e genera un riassunto in cima ai risultati di ricerca. Ad esempio, se si cerca “Come preparare una pasta alla carbonara autentica?”, il sistema fornirà un riepilogo delle istruzioni essenziali basandosi su fonti autorevoli, evitando di dover visitare più pagine.
Inoltre, AI Overview è in grado di rispondere a richieste più complesse che richiedono il confronto di informazioni provenienti da fonti diverse. Se un utente chiede “Quali sono le differenze tra una dieta vegetariana e vegana?”, l’AI analizzerà articoli scientifici, blog e altri contenuti per fornire una risposta chiara ed equilibrata. Un elemento interessante è la capacità dell’AI di generare risposte personalizzate in base al contesto della ricerca dell’utente. Se, ad esempio, una persona sta cercando informazioni su un viaggio, l’AI potrebbe suggerire itinerari personalizzati, consigli basati sulle preferenze e approfondimenti su destinazioni meno conosciute.
I benefici per gli utenti
Il principale vantaggio di AI Overview è la rapidità nell’accesso alle informazioni. Con un solo sguardo, gli utenti possono ottenere risposte dettagliate senza dover

Claudia Ferrero
Strategist & Evangelist
scorrere decine di risultati. Questo è particolarmente utile per chi cerca informazioni pratiche o tecniche.
Un altro aspetto rilevante è l’affidabilità: Google assicura che le fonti utilizzate siano verificate e attendibili, riducendo il rischio di disinformazione. Inoltre, la funzione offre la possibilità di esplorare ulteriormente gli argomenti attraverso link diretti alle fonti citate.
Un altro punto di forza è la sua applicabilità a settori specifici come la sanità, l’istruzione e il commercio. I professionisti possono ottenere risposte più precise e contestualizzate, migliorando la qualità del loro lavoro e la velocità delle loro decisioni.
Le implicazioni per le aziende
Sebbene AI Overview migliori l’esperienza utente, potrebbe impattare il traffico verso siti web e blog, riducendo il numero di visite dirette. I creatori di contenuti dovranno quindi adattare le loro strategie SEO, puntando su contenuti più approfonditi e specifici, difficili da sintetizzare in un’unica risposta AI.
Inoltre, l’evoluzione della ricerca online richiederà un cambiamento nell’approccio alla produzione di contenuti: sarà fondamentale creare articoli più analitici, con valore aggiunto, che l’AI non possa facilmente riassumere.
Google AI Overview rappresenta una svolta nell’accesso alle informazioni online, combinando velocità, precisione e semplicità. Tuttavia, resta da vedere come questa innovazione influenzerà il panorama digitale, specialmente per editori e creatori di contenuti. Nel frattempo, gli utenti possono già sperimentare un nuovo modo di cercare e apprendere, grazie alla potenza dell’intelligenza artificiale applicata alla ricerca. Per i professionisti del digitale e i ristoratori, comprendere queste evoluzioni sarà essenziale per ottimizzare la propria presenza online e sfruttare al massimo le nuove opportunità offerte da Google.
altri scarti – si trasforma in ricette gustose, da sempre simbolo della tradizione romana: la coda alla vaccinara, la trippa, la coratella coi carciofi, il rognone al pomodoro. Ma la particolarità della cucina romana si basa soprattutto sui piatti poveri ma succulenti, la pasta, le minestre, le verdure. Come non ricordare uno dei piatti più apprezzati, oggi in grande spolvero anche nei locali alla moda, la cacio e pepe. L’origine della ricetta risale al mondo pastorale quando i contadini per accompagnare i lunghi spostamenti del gregge erano soliti portare le uniche provviste caloriche e reperibili che avevano a disposizione: la pasta, il pepe e il pecorino. Ma anche le verdure dell’orto, puntarelle, broccoli, cicorie, fave. Nascono piatti come la gricia, pasta e fagioli con le cotiche, e una lista infinita di ricette di spaghetti in mille modi: all’arrabbiata, alla carrettiera, alla puttanesca, alla checca, alla bersagliera, che ancora oggi costituiscono la carta immancabile di locande, trattorie e ristoranti romani, attrattiva per turisti e per cittadini locali che ne riscoprono il piacere.
Le vie di Roma pullulano di locali tipici, dove l’aroma della cucina si espande e attira; diventano meta privilegiata e poco concedono alla moda della rivisitazione dei piatti ma richiamano atmosfere antiche, popolane, sempre radicate nel cuore dei romani e dei visitatori.
Giubileo 2025, che opportunità per la ristorazione? 24 dicembre 2024, a Roma, inizia il Giubileo 2025. Si era previsto che l’evento potesse attirare in città circa 30 milioni di pellegrini, secondo i sondaggi del Vaticano e delle autorità. L’occasione per immergersi nei tanti itinerari spirituali che Roma offre ma anche per godere della tradizione gastronomica simbolo del luogo. Un’opportunità per ristoranti e trattorie. Considerando che ogni pellegrino potrebbe trattenersi in città per due o tre giorni sarebbe ipotizzabile un aumento della richiesta per la ristorazione.
Oggi, a circa quattro mesi dall’inizio dell’evento, possiamo provare a verificare la situazione partendo dalle recenti analisi comunicate da Confcommercio: nel 2024 a Roma l’1,9% e ben 495 locali sono scomparsi sui 26.016 dell’anno precedente. Non si registrano nuove aperture significative.
Il Giubileo si avvia in sordina e l’impatto su ristorazione, trasporti, ospitalità strutturata o b2b, commercio locale sembra davvero minimo.
Altri elementi, inoltre, hanno avuto, e continuano ad avere nel preciso istante in cui queste righe sono scritte, un peso considerevole sulla conduzione dell’evento: la malattia di Sua Santità Papa Francesco e la sua dipartita. L’eco mediatico, non solo emotivo, potrebbe causare risvolti inaspettati nelle prossime settimane. Roma capoccia attende, attonita o speranzosa, in lutto o in attesa di sviluppi forieri. Del resto attende da millenni e non si è mai persa, e “la santità der cupolone”, come cantava Ven-
ditti, resterà un rifugio per fedeli o atei.
Roma e la ristorazione
Quali sviluppi per il mondo della ristorazione romana? Gli eventi, o meglio “l’evento” per antonomasia sarà in grado di ottimizzare i tempi? Ne abbiamo parlato con Federico Villani, titolare di FAIC Foodservice, che da oltre trent’anni gestisce con efficienza la fornitura di prodotti alimentari per il mondo ho.re.ca. nella capitale e a Milano.
“Questo è il terzo Giubileo che affronto – racconta Villani – e ormai ho capito che non porta granché dal punto di vista dell’incremento dei consumi. Porta numeri, ma questi non cambiano gli asset di fatturato delle aziende. Il turismo legato al Giubileo è un turismo semplice, quasi mordi e fuggi; la sera i pellegrini escono a cena ma lo fanno in maniera frugale. Tra alloggio e ristorazione non è certo il classico turismo che lascia nella piazza più denari”. Analizzando le pur diverse situazioni che si verificano, quindi, in generale il Giubileo di Roma non si manifesta come evento trainante per i consumi. Riflette Federico Villani: “Ogni Giubileo è diverso, certamente, e in questo caso lo stato di salute del Papa ha forse influenzato le scelte dei pellegrini: senza la sua presenza il coinvolgimento emozionale e mediatico potrebbe forse mutare e condizionare la decisione di qualcuno di partecipare o meno. Vedremo con l’elezione del nuovo Pontefice. Anche nel caso di turisti abituali, laici, che potrebbero perfino evitare Roma come meta per non doversi confrontare con la folla di pellegrini e con tutto quello che ciò comporta. Roma è sempre piena di gente ma ci sono varianti. Occorre tener presente che i turisti religiosi di solito non frequentano gli hotel convenzionali ma si rivolgono alle strutture gestite dalla Chiesa; i prezzi inoltre sono aumentati già da un paio d’anni; chi deve mettere in preventivo il viaggio non può ignorare questi aspetti”. Per affrontare la situazione, dunque, molte attività si sono attrezzate per reggere l’aumento numerico di pellegrini facendo accordi con ristoranti, con residenze ecclesiastiche, creando menù a prezzo fisso. Situazioni al risparmio, secondo Federico Villani, adottate per far fronte a un incremento di affluenza alla quale non corrisponde un aumento di fatturato. Qualcuno, addirittura, conferma Villani che ne ha riscontrato l’effetto, chiede prodotti di qualità inferiore o gamme di sottoprodotti per poter soddisfare l’esigenza di limitare i costi: “Non è un’abitudine diffusa – afferma – ma tangibile”. Insomma, in generale, il Giubileo è un momento che non sembra destinato a portare grandi frutti oltre i soliti. “Le aziende crescono – afferma Villani - noi cresciamo bene, ma per situazioni e progetti indipendenti dal Giubileo”.
Danilo Frisone e il suo socio Saverio Crescente te-



Tutto il sapore della carne in prelibate bontà


Autore: Federico Panetta
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Il 5 dicembre 1955, a Montgomery, Alabama, migliaia di cittadini afroamericani iniziarono un boicottaggio contro il sistema dei trasporti pubblici, in risposta al celebre arresto di Rosa Parks, una sarta afroamericana che cinque giorni prima si era rifiutata di cedere il suo posto a un passeggero bianco su un autobus di linea, come prevedevano le leggi segregazioniste dell’epoca. Il suo gesto diede il via al Montgomery Bus Boycott, una protesta di massa che durò 381 giorni e che avrebbe cambiato il corso della storia americana. Organizzata in modo capillare, la protesta mise in crisi l’intera rete cittadina di autobus e fu uno dei primi esempi di mobilitazione collettiva su larga scala nel movimento per i diritti civili.
La fine della segregazione afroamericana è stata resa possibile grazie a molte azioni di questo tipo, ma dietro ad ognuna di queste era presente un intero ecosistema, meno visibile, in grado di farle funzionare: la resistenza partiva dalle case private, dalle chiese, e perché no, anche dalle cucine. Gli spazi domestici, spesso considerati “femminili”, divennero centri nevralgici di organizzazione
e sostegno alle azioni di protesta. È proprio in questo contesto che emerse la figura di Georgia Gilmore
Nata il 5 febbraio 1920 a Montgomery, Gilmore era cresciuta in una famiglia numerosa. Se da piccola visse in una piccola fattoria dove si occupava di maiali, mucche e polli, da adulta iniziò a lavorare come cuoca alla National Lunch Company. Quando il famoso boicottaggio iniziò, Gilmore decise di sostenere attivamente la causa, dando vita al Club From Nowhere, un gruppo clandestino di donne afroamericane che cucinavano e vendevano dolci, panini e piatti fritti per raccogliere fondi destinati a finanziare avvocati, sostenere le famiglie colpite da ritorsioni e mantenere in funzione un sistema di car pooling alternativo con oltre 300 automobili. Il nome così misterioso del club serviva a proteggere l’identità delle donne coinvolte, molte delle quali rischiavano di perdere il lavoro se fossero state scoperte, come peraltro era già successo alla stessa Gilmore.
Dopo la fine del boicottaggio, Gilmore decise di aprire una tavola calda nella propria casa. Il locale divenne rapidamente un punto d’incontro informale per attivisti, leader del movimento black e sostenitori, compreso Martin Luther King Jr., che si dice ne decantò in più occasioni il cibo. La cucina di Gilmore era infatti molto apprezzata per la sua genuinità. Tra i piatti più noti c’erano molti classici del Soul food, come il pollo fritto, le cotolette di maiale ripiene, ver-
dure come il cavolo nero stufato, pane di mais, insalata di patate, sweet potato pie e pound cake.
Senza una strategia mediatica né l’ambizione di farsi conoscere al di fuori della sua comunità, Georgia Gilmore contribuì a rafforzare il legame tra soul food e cultura afroamericana, rendendo la cucina uno spazio di cura, resistenza e affermazione identitaria. Oggi si parla di “gastrodiplomazia” per descrivere l’uso del cibo come strumento politico e culturale. Senza sapere di anticipare un concetto che sarebbe arrivato decenni dopo, Gilmore dimostrò come cucinare potesse diventare rilevante per il cambiamento della società. La sua storia ci ricorda che la resistenza non si fa solo nelle piazze o nei tribunali, ma anche attorno a un tavolo, con un piatto caldo condiviso tra chi sogna un futuro diverso.












































































































































Autore: Guido Parri
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A metà aprile a Milano sono arrivati cuochi da ogni parte d’Italia e del mondo per incontrarsi all’assemblea nazionale della FIC, Federazione Italiana Cuochi, la più grande associazione di settore con circa 16.000 iscritti.
Ospitati nel palazzo della Regione Lombardia, per due giorni, hanno affrontato temi importanti che sono al centro delle rivendicazioni portate avanti dall’associazione presieduta da Rocco Pozzulo.
In particolare il dibattito si è concentrato su aspetti pregnanti per la professione di cuoco: la formazione, la certificazione del cuoco e l’inserimento tra i lavori usuranti
Su quest’ultimo tema è stato proiettato un video molto chiaro ed esplicativo di come questa sia una tra le professioni più faticose che esistano oggi.
L’intervento del presidente Rocco Pozzulo
“Siamo tanti, vedere le vostre bianche toques è uno spettacolo vero e io sono orgoglioso di essere il vostro presidente. Quello appena trascorso è stato un anno positivo, abbiamo realizzato molte iniziative in ogni parte d’Italia, le delegazioni provinciali e regionali sono state attive in diversi settori: formazione, concorsi, iniziative promozionali come le fiere ci hanno visto sempre presenti nel contribuire a dare valore alla cucina italiana. La Federazione Italiana Cuochi è stata tra i primi promotori della candidatura della cucina italiana come patrimonio Unesco, iniziativa che darà ancora maggiore lustro alla cultura enogastronomica italiana e alla dieta mediterranea, universalmente riconosciuta come stile di vita più
sano al mondo. Abbiamo raccolto successi straordinari nei concorsi internazionali come la Catering Cup a Lione dove abbiamo conquistato la medaglia d’argento, grazie al candidato Andrea Monastero e al commis Federico Corsi, allenati dal coach Andrea Mantovanelli, veterano della gara nel corso degli anni. Una squadra targata Cuochi Veronesi Fic e Federazione Italiana Cuochi, che ha goduto dall’inizio di tutto il supporto necessario da parte dell’associazione. Al Global Chefs Challenge 2024 di Singapore abbiamo collezionato tre medaglie d’Oro e tre premi assoluti per le tre categorie in gara, la NIC – Nazionale Italiana Cuochi, squadra guidata dal general manager Gianluca Tomasi raggiunge i risultati più alti di sempre. Non solo tre medaglie d’oro, una per ciascuna categoria: il Team della Nazionale Italiana Cuochi ha conquistato anche tre preziose coppe, con il Primo posto assoluto per la categoria Pastry, il Secondo per la categoria Chef Challenge (cucina senior) e Terzo per la categoria Young (cucina junior). Sono questi gli straordinari risultati del team Azzurro a Singapore 2024, che porta a casa il punteggio più alto di tutti i Paesi in gara. Per non parlare dello straordinario successo dei Campionati Italiani di cucina che abbiamo tenuto a Rimini Fiera, in occasione di Beer&Food Attraction, dove sono convenuti, come oggi, cuochi da tutta l’Italia. I campionati rappresentano l’evento più importante della nostra federazione, in termini di risorse umane, con numeri che sono sempre più elevati, quasi 2.000 partecipanti visitatori tra i nostri soci, più di 600 concorrenti, un incontro che serve a rafforzare lo spirito identitario dell’appartenenza alla FIC.
Perché facciamo i concorsi? Perché sono occasioni importanti di formazione e perché legano tra loro cuochi provenienti dai diversi territori italiani che tengono alta la cultura gastronomica del nostro Paese. Non dimentichiamoci mai che la gastronomia è cultura, è racconto di un territorio, delle persone che lo abitano, della straordinaria biodiversità del nostro Paese. È per questo che dobbiamo portare fino in fondo la nostra proposta di certificazione della professione del cuoco, non possiamo più permetterci di aprire le cucine al primo che passa. Abbiamo realizzato la Festa del Cuoco a Bologna a metà ottobre per celebrare questa ricorrenza del lavoro e della buona tavola, senza mai dimenticare, la solidarietà verso i meno fortunati, quella fatta in silenzio e senza sventolarne il vessillo. Del resto, anche se a volte è un po’ più faticoso, abbiamo dimostrato, in moltissime occasioni, cosa sappiamo fare in cucina nelle situazioni di emergenza intervenendo con il nostro dipartimento Solidarietà Emergenze che, dal 2016, danno il loro contributo in maniera tutt’altro che amatoriale dopo una formazione specifica per gestire situazioni di calamità.
Nell’ottobre scorso a Singapore si è svolto anche il congresso di WorldChefs, di cui siamo parte integrante, e hanno affidato a me, ma sarà un incarico che gestiremo
come federazione, il ruolo di sviluppo del marketing, così come lo facciamo alla FIC. E qui, ne approfitto, voglio rivolgere un sincero e sentito ringraziamento a tutte le aziende e gruppi che ci sostengono, con i quali sviluppiamo importanti progetti di marketing e di formazione. Ricordiamo quello che fa la federazione sui prodotti, abbiamo creato questa nuova linea che è la linea AddensaMI, le risorse economiche che avremo da questa linea saranno utilizzate sia per il team della Nazione Italiana come per l’Università. Vi dico la novità di quest’anno, quale sarà? La linea AddensaMI sarà distribuita, in esclusiva, da Barilla che ha valutato positivamente il nostro modo di operare, quindi il prodotto sarà presente tra distributori e clienti diretti in 2500 punti.
Infine parliamo di formazione, il nostro responsabile, Giovanni Guadagno, ha elaborato dei format di alta formazione che possono essere utilizzati da tutti voi, nelle vostre sedi provinciali o regionali. Abbiamo accettato questa proposta e Giovanni Guadagno ha creato uno disciplinare e abbiamo messo in campo anche questa nuova azione, per facilitare e fare emergere nuove figure. Ogni associazione, infatti, deve pensare al cambio generazionale e ho visto, con soddisfazione, che molte delegazioni provinciali e regionali hanno in progetto di coinvolgere delegati giovani.
Da ultimo una parola sul bilancio che andremo a votare: esso ha un attivo di 20.000 euro e un aumento dello stato patrimoniale di circa 100.000 euro.
Sono segnali positivi e, per questo, voglio ringraziare tutti voi che con il vostro agire volontario contribuite al successo della Federazione Italiana Cuochi.







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46100 Mantova (MN)
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47020 Budrio di Longiano (FC) tel +39 0547 1938067




Autrice: Marina Caccialanza
Da
un piccolo forno di quartiere a una moderna realtà industriale, Valledoro è oggi un nome che parla di qualità, innovazione e attenzione per le persone www.valledorospa.it
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Un’azienda bresciana a conduzione familiare che, attraverso tre generazioni, ha saputo crescere con solidità, senza mai perdere di vista i propri valori fondanti: rispetto, onestà, responsabilità e passione.
La storia inizia negli anni ’30, nel cuore di Brescia, dove Ferruccio Zubani e Rina Consoli avviano la loro attività nella panificazione. Dopo le difficoltà della guerra e una crisi aziendale che li costringe a ricominciare, nel 1954 nasce Valledoro. Da subito, la nuova realtà si distingue per la cura nella scelta degli ingredienti e per un approccio artigianale che pone la persona – cliente, collaboratore o fornitore – sempre al centro.
Con il passare degli anni, la produzione si evolve, le tecnologie si aggiornano, la sede si amplia. Grissini, crostini e panetti diventano i prodotti di punta, esportati oggi in decine di Paesi in tutto il mondo. Ma alla base resta sempre la stessa visione: proporre un prodotto di qualità che sia buono, semplice e sicuro.
Linee dedicate, servizio e innovazione Oggi Valledoro conta sei linee di produzione, una superficie industriale di oltre 15.000 mq e una rete di distribuzione che copre i principali mercati italiani ed esteri. Il 65% della produzione si concentra sul mercato nazionale, mentre il restante 35% è destinato all’export in Europa, Nord America, Asia e Sud America.

In Italia, una particolare attenzione è riservata al canale foodservice, con linee di prodotto pensate esclusivamente per il mondo della ristorazione. Formati specifici, caratteristiche funzionali, packaging su misura: tutto nasce per rispondere alle esigenze degli operatori professionali. Questi prodotti non sono distribuiti nella GDO, a tutela della distintività dell’offerta rivolta a chef, hotel, ristoranti e catering.
Valledoro non vende direttamente ai ristoratori: ha scelto di collaborare solo con grossisti specializzati, riconoscendo in loro partner fondamentali nella costruzione di relazioni solide e durature. Una scelta strategica che valorizza le competenze di ogni attore della filiera e garantisce ai clienti finali un servizio efficiente, capillare e sempre orientato alla qualità. La fiducia nei propri fornitori, il dialogo continuo con i clienti e la cura per i collaboratori interni sono il motore quotidiano dell’azienda. Una cura che si traduce in attenzione all’ambiente, miglioramento continuo dei processi e investimenti in innovazione sostenibile. In Valledoro, fare impresa significa offrire qualcosa in più: non solo un prodotto buono e sicuro, ma anche un’esperienza positiva fatta di affidabilità, trasparenza e coerenza. Un modo di essere, prima ancora che di produrre, che fa della storia di questa azienda una testimonianza di come si possa crescere restando fedeli a ciò che conta davvero.
Autrice: Marina Caccialanza

Il profumo della farina nell’aria, le macchine che trasformano un raccolto in qualcosa di speciale, fatto per mani che lavorano con gesti antichi. È qui, tra futuro e memoria, che nasce ogni giorno una nuova storia di farina. Un percorso che Farine Perteghella scrive dal 1939, farina dopo farina.
www.perteghella.it
Una storia di famiglia, un presente di tutti. Nasce in un piccolo angolo di Lombardia, a Solarolo di Goito. Dal primo giorno, la famiglia Perteghella ha creduto che il lavoro della farina fosse molto più che trasformare cereali. Creare farine di qualità è per loro da sempre un impegno dedicato alla bontà genuina sulle tavole di ognuno di noi, progettato al meglio per trasformarsi in qualcosa di speciale nelle mani di chi cucina. Oggi, come allora, i membri della famiglia Perteghella continuano a guidare l’azienda e, affiancati da sempre più collaboratori, curano uno stabilimento capace di macinare fino a 330 tonnellate di grano tenero al giorno. Un’impresa moderna che, tuttavia, non ha mai perso il suo cuore artigiano.
Innovazione e ricerca a certifica della qualità Grazie alla collaborazione con Bühler e a un impianto totalmente riformulato, Farine Perteghella vanta uno dei mulini più moderni in Italia.
Il processo produttivo è monitorato digitalmente in ogni fase — dalla selezione dei grani al confezionamento — garantendo qualità, sicurezza e tracciabilità.
Le certificazioni IFS International Food Standard, biologica e Kosher testimoniano un impegno che va oltre la promessa: è una scelta quotidiana di rispetto per l’eccellenza.
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Farine su misura per ogni creazione
“A ognuno la sua farina” non è solo un motto: è una filosofia produttiva che guida l’azienda nel creare farine pensate per ogni lavorazione e per ogni esigenza.
Dalla panificazione tradizionale ai grandi lievitati, dalla pizza napoletana alle creazioni di pasticceria, ogni prodotto di Farine Perteghella è il risultato di una ricerca meticolosa sulle materie prime, al fianco di mastri pizzaioli, panificatori e chef in Italia e all’estero, col fine di creare farine studiate ad hoc per valorizzare ogni singolo impasto, ogni tecnica di lavorazione.
Tra i marchi di punta: Corona, la più ampia selezione di farine d’alta gamma, realizzata con tecniche di macinazione innovative con lo scopo di soddisfare al meglio tutte le diverse esigenze della cucina professionale.
Tre Laghi, per ogni tipo di pane, rappresenta la storia della panificazione italiana, con un legame profondo al territorio mantovano.
Strapizza, la linea d’eccellenza per pizzerie professionali. Con una gamma completa di farine di grano tenero e miscele per rispondere al meglio ad ogni gusto e ogni lavorazione, esaltando la fantasia di ogni pizzaiolo dalla pizza alla pala a quella in teglia, romana, napoletana, soffice o croccante, a breve o a lunga lievitazione.
Dolci Tentazioni, la linea di miscele specifiche per ogni tipo di dolce, frutto della collaborazione con grandi maestri della pasticceria come Luca Montersino, che ha saputo valorizzare la qualità delle farine Perteghella nelle sue creazioni raffinate.
Cerealotto, la linea nata dall’equilibrato dosaggio di cereali e semi, pensata per un’alimentazione sana, gustosa e ricca di valore nutrizionale.+
Ma la qualità firmata Farine Perteghella non si limita alle performance professionali: la gamma si amplia per rispondere a richieste nutrizionali sempre più specifiche, con farine Kosher, senza glutine, a basso indice glicemico e ricche di cereali e semi. Soluzioni studiate per una ristorazione attenta ai nuovi bisogni, senza compromessi su gusto e lavorabilità.
Vivere la Farinoteca: dove si esplora il futuro della farina Innovare rispettando la tradizione significa anche avere il coraggio di sperimentare.
È per questo che nasce la Farinoteca, il laboratorio esperienziale di Farine Perteghella: uno spazio in cui si sviluppano nuove miscele, si tengono corsi di formazione per professionisti e appassionati, si fanno consulenze su misura.
Un vero e proprio salotto dove la cultura della farina diventa esperienza concreta.
Oggi Farine Perteghella è presente sulle tavole di tutta Italia, nella GDO, nei forni artigianali, nei ristoranti e nelle pizzerie, ma anche nei mercati internazionali più

strategici: Europa, Nord America, Emirati Arabi e Cile.
Con una logistica interna efficiente, sette depositi strategici e una flotta di mezzi propri, Farine Perteghella assicura una distribuzione capillare e puntuale.
Tu sei il prossimo capitolo del loro racconto.
Ogni volta che un forno si apre, ogni volta che un impasto prende vita, Farine Perteghella sa che la sua storia si arricchisce. Per questo l’azienda si impegna per raccontarla ogni giorno, con la semplicità e la forza delle cose concrete, con l’accoglienza di una famiglia allargata che non vede l’ora di coinvolgere chiunque con la sua passione.



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L’azienda veneta investe tutto sulle persone, considerate non semplici risorse, ma il cuore pulsante dell’impresa. Centro Carni Company è una realtà in continua crescita, che fa dell’attenzione alle persone uno dei suoi valori fondanti. Ecco perché, negli ultimi mesi, ha deciso di consolidare - attraverso una serie di misure concrete - il proprio impegno verso una cultura aziendale inclusiva e orientata al benessere.
Dalla fine del 2024 all’inizio del 2025, in stretta collaborazione con l’ufficio Risorse Umane, infatti, l’azienda veneta ha messo in campo delle iniziative mirate al benessere fisico, economico e sanitario dei suoi lavoratori.
Tra le novità introdotte:
● Un premio economico di 750 euro per ogni dipendente, erogato come rimborso delle utenze domestiche, in linea con la Legge di Bilancio 2024. Un segnale tangibile di vicinanza in un contesto economico complesso.
● Convenzioni con palestre del territorio, pensate per promuovere il benessere psicofisico di dipendenti e famiglie, favorendo al contempo il tessuto imprenditoriale locale.
● Copertura sanitaria integrativa, per accedere più facil-
mente a cure e diagnosi, riducendo costi e tempi di attesa. Il pacchetto include visite specialistiche, diagnostica strumentale, cure odontoiatriche e trattamenti oncologici anche al di fuori di ricoveri ospedalieri.
Ma non finisce qui. Per rendere queste azioni ancora più efficaci e rispondenti alle reali esigenze del team, l’azienda ha attivato un sondaggio interno volto a raccogliere suggerimenti e bisogni direttamente dalla voce dei dipendenti.
“Siamo fermamente convinti – afferma Elisa Pilotto, HR manager dell’azienda – che un ambiente di lavoro sano, attento e partecipativo sia la chiave per il successo. Vogliamo che ogni collaboratore si senta parte attiva di una realtà che ascolta, accoglie e valorizza il contributo di ciascuno.”
Il benessere, infatti, va di pari passo con la crescita aziendale. Solo nel 2024, Centro Carni Company ha assunto 29 nuove risorse – di cui il 62% donne – e investito oltre 2.950 ore in formazione. Oggi conta circa 160 collaboratori interni, 50 risorse esterne e 32 posizioni aperte, a conferma di una strategia che guarda al futuro con entusiasmo e determinazione.
Autore: Luigi Franchi

Il primo a prender fuoco fu Totò
Bruno Damini
Edizioni Minerva 191 pagine Euro 16,90 www.minervaedizioni.com
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Bruno Damini, l’autore di questo veritiero romanzo, torna nei luoghi della sua infanzia, a Napoli, per iniziare una faticosissima ricerca su Giuseppe Masotola, per tutti monsù Peppino, vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento. I monsù, nel sud dell’Italia, erano i cuochi dell’aristocrazia nobiliare che, finita quell’epoca, si sono ritrovati a doversi inventare un lavoro. In Francia hanno dato vita alla ristorazione pubblica, in Italia sono durati più a lungo nelle case nobiliari ma poi, come monsù Peppino, hanno fatto altre scelte obbligate. Lui trascorse la sua vita sulle imbarcazioni a cucinare in viaggio per il mondo, nelle guerre mondiali, e nelle ville che puntellano il Vesuvio. La magnifica storia scritta da Bruno Damini inizia proprio da Villa Olivella, ai tempi di Ingrid Bergman e Roberto Rossellini che qui vivevano, ospiti del conte Paolo Caetani, durante le riprese del film Viaggio in Italia. Ma, in un effetto straniante, è come se le prime pagine del libro ne raccontassero la fine. La storia vera e appassionante comincia nel secondo capitolo quando monsù Peppino racconta il sapore dei ricordi, facendosi passare tra le dita, prima di bruciarle tutte, le foto di una vita e la prima a prender fuoco è quella con Totò. E sta proprio qui il magistrale lavoro dell’autore: ricostruire, pezzo dopo pezzo, una storia di cui si erano perse tutte le traccie o quasi.
L’amore per la cucina, per monsù Peppino, inizia da bambino, quando suo padre, impiegato negli Uffici di Bocca della Real Casa a Napoli, lo portava nelle cucine di Palazzo Reale: chissà che non t’impari un mestiere, gli diceva.
E Peppino lo imparò talmente bene che, grazie al capocuoco, il signor Pettini, a dodici anni iniziò una carriera che lo portò, dapprima a imparare il francese, la lingua dei ricchi come la definisce lui, per poter leggere i ricettari e poi ad assolvere ai compiti della cucina reale come chef de partie. Finita quell’esperienza si imbarcò a Livorno come cuoco borghese per le cucine della corazzata. Era il 1910. Ma la sua vita a bordo delle navi fu al culmine quando divenne cuoco di bordo della nave di Guglielmo Marconi, sulla quale lo scienziato faceva i suoi esperimenti. Poi la guerra che lo porta con gli americani a cucinare sulle corazzate fino al 1950 quando torna in una Napoli ancora semidistrutta. Una storia davvero coinvolgente che si chiude con una riflessione profonda: “quello che so l’ho imparato in silenzio, osservando come si muovevano le mani degli altri in cucina. Quella del cuoco è un’arte effimera. Nulla resta dei nostri piatti, se non nella memoria di qualcuno… Le ricette non bastano, sono solo tracce… ma la scrittura non emana odori, non lievita, non frigge, non arrostisce, non brucia, non fuma, non cambia colore”. Un libro avvincente, che ti tiene inchiodato fino alla fine!






Nascosto nel cuore del chicco, il germe di grano è una vera e propria miniera di benessere. Cuore vitale che oltre a contenere proteine e fibre, è fonte di vitamina E: un elisir di lunga vita che protegge le cellule dall’invecchiamento. Contiene inoltre acidi grassi essenziali alleati del cuore, Vitamine del gruppo B e E , che alimentano l’energia e rinforzano il sistema nervoso, più minerali essenziali come ferro, magnesio, fosforo e potassio fondamentali per la salute.

GERMENTIS® racchiude l’Anima pura di Puglia: è il nostro nuovo sfarinato che contiene prezioso Germe di Grano da Agricoltura Biofilica. Autentico, ricco di sapore e storia, preserva tutte le proprietà nutritive e aromatiche regalando alle nostre verdure una crosta profumata e nutriente, esaltandone il gusto e favorendo energia e vitalità in modo naturale.

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Proporre agli ospiti del tuo locale verdure Biofiliche della tradizione pugliese avvolte in una crosta dorata e croccante, esaltate da una nota di sapore inconfondibile: questo trasformerà anche un veloce aperitivo in un’esperienza gustativa di eccellente pregio nutrizionale.
LA NOSTRA TERRA, IL NOSTRO GRANO
I nostri campi sono il frutto di un lungo lavoro paziente e rispettoso, senza l’uso di glifosato e pesticidi, nè residui di tossine dannosi per la salute. Abbiamo la responsabilità di proteggere qualcosa di più di un semplice raccolto: stiamo preservando e tramandando un’eredità di gusto, salute, storia e tradizione: Germentis® ne è l’essenza. A mano e delicatamente immergiamo le nostre verdure e ortaggi nell’impasto che le avvolge: ognuna ha la sua ricetta per ottenere la crosta perfetta, croccante e saporita. Fai esplodere il successo della tua attività! Con le nostre verdure al naturale e in crosta di farina di grano puoi creare piatti sempre nuovi e accattivanti che ti permetteranno di aumentare il successo del tuo locale.

