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Prefazione

Questo terzo volume del commento di p. Barsotti riguarda proprio la parte centrale del vangelo (cc. 14-18) in cui, per così dire, l’evangelista ci fa entrare nel pieno del mistero del Regno dei cieli di cui la chiesa che Gesù istituisce rappresenta la primizia. Eventi salienti di questa sezione mediana sono, oltre la confessione e il primato di Pietro, l’esecuzione del Battista, i miracoli della moltiplicazione dei pani e la Trasfi gurazione. Si nota come il manifestarsi del Regno fa emergere in maniera sempre più radicale l’opposizione tra Gesù e la nazione giudaica, tra l’antico e il nuovo Israele. Ora si opera una divisione netta tra quanto Gesù ha fatto e ha detto finora e quanto farà e dirà d’ora in poi. Non è un caso che questa parte del vangelo si apra con il martirio di S. Giovanni Batti sta, la cui figura sempre emblematica nel vangelo, ancor più con il suo morire adempie la suprema sua missione. Giovanni Battista muore e con lui muore tutto l’Antico Testamento. Da questa morte viene, potremmo dire, la vita, che è Gesù stes so. È adesso che si inaugura davvero il Regno di Dio. Così si esprime p. Barsotti: «Finora l’Antico e il Nuovo coesistevano, Gesù era ancora del popolo di Israele. Ora invece l’opposi zione che la nazione in qualche modo ha manifestato già nei suoi capi realizza una divisione: nasce il nuovo Israele e l’anti co Israele scompare. Non scompare storicamente, scompare come popolo eletto, scompare perché in qualche modo ripu diato da Dio nei suoi capi. Solo Gesù rimane». Vi è inoltre secondo don Divo un evidente parallelismo con il Discorso della montagna, sembrano ripetersi su un piano più alto i pri mi capitoli del vangelo. In questa sezione che si colloca tra la preparazione remota e quella prossima all’ora di Gesù (cioè

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il compimento della sua missione con la morte di croce) sembra rinnovarsi l’esodo con il miracolo della manna. Prima la folla era invitata a salire con Gesù sul monte per ricevere la legge nuova, ma ora deve compiere l’esodo definitivo e salire di nuovo con Gesù sul monte non più per ricevere la legge ma la vita. Questo salire sul monte è un’anticipazione della salita al Calvario dove Gesù compirà la sua missione con la morte di croce e attraverso l’effusione del sangue donerà la vita. Si comprende così il miracolo della moltiplicazione dei pani (ben due volte in Matteo) come figura dell’eucarestia in cui riceviamo davvero il suo corpo e il suo sangue.

Ma tutto questo implica appunto un nostro entrare in rap porto vivo con Cristo. Vi è un’esortazione di p. Barsotti nel bel mezzo del suo commento al brano della prima moltiplica zione dei pani che non può lasciare indifferenti: «Rendiamoci conto prima di tutto che il nostro rapporto con Cristo non è un qualsiasi rapporto, non può essere un rapporto secondario nella nostra vita, che la nostra vita religiosa non è una com ponente della nostra vita umana in cui c’è la vita di salotto e c’è la vita religiosa, c’è il rapporto con Cristo e c’è il rapporto con le creature, col marito, coi figli che amiamo, con gli uo mini coi quali lavoriamo, con gli uomini del proprio partito. No, non c’è che Lui. Cristo è veramente esclusivo. Egli vuole l’uomo tutto per Sé, se l’uomo si è deciso a seguirlo».

Si comprende allora come ancora una volta sia prima di tutto una questione di fede. Possiamo vedere lo svolgersi di questi capitoli innanzitutto come un itinerario che parte dal la fede per giungere all’amore attraverso la preghiera. Fede, preghiera, carità.

Innanzitutto la fede. Lo vediamo in particolare nel caso della moltiplicazione dei pani. Dio non delude, è vero, ma è vero anche che non sembra assicurarti mai niente prima né interviene mediante doni e miracoli in anticipo, cioè prima che tu abbia attraversato la prova della fede: un atto di fede comporta un rischio assoluto. Cosa sia quest’atto di fede Bar sotti ce lo spiega bene commentando il brano della prima

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moltiplicazione dei pani: «Fede assoluta in chi invita e in chi deve rispondere. “Egredere! [vai]”. Mettersi a sedere o cam minare è lo stesso, è sempre un rischio, è sempre un rompere i ponti dietro a sé. Infatti coloro che seguivano Gesù rompe vano i ponti, perché se scendeva la notte come fare a tornare a casa, fare chilometri e chilometri col timore anche degli scia calli? Era un rischio. Dio ci chiede questo rischio, questo atto di abbandono. Sapremo noi farlo? Egli ci alimenterà soltanto quando avremo rinunziato ad ogni nostro cibo; Egli sarà con noi solo quando avremo spezzato ogni appoggio; Egli verrà con noi quando noi per Lui saremo entrati nella solitudine: non prima».

Ma quale esperienza abbiamo di Dio se non riusciamo a riconoscerlo, se siamo così distratti in mezzo a tante cose da non saper scorgere i segni della sua presenza per non dire che la liturgia stessa diviene spesso solo un rito senza una reale partecipazione interiore? E il motivo di ciò non è forse da ri cercare nel fatto che tante volte pensiamo che Dio si debba manifestare in maniera straordinaria mentre è proprio negli eventi più comuni e ordinari della nostra vita che egli si fa sen tire? Eppure a volte bastano anche brevi istanti ed è come se il cielo si squarciasse, l’anima avverte il senso di Dio, si spalanca d’un tratto l’abisso dell’infinita grandezza del mistero divino davanti all’abisso dell’estrema sua povertà. E sono momenti di speciale grazia. Barsotti afferma: «Se si pensa che noi stamani abbiamo fatto la comunione e poi ce ne siamo andati in giro per le strade, forse anche a qualche ricevimento, e non siamo tramortiti nel fare la comunione, non siamo morti di spaven to nell’accostarci a Nostro Signore, ma abbiamo potuto fare tranquillamente tante cose... se ci si pensa si ha paura! Come noi possiamo vivere in contatto con Dio rimanendo tranquil lamente gli stessi di prima? …Avviene che ogni tanto Dio si rivela all’anima, e l’anima, anche negli avvenimenti più comuni, intravedendo questa infinita grandezza, rimane come tramor tita, senza parola. Un avvenimento il più ordinario della tua vita, se Egli si scopre, ti sgomenta, ti paralizza…».

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Ancora, il brano della tempesta sedata ha un valore quanto mai esemplare per noi. L’uomo è nostalgia di Dio, ma è Dio che agisce per primo nel cuore dell’uomo, che accende nell’anima il desiderio di lui, che attrae a sé l’anima irresisti bilmente e la chiama. Ma come può l’anima giungere a Dio se tra noi e Lui vi è un abisso invalicabile? Sì, è vero, a Dio si giunge solo per mezzo dell’umanità di Gesù, ed è Gesù stesso che ci invita ad andare verso di lui con fiducia come un giorno Pietro, ma per incontrarci con Dio occorre comun que un miracolo, un miracolo continuo per superare tutte le nostre paure e non affondare come Pietro camminando sulle acque. Ed è appunto la fede che ci sostiene nel nostro essere sospesi come sul nulla o camminando sull’acqua. Diceva san Giovanni della Croce, e Barsotti ripete, che la grandezza di un’anima si misura dalla sua fede. E commenta ancora: «Aver fede è come camminare sull’acqua, è come esser portati sulle ali del vento, come dice il Salmista ( Sal 17, 11), e il vento è lo Spirito. In una fede pura in Dio gèttati nelle sue mani, gèttati nell’impeto dello Spirito, perché Egli ti porti. Non aver più timori né angustie: lo sgomento, il dubbio ti farà precipitare, affondare».

Un ulteriore passo avanti ci fa capire che la fede è sempre qualcosa di eroico e che non saremo veri uomini di fede finché non saremo santi. Circa le discussioni di Gesù sulle tradizioni farisaiche una frase di don Divo in quegli anni colpisce parti colarmente a proposito della purezza della fede come quella dei santi, cioè di una adesione totale a Dio senza compromes si di fronte alla tentazione continua nella Chiesa di far servire Dio a se stessi, alla propria autoaffermazione, ai propri egoi smi e ambizioni. Leggendo Barsotti si sente risuonare ancora vivo e ardente il suo desiderio e la sua speranza che nuove figure profetiche, nuovi santi, facciano ringiovanire la chie sa: «Quando sarà che un nuovo san Francesco di Assisi, un nuovo sant’Ignazio di Loyola sorga e rinnovi, ringiovanisca la Chiesa, la liberi dalle incrostazioni della potenza umana, da questa ipoteca che le hanno messo sopra i nostri egoismi, le

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nostre ambizioni, la nostra sensualità e anche la nostra incredulità, di noi, figli di lei, di noi ministri dei suoi sacramenti, di noi annunciatori della Buona Novella? Quando sarà? Il mondo dice che la Chiesa è superata: effettivamente solo un ringiovanimento della Chiesa potrebbe dare di nuovo a que sta massa umana, che ormai non ha più fede in lei, il senso che la Chiesa non è un monumento del passato, ma ha le chiavi dell’avvenire».

Sì la Chiesa ha davvero le chiavi dell’avvenire in quanto Gesù ha detto a Pietro quel giorno: «A te darò le chiavi del Regno dei cieli» conferendogli il potere di sciogliere e lega re. Veniamo dunque alla parte veramente centrale di questo vangelo, cioè alla confessione e al primato di Pietro. Senza entrare nei dettagli non possiamo innanzitutto non accennare al significato e al valore del cambiamento del nome del primo degli apostoli. Ben a ragione Barsotti sottolinea come l’apo stolo Pietro si identifica alla sua funzione, tanto questo è vero che il nome che ha ricevuto dal Cristo non è stato tramandato come quello degli altri apostoli, cioè non è stato semplice mente traslitterato in altre lingue come gli altri nomi ma è stato appunto tradotto perché fosse chiaro quello che il suo nome significa, per dire che era importante la funzione che quel nome voleva significare: Pietro è la roccia su cui è fon data la Chiesa. «“Kephas” è divenuto “Petròs”… non hanno tradotto in consonanti greche la parola detta da Gesù, per ché rimanesse quella parola: non era un nome, era una cosa. Egli era la “pietra”. I cristiani dovevano sapere benissimo che egli era la roccia». Ora anche se per noi cattolici il primato petrino ha il suo fondamento sulla persona stessa di Pietro prima che sulla professione di fede dello stesso, tuttavia non possiamo prescindere da quest’ultima in quanto strettamente unita comunque, nella redazione di Matteo, al conferimento del primato. Ed è certamente in tale confessione che troviamo il vertice dell’itinerario di fede. Una fede che non è più un fatto privato ma è la fede di tutta quanta la Chiesa, espressa appunto attraverso la voce di colui che sarà il vicario qui in

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terra del Supremo Pastore. Giustamente scriveva san Leone Magno nei suoi sermoni: Tu es Christus filius Dei vivi quoti die Petrus dicit – ogni giorno Pietro dice: “Tu sei il Cristo il Figlio del Dio vivente”. Avere fede non vuol dire affermare quello che si pensa su Dio e su Gesù, men che mai affermare un ideale, una dottrina, ma rispondere alla domanda che Lui ti rivolge, che riguarda Lui direttamente, non le sue parole, non la sua dottrina o il suo insegnamento. «Ma voi chi dite che io sia?». Quello che conta qui è la tua risposta a quella domanda fondamentale, perché da quella risposta dipende tutto, dipende la tua vita e il tuo destino. La fede implica un lasciarsi interpellare da Gesù per fare nostra oggi la stessa confessione di fede di Pietro. Ecco quanto Barsotti afferma con profonda convinzione di fede ed enfasi piena di pathos: «Chi è Cristo? Gesù non ti chiede che tu giudichi la sua dot trina, che tu emetta un giudizio su quello che Egli dice: Egli vuole da te una confessione su di Lui, su Lui stesso. Questa e la cosa importante; ed è in questa domanda non soltanto l’originalità del cristianesimo, ma il fatto centrale della storia del mondo, il fatto centrale della vita di ogni uomo. Chi è Cristo? L’umanità vive soltanto per dare una risposta a questa domanda: l’uomo non può eluderla. Può essere che l’uomo non si sia incontrato con Cristo, non lo abbia conosciuto; ma se un giorno lo conosce, se gli uomini un giorno si incontrano col Cristo, questa domanda si pone ed è questa domanda che determina tutto. È veramente un vertice. Di fatto, proprio perché è un vertice, essa crea due versanti: divide gli uomini secondo la risposta che gli uomini daranno, li divide in modo assoluto».

Il tema della fede si qualifica sempre di più man mano che il discorso sulla chiesa si va approfondendo. Così nella ben nota frase di Gesù «Se non diventerete come bambini non en trerete nel regno dei cieli» e in tutto il brano ( Mt 18, 1-10) Barsotti si mostra molto attento a cogliere il senso religioso prima di quello etico. Avere fede vuol dire divenire come bambini, ed è ben più di una infanzia spirituale: è una nascita eterna

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nel fondo dell’anima, come insegna Meister Eckhart nei suoi sermoni. Interessantissimi al riguardo le considerazioni sul piano della psicologia del profondo in senso junghiano piut tosto che freudiano: la fede cristiana intesa come nostalgia delle origini e rinascita continua, un risalire alle origini oltre il tempo per ritornare figli nel Figlio nel grembo di Dio, nel seno del Padre, lì dove dimora il Suo Verbo, il Suo Unigenito Figlio, dall’eternità. E non meno rilevante è il fatto che lo spunto viene dalla stessa liturgia della Chiesa. Un tema at tualissimo e di grande portata a livello di rivelazione cosmica soprattutto per il richiamo alla fecondità dello Spirito Santo che ricevuto nel battesimo opera nel cristiano una continua rigenerazione. Non può sfuggire poi l’espressione “rugiada del cielo”, espressione che riferita alla Spirito Santo richiama la formula consacratoria dell’eucarestia che tra l’altro è stata ripristinata nel nuovo messale. Val la pena qui riportare ampi stralci del commento. «Qui ci vorrebbe uno psicologo come lo Jung a interpretare il testo di Gesù... tutta la vita umana non è che un’aspirazione a ritornare nel grembo materno, nel seno della terra, un rinnovarsi continuo...Attraverso la ma dre, l’uomo, secondo lo Jung, vede la madre terra, e attraverso la madre terra va ancora più a fondo, all’Archetipo, alla sua generazione da Dio, alla sua creazione primitiva; vuole una nuova innocenza, vuole uscire di nuovo dalle mani dell’On nipotente. La conversione comporta proprio questa rinascita: tornare nel seno del Padre… Che dire di certi Oremus? L’O remus per esempio dello Spirito Santo che parla della rugiada celeste. Si impone una rinascita. Bisogna ritornare veramente nelle mani di Dio, anzi nel seno del Padre. Tutta la vita cristia na è un ritorno al battesimo, e anzi un vivere il battesimo. Ma non si vive la grazia del battesimo che in quanto noi si ritorna dentro le acque: le acque della madre, cioè della Chiesa. Il bambino nel ventre della madre e nelle acque; bisogna ritor nare dentro queste acque. Tutta la vita cristiana è un ritornare dentro, un sommergersi dentro, non un emergere, non un ve nir fuori: un entrare per rinascere puri, per rinascere nuovi!

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La novità della vita cristiana! Guardate che quanto più siamo cristiani tanto più siamo nuovi! Tanto più, cioè, noi perdia mo questa successione del tempo, questa vecchiezza che ci distanzia dalla nascita, quanto più non interponiamo più nes suna successione di tempo e nessuna successione di anni fra l’emergere puro dalle acque materne e la resurrezione! Tutto il nostro cammino, dunque, è un nascere, un rinascere».

Ora, dal momento che la fede non è mai qualcosa di inti mistico e privato, ma è la fede di tutta la chiesa, non possiamo non richiamare qui il legame tra fede e carità fraterna. La ca rità dunque. È quest’ultima in definitiva che diviene l’ambito di verifica e il termometro della fede. Ed è il vangelo stesso d’altra parte che ci riporta verso la fine di questa sezione alle norme che devono regolare i rapporti all’interno della comu nità ecclesiale. In realtà non si parla tanto di carità in maniera diretta ed esplicita qui, è vero, quanto piuttosto di correzione fraterna, tuttavia dal tenore del discorso di Gesù si compren de come quest’ultima è vera ed autentica solo se scaturisce ed è informata dall’amore. Barsotti osserva: «In questi versetti c’è tutta la pena, tutta l’ansia di un amore che non si vuol dare per vinto. Non si considera tanto l’ostinazione del peccato quanto l’ostinazione dell’amore, il voler riprendere colui che vuole sfuggire, il voler legare colui che si voleva sciogliere, il voler riprendere nell’abbraccio della carità colui che ave va offeso questa carità». Tutto questo è spiegato in maniera ancora più chiara e convincente nella misura in cui il potere di sciogliere e legare che la Chiesa ha sul piano sacramentale viene esteso anche all’ambito dei rapporti fraterni. Anche qui si può parlare di un certo “potere sacramentale” della carità. «Quello che il tuo amore ha voluto, quello che il tuo amore ha operato rimane, Dio lo ratifica… un certo potere sacramentale della carità si deve pur riconoscere che noi l’abbiamo. Troppo spesso noi vediamo soltanto nel sacerdote un ministro di gra zia: lo siamo gli uni per gli altri, continuamente. Nella nostra unione fraterna, nel nostro rapporto umano noi viviamo con tinuamente il nostro rapporto con Dio. E Dio lo ratifica, Dio

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compie nel cielo quello che noi compiamo quaggiù sulla terra. Sul piano divino, sul piano della carità che ci unisce a Lui e che ci dona la sua vita, Egli ratifica quel poco che noi sap piamo fare e che noi possiamo fare quaggiù». A questo punto occorre però notare come mentre si dettano le regole di vita della comunità si introduca un discorso sulla preghiera. Ciò è segno evidente che il legame tra fede e carità è reso possibile proprio dalla preghiera. Si vive infatti la carità fraterna nella comunità ecclesiale se si vive la dimensione profondamente misterica della Chiesa in quanto è la preghiera l’atto costitu tivo della comunità. La preghiera è l’atto mediante il quale la moltitudine diviene una cosa sola, ed è l’atto del Cristo che si fa presente, non come un terzo che si aggiunge ma come colui che fa l’unità del suo corpo. Bastano anche due persone e tutta la Chiesa è presente. Addirittura ogni battezzato nella Chiesa è tutta la Chiesa, in quanto non esiste come singolo ma come “soggetto di comunione”. A tal proposito Barsotti ama va spesso citare una famosa espressione di san Pier Damiani: Ecclesia est in omnibus una et in singulis tota. La Chiesa è nello stesso tempo una nella pluralità dei suoi membri e tutta quanta in ciascuno. Il mistero della comunione nella chiesa riproduce quella comunione d’amore che è in Dio Trinità: qui è l’unità della natura nella distinzione delle persone divine, là è l’unità di tutti i credenti nel corpo di Cristo: «La comunità è Cristo, e l’atto del Cristo è la preghiera, la lode: tutta la comu nità non vive che per la preghiera; e la comunità, d’altra parte, è qualche cosa di più che una riunione di uomini: due uomini, siano pure peccatori, siano deboli, siano bambini, son sempre il Cristo; l’umiltà della loro natura, la povertà della loro vita spirituale non toglie nulla alla grandezza di una presenza del Cristo. Cristo si fa presente». Solo allora si vive la carità fra terna, quando davvero il Cristo è presente, quando l’atto del cristiano diviene l’atto stesso del Cristo, l’atto di Dio che ama. Non possiamo non citare la riflessione conclusiva di Barsotti a proposito del perdono nella parabola dei due debitori con cui termina questa sezione del vangelo. Il filo conduttore è

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la carità fraterna: «“Da questo conosceranno che siete miei discepoli”, perché la carità fraterna è il segno visibile di una grazia invisibile, è il segno precisamente di una presenza mi steriosa di Dio nel cuore dell’uomo. La carità fraterna è il sacramento della presenza operante di un’agàpe divina, è il segno di una comunione ineffabile che lega ormai gli uomini a Dio e Dio agli uomini tutti. Senza la carità fraterna Dio stesso ritorna al suo puro mistero, al suo puro silenzio: tu non lo conosci più. Egli non si rivela più, perché Egli neppure si fa più presente fra gli uomini».

Padre Martino Massa CFD

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