Analisi del film "In nome del Papa Re" di L. Magni

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COME IN UNO SPECCHIO. CINEMA E CULTURE -3Collana diretta da Giovanni Invitto

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Fenomenologie e lessici del dubbio Tra filosofia, cinema e altri saperi a cura di Giovanni Invitto

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Questo volume si inserisce nel Progetto di ricerca di rilevante interesse nazionale, gruppo dell’Università del Salento, su «Fenomenologia, riflessione etico-politica ed estetica dal Novecento in poi: testi e temi della filosofia dei paesi del Mediterraneo». Responsabile nazionale Giovanni Invitto.

© 2011 - Amaltea edizioni via D. Pellegrino 26 - Melpignano (Lecce) email: info@amalteaonline.com http://www.amalteaonline.com

ISBN 978-88-8406-127-0

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INDICE

L’ambiguità del reale, la sua riproducibilità tecnica, il dubbio. Premessa di Giovanni Invitto

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“Il dubbio è uno dei nomi dell’intelligenza” di Franca Mazzei Maisetti

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Abitare il dubbio tra paticità e apticità. “Doubt” di John Patrick Shanley di Giovanni Scarafile

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Il dubbio in “Eyes Wide Shut” di Massimo Maisetti

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Religiosità del dubbio, ateismo della certezza. Riflessioni su “Il nome della rosa” di Carlo Alberto Augieri

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Le incertezze e i dubbi di un prelato. Analisi del film “In nome del Papa Re” di Luigi Magni di Salvatore Colazzo

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Dell’incertezza. Sulla funzione non catartica del racconto di Fabio Sulpizio

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Il dubbio del Corvo. Su “Uccellacci e uccellini” di Alessandra Spadino

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Sul filo del rasoio tra dubbio e identità: il caso “Guerre/Sommersby” di Ada Manfreda

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L’evidenza del dubbio nell’evidenza dell’immagine filmica in “Copia conforme” di Daniela De Leo

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Il ruolo del volto in un discorso sul dubbio. A proposito di un film di Bergman di Giovanni Invitto

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Niente da nascondere: “Caché” di M. Haneke di Federica Rega

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Gli autori

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LE INCERTEZZE E I DUBBI DI UN PRELATO. ANALISI DEL FILM IN NOME DEL PAPA RE DI LUIGI MAGNI di Salvatore Colazzo 1. In nome del Papa Re è un film che può essere chiamato emblematicamente a illustrare il tema del dubbio.

Scritto e diretto da Luigi Magni, vede campeggiare la magistrale interpretazione di Nino Manfredi, un disilluso, ironico, a tratti sarcastico, certamente tormentato da molti e importanti dubbi, monsignor Colombo, che si trova a sfidare le gerarchie della Chiesa, incapace di cogliere, dal suo punto di vista, le sollecitazioni della storia e le aperture problematiche da questa suggerite.

“Ciò che il dubbio è per la scienza, è l’ironia per la vita personale”, o qualcosa di simile, deve aver detto Kierkegaard, significando con ciò che attraverso l’ironia la certezza del costituito diviene meno cogente e si apre alla possibilità.

L’ironia di monsignor Colombo esprime, con scelta opportuna da parte del regista, un momento di crisi in cui si trova avviluppata un’istituzione, rispetto alla quale i vecchi meccanismi che la facevano coesa scricchiolano esigendo risposte nuove.

Il film ha un carattere evidentemente teatrale, la sceneggiatura solidissima lo rende credibile1: gli avvenimenti storici sono dati attraverso il racconto che ne fanno i protagonisti della vicenda principale. È ambientato nel 1867 e intende denunciare il pervicace attaccamento di Pio IX al potere temporale della Chiesa, causa di molte sofferenze e di inutili morti. L’Unità d’Italia si era compiuta da pochi anni, col vulnus di una potenziale capitale in mano ad una potenza straniera. Governava la cosiddetta Destra Storica, convintamente laicista ed espressamente anticlericale. Senza muovere esplicitamente guerra allo stato pontificio, il governo italiano aveva con61 |

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sentito che si formasse un esercito di volontari, ricco di alcune migliaia di uomini, e che Garibaldi lasciasse l’esilio di Caprera e si ponesse alla sua guida.

L’idea era quella di abbattere lo Stato pontificio con un doppio movimento: militare per annientare l’esercito di legionari che si era costituito a difesa del Papa Re, e di popolo per esplicitare la volontà di Roma e dei romani di diventar parte del Regno d’Italia.

Ma su entrambi i fronti dovette registrarsi una dolorosa sconfitta: di Garibaldi a Mentana, degli insurrezionalisti a Roma. La delusione più profonda fu quella per un popolo che lasciò sola l’avanguardia di patrioti chiamati ad indurlo alla ribellione. Evidentemente la sistematica repressione, unita ad uno spionaggio diventato pervasivo, che aveva seguito la proclamazione della Repubblica romana, avvenuta quasi vent’anni prima, aveva prodotto i suoi effetti.

2. Il film ci presenta la figura di monsignor Colombo di Priverno che, al culmine di una crisi di coscienza, lungamente incubata, sta per decidere di abbandonare l’importante incarico che ricopre, quello di giudice del Tribunale dello Stato pontificio, che tanta parte aveva avuto nella punizione dei dissidenti politici, secondo gli intendimenti di Pio IX e del suo segretario di Stato, quel cardinal Giacomo Antonelli2 che fu principale ispiratore della politica interna ed esterna del Vaticano, con l’appoggio ingombrante dei Gesuiti.

L’episodio decisivo per indurre ad un proponimento così grave monsignor Colombo è quello del lanificio in Trastevere, in cui avevano perso la vita sedici cospiratori, e tra questi una donna di quarantadue anni, incinta, Giuditta Tavani Arquati3, barbaramente trucidata dagli zuavi, che avevano anche infierito sul suo cadavere.

Tanta crudeltà scuote l’animo di monsignor Colombo che si chiede se abbia senso per la Chiesa ostinarsi pervicacemente a difendere il potere temporale, sinanco contro il suo popolo, sino al punto di indurla a contravvenire così | 62

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palesemente alla sua missione di pace e di giustizia. Rimprovera al papa il suo assordante silenzio su un fatto tanto grave. Gli chiede conto, in una lettera che non spedirà, del perché egli consideri questi “eroi da presepio” (si riferisce agli zuavi) abilitati a compiere ogni sorta di violenza sui romani, che hanno la colpa non di rifiutarlo in quanto guida spirituale della Chiesa, ma in quanto monarca dispotico e violento, incapace di avvertire a cosa aspirasse il suo popolo.

Sia detto a margine: monsignor Colombo coglie l’ambivalenza del sentimento dei romani verso la Chiesa. Anche i più radicalmente ostili al potere temporale della Chiesa non disdegnano di mostrarsi devoti alla religione cristiana.

I romani, anche quelli più convintamente impegnati nella lotta contro il papa, idealmente si ispirano alla Costituzione della Repubblica romana del 1849, dove era sancito il principio della libertà di professione religiosa, come diritto individuale, nella laicità dello Stato, unico autentico presupposto per il riconoscimento universale della libertà religiosa.

Ormai, dopo un lungo travaglio interiore, tirando le somme, monsignor Colombo ha maturato la convinzione che i preti è bene che facciano unicamente i preti, ispirandosi alla lezione morale di Cristo, che difficilmente avrebbe potuto riconoscere nei prelati romani (impegnati a mantenere con soprusi, forza e violenza una situazione di dominio o di privilegio, contribuendo all’arricchimento di poche famiglie e all’impoverimento dei più) i ministri della sua parola.

Travaglio autentico, quello di don Colombo, ma che Serafino, il perpetuo, che ha la stessa forma mentis degli inquisitori, mette in dubbio, avanza perfidamente l’idea ch’esso giunga sospettosamente puntuale in concomitanza col presumibile arrivo degli italiani a Roma. E, laddove fosse autentico, dice il perpetuo, sarebbe di certo ingenuo poiché non si pone il problema delle fonti di sostentamento del clero e del suo apparato burocratico, che proprio dal63 |

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l’esistenza di un potere temporale traggono i redditi indispensabili per svolgere la loro missione nel mondo.

Ai dubbi del prelato si affiancano le assai più concrete preoccupazioni del perpetuo, il quale teme che l’idealismo del suo datore di lavoro si traduca in una perdita delle proprie sicurezze.

3. La morte di Giuditta Tavani Arquati avvenne nei giorni convulsi dell’ottobre del 1867, quando a Roma alcuni nuclei insurrezionalisti tentavano di far propaganda presso il proletariato urbano e il mondo dei piccoli artigiani, per la sollevazione popolare in appoggio della campagna di Garibaldi e dei suoi volontari.

La cellula della quale faceva parte Giuditta Tavani Arquati si riuniva presso un lanificio sito in via Lungaretta, vicino all’ospedale San Gallicano, un luogo messo a disposizione da Giulio Ajani, il proprietario, convinto assertore della causa italiana. Con lui, a cospirare, c’erano i suoi tre figli, il direttore dello stabilimento, Francesco Arquati, marito di Giuditta, la stessa Giuditta, alcuni artigiani operanti in Trastevere, che offrivano soprattutto supporto logistico.

Scoperti, i cospiratori si erano asserragliati nel lanificio, ma gli zuavi li tirarono fuori a colpi di revolver e di fucile, e poi li finirono con le baionette4, manifestando una crudeltà che scosse le coscienze di molti romani, resi però pavidi dal terrore con cui Pio IX governava da molti anni i suoi territori, bonificati, a colpi di sentenze e a volte col concorso della mannaia del boia, di chiunque fosse sospettato minimamente di sedizione.

Roma - dicevamo - non insorse, al contrario di quel che pensavano i rivoluzionari, ma in quei giorni la città venne attraversata da una serie di attentati per vendicare l’eccidio. Il più grave fu quello dinamitardo alla caserma Serristori ove erano di stanza gli zuavi, che causò ventitre morti fra i militari, ma anche quattro tra i passanti. Era stato voluto dal Comitato rivoluzionario che aveva assegnato il difficile compito a Giuseppe Monti e a Gaetano Tognetti, due | 64

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giovani rivoluzionari, i quali, come molti altri, erano fieramente contrari al potere temporale della Chiesa, anche se non mettevano in dubbio la sua possibilità di svolgere una funzione spirituale nella società.

Magni, nel film, che segue liberamente la traccia di un testo di Gaetano Sanvittore, scritto a stretta distanza temporale dei fatti del 1867 per raccontare la cattura, il processo, la condanna e l’esecuzione capitale di Monti e Tognetti5, si prende la licenza di immaginare l’arresto anche di un terzo congiurato, Cesarino Costa, figlio segreto di una nobildonna romana, fratello di latte d’uno degli attentatori, in quanto la contessa Flaminia, lo aveva posto, appena nato, a balia presso la madre di Gaetano Tognetti.

La contessa Flaminia, nel tentativo di salvare la testa a suo figlio, nell’immediatezza dell’arresto dei tre, si rivolge al potente giudice della Sacra Consulta, don Colombo, rivelando che Cesarino, che molti pensano suo amante, fra questi suo marito, il conte Ottavio, in realtà è il frutto, tenuto a tutti nascosto, di un momento di intimità consumato nelle convulse ed esaltanti giornate del 1849, quando un giovane prete e lei si ritrovarono a recare conforto ai feriti e ai moribondi che la guerra rivoluzionaria in atto andava causando. La Repubblica ci aveva galvanizzato - dice la contessa -, senza trovare su ciò il complice consenso di monsignore.

Così, saputosi padre, don Colombo, in procinto di dimettersi da giudice, si reca dagli inquirenti e, corrompendo uno di loro, a cui promette che si sarebbe interessato presso il Papa in persona per fargli avere la promozione a vescovo, riesce a portare con sé il giovane Cesarino, maturando però il dubbio morale del manifestato egoismo, che lo aveva indotto a lasciare i suoi due amici al loro destino.

La tempesta emotiva che sta vivendo lo induce a spendersi in una non richiesta arringa a loro favore durante il processo, senza sortire effetto alcuno se non quello di rinfocolare i sospetti nei suoi confronti dei già allarmati Gesuiti, cani da guardia del Papato, detentori d’un tentacolare 65 |

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servizio informativo, che lo ha da qualche tempo messo sotto attenzione. Il “papa nero” lo convocherà, lo minaccerà e infine arriverà a farlo arrestare, dopo che, per provocarlo, andrà a trovarlo in chiesa mentre don Colombo sta celebrando una messa in suffragio dei defunti Monti e Tognetti, accingendosi alla Comunione. Monsignor Colombo, per spregio, gli negherà l’accesso al sacramento, trattandolo alla stregua di un miscredente: un’autentica dichiarazione di guerra. È piuttosto interessante questo episodio della Comunione. Esso fa il paio con un altro, simmetrico, in cui la moglie di Monti e la madre di Tognetti, recatesi in chiesa, rifiutano di ricevere la Comunione dalle mani di don Colombo, rimproverandogli, fra i denti, di essersi preso premura di salvare “il figlio dell’oca bianca” e abbandonare a se stessi gli altri due compagni di sventura.

4. Da quando monsignor Colombo ha cominciato a chiedersi se non si possa accettare di fare semplicemente il prete, rinunciando ai mille compromessi col potere a cui la gestione dello Stato costringe, i dubbi gli si sono moltiplicati, le antiche certezze hanno cominciato a vacillare.

Il fatto è che dal 1849 in avanti Pio IX ha impresso una svolta autoritaria e dogmatica alla Chiesa di Roma, imponendo un’impostazione teocratica al governo dello stato pontificio, causando con ciò malumore anche presso parte di alcuni componenti del clero, poco propensi ad accettare la radicalizzazione dello scontro con il Regno d’Italia, imposta dal papa.

Dopo la missione dei Mille e la conseguente dichiarazione dell’Unità d’Italia, Pio IX aveva scomunicato tutti coloro i quali avevano a vario titolo concorso a questo risultato, Cavour in primis, il quale pure si era premurato di scrivere, trovando dall’altra parte un ostile silenzio, una lettera al papa chiedendogli ragionevolezza, affinché, con spirito collaborativo, concorresse a trovare una soluzione capace di soddisfare le pretese dell’Italia di compiere il pro| 66

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cesso unitario e quelle del Papato d’essere riconosciuto nella sua funzione spirituale e morale.

L’ostilità di Pio IX verso gli italiani fu tale che arrivò a sospendere a divinis il parroco che aveva osato confessare sul letto di morte Cavour, che voleva morire da cristiano senza dover per questo ritrattare la sua posizione di “libera Chiesa in libero Stato”6. Don Colombo non fa forse un gesto simile a quello del confessare di Cavour quando dispensa l’estrema unzione al moribondo Cesarino, a cui lascia credere, nell’allucinazione della febbre, di stare parlando con Garibaldi?

Monsignor Colombo arriva a chiedersi sul senso della battaglia che Pio IX e i suoi accoliti stanno combattendo.

Perché dovrebbe essere più giusta e ragionevole di quella dei patrioti, visto che non esita neanche di fronte al dover infliggere la morte, visto che si fa, con la sua ottusa ostinazione, alimentatrice di violenza, di dolore e di sofferenza?

Arriva ad aver dubbi sulla sua stessa vocazione: si domanda quanto sia autentica e quanto invece costituisca un ripiegamento successivo ad un amore non corrisposto e sublimato nella venerazione per la Madonna, venerazione che nel film viene espressa mediante la scena in cui don Colombo e Serafino, il perpetuo, cantano le preghiere alla Vergine, prima d’andare a letto.

L’amore duraturo per la Madonna, che attraversa l’intera esistenza di prete di don Colombo, probabilmente allude alla sua intima aspirazione ad un cristianesimo accogliente, materno, dal “volto umano”, differente da quello arcigno, autoritario, fideistico, crudele, a tratti, di papa Pio IX e dei suoi consiglieri.

Sa bene, monsignor Colombo, che la Chiesa è potere ne ha fatto parte, ne ha beneficiato e ha contribuito a consolidarlo con la sua attività di giudice -, ma di fronte alla domanda di Cesarino da dove tragga la fonte della sua legittimità questo potere, egli non avrà alcuna risposta credibile da dare. Sa che il processo contro Monti e Tognetti, che sarà officiato in nome del Papa Re, non potrà essere ce67 |

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lebrato in nome del popolo, unica autentica, legittima fonte di giustificazione di qualsivoglia forma di potere.

Quando un regime giunge al capolinea sa essere particolarmente crudele e non risparmia al suo popolo alcuna sofferenza: la Libia, la Siria, lo Yemen di questi ultimi mesi ce lo stanno a ricordare.

Monti e Tognetti moriranno poiché in quel momento storico la Chiesa doveva marcare autoreferenzialmente la propria identità. Molti furono gli appelli volti a chiedere la grazia per i due, vi fu sinanco quello di Vittorio Emanuele II, ma Pio IX fu irremovibile. La morte di Monti e Tognetti doveva attestare la certezza delle convinzioni della Chiesa, capaci di fugare ogni dubbio, nelle intenzioni di chi la decretava. Risponde probabilmente alla stessa grammatica profonda il fatto che Pio IX volle enunciare due dogmi, quello dell’infallibilità del papa e quello dell’Immacolata Concezione, che all’interno della stessa gerarchia suscitarono perplessità (vedi i dubbi manifestati in merito al dogma dell’infallibilità del papa dai sessanta membri del Concilio Vaticano I chiamato a sancirlo, che si astennero lasciando Roma il giorno prima del voto), in ragione della esplicita opzione anti-moderna della Chiesa di Pio IX. 5. Nel moltiplicarsi dei dubbi nell’animo di don Colombo, vi è pure la riflessione che fa sui metodi educativi più idonei da offrire alle nuove generazioni. Rimane muto di fronte all’obiezione della contessa Flaminia, a cui aveva rimproverato la scelta di aver fatto crescere il figlio in una casa di rivoluzionari, invece di tenerlo con sé: meglio farlo stare in contatto con gente onesta e generosa, aveva detto la contessa, piuttosto che vederlo diventare ogni giorno più simile a suo marito e a quelli della sua classe, che si dividevano fra giochi, divertimenti, speculazioni e ricatti.

Sperava forse, la contessa Flaminia, che Cesarino avrebbe saputo riscattare la pochezza delle esistenze sua e del padre biologico, che se solo fosse stato meno opportunista avrebbe saputo impedirle di sposare il conte Ottavio, | 68

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sarebbe stato coerente con quell’atto d’amore, che nel moratorium della rivoluzione mazziniana, lo avevo reso uomo riscattandolo dalla sua appartenenza ad una soffocante istituzione.

Tace e comprende la lezione, don Colombo. E la restituisce.

Quando la madre vuol portare con sé Cesarino per farlo fuggire dai pericoli del momento, monsignor Colombo le fa notare quanto si stia comportando da egoista contraddicendo se stessa, quando non aveva avuto dubbi a farlo crescere da Maria Tognetti. Cesarino vuol fare la rivoluzione, morire sul patibolo, se necessario, condividere la sorte dei suoi compagni; non aspira ad andare a Parigi e vivere un’altra vita. Deve avere il coraggio, la madre, di lasciargli compiere il suo destino. Deve poter disporre della sua vita, Cesarino: nessuna autorità può essere fatta valere di fronte alle scelte di fondo dell’esistenza.

Ecco la certezza nuova che don Colombo, partendo dai suoi molti dubbi, ha conquistato. Che gli importa ora se i Gesuiti vorranno fargli pagare a caro prezzo l’indipendenza del suo pensiero? L’ha ormai conquistata e non vorrà disfarsene.

Ammira la generosità, l’entusiasmo di Cesarino, che gli fanno amare pienamente la vita tanto da indurlo ad accettare l’idea di poter morire, mentre noi - riflette amaramente don Colombo -, senza amarla veramente, siamo attaccati alla vita come cozze allo scoglio.

Allora noi, a questi giovani - soggiunge - non abbiamo nulla da insegnare. Sono così diversi da noi e dobbiamo essere contenti che lo siano: “perché li vogliamo far diventare come noi, che poi manco ci piacciamo?” Lasciamoli camminare con le loro gambe, potrebbero indicarci la via per essere migliori.

Perché non accettare che la loro morale possa essere diversa dalla nostra? Noi predichiamo e pratichiamo l’obbedienza, essi la libera determinazione delle loro azioni. Forse hanno torto, ma il fatto che possano aver torto significa 69 |

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forse che noi abbiamo ragione?

Invita insomma a praticare il sano esercizio del dubbio che aiuta a mettersi in discussione, a comprendere il contesto in cui si vive e a compenetrarsi nel punto di vista dell’altro. Ormai un’epoca nuova si annuncia. Può uno scoglio arginare il mare? Bisognerebbe ripensare ogni cosa. Bisognerebbe avere il coraggio di mandare il boia in pensione, congedare il potere temporale e chiudere in bellezza, riscoprendo i valori evangelici.

Ma certe volte si è incapaci di vedere ciò che si ha dinnanzi agli occhi. Come il conte Ottavio, che, ossessionato dalla gelosia, uccide Cesarino credendolo l’amante di Flaminia. Ottavio, con la sua incapacità di vedere, emblematicamente rappresenta la cecità di una Chiesa che non riesce a liberarsi dello schema del Papa Re, annienta due giovani vite allungando di soli tre anni un’agonia politica frutto dell’incapacità di leggere i segni, pur evidenti, della storia.

Un’occasione perduta, che molte perplessità ha fatto aleggiare sulla figura di un Papa che mancò di lungimiranza e si rivelò forse pure privo di carità.

Il 3 settembre 2000 Pio IX è stato nominato Beato, dopo un lungo e tribolato percorso. Non pochi, anche nello stesso ambito della Chiesa, hanno manifestato dubbi sull’opportunità di questa scelta. Monsignor Colombo non avrebbe di certo apprezzato, e avrebbe trovato le parole per dire il suo dissenso verso l’esaltazione di chi, ossessionato dalle ragioni della politica, non aveva saputo esprimere un atto di cristiana clemenza, mandando a Monti e Tognetti, poco prima dell’esecuzione, non già la concessione della grazia, come pure essi avevano sperato, ma – rischiando di suonare beffarda – la sua apostolica benedizione, quale viatico per la morte imminente.

Note

Non a caso la sceneggiatura di Magni fu premiata col David di Donatello. D’altro canto, Luigi Magni aveva iniziato la sua carriera nel cinema da sceneggiatore, accanto ad Age & Scarpelli. Il 1

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carattere teatrale del film è indirettamente testimoniata dal recente adattamento teatrale ad opera dell’attore Antonio Avallone, esemplato con devota fedeltà sulla sceneggiatura del film di Magni. Accanto ad Avallone che recita la parte che fu di Manfredi nel film, troviamo un otttimo Sergio Fiorentini, il perpetuo.

Aldo De Martino veste la parte del “papa nero”, il gesuita che ha in cima ai suoi interessi la salvaguardia dell’Ordine.

2 Gli studiosi considerano il cardinale Antonelli l’ultima espressione di un politico alla maniera di Richelieu e Mazzarino.

Divenuto cardinale senza mai essere stato ordinato sacerdote, si distinse sin dalla più giovane età per le sue grandi doti di amministratore e di politico. Badò alle finanze dello stato quanto alle proprie, anzi impinguò le seconde manovrando le prime. Accumulò a Terracina, subito dopo la Restaurazione seguita alla rivoluzione del 1849, una grandissima fortuna commerciando grano e grazie a mirati acquisti immobiliari, che gli valsero l’avversione dei suoi compaesani: giudicavano assai negativamente la spregiudicatezza che dimostrava negli affari, poiché spesso si avvaleva della capacità di prevaricazione che gli proveniva dal suo ruolo politico. Cfr. C. Falconi, Il cardinale Antonelli. Vita e carriera di un Richelieu italiano nella Chiesa di Pio IX, Arnoldo Mondadori, Milano 1983.

3 Alla ricostruzione della biografia della Tavani Arquati ha dedicato un ottimo testo il giornalista e storico Claudio Fracassi. Cfr. C. Fracassi, La ribelle e il Papa Re, Mursia, Milano 2009.

4 A memoria di quell’evento, nei pressi dell’edificio testimone della strage, c’è una targa marmorea che venne coperta da uno strato di calce dopo il Concordato del 1929 e che successivamente alla Liberazione fu ripristinata, con una dedica a Giuditta Tavani Arquati, a cui venne intitolata, già all’indomani dei tragici fatti del 1867, un’associazione che sarà attiva fino alla chiusura che venne imposta dal Fascismo, e poi riaperta nel dopoguerra; essa si incarica ogni anno di organizzare il 25 ottobre una giornata commemorativa della sfortunata rivoluzionaria.

5 Cfr. G. Sanvittore, I misteri del processo Monti e Tognetti, Cioffi, Milano 1869. Il testo, digitalizzato, è stato reso disponibile dalla Biblioteca Braidense di Milano ed è disponibile all’indirizzo <http://www.braidense.it/dire/monti/monti.html>. Il processo Monti e Tognetti, con la determinazione del papa di non concedere la grazia, nonostante la mobilitazione di autorevoli personaggi a livello europeo, fece grande scalpore e Giosué Carducci ne scrisse già nel 1868, dedicando una poesia dei suoi Giambi ed

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Epodi proprio all’esecuzione della condanna a morte dei due, avvenuta il 23 novembre 1868. Cfr. G. Carducci, Per Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti martiri del diritto italiano, in G. Carducci, Giambi e Epodi e Rime Nuove, “Edizione Nazionale delle Opere”, Zanichelli, Bologna 1942, reperibile in internet all’indirizzo: <http://www.scribd.com/doc/5042647/Giosue-CarducciGiambi-ed-Epodi>.

6 Di recente è stata ritrovata la lettera del parroco che ricostruendo quell’episodio, dopo anni di tensione con la Santa Sede, chiese, al successore di Pio IX, di poter essere reintegrato nelle sue funzioni, ritenendo in coscienza d’aver fatto pienamente il proprio dovere ministeriale. Cfr. l’articolo de “La Stampa” del 20.04.2011 di A.Tornelli, Gli ultimi istanti di vita del Conte Camillo Benso di Cavour. Al seguente indirizzo internet <http://www.gliscritti.it/ blog/entry/616> è disponibile la lettera scritta nel 1882 da fra Giacomo da Poirino a Papa Leone XIII in cui chiede di essere reintegrato a pieno titolo nella Chiesa, e quella di molti anni prima di Pio IX al superiore del francescano, in cui spiegava le ragioni di sospendere fra’ Giacomo dall’amministrare i sacramenti: “E prendemmo una decisione di questo tipo, che lo stesso Religioso ponesse rimedio allo scandalo dichiarando per iscritto di aver agito contro le norme della Chiesa, quando concesse i sacramenti senza richiedere in alcun modo e ottenere dal malato la necessaria ritrattazione per i gravissimi danni arrecati alla Chiesa e quindi per i pubblici scandali derivati. In verità, poiché il summenzionato religioso si rifiutò di eseguire ciò, per tale ragione ritenemmo che egli dovesse essere assolutamente interdetto dall’amministrazione dei Sacramenti”. Cfr. anche L. Greco, Il confessore di Cavour, Manni, San Cesario di Lecce 2010; romanzo con documentazione d’archivio.

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