5 minute read

Intervista a Giangiacomo Schiavi

Giornalista, scrittore, editorialista

Un suo ultimo libro di successo titola “Meno male”. Perché? Di cosa si tratta?

Advertisement

Il titolo è un doppio senso. Meno male, per dire che bisogna riequilibrare l’informazione dei giornali e della tv con le storie del bene, valorizzando le positività e indicando esempi imitabili. E meno male, inteso come esclamazione: per fortuna esistono anche persone che escono dal buio della cattiveria e ci avvicinano alla nostra umanità. Se non ci fossero saremmo persi.

È il bene che fa notizia…

Abbiamo bisogno di pensare positivo. Raccontare il bene è un rovesciamento dello stereotipo giornalistico secondo il quale è il male che fa notizia, fa vendere e fa audience. Si tratta di cambiare gli occhiali con cui guardiamo i fatti: non ci sono solo quelli che fanno crollare i ponti, ci sono anche quelli che li ricostruiscono. Noi siamo dalla parte dei ricostruttori.

I protagonisti del bene sono tanti, ma spesso non arrivano ai giornali.

È vero, ma basta cercarli. “Meno male” raccoglie storie pubblicate dal Corriere della Sera di gente fuori dal comune, volontari, imprenditori, preti di strada, insegnanti e cittadini animati da uno spirito generoso e altruista, capaci di offrire aiuto e solidarieta a chi è in stato di bisogno o in difficoltà. Storie che hanno fatto nascere il blog delle Buone Notizie e poi sono state da apripista per l’inserto del Corriere.

Oggi finalmente si è rotto il tabu delle buone notizie

Fino a qualche anno fa le buone notizie stavano nascoste nel sottoscala del giornalismo. Erano l’eccezione. Ma a furia di raccontare il peggio, i lettori hanno cominciato a chiedere un riequilibrio: c’è anche un’Italia al meglio. Ricorderò sempre quel che mi disse Candido Cannavò, mitico direttore della Gazzetta, dopo aver letto la storia di un barbone diventato eroe della solidarietà: “Caro Giangiacomo, non credi che abbiamo un po’ di colpa anche noi giornalisti nel raccontare troppe vite sbagliate?”. Aveva ragione.

Lei tempo fa ha guidato la spedizione organizzata dal Corriere della Sera che mandò il suo camper nelle periferie ad ascoltare la voce dei cittadini. Cosa ne è sortito da questa iniziativa? E lei cosa ha tratto da questa originale esperienza?

Il camper è stata una straordinaria avventura giornalistica, ma soprattutto umana. Abbiamo scandagliato 24 quartieri di Milano raccontando paure e solitudini dei milanesi nelle periferie dove certi casermoni erano luoghi di spaccio e malavita. Abbiamo trovato un orgoglio identitario e una voglia di reagire soprattutto nei giovani: nessuno era rassegnato al peggio, lamentavano però mancanza di ascolto e distrazione della politica. Sono passati quindici anni e la situazione non è cambiata di molto…

Si riferisce all’alto astenzionismo delle ultime elezioni amministrative?

Solo in parte. In certi quartieri il senso di abbandono dura da anni e questo porta ad una sfiducia quasi naturale nei confronti di chi amministra. Ma nei quartieri noi abbiamo trovato un’energia e una vivacità che non esiste in centro, grazie alle tante reti di volontariato e di cittadinanza attiva, alle scuole, ai parroci di frontiera, alle piccole biblioteche. Questa rete è stata fondamentale durante la pandemia…

Lo rifarebbe oggi un viaggio in camper?

Subito. Ma non basterebbero più le due pagine del Corriere. L’informazione oggi ha una responsabilità in più: deve essere utile. Nelle periferie bisogna andare per risolvere un problema, per portare qualcosa di necessario e non il bla bla dei talk show. La gente è stanca di false illusioni e l’Italia è malata: il camper oggi sarebbe una sfida alla politica che si nutre di slogan e di social, nonché un risolutore di emergenze. Dovremmo però rifare la squadra, essere più operativi, multitasking, innovatori, non solo giornalisti…

Lei è da tempo impegnato in campagne civiche. Quale è stata la sua scintilla?

Ognuno di noi si porta dietro il suo vissuto. Io ho fatto il giornalista anche per dare voce a chi non ne ha, difendere gli onesti dai disonesti, denunciare soprusi e ruberie. Un giorno sul Corriere ho scritto un editoriale indignato per come Milano si stava logorando con la bassa politica e per un certo menefreghismo dei suoi abitanti. Si intitolava “La rivoluzione del buon cittadino” ed era un appello al civismo, al rispetto delle regole a non dare sempre la colpa a chi ci governa: tocca anche a noi. È diventato un manifesto del senso civico al quale sono seguite alcune campagne gornalistiche.

Quali per esempio?

“Adotta una strada”, è stata la prima. Una vigilanza civica per tenere pulita una via e spingere il Comune ad occuparsene. In precedenza avevo sostenuto l’idea dell’imprenditore Lazzaroni che aveva proposto la cura delle aiuole con lo sponsor. Poi c’è statala campagna “Buon Natale anziani”: Corriere e Comune hanno redatto una mappa dei bisogni nelle case popolari e con una sottoscrizione pubblica hanno risolto un problema agli anziani soli, dal frigorifero agli occhiali, dalla lavatrice alla tv… Poi nel 2006 è arrivato il camper…

Sulla base della sua esperienza professionale ed umana che consigli darebbe ad un giovane deciso ad occuparsi di giornalismo?

Quello di interagire con i suoi lettori, cartacei o digitali, e di sentire il giornale come un cuore che batte, capace di trasmettere sentimenti ed emozioni. Gli direi di non perdere mai la passione civile e di studiare, leggere, fare incontri, non sentirsi mai depositario della verità, ma del dubbio. Noi dobbiamo fare domande, anche scomode. Un giornalista oggi deve essere credibile, prima che si arrivi all’algoritmo della credibilità.

Quando lei pensa al futuro di Milano, cosa vede?

Una città più verde e più blu: più attenta all’ambiente e al rispetto del bene comune, più digitale e libera dalla burocrazia, una nave-scuola capace di seminare nel Paese buoni esempi e pratiche imitabili. Ma temo il conformismo e l’omologazione: le new town, i centri commerciali, la perdita di identità… Milano è sfidata da una transizione dolce, deve salvare il buono del passato ed essere l’avanguardia del futuro sostenibile. Le università saranno le nuove fabbriche, i laboratori dell’innovazione .

Abbiamo preso in prestito il Pianeta dai nostri figli. Cosa lasciamo loro?

È facile rispondere che abbiamo bruciato risorse, distrutto foreste, inquinato cieli e mari, devastato le campagne e abbandonato le montagne. È tutto vero. Ci siamo adagiati su un modello di convenienza che la pandemia ha ridimensionato di colpo, con un altolà. Ma non credo nello sconfittismo. Certi giovani sono straordinari, preparati, entusiasti, migliori di chi li ha preceduti. E certi vecchi sono ansiosi di dare una mano, ricchi di esperienze e di valori. Bisogna mettere insieme energie e pensieri positivi, far prevalere la competenza e non la convenienza, come fa il presidente Draghi. Meno male che abbiamo uno come lui…

A cura di Fabrizio Favini

This article is from: