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Intervista a Roger Abravanel
Consulente, saggista, opinion leader
Abravanel, perché ha scritto questo saggio dal titolo Aristocrazia 2.0 ?
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Intanto per mettere in guardia sui veri rischi dell’economia post Covid. Oggi tutti sono molto preoccupati per l’impatto economico della pandemia e sulla velocità della ripresa. Ma per l’economia italiana la vera preoccupazione è che rischia di non riprendersi affatto, come è avvenuto dopo l’ultima crisi del 2008. All’inizio in termini di PIL abbiamo perso poco più della Germania, ma nei 10 anni successivi la Germania è ripartita mentre noi siamo rimasti fermi. Questo perché da quasi mezzo secolo siamo incapaci di sfruttare le grandi trasformazioni economiche, prima da industriale a post industriale, e poi della cosiddetta economia della conoscenza, che è fatta di innovazione, tecnologia digitale, scienze della vita, finanza avanzata. In 30 anni il nostro Paese ha perso l’equivalente del reddito di Portogallo e Grecia messi assieme.
L’economia della conoscenza verrà accelerata dalla pandemia (pensiamo all’e-commerce), e questa accelerazione può essere fatale per il nostro Paese. Corriamo seriamente quello che io chiamo il rischio Argentina; le storie di declino dei due Paesi si assomigliano in modo preoccupante.
Cosa c’entra con Aristocrazia 2.0 ?
Nel secolo scorso si è sviluppata la meritocrazia e milioni di giovani si sono impegnati nell’educazione superiore per migliorare il loro status economico e sociale. Nel 1933 il rettore dell’Università di Harvard ha rivoluzionato l’accesso agli studi rendendolo possibile ai migliori - misurati secondo il test standard SAT - anche se provvisti di pochi mezzi ( con l’aiuto di borse di studio) e nell’arco di 40 anni l’acceso alla IVY League - le 8 più prestigiose università d’America - è stato anch’esso rivoluzionato: prima solo rampolli - maschi – molto bravi a giocare a polo e dopo i migliori giovani della borghesia.
Alla fine del secolo è arrivata l’economia della conoscenza che ha fatto esplodere il premio per questa nuova elite: gli uomini più ricchi degli USA di oggi hanno studiato nelle università della IVY League.
E’ così che sono nate le critiche nel mondo anglosassone a una nuova aristocrazia dell’istruzione e del talento che, oltre ad essere super ricca favorisce in mille modi i figli nell’accedere alle migliori università. Nel mio saggio racconto di queste critiche che sono perfino arrivate ad accusare la meritocrazia di essere stata la levatrice del populismo: Trump è stato votato dai non laureati di piccole città che si sentivano disprezzati dalle elite superlaureate di New York.
Eppure, se la meritocrazia ha fallito nelle pari opportunità, ha però creato milioni di buone opportunità per i giovani che, emulando le elite, hanno investito nella migliore istruzione facendo carriera nelle grandi imprese. La meritocrazia dell’istruzione è coincisa con il passaggio all’economia da industriale a post industriale e poi all’economia della conoscenza che ha creato enormi opportunità per un capitale umano selezionato e laureato.
Ciò è avvenuto in occidente e avviene sempre più in Asia, dove la selezione sulla base della migliore istruzione sta diventando il motore dello sviluppo. In Sud Corea il 70% dei giovani sono laureati e hanno un reddito due/tre volte superiore a quello dei loro genitori.
E da noi ? Da 10 anni anche grazie a lei la meritocrazia non è più una brutta parola.
Da noi la meritocrazia non è mai decollata. In ambito UE siamo il fanalino di coda nel numero dei laureati. Siamo tra i Paesi con più donne nei CdA, ma con pochissime donne nel top management.
Sono mancati i valori della vera meritocrazia, l’eccellenza, la competizione, l’ambizione. Ma soprattutto sono mancati gli incentivi per il talento e l’istruzione perché l’economia è rimasta nelle mani della vecchia aristocrazia, un ecosistema capitalista - imprenditori, banche, salotti/associazioni, media - responsabile dell’ecatombe delle grandi imprese industriali, della vendita di quelle del Made in Italy e di un crescente digital gap in quelle che rimangono.
Le nostre università si sono chiamate fuori dalla competizione globale del sapere e le vediamo languire nelle classifiche globali. La migliore, il Politecnico di Milano, veleggia al 149mo posto della classifica QS World University Ranking. E, mentre nel mondo gli atenei sono i templi della meritocrazia, da noi sono spesso i bastioni del nepotismo.
Infine, soffriamo di una burocrazia che strangola lo sviluppo non per colpa dei troppi fannulloni ma della paralisi decisionale provocata da una sfiducia nello Stato, oltre ad un livello di corruzione che non ha eguali in occidente e che ha portato a un potere giudiziario totalmente autoreferenziale.
Come si salta sulla economia della conoscenza ?
Abbiamo bisogno proprio della Aristocrazia 2.0. Nel saggio spiego che da noi ciò è possibile, raccontando storie di aristocratici 2.0 italiani che stanno già cambiando l’economia del Paese. Dobbiamo fare nascere un nuovo capitalismo, rifiutando lo statalismo di ritorno post pandemia e portando i migliori capitali privati della Borsa e del private equity nelle aziende migliori; far nascere un sistema universitario meritocratico che ricerchi l’eccellenza globale; maggiori pesi e contrappesi alla magistratura che la rendano più responsabile nei confronti del Paese rendendo così efficace ed efficiente la burocrazia.
La nuova elite di cui lei parla ha studiato nelle migliori università del mondo, lavora nella finanza e nell’high tech, nelle multinazionali e a volte anche nei centri di potere delle istituzioni pubbliche. Proprio quando esce il suo libro, in Italia sembra finire la stagione dei populismi e arriva Mario Draghi che somiglia molto a un aristocratico 2.0. Preveggenza o fortuna?
Fortuna. Dopo la stagione dei populismi il Paese sembra appoggiare entusiasticamente il governo di un vero aristocratico prima maniera: dottorato al MIT, una carriera al vertice dell’amministrazione della finanza (Goldman Sachs) e delle istituzioni finanziarie internazionali (BCE). Ma non sarà il passaggio dall’uno vale uno al Draghi salva tutti a costituire quella svolta che ci manca da 50 anni.
Io non penso che il nostro Paese sia bloccato perché abbiamo avuto cattivi governi, ma perché la società nel suo complesso ha rifiutato i valori della competizione aperta che sono il fondamento della meritocrazia, rifugiandosi nel familismo, nella protezione dello Stato (meritocrazia delle carte bollate) , nella tolleranza della piccola corruzione che a sua volta ha prodotto un circolo vizioso delle regole e uno strapotere dell’apparato giudiziario rispetto a quello amministrativo.
La soluzione quindi non può essere solo Draghi l’aristocratico 2.0.
Perche ?
Più che dare potere ai pochi aristocratici 2.0 che abbiamo, il Paese ha bisogno di farne nascere altri, con le iniziative di cui abbiamo parlato prima, aprendo le sue aziende migliori al migliore capitale privato (non quello familista) e non a quello pubblico dello statalismo di ritorno che si intravede di questi tempi; proseguendo poi con una vera riforma dell’università che selezioni e formi gli aristocratici 2.0 del futuro e permetta alla pubblica amministrazione di confrontarsi con le vere cause della burocrazia.
Per questo ciò che si chiede a Mario Draghi aristocratico 2.0 non è (solo) la sua competenza - in contrapposizione alla incompetenza di chi lo ha preceduto - ma le sue doti di leadership e i suoi valori.
I valori della competizione sono determinanti per convincere i capitali internazionali a investire in una Italia dove il mercato può finalmente esistere e prosperare e dove non prevalgano i salotti; è fondamentale il coraggio - whatever it takes - per piegare le resistenze dei privilegiati che si oppongono da sempre alle riforme (professori universitari, magistrati); è importante l’onestà, per far nascere quel trust che da noi manca e che, se manca, la vera competizione non può nascere perché prevalgono i furbi e il profitto è frutto di illecito per definizione; infine, ma non ultimo, un governo e una politica più corrotti di quelli della Nigeria e quindi un potere giuridico ultra autoreferenziale.
Ma allora gli obiettivi di Mario Draghi non sono la vaccinazione di milioni di italiani e spendere bene i 200 miliardi del recovery fund ?
Non solo. Sulla sanità l’Italia non stava facendo male e non aveva bisogno di Mario Draghi. Il recovery fund risponde a una diagnosi sbagliata dei problemi della nostra economia, ossia l’idea che dipendano dall’austerity, dai pochi investimenti in infrastrutture e dalla mancata crescita del Sud.
Sono viceversa necessarie riforme senza delle quali non si spenderanno proficuamente i soldi del recovery; ne sono un esempio le infrastrutture con centinaia di commissari, la riforma della Pubblica Amministrazione e dell’università: i soldi a pioggia non fanno migliori le nostre università perché sono tutte eguali.
In alcuni casi, poi, lo Stato deve prendere iniziative intelligenti attivando il denaro pubblico per stimolare il capitale privato, iniziative non previste dal recovery fund.
Tutto questo richiede ben più di un anno e mezzo. La nostra speranza è che Draghi scateni un nuovo sentiment nella società italiana sull’esigenza del cambiamento e sulla visione per realizzarlo molto specifica per il nostro Paese e non inquadrabile nelle guidelines del Next Generation Fund dell’Europa.
In definitiva, Draghi potrebbe essere il vero catalizzatore - assieme al Covid - di questo sentimento.
A cura di Fabrizio Favini
