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Intervista a Maurizia Iachino
Nella sua lunga e intensa vita professionale lei si è dedicata a contribuire alla costruzione di una solida classe manageriale al servizio del Paese. Cosa ha imparato, e penso tuttora impara, da questa sua esperienza?
Sono sempre stata incuriosita dalle persone e dalle loro storie. Per questo, ho deciso di intraprendere gli studi universitari in filosofia e psicologia a cui sono seguiti quattro anni di psicoanalisi didattica con Franco Fornari, che per me è stato un importante punto di riferimento. E, per lo stesso motivo, ho dedicato gran parte della mia carriera alla ricerca a alla selezione dei talenti. Sono stata prima di tutto fortunata perché ho avuto la possibilità di scegliere come indirizzare la mia vita, professionale e personale, e di dedicarmi a ciò che mi appassiona. Appunto, aiutare le persone a esprimere il proprio potenziale, individuando il loro talento, creando relazioni e affiancandole nel percorso di crescita. Molto più di una professione: una missione a cui dedicare tempo ed energie, che ho sempre ritenuto ben spese, esperienze che mi hanno insegnato ad ascoltare, a riconoscere le diversità come punti di forza e a rapportarmi con gli altri senza filtri di alcun tipo. Ho imparato che le inclinazioni e le competenze personali sono fondamentali, ma che difficilmente portano lontano se non sono sostenute nel contesto e accompagnate da una consistente dose di coraggio: nell’esprimere il proprio punto di vista, nel raccontare la propria visione del mondo e nel far valere le proprie posizioni.
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Lei è una paladina della Corporate Governance, ovvero del buon governo d’impresa. In che modo riesce a contribuire a questo fondamentale obiettivo?
Mi piace ritenermi una pioniera della Corporate Governance italiana per l’intuizione, sfociata nel 2001 nella startup di Governance Consulting, di equipararci ai Paesi anglosassoni, che erano già molto più avanti dell’Italia nella ricerca dei consiglieri di amministrazione. Pochi anni dopo, nel 2004, ho contribuito a creare la prima associazione italiana di consiglieri indipendenti, Nedcommuntiy, che oggi ha assunto il ruolo di amplificatore dei principi del buon governo di impresa. Inoltre, ho dato forma a una Governance Unit in Key2people, di cui sono tutt’oggi Practice Leader. Anche in questo frangente, il mio ruolo è sempre stato quello di individuare le persone giuste, formarle e sostenere il fit tra Azienda e suoi Consiglieri per rendere

efficaci i sistemi e gli organi di Governance. Occuparsi di Governance vuol dire, ancora una volta, prendersi cura di persone che, in questo caso, ricoprono un ruolo chiave per il successo, la reputazione e la sostenibilità aziendale.
Secondo lei come riusciamo a fertilizzare le nostre imprese con il formidabile lascito umanistico lasciatoci dal Rinascimento italiano?
Il Rinascimento italiano è stata un’epoca particolarmente fertile in tutti i settori tanto da divenire sinonimo di un mutamento sociale positivo che ha riguardato anche le imprese. Ne abbiamo ricavato un nuovo modello organizzativo che si prefigge l’obiettivo di accogliere i bisogni dell’impresa proponendo soluzioni concrete. Il punto di svolta per una società più sostenibile per tutti è nella giusta miscela tra la natura valoriale che caratterizza l’ambito umanistico e la sensibilità all’uso delle risorse economiche che connota l’attività imprenditoriale. Le aziende, in sostanza, devono divenire un ambiente aperto in cui le scelte prese sono il risultato di ascolto, confronto e arricchimento reciproco. E in cui ognuno – nel suo piccolo - può contribuire al benessere del Paese facendosi portatore di valori condivisibili, a favore della collettività.

L’Italia, in particolare, è ricca di imprese familiari che ho sempre ammirato perché caratterizzate da passione per il proprio lavoro, spirito di sacrificio e resilienza. Con e per le imprese familiari collaboro per “educare” la generazione futura e garantire la continuità dell’attività, facendo propri i valori e la cultura distintivi dell’impresa insieme alla genialità e alla lungimiranza dei fondatori, qualità raramente ereditabili, ma che, con un programma di education e di role modelling, possono essere assorbibili.
Nel 2011 lei ha fondato l’associazione Fuori Quota, di cui è presidente. In questi anni che obiettivi avete colto?
Fuori Quota è nata con l’obiettivo di valorizzare la leadership femminile, garantendo un’equa presenza di donne all’interno dei board e delle posizioni apicali di aziende e istituzioni. Ci siamo mossi/e ampiamente in tal senso, soprattutto con la formulazione di proposte e indicazioni che potessero apportare un cambiamento culturale profondo per il raggiungimento della vera parità. Più nello specifico, per esempio, abbiamo contribuito a far rinnovare la Legge 120/2011 Golfo-Mosca per altri 6 mandati, mettendo al sicuro la piena valorizzazione delle diversità e l’inclusione come elementi fondanti della sostenibilità delle imprese nel medio-lungo periodo. Infatti, negli ultimi anni, Consob ha constatato come dall’entrata in vigore della stessa, oltre il 70% delle società interessate dalla legge abbia registrato un aumento della presenza femminile all’interno dei propri organi amministrativi. Tuttavia, la legge non ha sortito l’effetto a cascata sperato e questo ci motiva non solo a non abbassare la guardia, ma anche a insistere per una vera e propria presa di coscienza dell’enorme spreco di risorse e opportunità in atto da parte della società italiana.
In Italia si fa fatica ad avere dei bei modelli di imprenditoria femminile. Perché?
Per rispondere a questa domanda credo sia necessario presentare un quadro più ampio in cui ritengo sia doveroso evidenziare il ruolo dell’ispirazione, dell’educazione e della motivazione. L’avere un modello a cui ispirarsi è molto importante nello sviluppo di ogni persona; auguro a tutti di avere avuto figure fondamentali, in famiglia o nella scuola o nella vita professionale e sociale. Ora, in termini di imprenditoria femminile, in Italia in particolare, mancano modelli a cui fare riferimento. Si fa fatica ad individuarli e a farli emergere perché, semplicemente, sono numericamente scarsi e nascosti. La situazione è aggravata dalla carenza di donne alla guida di grandi aziende: mancano ancora esempi di pioniere al femminile. Dobbiamo mettere in evidenza gli esempi di leadership, di creatività, di genialità femminile. Dobbiamo metterli lì, in vista, per farci raccontare la loro storia e prenderli a esempio, per farne dei simboli per le ragazze e le giovani donne e le famiglie, perché si ispirino a loro. I media sono molto carenti in questo, avrebbero la possibilità di far crescere un senso positivo di emulazione nelle ragazze, ma non giocano quasi mai questo ruolo. Tuttavia, l’assenza di un modello di riferimento per l’imprenditoria femminile è da imputare anche all’educazione; infatti gli ambienti educativi per eccellenza quali la famiglia e la scuola, dove si cresce, si impara e si rimane affascinati dai primi modelli di riferimento, spesso non predispongono percorsi uguali per maschi e femmine, imprimendo elementi di distinzione pregiudiziali che poi non si riesce a sradicare. Le giovani donne hanno spesso un binario parallelo lungo il quale non si inculca loro la self confidence come motore di coraggio e di successo. Questo crea giustificazioni per non credere con forza nelle proprie idee e nella propria forza creativa e costruttrice, e infatti le costruzioni sono ancora un gioco da maschi!
La sostenibilità sociale dell’impresa italiana è ancora una prospettiva a lunga scadenza: perché incontra ancora tanta resistenza da parte di manager e imprenditori? Perché i giovani imprenditori sono più responsabili e sensibili verso questa fondamentale esigenza?
Il fatto che il tessuto italiano sia prevalentemente caratterizzato da PMI a gestione familiare sicuramente non agevola questo processo, in quanto sono aziende meno visibili per gli investimenti in sostenibilità sociale, diversamente dalle grandi aziende che dalla sostenibilità ottengono benefici indiretti in termini di comunicazione e di brand reputation. I giovani manager con naturale propensione all’innovazione vedono invece questi temi anche come fattore di differenziazione rispetto alla concorrenza. L’intero processo nelle imprese a dimensioni più piccole è in ritardo a causa della lentezza di cambio generazionale e di delega.
Un vivo apprezzamento per le sue iniziative benefiche come Save the Children e Oxfam Italia. Di cosa ha urgente bisogno il Terzo Settore in Italia?
Quello delle organizzazioni no-profit internazionali è stato per me un capitolo importante della mia vita. Nel 1999 sono stata contattata da Save the Children per aiutarli a trovare le persone giuste a formare la governance della branch italiana e subito dopo, quasi naturalmente, mi hanno invitato ad entrare a far parte del team: dal 2001 al 2008 ho ricoperto il ruolo di Presidente per Save the Children Italia, esperienza davvero importante anche come esempio di buona Governance. È iniziata nel 2012, invece con Oxfam, dove ho collaborato anche a livello internazionale con persone di grande esperienza e spessore umano totalmente dedicate a combattere per i diritti dei più fragili. Il Terzo Settore, oggi, ha bisogno di essere sostenuto e riconosciuto come un settore pilastro del nostro Paese, che in un momento così delicato è colpito dall’ inevitabile calo delle donazioni private. Bisogna incanalare energie e generosità possibilmente aggregandosi per obiettivi comuni e superando la voglia di “far da soli” di tante iniziative benefiche che non hanno la dimensione per sostenersi da sole.
Abbiamo preso in prestito il Pianeta dai nostri figli. Cosa lasciamo loro?
Noi abbiamo ereditato il mondo in cui viviamo dai nostri genitori, e lo stiamo occupando e ce ne dobbiamo occupare perché lo abbiamo in prestito per i nostri figli. Negli ultimi tempi, sembra che la natura si stia ribellando all’uomo che, con una quotidianità sempre più frenetica e orientata alla produttività, si è rivelato drammaticamente distruttivo. Siamo a una delle ultime stazioni per interrogarci su come proteggere il nostro tanto ricco quanto fragile Pianeta, e lasciarlo meno malato alle nuove generazioni. Con il passare del tempo, infatti, la nostra società sempre più grande e complessa, ha indebolito la rete vitale di uomini e donne che è il risultato di un’evoluzione biologica in cui si sono fatti molti errori - purtroppo numerosi - e raggiunto qualche successo. Ai ragazzi dobbiamo raccontare anche i nostri fallimenti e spronarli a valorizzare meglio di noi l’ambiente e le sue risorse. Nel mio piccolo, ho sempre cercato di aprire più porte possibili ai giovani che dimostravano curiosità, energia e talento, mettendoli in contatto con persone della loro età o senior con cui vedevo la possibilità di una scossa positiva, di una moltiplicazione di energie, nella convinzione che il talento non vada mai sprecato bensì sostenuto e premiato.
A cura di Fabrizio Favini
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