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MICHELE VESCHI –“Vicini alla Creazionedi Enzo Braschi”

immancabilmente, del senso dell’esistenza e dello scorrere inarrestabile del tempo che, in un inestricabile intreccio, si snodano lungo i sentieri meditabondi della fragilità umana.

«Capita a tutti / di passar di mano. Finire smarriti. Sprecati»: la palla da basket, che dà il titolo a una lirica molto significativa, diventa una metafora originale e ben riuscita che sembra trasmettere alla perfezione la precarietà dell’umano vivere («Non ho scopo / fuori dal campo, / eppure esisto / e a volte sono felice»), eternamente in balia di regole del gioco subite e mai decise. Semplicemente «Un disegno ancora in corso» da cui non esiste possibilità di fuga.

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E mentre si sta «stesi a guardare / il cielo passare / e le stagioni fluire», si cade in silenzio «pur di non intaccare / la precaria stasi del mondo». Affiora spesso tra i versi una sorta di rassegnata e amara disillusione, dalla quale prendono voce un senso profondo di solitudine e un’assenza che, in un certo qual modo, diviene presenza; l’immagine della casa che si svuota di colpo degli affetti, nella poesia dal titolo “Dopo la fine”, restando «spoglia e incolore», si rivela di notevole incisività e si mostra in tutto il suo afono vuoto ineluttabile, allorché le parole sbiadiscono e si ritrovano anch’esse sole, come accade al mare al cospetto della stagione invernale. La morte sfuma nella vita del ricordo che evade dalle cornici delle stanze ormai svuotate di mobili e invade così gli spazi sconfinati della solitudine. Intanto, l’amore si scopre fatto di tenebra e pronto a mordere «più dei cani».

Leggiamo ancora: «quanto vorrei stringerti / e farti sentire il sangue / di queste lacrime, / quanto vorrei saperti mia / come la disperazione»(“Mia”).

Una scrittura in versi particolarmente affascinante, impreziosita da ritmo e musicalità, che suscita, come del resto deve essere quando si legge un’opera letteraria, emozioni e riflessioni. Una pubblicazione di gran pregio, Poesie dell’indaco, che testimonia come la Poesia, anche grazie a voci fresche e di talento come quella di Andrea Sponticcia, continui a mantenersi ben viva e, per fortuna, a regalarci profonda bellezza a dispetto della superficialità e delle brutture del nostro tempo.

Vicini alla Creazionedi Enzo Braschi Recensione di MICHELE VESCHI

Sì, Enzo Braschi, proprio lui. Il “paninaro” di Drive Inprogramma cultdegli anni’80, nonché fucina di comici. Solo che Enzo Braschi, come il compianto Giorgio Faletti, è anche scrittore. Nella fattispecie del paninaro uno dei maggiori esperti a livello italiano (almeno) dei Nativi Americani e della loro filosofia.

L’autore è stato accettato nella cultura dei Nativi, avendo partecipato (assistito, perché la partecipazione, per così dire attiva, è possibile solo per i facenti parte della tribù) e in via di questo riconoscimento ha visto il suo nome mutato in “Iniumahkà”, ossia Bisonte che corre.

Il volume Vicini alla Creazione (Idea Libri, 2020), quinta opera dell’autore sui Nativi Americani, parte da parecchio indietro, ossia dagli Egizi, in quello che le terre dei Faraoni consideravano Sep Tepi, il Primo Tempo, l’età d’oro in cui la stirpe degli dei (netjeru) posavano i loro divini piedi sull’antica terra di Kem. Ma sembra non sia andata proprio così.

Il volume, sempre con agile scrittura, si propone con interrogazioni pertinenti quanto approfondite attraverso studiosi di fama mondiale e popolazioni arcaiche, di esprimere dubbi, ad esempio, sulle fattezze della Grande Sfinge, passando per la dislocazione delle tre piramidi, indicando quella di Micerino come leggermente fuori asse rispetto alle altre due, andrebbe a ricondurci alle tre stelle della cintura di Orione, ma anche al sistema siriano. Dunque apparentemente lontane, ma così vicine, a significare (e insegnare) che anche il rapporto che non vediamo, può essere simbiotico più di quanto pensiamo. L’autore s’interroga nientemeno che su Atlantide, il mitico continente perduto. Come continente, non era una città?

Anche qui, minuziosa ricostruzione con tanto di simboli, in cui sarebbe Mu, un altro continente scomparso mentre Atlantide cominciava a svilupparsi. Sembra ci sia un manoscritto, il cosiddetto manoscritto di Troano (cui fa riferimento Platone nel Timeo), peraltro conservato al British Museum di Londra in cui si fa risalire l’alluvione di Mu a dodicimila cinquecento anni prima che portarono alla distruzione di tale continente e, considerato che la sommersione di Atlantide sembri risalire a undicimila anni prima, i due continenti non possono essere lo stesso.

Il volume dedica capitoli agli animali, alle piante e alle pietre, ognuno dei quali è strettamente collegato con l’essere umano, anche attraverso molte leggende che evidenziano quanto l’uomo si senta troppo spesso in dovere di trasgredire. Una su tutte parla di quando la Terra era ancora bambina, e il regno animale, quello vegetale e quello umano vivevano in perfetta armonia. Poi, l’uomo, uccidendo più animali di quanto pattuito, minò tale equilibrio, fino a che i rappresentanti del regno animale, riuniti in consiglio, decisero di recare all’uomo le malattie. In un secondo momento, ben capendo che tutti siamo fratelli e possiamo sbagliare, le rappresentanti del regno vegetale aiutarono l’uomo a debellare tali malattie, consegnando loro tutte le cure necessarie attraverso se stesse.

Il volume termina con quanto si più definire un duplice dialogo: quello tra i Nativi Americani e i Popoli delle Stelle, ossia come i Nativi chiamano gli extraterrestri; e quello tra i Nativi e il futuro, cioè l’uomo considerato moderno. A conti fatti poco importa chi sia il vero moderno o il più profondo. Non è affatto una gara, ma una condivisione di ciò che era, un equilibrio armonico, con quello che può, e deve, tornare a essere, ossia un mondo dove non orientare mai il proprio giudizio. Ben avendo in mente, sottolinea più volte l’autore, il principio degli stessi Nativi: Mitakuye Oyasin, tutto è correlato.