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di Luca Meloni
UNA CICATRICE RIFLESSA: IL CINEMA AMERICANO E IL VIETNAM MOVIE di Luca Meloni
Con la dicitura Post-Traumatic Stress Disorder (PTSD) si è soliti indicare in psicologia l’insieme delle sofferenze e delle difficoltà socio-relazionali successive a un evento traumatico o violento. Lo studio del fenomeno, come è noto, iniziò ad articolarsi compiutamente alla fine della Prima guerra mondiale a seguito delle osservazioni clinico-qualitative degli psichiatri militari operanti nelle trincee delle potenze alleate.
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Nonostante sia innegabile che la psicopatologia in questione accomuni i soldati di tutti gli schieramenti e di tutte le nazionalità, è altrettanto chiaro come il suo impatto sia stato acuito o attutito (a seconda del Paese di riferimento) da non pochi elementi di carattere sociologico, storico e strategico. In tale contesto, il caso degli Stati Uniti d’America è particolarmente interessante dal momento che essi entrarono in guerra soltanto il 6 aprile del 1917, tre anni più tardi rispetto all’inizio del conflitto e a distanza di poco più di un anno dal suo termine. Mentre l’Europa faceva i conti con il fantasma del disturbo post traumatico da stress già nei primi anni Venti (si pensi alla notorietà popolare dell’espressione italiana «scemo di guerra»), bisognerà attendere approssimativamente mezzo secolo (la guerra del Vietnam) perché un’intera generazione americana si confronti massicciamente con gli effetti dello stesso.
Portata per la prima volta sul grande schermo dal film francese 317º battaglione d’assalto di Schoendoerffer, la Vietnam War è una ferita che interseca la produzione hollywoodiana a partire dalla fine degli anni Sessanta (Berretti verdi di John Wayne, Hi, mom! di Brian De Palma) e lo accompagna continuativamente almeno sino alla metà dei Novanta (Allucinazione perversa di Lyne, Dollari sporchi dei fratelli Hughes). I due decenni intermedi sono indubbiamente i più rilevanti e, alla fine degli anni Settanta, Taxi Driver di Scorsese e Vittorie perdute di Ted Post anticipano e preparano il terreno alle pellicole sulla follia surrealista della guerra (Il cacciatore di Cimino e Apocalypse Now di Coppola) e sull’ideologia anti-militarista dei giovani anti-combattenti spediti al fronte (Un mercoledì da leoni di Milius e il musical Hair di Miloš Forman). Se nella prima metà degli anni Ottanta il sotto-genere è rivisitato anche alla luce di una prospettiva più commerciale e di largo consumo (i primi due Rambo), il biennio 1986-1987 è di nuovo centrale per la rimessa in discussione dello sterminio etico degli orrori bellici (in chi parte, certamente, ma anche in chi resta e in chi, per fortuna o dannazione, è costretto a rientrare in un mondo a lui del tutto estraneo). Sono gli anni di Platoon di Oliver Stone, Full Metal Jacket di Kubrick e Giardini di pietra di Coppola, anatomie della violenza (collettiva e individuale) che preludono all’accettazione della perdita e alla necessità del compromesso di Nato il quattro luglio, successivo di soli due anni.
Attraverso il Vietnam, il cinema a stelle e strisce sembra scoprire un collegamento tra il topos nazionalista della wilderness e la capacità generatrice (e de-generatrice) dell’elemento satanico su cui poggia empiricamente l’incubo militare. Oltre a incarnare una situazione storica precisa (l’esperienza dei padri pellegrini e la conquista dell’Ovest), difatti, la wilderness riassume il sentimento e le mire espansionistiche di una cultura di frontiera che, proprio a partire dalla fine della Grande Guerra, aveva allargato il proprio imperialismo (in termini di controllo politico indiretto ed esportazione di tecnologie e cultura di massa) ben oltre le coste oceaniche del Nuovo Mondo. Il Vietnam, pertanto, si configura come l’ultima incarnazione delle campagne anti-indiane di fine XIX secolo e ne rilegge la reminiscenza attraverso gli esiti catastrofici della loro rielaborazione mediatica, assimilando il patrimonio genetico di un’intera nazione alle dinamiche comportamentali connesse all’homo homini lupus delle differenti società-mondo di marca statunitense.
Non c’è ritorno dalla barbarie ed è questa consapevolezza ad accomunare il sacrificio dei singoli e le cicatrici generazionali di tutti i conflitti dell’ultimo secolo e di tutti gli sviluppi storici a loro successivi. Nel ’900 d’altronde, secondo un binomio caro a Baudrillard, guerra e audiovisivi
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hanno percorso la medesima progressione auto-esaltante e performativa nella direzione del simulacro “epurato” delle società avanzate.
Bibliografia di riferimento G. ADAIR, Hollywood's Vietnam. From The Green Berets to Apocalypse Now, London, Proteus, 1981. L. DITTMAR e G. MICHAUD, From Hanoi to Hollywood. The Vietnam War in American Film, New JerseyLondon, Rutgers University Press, 1990. P. MCINERNEY, Apocalypse Then: Hollywood Looks Back at Vietnam, «Film Quarterly», XXXIII, Winter 1979-1980, pp. 21-32. L. SUID, Hollywood and Vietnam, «Film Comment», XV, settembre-ottobre 1979, pp. 20-25.
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