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2.4 DONNE E BAMBINI: PRINCIPALI PROTAGONISTI

2.4.1 Le donne profughe

In assenza dei capifamiglia o dei figli maschi – impegnati al fronte o nelle grandi fabbriche del nord Italia che rifornivano l’esercito – le donne, che rappresentavano con regolarità circa un terzo di tutti i profughi60 , nel corso della lunga “profuganza” svolsero un ruolo di primo piano per le decisioni prese al momento della partenza, per la loro funzione di leader durante i viaggi e, soprattutto, perché erano le uniche che potevano sacrificarsi per l’intera famiglia procurandosi con estrema difficoltà i beni alimentari primari fondamentali per la sopravvivenza dei più deboli o degli inabili, visto che il sussidio era insufficiente.

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Le donne profughe, nonostante le forti discriminazioni di genere a cui erano sottoposte, per “arrotondare” si vedevano costrette ad andare a lavorare nei campi e molto più frequentemente nelle fabbriche – dove erano impiegate e duramente sfruttate esclusivamente quelle non sposate di età compresa tra i 15 e i 40 anni, pagate la metà degli uomini nonostante svolgessero lo stesso orario lavorativo, pari a più di 12 ore al giorno –.

Non era raro il caso in cui, in situazioni di disagio estremo, molte donne non avessero altra scelta se non essere costrette ad una profonda umiliazione personale: la prostituzione.61

2.4.2 I bambini profughi

I bambini furono le vittime più deboli della catastrofe del profugato e coloro che più di altri dovettero affrontare sofferenze fisiche, morali ed affettive inaccettabili per la loro giovane età. Insieme agli uomini di età superiore ai 50 anni erano anche i più numerosi: nella sola provincia di Udine i bambini fino ai 15 anni rappresentavano il 36,7% di tutti i profughi – tanto da arrivare ad essere 42.172 –, in quella di Venezia costituivano il 30% del totale della popolazione profuga 62

Questa particolare categoria di profughi dovrebbe però essere distinta in due diverse tipologie. Da una parte, i bambini profughi che vissero questa terribile

60 Pietra, Gli esodi in Italia durante la Guerra Mondiale, p. 52

61 La prostituzione, soprattutto clandestina, fu un fenomeno particolarmente diffuso nelle periferie delle grandi città che avevano dato ospitalità ai profughi veneti e friulani (in modo particolare quelle di Roma e di Napoli). Era una scelta di vita estremamente rischiosa, sia dal punto di vista della legalità che dell’igiene, ma alla quale, in determinati casi, si era costretti pur di avere di che vivere. Cfr. Ceschin, Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra, p. 169

62 Pietra, Gli esodi in Italia durante la Guerra Mondiale, p. 52 esperienza insieme a familiari o conoscenti e le cui condizioni erano davvero drammatiche a causa della pessima ed assai limitata alimentazione, per lo sfruttamento nei lavori campestri o nelle fabbriche – dove erano costretti compiere lavori molto pesanti, al di fuori della loro portata; per fare un solo esempio: il trasporto dello zolfo –, in altri casi erano costretti a rubare legna, frutta, ortaggi e a chiedere l’elemosina. Dall’altra parte, i bambini orfani – rimasti senza genitori perché essi erano morti per inedia, per causa di qualche malattia oppure perché li avevano persi nel corso del viaggio –, i quali molto spesso avevano avuto la fortuna di essere ospitati presso istituti statali o religiosi, dove godevano di buone condizioni di salute, di una dieta nutriente ed equilibrata e della possibilità di proseguire gli studi.

I primi, oltre ai notevoli problemi elencati in precedenza, subivano lo stesso trattamento dei profughi adulti e, molto difficilmente, ebbero o vennero loro concesse possibilità di integrazione sia nei centri rurali che nelle città; sulla base di ciò è ben comprensibile per quale ragione i litigi con i bambini locali fossero all’ordine del giorno – essi non erano altro se non lo specchio del tradizionale rapporto tra il profugo e l’ospitante.

Il ritorno in patria per molti profughi fu ben più difficile e doloroso rispetto al lungo periodo di lontananza, per il semplice fatto che, nonostante la gran parte di essi avesse avuto la possibilità di rimpatriare tra l’estate del 1919 e la fine del 1920, le difficoltà incontrate nei loro paesi di origine furono enormi per due ordini di ragioni: in primo luogo fu estremamente difficile ripartire dal nulla senza il necessario e solido sostegno di autorità pienamente disponibili a offrire soccorso e compassione in un momento così drammatico; in secondo luogo, l’euforia iniziale nell’abbandonare i luoghi della sofferenza svanì immediatamente di fronte alla desolazione con la quale si trovarono a fare i conti la maggior parte dei profughi delle “Terre Invase” e particolarmente quelli delle province di Vicenza e Treviso.

È inoltre necessario sottolineare che il periodo immediatamente a ridosso della conclusione della guerra fu uno dei più terribili perché caratterizzato dall’aumento dell’odio nei confronti del profugo – accusato di essere la causa della sempre più elevata disoccupazione e dell’assenza di prodotti alimentari fondamentali – e della volontà cinica di liberarsene ad ogni costo in tempi brevi.

Oltre a questi problemi se ne aggiungevano altri di natura burocratica: non tutti avevano la possibilità di rimpatriare per ragioni di vario tipo e, inoltre, ciascuna provincia del Veneto appena liberato pose specifiche condizioni per il ritorno dei propri profughi. Innanzitutto venne stabilito che dovessero ritornare le autorità amministrative locali (Prefetti e Sindaci), poi i profughi non invasi delle province di Padova e Venezia, solo più tardi i civili profughi dei territori che erano stati invasi dal nemico e le cui province avevano ciascuna gravi problematiche. Nella provincia di Udine venne stabilito che dovessero fare ritorno esclusivamente le autorità amministrative, i commercianti, gli industriali e gli operai. Per i contadini –che rappresentavano una larga maggioranza – ciò non fu possibile per le gravi difficoltà nel trasporto ferroviario e soprattutto perché, nella maggior parte dei casi, le loro abitazioni erano infatti occupate dai profughi del Piave, a loro volta impossibilitati a ritornare ai loro paesi – il 90% dei quali era distrutto –. Il prefetto di Treviso pose due condizioni per il ritorno: un lavoro sicuro ed un alloggio adeguato; richieste impossibili da realizzare soprattutto per i numerosi profughi della sinistra Piave: la zona maggiormente danneggiata dalla guerra Nella provincia di Venezia a partire dal febbraio 1918 i profughi rientrarono ai loro paesi ad un ritmo medio di circa

1.000 persone al giorno. Il prefetto di Belluno adottò invece un atteggiamento radicalmente differente: concesse ai profughi rimpatriati dei buoni alimentari gratuiti e istituì diverse cucine economiche.63

Il nuovo Ministero delle Terre Liberate – istituito nel gennaio 1919 –, considerò totalmente ingiustificate queste condizioni imposte dai Prefetti e fu autore di due provvedimenti estremamente importanti: a partire dalla metà del dicembre 1918 favorì il rimpatrio dei paesi meno disastrati della Marca Trevigiana in modo tale da consentire ad una parte dei profughi friulani di riappropriarsi delle proprie case occupate fino ad allora dai profughi del Piave –; in secondo luogo, per favorire il rimpatrio e sgomberare al più presto dalle città ospitanti i tanto invisi profughi, venne concesso a tutti coloro che partivano per il viaggio di ritorno un sussidio straordinario, pari a tre mesi di quello ordinario.64 Sta di fatto che per l’ennesima volta a delle buone azioni ne se seguirono, a troppo breve distanza, due estremamente negative: il 15 marzo 1919 venne sospesa l’erogazione dei sussidi straordinari per i profughi che già disponevano del sussidio ordinario e che si erano già stanziati stabilmente – non importava in che modo –nel proprio luogo di residenza; dal 20 agosto 1920 cessò ogni erogazione. Fu così che da allora i profughi vennero completamente lasciati a se stessi e si resero conto più che mai di essere stati trattatati come dei «figliastri» da una Patria nella quale avevano sempre creduto profondamente e che invece li ripagò considerandoli «meno uguali di altri»

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