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I SOMMERGIBILI DELL’IMPERO

NELL'INFUOCATO MAR ROSSO (GIUGNO 1940 - MARZO 1941)

Fin dal 1937 il duca Amedeo d'Aosta, Viceré dell'Impero, aveva previsto che, in caso di conflitto con la Francia e l'Inghilterra, le Forze Armate dell'Africa Orientale Italiana avrebbero potuto dare un forte contributo alle operazioni nel Medio Oriente insidiando le linee di comunicazione nemiche lungo il Mar Rosso. Pertanto richiese i mezzi necessari, soprattutto navi ed aerei, ma il Governo, che aveva manifestato scetticismo sulle possibilità di mantenere gli isolati territori dell'Africa Orientale, non fece molto per venirgli incontro.

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Allora, partendo dal presupposto «... l'Impero deve fronteggiare qualsiasi situazione facendo assegnamento soltanto sulle proprie forze e sui propri mezzi», con la circolare n. 2281 del 15 maggio 1939, il Viceré emanò le proprie direttive sui compiti da affidare alle Forze Armate dell'Africa orientale in un eventuale conflitto. Per la Marina era specificato:

«Deve iniziare immediatamente la guerra di corsa, senza economie di forze, contro il traffico marittimo avversario nel Mar Rosso e sulle coste dell'Arabia e della Somalia, particolarmente tra Aden e Gibuti, con obiettivo la cattura di tutti i piroscafi nemici e neutrali che si trovassero ancora a navigare su quelle rotte all'apertura delle ostilità.

Sarà in atto la cooperazione dell'Aviazione».

Fu sulla base di queste direttive che il contrammiraglio Pellegrino Matteucci, allora Comandante della Marina in Africa Orientale Italiana (Marisupao), preparò un dettagliato studio, e lo inviò allo Stato Maggiore che, in linea di massima, lo approvò. In seguito all'evolversi della situazione politica, tale studio venne in parte modificato e subì aggiornamenti; nondimeno, accettandone quasi integralmente i concetti, che prevedevano un iniziale contrasto alle comunicazioni avversarie nei golfi di Aden e di Oman, Supermarina, con la pubblicazione segreta Di Na 4 (Disposizioni Navali n. 4), emessa alla fine di settembre del 1939, fissò definitivamente i compiti assegnati alle unità navali. Le modalità d'impiego per i sommergibili, compilate da Maricosom nell'agosto di quell'anno, prevedevano:

«Per i primi tre giorni di ostilità impiegare i tre quarti dei sommergibili pronti, in seguito organizzare le missioni dei sommergibili nelle zone che in base alle informazioni del momento e all'apprezzamento della situazione offrono maggiori probabilità di successi, senza ritenersi vincolati a mantenere, di massima, agguati in continuazione nelle medesime zone».

Era stato stabilito che i sommergibili andassero a occupare, inizialmente, le posizioni di agguato seguenti: a) approcci di Porto Sudan; b) approcci di Aden c) approcci di Gibuti d) approcci di Berbera e) approcci di Oman f) punto latitudine 12° 30'N, longitudine 43° 20'E (a Nord di Perim).

Nondimeno, la Marina dell'Impero disponeva di una dislocazione navale esigua e aveva dei problemi strategici da risolvere molto ardui. Il nemico, che disponeva di agguerrite basi a Suez, a Porto Sudan e Aden, controllava le entrate del Mar Rosso (il Canale di Suez a nord, lo Stretto di Bab-el-Mandeb a sud), nonché tutta la costa egiziana e sudanese. Nella base di Massaua, in Eritrea, bene attrezzata, vi erano le navi italiane, in ottima posizione per attaccare convogli in transito, ma con una forza numerica e qualitativa limitata: in tutto sette vecchi cacciatorpediniere, una decina di vetuste piccole unità di superficie adatte soltanto alla difesa locale, e otto sommergibili: gli oceanici Galilei, Galvani, Ferraris, Archimede, Guglielmotti, Torricelli e i medi da crociera Macallé e Perla.

Malgrado l'esiguità delle forze a disposizione, la presenza italiana a Massaia finì per costituire un serio problema per i britannici, in quanto vedevano insidiate le vie di comunicazione vitali per l'Egitto e per il Medio Oriente dopo la chiusura al traffico del Mediterraneo. Per essi, era indispensabile conservare il dominio su quella zona marittima, la sola che permetteva di rifornire di armi e approvvigionamenti le forze combattenti alla frontiera con la Libia e con l'Etiopia. Il problema era stato affrontato nell'anteguerra dal Comandante in Capo della Flotta del Mediterraneo (Mediterranean Fleet), il quale, nel compilare gli obiettivi strategici importanti per la difesa della navigazione britannica e dei suoi alleati, considerò l'occupazione dell'Africa Orientale Italiana obiettivo necessario alla salvaguardia del Canale di Suez e della Valle del Nilo.

L'Ammiragliato britannico aveva stabilito che per il controllo della navigazione nel Mar Rosso avrebbero provveduto il Comando della Flotta del Mediterraneo e quello delle Indie Orientali, inviando nella zona propri distaccamenti navali. In conformità con queste disposizioni, nel settembre del 1939 tre cacciatorpediniere della 21a Flottiglia avevano passato il Canale di Suez, ma in seguito, quando apparve scongiurata la minaccia di un'entrata in guerra dell'Italia a breve scadenza, essi furono ritirati. In quel periodo il Comandante in Capo delle Indie Orientali, viceammiraglio Ralph Leatham, con sede a Bombay, doveva proteggere oltre quattrocento navi mercantili britanniche e alleate che, in media, si trovavano nella sua zona di competenza. Per tale compito egli disponeva di forze esigue (tre incrociatori e sette navi di scorta, cinque delle quali della Marina indiana) che vennero incrementate nei mesi successivi quando la situazione politico-militare si fece rovente. Nondimeno, alcune settimane avanti l'inizio delle ostilità, non disponendo ancora di forze adeguate per proteggere la navigazione nel Mar Rosso, l'ammiraglio Leatham chiese immediati rinforzi. Il 25 maggio del 1940, accogliendo le sue richieste, l'Ammiragliato britannico dispose che l'incrociatore contraereo Carlisle, i cacciatorpediniere della 28a Flottiglia Khartoum, Kimberley, Kingston, Kandahar, e gli sloop Flamingo, Auckland e Shoreham, tutti della Flotta del Mediterraneo, passassero il Canale di Suez per assumere la necessaria scorta ai convogli «BN» e «BS» che si sarebbero formati in Mar Rosso: i primi diretti a nord verso Suez; i secondi a sud, verso Aden.

In seguito all'arrivo dei rinforzi, il 10 giugno del 1940 si trovavano concentrate in Mar Rosso, con base principale ad Aden, le seguenti unità:

– 3 incrociatori leggeri : Leander, Hobart, Ceres

– 1 incrociatore contraereo : Carlisle

– 4 cacciatorpediniere : Khartoum, Kimberley, Kingston, Kandahar

5 sloop : Auckland, Flamingo, Grinsby, Cornwallis, Shoreham

– 2 pescherecci armati : Amber, Moonstone

Queste navi, al momento del bisogno, vennero rinforzate o rimpiazzate da altre unità fatte affluire dal Mediterraneo o dall'Oceano Indiano5 .

5 Un prezioso incremento

Naturalmente, da parte italiana si cercò fin dall'inizio delle ostilità di costituire per le rotte nemiche una seria minaccia, ma questa speranza non si realizzò poiché gli avvenimenti presero una piega del tutto contraria. La presenza delle forze navali britanniche ad Aden finì per paralizzare l'attività delle unità navali italiane: i sommergibili vennero subito decimati, mentre i cacciatorpediniere nulla poterono fare per impedire il transito dei convogli scortati e finirono per essere annientati.

Sebbene il gruppo sommergibili di Massaua fosse stato costituito nel 1935, il conflitto sorprese le unità subacquee piuttosto impreparate per la guerra che avrebbero dovuto affrontare in quei mari. Essi, in verità, avevano compiuto numerose ed anche prolungate crociere di addestramento e sperimentali, e ne era stata tratta la conclusione che avrebbero potuto operare con favorevoli prospettive di successo. Infatti, sebbene il Torricelli e l'Archimede, giunti dall'Italia soltanto il 29 aprile del 1940, con equipaggi imbarcati in gran parte soltanto pochi giorni prima della partenza da Taranto, non avessero ancora raggiunto il grado di allenamento e di acclimatazione necessario per l'efficienza dell'unità, sugli altri sei sommergibili l'addestramento del personale e l'efficienza del materiale sembravano aver raggiunto un livello soddisfacente. Ma la realtà fu ben diversa.

Infatti, le unità subacquee dimostrarono un'efficienza che almeno in parte avrebbe potuto essere prevista. Nel 1939, quattro sommergibili (il Gemma e il Perla nella primavera, l'Otaria e il Brin nell'estate) erano stati inviati nell'Oceano Indiano durante il periodo dei monsoni di nordest e di sudovest (i venti che si alternano in quella zona con periodi di sei mesi), per sperimentare la navigazione e il rendimento delle armi con il mare grosso. Essi svolsero lunghe crociere ed ebbero modo di fare interessanti osservazioni ed esperienze. Nei rapporti di missione, compilati dai comandanti, venne messa in rilievo la difficoltà della navigazione in superficie, l'impossibilità di far uso delle armi e di svolgere osservazione periscopica per lunghi periodi, a causa del moto ondoso che raggiungeva in quelle zone, specie in estate con il monsone di sudovest (forza nove della scala Beaufort), punte di notevole violenza; ma soprattutto, venne confermata la pericolosità degli impianti di condizionamento, funzionanti a cloruro di metile, un gas del quale non si era ancora riusciti a stabilire il grado di tossicità.

Fin dal 1935, al tempo della guerra d'Etiopia, quando i sommergibili cominciarono ad essere presenti in Mar Rosso e dovendo affrontare le difficoltà del loro impiego in quelle zone torride, fu ritenuto che sarebbero bastati gli impianti per l'aria condizionata. Ma, nell'estate del 1937, nel corso della guerra di Spagna, il cloruro di metile, gas inodore ed incolore pericolosamente tossico, aveva fatto suonare i primi campanelli d'allarme, poiché su alcuni sommergibili, e soprattutto sul Glauco, si erano verificati i primi disturbi di grave intossicazione agli equipaggi6

Il sommergibile Glauco nel quale durante una missione nella guerra di Spagna si verificarono gravi disturbi di intossicazione per il gas cloruro di metile impiegato nei condizionatori.

Nel febbraio del 1938 allarmato, il Comando in Capo della Squadra Sommergibili propose alla Direzione Generale delle Costruzioni Navali di adottare, in luogo del cloruro di metile, il «freon», gas non tossico, che veniva adottato con risultati soddisfacenti dalla Marina statunitense. Ma, poiché l’industria nazionale non era ancora in grado di produrlo, nell'attesa si continuò ad usare il cloruro di metile, dal momento che si ritenevano sufficienti per la sicurezza le norme prudenziali impartite.

Ma, a differenza del Mediterraneo, ove il condizionamento poteva essere usato saltuariamente, in Mar Rosso non si poteva arrestare il funzionamento degli impianti, in quanto gli equipaggi sarebbero stati esposti a grave menomazione dell'efficienza fisica.

Infatti, a causa della grande umidità, che in quella zona raggiunge il cento per cento, le temperature all'interno dei sommergibili salivano sopra i 45 gradi, e per difficoltà di ventilazione si verificano rilevanti dispersioni nei circuiti elettrici.

6 Nella notte del 2 agosto 1937 il Glauco era stato costretto ad abbandonare la sua zona di agguato, presso Cartagena, per rientrare alla base con il 75% dell'equipaggio intossicato da quello che al momento venne ritenuto un colpo di calore.

Considerando che durante operazioni belliche il materiale è più soggetto a frequenti guasti, ne conseguì che dai ventilatori mantenuti continuamente in funzione anche durante le immersioni, si sprigionavano nell'interno dei sommergibili vapori non percepiti del venefico cloruro di metile, i cui effetti erano avvertiti con ritardo, dapprima sotto forma di colpi di calore, poi con accessi di ilarità, pazzia e morte.

La guerra dimostrò che le predisposizioni adottate per operare con i sommergibili in Mar Rosso erano state insufficienti e non adeguatamente sperimentate. Fu grave lacuna il non aver adottato speciali accorgimenti per migliorare sui sommergibili la vita degli equipaggi, o per assicurare un miglior funzionamento del materiale e delle armi nelle zone di operazione del Mar Rosso e dell'Oceano Indiano, settori di operazione particolarmente difficili per la presenza di un nemico agguerrito, che esercitava una forte sorveglianza aeronavale, e per la necessità di affrontare una serie di insidie e di condizioni ambientali sfavorevoli: la temperatura torrida; le scogliere e i bassi fondali spesso neppure segnati sulle carte; la luminosità delle notti e la trasparenza delle acque che rendevano visibili i battelli nell'oscurità a grande distanza, e di giorno anche a grande profondità.

Occorre anche considerare che i sommergibili di Massaua risultarono – per quanto riguardava la struttura, il materiale e le modalità d'impiego – non rispondenti alle esigenze belliche e soprattutto apparvero sprovvisti di efficace difesa contro il naviglio di superficie e poco armati contro l'offesa aerea del nemico.

Al principio della guerra tutta la preparazione dell'avversario, e quindi anche l'efficienza dell'organizzazione antisommergibile per i mezzi e nei metodi, costituivano altrettante incognite. Nulla si sapeva del rilevatore acustico Asdic, sebbene il principio del suo funzionamento fosse noto anche in Italia ove il dubbio di una sua reale efficienza verteva esclusivamente sulla sua limitata portata. Ma oltre all'Asdic poco si sapeva riguardo alla qualità dei mezzi del nemico e circa le modalità del loro impiego coordinato e sistematico. Fu solo dopo le prime settimane di operazioni, e in seguito alle forti perdite, che fu compreso come l'organizzazione antisommergibile britannica fosse altamente efficiente e avesse due scopi: uno difensivo, per prevenire e impedire gli attacchi dei sommergibili contro le proprie navi mercantili e da guerra, e uno offensivo, per ricercare e attaccare sistematicamente i sommergibili fino alla loro distruzione.

Come vedremo fu a queste regole, peraltro abbastanza prevedibili, che il nemico si attenne per il controllo marittimo del Mar Rosso e dell'Oceano Indiano.

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