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La 18. Biennale di Architettura Le impressioni di dieci architetti e tre padiglioni nazionali

Anche quest’anno, con la mostra The Laboratory of the Future la Biennale di Architettura di Venezia, un evento sempre molto atteso, conferma l’impostazione artistico-concettuale ormai in corso da molte edizioni e che, paradossalmente, rende l’architettura una sorta di contorno a riflessioni sui massimi sistemi. Tuttavia, malgrado la generale e criticatissima assenza di architettura, il punto di vista presentato in questa Biennale è inedito, alternativo e ricco di suggestioni. Abbiamo cercato di coglierle in estrema sintesi, sia attraverso il parere di addetti ai lavori che l’hanno già visitata, sia con la selezione di tre padiglioni, corrispondenti ad altrettanti temi, rappresentativi dello spirito di questa edizione.

Alessio

Battistella

ArCo – Architettura e Cooperazione

Lesley Lokko esplora temi legati alla decolonizzazione, alla decarbonizzazione, evidenziando le connessioni tra equità razziale e giustizia climatica. Mette in luce l’importanza dell’Africa come laboratorio per il futuro. Temi estremamente attuali e urgenti. Spiace solo vedere che l’Africa più rappresentata di fatto sia portatrice di un pensiero occidentale. Practitioners formati e con sedi negli Usa o in Europa ci parlano dell’Africa da lontano. Possibile che un continente così straordinario non abbia voci da ascoltare?

Camillo

Botticini

Arw-Architectural Research Workshop

La Biennale di architettura veneziana ha da sempre come Dna la volontà di cogliere un divenire in sempre più rapido mutamento. Questa Biennale mostra uno sguardo particolare verso le parti del mondo oggetto di uno sviluppo altro rispetto al mainstream G8 che sembra essere in grado di rappresentare solo una parte delle trasformazioni e condizioni dei processi di artificializzazione del mondo globalizzato.

Porre l’attenzione è il pregio di questa mostra. Il limite è farlo senza architettura. Il dubbio è che quando l’architettura agisce, come nel caso dei progetti ghanesi di David Adjaye, questi poco si discostino dai modelli neocolonialisti e omologativi. Sembrano mancare una serie di proposte che sappiano cogliere le specificità e le differenze dei Paesi e dei luoghi analizzati. Non avendoli visti, resta la percezione netta che non vi siano e che sia questa una forse interessante biennale di socio-antropologia ma non di architettura.

Marco Brizzi Cultivar

Da quanto ho letto a proposito di questa Biennale emergono opinioni fortemente contrastate. Alle osservazioni che più tradizionalmente vengono rivolte alla mostra veneziana si sono aggiunti in questa occasione numerosi segnali di allarme. La voce più diffusa reclama l’assenza di quei contenuti e di quella disposizione che si accompagnano all’idea di architettura così come la conosciamo. Mi sembra questo un fatto rilevante e una ragione in più per visitare la mostra di Lesley Lokko.

Sergio Buttiglieri

Sanlorenzo

Il problema mai risolto della Biennale è come raccontarla efficacemente senza annoiare. E anche in questa edizione, si tende a trasformarla in un’operazione artistica tangente alla Biennale d’Arte. Tante video installazioni, che inizialmente catturano lo sguardo ma poi s’infiacchiscono per iper-esposizioni di concetti poco attinenti alla reale architettura proposta. Lesley Lokko ha tentato di proporre nuove direzioni per l’architettura del futuro, in special modo quella in mano ai giovani studi del continente africano. Spiace però vedere troppa arte, troppi video, che generano assuefazione e poca comunicazione rispetto alla progettazione. Degno di nota, oltre al padiglione della Danimarca, quello del Brasile, che ha meritoriamente vinto il Leone d’Oro.

Paolo Caputo

Caputo Partnership International

Dall’architettura sociale di Álvaro Siza a quella maieutica e popolare di Alejandro Aravena all’Africa di Lesley Lokko: è una delle parabole possibili per interpretare la Biennale 2023. Che corre parallela a quelle di una globalizzazione illusoria e di un’architettura senza frontiere, omologante e stupefacente, più congeniale alle narrazioni del mondo che ai suoi bisogni reali. Soprattutto di quella parte, l’Africa, rimasta drammaticamente ferma quando non ulteriormente regredita e da cui si può solo fuggire. Di fronte a tale quadro di irreversibile fallimento politico, sociale, economico, ambientale, programmatico e pianificatorio, l’Architettura non ha più senso. Questo è ciò che emerge dalla Biennale in mostra a Venezia. Insieme ai modi della decolonizzazione e della decarbonizzazione, il ‘Laboratorio del futuro’ dovrà occuparsi di costruire infiniti luoghi in quelle aree da cui oggi non si può che emigrare.

Agostino Ghirardelli Sbga-Blengini Ghirardelli Architects

La Biennale di quest’anno ci offre molti punti di vista. L’approccio della curatrice Lesley Lokko è comporre un intreccio di fili, di pensieri differenti e laterali che portano tutti alle responsabilità dell’architettura. Tra gli spazi visitati ho apprezzato particolarmente il padiglione del Giappone, dove l’architettura è un luogo poetico e d’amore per la cura delle comunità e della memoria. Di segno opposto ma ugualmente bella l’esposizione dei modelli fisici di Sir David Adjaye all’ex Palazzo Italia ai Giardini. A dimostrazione che il nostro mestiere è fatto ancora di concretezza e di emozioni generate da essa.

Ico Migliore e Mara Servetto Migliore+Servetto Architects

Interessante visitare il padiglione del Giappone, per riflettere sul significato della casa come sommatoria di elementi di cui prendersi cura. Se abitare vuol dire, in sintesi, occuparsi di sé stessi, dovremo sempre di più ragionare sul rapporto tra le cose e gli spazi e tra le cose e il tempo, oltre a ripensare anche l’architettura come organismo vivente, come luogo da amare. Un tema in cui noi crediamo moltissimo, perfettamente inscritto in un’ottica di sostenibilità non solo ambientale, ma anche culturale.

Filippo Pagliani Park Associati

Con il ‘Laboratorio del futuro’ e i riflettori sull’Africa credevo di ritrovare gli stimoli e gli spunti per riflessioni paradigmatiche.

Il desiderio di vedere un’architettura diversa e nuova è stato disatteso da una sovrabbondanza di informazioni e concetti critici legati al mondo della produzione, alle risorse, ai diritti e ai rischi in generale. È come se la crescita inarrestabile dei processi di urbanizzazione del continente africano, mettendo in crisi gli ecosistemi anche a livello globale, negasse qualsiasi tipo di risposta costruttiva. Il contraltare: nella mostra su The Line di Neom alla Salute, tutti gli sforzi di Lesley Lokko e della sua Biennale per riportarci sui binari della responsabilità sociale e professionale vengono demoliti in un progetto arrogante, inutile e distruttivo, nonostante illustri colleghi (anche coinvolti nella Biennale stessa) siano affascinati, forse ingenuamente, dalla visionarietà del progetto.

Raul Pantaleo

Tam Associati

Una domanda ci è venuta spontanea dopo la visita alla Biennale. Che risposte operative può ottenere un decisore, politico o economico, sui drammatici temi posti dalla curatrice Lesley Lokko quali ‘decolonizzazione e decarbonizzazione’? La risposta è molto complessa e riguarda i fondamenti del nostro operare. Perché il mondo dell’architettura attraverso la ricerca e il dibattito teorico costruisce le basi non astratte ma operanti per generare le pratiche del ‘fare’. Certo l’unica decolonizzazione oggi veramente auspicabile appare essere il cambiamento radicale del nostro modello di sviluppo, tornando all’azione. Tutto il resto verrà di conseguenza, magari anche il richiamo a un’architettura attenta a quei luoghi fisici e sociali che attendono risposte tangibili e urgenti.

Marco Piva

Smp-Studio Marco Piva

In un clima di crisi e incertezze l’occhio della Biennale d’Architettura quest’anno non è più quello della cultura occidentale. L’intera kermesse appare come un cambiamento imprevisto e inevitabile: un’inchiesta dalla particolare modalità espositiva che presenta per la prima volta un ribaltamento gerarchico, anagrafico e geografico dei Paesi e delle personalità presenti. Ciò che emerge è: da un lato l’istantaneo mondo dalle distanze ridotte con la presenza di progettisti provenienti da ogni latitudine; dall’altro una vivida ibridazione fra architettura e arte, che sia questa performativa o visuale.

Padiglione Italia Cambiare il concetto di Architettura

Partendo dall’idea di: “andare oltre l’esposizione enciclopedica, fotografando una generazione che attraverso la sua pratica quotidiana, cerca di ridefinire il concetto di architettura” i curatori, il collettivo Fosbury Architecture – con un’età media di 33 anni, il più giovane ad aver mai presentato il Padiglione Italia – presenta nove interventi che hanno coinvolto collettivi, gruppi e agenzie creative al fine di sviluppare un progetto coerente. Gli interventi hanno interessato l’intero territorio nazionale, dai tetti di Taranto alla Baia di Ieranto, passando per Trieste, Ripa Teatina, l’entroterra veneziano, la regione di Cabras, il quartiere Librino di Catania e Belmonte Calabro, fino alla piana di Firenze-Prato-Pistoia.

“Spaziale. Everyone Belongs to Everyone Else” è inteso come laboratorio progettuale articolato in tre fasi. La prima fase è rappresentata dagli interventi, documentati dal portale Spaziale2023.it; la seconda fase riguarda il Padiglione vero e proprio; mentre la terza fase prevede la continuazione dei progetti fino alla conclusione della Biennale, con un calendario di incontri al Teatro di Palazzo Grassi.

Passando in rassegna i programmi del Padiglione Italia che dal 1980 si sono succeduti nell’ambito della Biennale, quello di questa edizione è con ogni probabilità uno dei più concettuali, tanto da rendere difficile rintracciare una relazione con la pratica sia teorica che operativa dell’architettura.

Invece dei progetti o delle visioni per il futuro che caratterizzavano i programmi delle precedenti edizioni, la mostra di Fosbury Architecture si sviluppa infatti proponendo processi: un approccio in verità già ampiamente sperimentato in Italia nel periodo post-sessantotto, in un clima di profondo ripensamento del ruolo dell’architettura nella società.

L’impostazione marcatamente ideologica di allora portò più che ad una necessaria ridefinizione dei principi, a una tragica perdita di identificabilità e di riconoscimento, anche a livello sociale, della disciplina, spesso accompagnato da un clamoroso vuoto nella cultura del progetto. Ridefinire il concetto di architettura, come nel proposito dei curatori, è una sfida impegnativa. Forse proprio per questo è ciò che riescono a raggiungere solo i maestri. Nel farlo cambiano le regole del gioco, ma questo sempre cimentandosi sullo stesso terreno: quello dello specifico disciplinare. Come Dick Fosbury, atleta timido e fisicamente poco dotato che vinse l’oro olimpico nel 1968 cambiando le regole della sua specialità, forse anche Fosbury Architecture, a partire da questa prima importante mostra, vincerà molte medaglie: basta che per farlo non si finisca per togliere la proverbiale asticella ■

Nelle foto, la presentazione programmatica nella prima Tesa e alcune installazioni del Padiglione Italia. Al centro, i curatori (ph. ©Delfino Sisto Legnani-Dsl Studio, courtesy Fosbury Architecture).

Padiglione Brasile Archeologie del Futuro

L’INTERESSANTE RIVISITAZIONE, IN UNA PROSPETTIVA FUTURA, DELLA CULTURA E DELL’AMBIENTE NEL PADIGLIONE DEL BRASILE, MERITATAMENTE PREMIATO CON IL LEONE D’ORO

Il Padiglione del Brasile alla Biennale di Architettura di Venezia, curato da Gabriela de Matos e Paulo Tavares insieme a un gruppo eterogeneo di collaboratori, tra cui popolazioni indigene e tessitori di cultura quilombola (la cultura degli schiavi africani fuggiti tempo fa nell’entroterra brasiliano), presenta la terra come elemento simbolico e poetico ricorrente. Lo stesso interessante progetto di allestimento è interamente realizzato in terra cruda: sotto forma di setti in pisè, che organizzano il percorso espositivo; stesa come uno strato di pavimentazione, accompagnando i visitatori; messa in risalto, come per la ‘terra nera degli indios’, un suolo altamente fertile, formato per origine antropica tra 2500 e 500 anni fa. La mostra riflette sul passato, presente e futuro del Brasile, presentando un’immagine territoriale, architettonica e del patrimonio culturale complessa, diversificata e pluralistica della formazione nazionale e della modernità in Brasile.

Nelle parole dei curatori, «la nostra proposta inizia pensando al Brasile come terra. La terra come materia, fertilizzante, suolo e territorio. Ma anche la terra nel suo senso globale e cosmico, come pianeta e dimora comune di tutta la vita, umana e non umana. Terra come memoria, ma anche come futuro, guardando al passato e al patrimonio per ampliare il campo dell’architettura di fronte alle più urgenti problematiche urbane, territoriali e ambientali contemporanee»

La prima galleria del padiglione, Decolonizing the Canon, lancia una provocazione contro la narrativa secondo cui Brasilia sarebbe stata costruita nel bel mezzo del nulla, ignorando il passato e i continui, ma non invasivi, adatta- menti del paesaggio ad opera delle popolazioni indigene e quilombola.

La seconda galleria, intitolata Places of Origin, Archaeologies of the Future, presenta progetti e pratiche socio-spaziali di conoscenza indigena e afro-brasiliana sulla terra e sul territorio, dimostrando che le terre indigene e quilombola sono i territori più preservati del Brasile e indicando un futuro in cui i termini di decolonizzazione e decarbonizzazione vanno di pari passo. Le loro pratiche, tecnologie e costumi legati alla gestione e alla produzione del territorio, come altri modi di fare e comprendere l’architettura, sono situati sulla terra e portano con sè la conoscenza ancestrale per ridefinire il presente e immaginare un futuro, non solo per le comunità umane ma anche per l’ambiente di cui queste ultime sono parte ■

Padiglione USA Eternamente plastica

IL TEMA DELLA PLASTICA E IL SUO RUOLO NELLA DEFINIZIONE DELL’UNIVERSO PERCETTIVO

NELL’ALLESTIMENTO DEL PADIGLIONE USA ALLA BIENNALE DI ARCHITETTURA DI VENEZIA 2023

Everlasting Plastics, plastica eterna, è il titolo del Padiglione Usa della Biennale di Architettura di Venezia 2023. La plastica viene considerata dai curatori “sia letteralmente che come metafora culturale”. Il curatore Spaces, un’organizzazione senza scopo di lucro per l’arte alternativa con sede a Cleveland, in collaborazione con il Bureau of Educational and Cultural Affairs del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, ha sviluppato l’intera mostra intorno a questo materiale, un tempo rivoluzionario e di grande successo, tanto da diventare parte distintiva della nostra società, come pure onnipresente, con conseguenze disastrose, nell’ecosistema.

Gli interventi site-specific dei cinque artisti in- vitati esplorano le qualità della plastica, dalla sua durevolezza all’estrema versatilità, ma invitano anche ad una riflessione sul suo ruolo nell’erosione delle ecologie e delle economie contemporanee, nonché sulle sue ricadute sull’ambiente costruito. Ed è proprio in relazione all’architettura che questa esplorazione, che potrebbe sembrare scontata, diventa rivelatrice di aspetti cruciali.

Grazie a plastiche e polimeri è infatti possibile realizzare involucri architettonici sempre più isolati, dal punto di vista termico e acustico. Il che, pur corrispondendo a indiscutibili vantaggi in termini di risparmio energetico e comfort abitativo, porta a una fondamentale astrazione.

Le installazioni video di tipo fly-through della mostra, isolando i rumori in base agli spazi attraversati, simulano condizioni di tipo spaziale e ambientale ormai comuni negli edifici odierni, dove componenti sempre più utilizzate – da strati in Ppe a Eps, barriere al vapore, membrane e profili isolanti di tutti i tipi – hanno l’effetto collaterale di modificare in modo significativo l’universo percettivo sia degli ambienti in cui abitiamo, sia del rapporto di questi ultimi con l’intorno.

In breve, il Padiglione degli Stati Uniti d’America racconta una storia dove un’artificialità sempre più artificiale, finisce per modificare, insieme al nostro modo di vedere il mondo, anche il nostro modo di rapportarci ad esso ■