6 minute read

Finale campionato Homebrewing 2022 NOTE E RIFLESSIONI

Homebrewing. Dell’utilizzo indiscriminato dei termini inglesi, di solito, mi infastidiscono la sensazione di snobismo top manageriale fuori tempo massimo e di pigrizia mentale mimetizzata da modernità, come se un vocabolario straordinario come il nostro non potesse tranquillamente descrivere al meglio qualsiasi definizione anglosassone, per quanto specifica. In questo caso però, dato che ci riferiamo ad un concetto davvero poco nostrano, sia in generale (la produzione della birra) sia nel dettaglio (la pratica di farla in casa), non percepisco alcuna volontà fraudolenta nel ripiego all’inglese e riterrei pertanto lecito ricorrervi. È però la parola stessa a non sembrarmi all’altezza: un lungo nome composto, brutto e asettico, che non rende merito al concetto che sottende.

Chi fa birra in casa sa bene, invece, quanto questo hobby meriterebbe una definizione ben più adeguata ed importante: gloriosa, direi. Non vorrei esagerare, ma questa gente prende dei chicchi di orzo, qualche pianta rampicante, una bustina di lievito (talvolta nemmeno quella) e usa i fornelli di casa per tramutare l’acqua in birra. E che birra! Quasi sempre migliore, MOLTO migliore, di quella che la gente compra e beve quotidianamente, con diletto.

Non sarà forse la stessa roba che fece quel Signore a Cana, alle nozze di un tale che non si è ancora capito chi fosse, niente di così miracoloso, però una certa “magia”, chi fa birra in casa, vi giuro, la avverte. Il giorno della cotta, l’avvio della fermentazione, la lieve fatica dell’imbottigliamento, l’attesa della maturazione, ed infine, il fatidico momento dell’assaggio: è un lungo rito magico che funziona davvero (quasi sempre).

Oppure, se preferiamo adottare un’ottica più razionale ma altrettanto romantica, è la realizzazione di un’opera artistica della quale, una volta ultimata, possono godere tutti, e non soltanto con gli occhi ma con tutti i sensi. Ecco, è forse questo il motivo per il quale, dopo tanti anni, l’homebrewing, nome a parte, mi pare ancora l’ambito più genuino ed apprezzabile del mondo della birra artigianale. In questa atmosfera magica (o artistica), così distante dagli aspetti più commerciali tipici di un settore ormai professionalmente “maturo”, scorgo ancora le caratteristiche primigenie di quell’ambiente che era riuscito ad affascinarmi e che, nel corso degli anni, non sempre ha saputo mantenere le grandi aspettative che in molti vi avevano riposto.

MoBi ieri e oggi

Diciamocelo: chi c’era non potrà negare come il fascino dei primi tempi, quando appassionati e nuovi professionisti condividevano un tutt’uno fatto di competenza, passione e divertimento abbia ormai lasciato spazio ad un ambiente meno avvincente, persino tristanzuolo da certi punti di vista. Molti tra gli addetti ai lavori, che tanto avrebbero ancora da fare e insegnare, si sono un po’ demoralizzati, o peggio, incattiviti, e perdono troppo tempo a rimuginare su quote di mercato, mancati riconoscimenti, concorrenza sleale. Tra gli esperti e grandi appassionati della prima ora, che potrebbero ancora rappresentare un vero e proprio patrimonio occulto al quale potenzialmente attingere tutti, alcuni hanno fatto il “grande” salto verso l’ambito professionale, altri, lasciati sempre più ai margini, hanno perso interesse, i più sfortunati, infine, sono rimasti incastrati in qualche ruolo più o meno ufficioso e vivacchiano mantenendo un basso profilo per evitare rogne e scazzi. Questa parabola l’ha vissuta un po’ anche MoBI.

Come tutti i partiti che si rispettino anche la nostra associazione nacque “col sangue”, dopo il primo scisma di Unionbirrai, di cui avevano fatto inizialmente parte, direttamente o meno, quasi tutti gli ideatori della nuova entità: Davide Bertinotti, Max Faraggi (di gran lunga i più concreti e disinteressati) e parecchi altri personaggi, noti e meno noti.

Fin dallo Statuto, MoBI, pur con occhio di riguardo per la figura del cliente ultimo del prodotto, non si poneva limitazioni di alcun genere, ponendosi come soggetto super partes, potenzialmente attivo in tutti gli ambiti legati all’allora giovane fenomeno della Birra Artigianale. Come scopo principale ci si proponeva la promozione a tutto tondo della cosiddetta cultura birraria, da portare avanti tramite: corsi di degustazione e di homebrewing, pubblicazioni proprie e internazionali, promozione del prodotto e dei produttori più meritevoli, organizzazione di corsi, concorsi, eventi ed attività varie, etc. L’idea di fondo, perlomeno sulla carta, era molto interessante: radunare i primi discepoli di questa nuova religione pagana, gente motivata da interesse genuino e disinteressata passione, e dar loro le chiavi del giardino affinché potessero contribuire a conservarlo sano e pulito e a farlo crescere rigoglioso perché tutti potessero condividerne i frutti. Un approccio romantico, quasi commovente nella sua spropositata ingenuità, che dovette ben presto scontrarsi con uno dei più evidenti ed insanabili limiti del nostro, per molti altri aspetti encomiabile, popolo: l’individualismo. Non entro ulteriormente nel merito, perché l’articolo riguarda altro e mi sono dilungato fin troppo, ma si sarebbe potuto fare molto di più. Chi, con sommo sprezzo del pericolo, è rimasto in MoBI, consiglieri e collaboratori stretti, ci ha a lungo provato, invano. Sarebbe servita, esternamente, una mentalità diversa e più interesse a collaborare per un bene comune, sia da parte delle altre entità di settore, sempre più chiuse su sé stesse, sia da parte della base di volontari originale che, di fronte ad impegni concreti e non remunerativi, ha ben presto perso interesse per il tema ed è passata ad altro.

La finale

Tutto da buttare quindi? Niente affatto. Preso atto che le ambizioni andavano, per forza di cose, ridimensionate, si è li- mitato il raggio di azione concentrandosi, in particolare, su quello che è parso l’ambito più “puro” e meritevole di attenzioni: l’homebrewing. La partecipazione alla giuria della finale del Campionato 2022/2023 mi ha ricordato, ancora una volta, quanto questa scelta fosse quella giusta.

Ma parliamone di questa finale.

Già da qualche anno MoBI ha provato a rendere l’evento sempre più avvincente, perlomeno per quanto riguarda la conclusione della stagione. Siamo passati da una formula simile a quella del campionato di calcio, dove i punti accumulati durante l’arco della stagione decretano automaticamente la classifica definitiva e il vincitore, ad una sorta di

“play-off” dove i migliori homebrewer del campionato, qualificati alla finale grazie ad un buon rendimento durante tutto l’arco della stagione, devono confrontarsi nuovamente tra loro nella giornata conclusiva, per decretare finalmente il vincitore. È chiaro che entrambe le soluzioni hanno dei pro e dei contro. La prima premia il concorrente più assiduo e costante, quindi probabilmente il più meritevole, ma rischia al contempo di scontare un po’ di noia, man mano che le tappe si susseguono, soprattutto se qualche partecipante particolarmente in forma prende il largo, tipo il Napoli Calcio di quest’anno.

La seconda invece rimette tutto in discussione, e il risultato finale potreb- be rivelarsi molto diverso da quanto evidenziato durante l’annata. In finale può succedere di tutto, il grande favorito può steccare e l’outsider estrarre il cosiddetto “asso dalla manica”, sovvertendo i pronostici. Malgrado qualche accorgimento regolamentare abbia reso le dinamiche ancora più corrette, con dei bonus destinati ai migliori della prima fase, è chiaro che, se si opta per questa strada, bisogna comunque stare tutti al gioco (ricordandosi sempre che, appunto, è un gioco) e prepararsi a stemperare magari qualche piccola polemica, ma l’adrenalina e il divertimento che questa formula porta con sé la rendono una scelta, a mio parere, assolutamente azzeccata. E sia il colpo d’occhio della tavolata dei finalisti - intenti a godersi la giornata condividendo consigli, assaggi e risate - sia i festeggiamenti finali, all’insegna dell’allegria e del fair play, hanno pienamente confermato la mia opinione.

Partecipare alla Giuria, mai come in questo caso, è stato davvero interessante, oltre che piacevole. Ai concorrenti era stato chiesto di mostrare la propria competenza tecnica e poliedricità preparando una prima birra di uno stile ben preciso, quest’anno della tipologia “Wee Heavy”, ed una seconda a propria discrezione. I giudici, suddivisi in coppie, a estrazione, hanno dovuto adoperarsi per la scrematura iniziale delle due categorie di birre e, successivamente, per le tornate finali che hanno decretato la classifica. Nel mio caso ho avuto la fortuna di partecipare alla finale delle “Wee Heavy”, assaggiando e cercando di disporre in ordine di merito le migliori birre di questa tipologia, precedentemente scelte da un’altra coppia di giudici. Non posso che complimentarmi con i concorrenti: malgrado lo stile in questione non sia sicuramente tra i più noti né tra i più diffusi, ho trovato il livello sorprendentemente alto, sia dal punto di vista dell’attinenza stilistica sia per la qualità delle bevute.

E non era impresa facile: le Wee Heavy (o Scotch Ale), infatti, sono birre concettualmente molto semplici ma di difficilissima realizzazione. Lievito neutro, poco luppolo, alto tenore alcolico e malti caramello sugli scudi: servono grande tecnica e mano finissima per calibrarle al meglio, bilanciare la dolcezza con il giusto grado di amaro, tenere sotto controllo l’etilico e mantenere una buona bevibilità.

Tutte le finaliste presentavano queste caratteristiche e le migliori andavano anche oltre, a dimostrazione dell’eccellenza dei nostri homebrewer. E basandomi sui mugolii di piacere che giungevano dal tavolo della finale delle birre a stile libero, sono pronto a scommettere che anche lì se ne sono viste delle belle.

Insomma, una finale bellissima e perfettamente riuscita, da tutti i punti di vista, che, personalmente, mi ha fatto scordare le piccole magagne dell’ambito craft italiano alle quali ho accennato nella prima parte dell’articolo.

Qualche meritato complimento

Innanzitutto, al grande vincitore della stagione 2022: Jacopo Deola. Un inchino.

Ai giudici, ruolo ambito ma talvolta ingrato, affrontato comunque sempre con enorme entusiasmo, divertimento e serietà professionale a dir poco encomiabile. Al personale del sempre magnifico Drunken Duck di Quinto Vicentino, che ha ospitato la giornata, e in particolare a Vanni, padrone di casa sui generis ma, a modo suo, amabilissimo: tra i più attivi e preparati ambasciatori della birra artigianale italiana e straniera che conosca.

Ed infine a MoBI, consiglieri e collaboratori tutti, che da anni promuovono il prodotto “birra artigianale” senza alcun interesse personale, per pura passione: una discreta fetta del settore professionistico attuale probabilmente non vi merita, ma personalmente, e credo di non parlare solo per me, sono contento che ci siate. ★

This article is from: