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Il numero sette | #1 intervista a Giulia Zollino, #2 intervista a Donata Columbro

Il numero sette

di Giulia Trapuzzano

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Semplicemente, come i sassi, come gli alberi distruggere, costruire abbiamo studiato infiniti modi per addormentarci e svegliarci ancora accanto.

Come gli alberi, Il numero sette, Fine Before You Came Il sette è un numero di fondamentale importanza per me, rappresenta nella sua imperfezione dispari, il massimo compimento di un progetto divino. Non a caso possiamo trovare così tante raffigurazioni simboliche che ne portano il marchio: il sistema planetario, le sette virtù, i sette colori dell’iride, le sette note musicali, i sette vizi capitali, i sette sigilli di Giovanni apostolo.

È un numero che in un’ideale sequenza tarologica rappresenta l’ambizione alla vittoria; è promessa di conquiste, soluzioni, successi interiori. E comunque ci rivela l’insicurezza, la pendenza, quell’incertezza nascosta nei dettagli che può ribaltare il tavolo da un momento all’altro e rimettere in discussione tutto. È il compimento glorioso di un passaggio da un momento a un altro; il viaggio dell’essere che è giunto alla fine di un primo ciclo di crescita intellettuale e spirituale, ma che non ha ancora completato il suo percorso.

Il dialogo per me è innanzitutto incertezza, sbilanciamento, capacità di sporgersi da un dirupo per fare una richiesta e aspettare che una risposta arrivi a spianarci nuova strada di fronte ai piedi o a gettarci spietata nell’ignoto.

Ogni domanda è un salto nel vuoto verso la conoscenza.

Benvenuti nella mia rubrica di interviste “Il numero sette”. Faccio sette domande a donne straordinarie che abitualmente ribaltano i tavoli del mondo.

Giulia Zollino Antropologa, educatrice sessuale e operatrice di strada. Parla e scrive di Sex Work.

#1 Intervista a Giulia Zollino

Giulia Zollino è antropologa, educatrice sessuale, operatrice di strada, sex worker. Fa divulgazione su Instagram con l’obiettivo di raccontare il mondo del lavoro sessuale e le storie delle persone che vi orbitano intorno. Con la sua comunicazione abbatte ogni giorno preconcetti tossici, stigma e luoghi comuni legati alla prostituzione, promuovendo un reale dibattito sex-positive, la solidarietà e la corretta informazione. Grazie al lavoro di Zollino emergono sfaccettature necessarie a restituire la complessità del contesto: l’economia, il femminismo, la libertà, l’autoaffermazione, l’intimità, il piacere, la fragilità. L’identità.

Come hai scelto Instagram quale piattaforma ideale per la tua comunicazione? Ne avevi prese in considerazione altre prima? Prima di aprire questo profilo di divulgazione non avevo Instagram.

Ovviamente, ne avevo sentito parlare, ma non sapevo come funzionasse e soprattutto se mi ci sarei trovata bene. Il processo decisionale che mi ha portato poi a sceglierlo come piattaforma di divulgazione è stato travagliato. Mi chiedevo se sarei stata in grado di superare l’imbarazzo, se sarei riuscita a mettermi totalmente in gioco e anche un po’ in discussione. Un giorno però mi sono buttata e mi è piaciuto subito! Appena l’ho provato, ho capito che poteva essere il contenitore adatto per il progetto che

avevo in mente. Invece, per rispondere alla seconda domanda: no, non avevo preso in considerazione altre piattaforme.

Quali sono le principali difficoltà che hai riscontrato nel fare informazione su social?

Sicuramente il fatto che richiede molto tempo e costanza, motivo per cui ho da poco inserito la possibilità di fare delle donazioni per sostenere il mio progetto. Forse dall’esterno non si ha la percezione che chi crea contenuti investa tantissimo tempo e risorse per produrli. È un vero e proprio lavoro. Un altro aspetto riguarda la responsabilità della visibilità. Rispetto agli inizi, ora sento molto di più il peso di deludere in qualche modo la community e di non essere abbastanza. Maledetta sindrome dell’impostora.

Pensi sia possibile immaginare un futuro in cui il web diventa una piattaforma adatta all’educazione sessuale e soprattutto all’educazione sentimentale/emotiva?

Credo che in parte lo sia già. Ci sono tantissime persone e realtà che fanno divulgazione sull’educazione alla sessualità e affettività.

Penso che questa sia la strada vincente!

Come definiresti la community che ti segue? Pempemmosa. Scherzo. Credo che le persone che mi seguono siano persone coraggiose. Ci vuole coraggio per mettere in discussione tutti i pregiudizi e gli stereotipi che abbiamo introiettato sia in materia di sessualità che di lavoro sessuale.

Quali sono i valori essenziali del sex work che ci tieni a trasmettere e quali i preconcetti che vorresti invece sovvertire?

In primis che il lavoro sessuale è un lavoro e che le persone che lo esercitano sono prima di tutto persone. Le/i sex workers non sono delle figure altre, lontane da noi. Sono vicino a noi, fanno parte della società. Per quanto riguarda i preconcetti ce ne sono tantissimi. Uno di quelli contro il quale lotto ferocemente è l’equiparazione del sex work allo sfruttamento. Lo sfruttamento c’è, sarebbe stupido dire il contrario, ma non è esclusivo e costitutivo del lavoro sessuale. Il lavoro sessuale racchiude in sé tantissime soggettività, storie, narrazioni ed è profondamente sbagliato appiattirle in favore di una rappresentazione pietistica e vittimizzante.

Secondo virologi e immunologi, la “promiscuità” è da dimenticare per sempre. L’abitudine a riunirsi e unirsi – che sia per socializzare, lavorare, amarsi o raggiungersi in ogni forma – non sarà più così naturale. Che ne è (sarà) dunque del lavoro sessuale, dell’espressione del sé e del discorso sul mantenimento dei confini intimi ai tempi del distanziamento sociale? Cosa sta cambiando la pandemia?

Sono cambiate tantissime cose. La pandemia ha evidenziato delle problematiche già esistenti, marginalizzato gruppi sociali di sex workers già di per sé marginalizzati e contribuito ad un progressi-

vo slittamento dell’industria del sesso verso l’online. Sono tante, infatti, le persone che si sono cimentate per la prima volta con il telelavoro sessuale (cam, produzione e vendita contenuti online, sexting). Tuttavia, il telelavoro non è un’opzione per tutte quelle persone che non dispongono delle risorse necessarie e che non possono permettersi di rischiare di essere riconosciute. La visibilità è un privilegio.

Il sex work in una parola.

Lavoro.

Donata Columbro Giornalista e digital strategist, responsabile della Data Ninja School, ossessionata dai media digitali e da internet come motore di cambiamento sociale.

#2 Intervista a Donata Columbro

Donata Columbro è la responsabile della Dataninja School. È specializzata in campagne di attivismo digitale e crowdfunding, si occupa di divulgazione, formazione e di “rendere umani” i dati, raccontandoli con chiarezza, competenza, autentica passione e un pizzico di umorismo. La sua comunicazione mi coinvolge profondamente; l’ho intervistata per farmela raccontare meglio.

So che il tuo amore per i dati sboccia nel 2014 e diventa presto un lavoro. Da allora cosa è cambiato per te e per il contesto di analisi in generale?

Dal 2014 a oggi ho cambiato titolo di lavoro diverse volte, e dico titolo perché l’essenza credo sia rimasta sempre la stessa: produrre contenuti di valore per muovere le persone all’azione. L’ho fatto scrivendo pezzi da freelance, lavorando a campagne sociali, in una redazione online. Io non mi occupo di elaborare dati per mestiere, ma aiuto le altre persone a usarli per comunicare meglio.

È cambiato credo il mio approccio, non mi rivolgo più a un settore in particolare (le ONG), né a uno scopo particolare (la comunicazione), ma a chiunque abbia la curiosità di capire meglio.

I dati sono fondamentali in comunicazione, in politica, in medicina. È possibile secondo te creare ulteriori ecosistemi umani più sostenibli e consapevoli grazie ai dati?

Non credo, nel senso che non sono i dati, non è la tecnologia a cambiare il mondo. Sono le persone e le scelte che fanno, anche in ambito di raccolta e rappresentazione dei dati.

Su Fantastico! parliamo di letteratura e arti figurative; tecniche di espressione umana che ci affascinano profondamente. Secondo te, i dati possono essere considerati arte?

Dipende dal contesto, dati sono tutto quello che produciamo, anche le parole e note lo sono, i movimenti della danza, i colori possono esserlo. Ci sono figure specifiche che sono i e le data artist, che creano contenuti sonori e visivi grazie ai dati. Quindi sì, è arte.

Cosa ti ispira in ambito di ricerca?

Mi ispira tutto quello che riguarda l’etica e l’umanesimo dei dati e la tecnologia.

Cosa preferisci comunicare online? Tutto ciò che può essere utile alle persone.

Il data journalism in Italia ha avuto un’evoluzione lentissima. Sarebbe stata più semplice la comunicazione del nuovo coronavirus se ci fossero state redazioni pronte a lavorare sui dati? Sì, ma anche redazioni con giornaliste e giornalisti scientifici, che lavorano soprattutto all’esterno e in autonomia, penso per esempio a Roberta Villa.

Ancora dati, esseri umani, pandemia… e social network. Come stai vivendo il contatto tra questi elementi?

Sto cercando di usare i canali social per informare sui temi della pandemia, aiutando a orientarsi tra le fonti, e le definizioni dei dati.

In questi giorni l’OMS ha parlato di pandemic fatigue e credo sia un altro pericolo a cui fare attenzione, oltre all’infodemia. Conserviamo la nostra salute mentale quando ci occupiamo di questi temi, informandoci, ma senza alimentare l’ossessione dei numeri e del controllo quotidiano.

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