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non di solo pizza
Ciò che è un diritto - come il cibo e il lavoro - può diventare strumento di rivoluzione, di rivalsa sociale, di riappropriazione di dignità. E allora è necessario guardare a quel cibo cucinato e servito, coltivato e lavorato come un elemento dalle molteplici personalità e di grande potenza, che riesce a trasformare le persone e le idee, regalare nuove vite e sfamare la voglia di normalità.
NUOVA Caserta CUCINA ORGANIZZATA
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Il cibo che fa bene! Cucina e lavoro dai beni confiscati alla camorra.
di Giusy Ferraina
Il cibo che aiuta è il protagonista di questa storia, iniziata nei primi anni 2000 quando un gruppo di volontari comincia a impegnarsi nel recupero dei malati psichici con un approccio sperimentale che punta sull’individualità. E lo fa in un territorio che ha anch’esso bisogno di “recupero” e di “rinnovamento”. Siamo in provincia di Caserta, tra Castel Volturno, Casal Di Principe e Aversa, in quel territorio famoso per essere abitato dai clan, eredi della subcultura della Nuova Camorra Organizzata di Cutolo, che ha portato violenza e un’economia malata e che in quel periodo era all’apice del suo potere.
“Non possiamo interessarci della salute dei nostri ragazzi se non ci interessiamo della salute del nostro territorio, il luogo in cui queste persone vivono e si relazionano. Da questo pensiero prende vita NCO – NUOVA CUCINA ORGANIZZATA che, con il tempo amplia la sua rete e diventa NUOVA COOPERAZIONE ORGANIZZATA, ovvero un consorzio di cooperative sociali che mira alla restituzione di diritti, dignità e opportunità ai soggetti svantaggiati. E lo fa creando lavoro e reddito dall’utilizzo dei beni confiscati alla camorra”, racconta Pasquale Corvino Presidente della Coop. Agropoli che gestisce la Nuova Cucina Organizzata.


“Tra i problemi dell’epoca – continua Corvino - c’era quello dei beni confiscati alla mafia, di cui nessuno si interessava (anche per paura) e che per noi rappresentava un tentativo di risanamento territoriale e un modo per dare una casa e un lavoro, e quindi una dignità, a chi tutto questo era stato tolto. A San Cipriano d’Aversa abbiamo avuto il nostro primo “feudo”, un palazzo dove al primo piano avevamo organizzato la casa accoglienza e al piano terra il ristorante di NCO. E così inizia la nostra avventura”.
NCO, l’acronimo - ideato da Peppe Pagano, uno dei fondatori del progetto - nasce da un gioco di parole che ribalta totalmente il concetto originario e si presenta come una forma alternativa possibile alla ristretta mentalità mafiosa, dell’io e della paura. La sigla NCO diventa ora qualcosa di positivo e costruttivo.
E come hanno fatto i cattivi, anche quelli di NCO hanno saputo diventare grandi, espandersi, connettersi, creare rete sul territorio. Il modello di connessione tra territori e famiglie viene applicato in una rete produttiva e sinergica tra le cooperative sociali presenti nella zona, dove ognuna ha un ruolo e insieme definiscono un sistema autosufficiente di produzione. C’è la Cooperativa Agropoli a Casal di Principe che gestisce la parte ristorativa, la Cooperativa Al di là dei Sogni a Sessa Aurunca, che è il laboratorio di trasformazione alimentare, c’è la Cooperativa Eureka che si dedica alla produzione di vino, coltivando vitigni autoctoni come l’asprino; la Cooperativa Osiride che produce invece olio, e poi c’è Cooperativa La strada che si dedica alla produzione del cece di Teano presidio Slow Food.
I nostri coltivatori eroici hanno saputo costruire una filiera completa che dall’agricoltura arriva alla ristorazione, come sottolinea il presidente:
E grazie alle diverse attività tutto questo è possibile.
Siamo delle Cooperative sociali di recupero con l’obiettivo di aiutare persone con svantaggio psichico, esperienza di tossicodipendenza o di fine pena a integrarsi nuovamente nella società”.


prodotti coltivati direttamente dai loro ragazzi presso la Fattoria sociale “Fuori di Zucca”.
La pizza? Ovviamente è quella classica e, come ci dicono i protagonisti:
Per esempio a Casal di Principe c’è il ristorante e pizzeria di NCO: qui cuochi, pizzaioli e camerieri sono persone speciali che si mettono alla prova e la cucina è quella della tradizione, che punta sulla genuinità e sulla qualità dei

“noi giochiamo in casa con la pizza napoletana secondo tradizione e ci atteniamo al disciplinare. E anche per il topping usiamo solo i nostri prodotti”.
“Gli abitanti della zona ci guardavano inizialmente con sospetto, poi abbiamo avuto tanta solidarietà. Chi sentiva parlare di noi, veniva a trovarci, a provare la nostra cucina tradizionale, ma soprattutto a vivere la nostra realtà. Qui nessuno è un professionista, ma tanti clienti tornavano perché si affezionavano anche al personale”.

Andare a pranzo o a cena da NCO è vivere un’esperienza unica: non è ciò che si mangia che fa la differenza, bensì l’atmosfera familiare, amichevole e il grande progetto solidale che sta dietro.
E poi c’è Fuori di Zucca,
un agriturismo con fattoria sociale, che sorge all’interno dell’ex manicomio criminale di Aversa (da qui il nome): 4 ettari coltivati in regime biologico nel cuore del parco della Maddalena, dove si trovano l’agriturismo con ristorante, la fattoria didattica e sociale, la bottega e si allevano animali da cortile. Ma cos’è una fattoria sociale? Ce lo spiega Giuliano Ciano, vicepresidente del Consorzio: Secondo i fondatori di Fuori di Zucca la follia vive nell’idea originaria di questo progetto:
“È un'azienda agricola multifunzionale, nella quale spazi e coltivazioni sono pensati per generare inclusione, percorsi terapeutici riabilitativi e di cura per sostenere l'inserimento socio-lavorativo delle fasce di popolazione a rischio marginalizzazione. Per noi l’agricoltura e la terra sono il mezzo per emancipare le persone. Tutti gli spazi della fattoria sono appositamente pensati e costruiti per accogliere famiglie, scuole. Da noi passano più di 10 mila bambini l’anno e abbiamo strutturato una serie di percorsi educativi e didattici in base all’età per cercare di stimolare il pensiero e la parola, diffondere un’educazione del mangiar sano, dell’ambiente e della legalità. Proviamo a raccontare le nostre storie di rinascita, far capire loro il valore del tempo, della terra, del lavoro e soprattutto della libertà da una mentalità “mafiosa” e dalla paura che spesso condiziona il comportamento”. “Ci volevano altrettanti pazzi per costruire un luogo dove rimettere insieme i pezzi e le persone, ridare la salute che per noi significa dignità, felicità e sane relazione tra le persone. Questa l’idea madre su cui si imperniano tutte le nostre attività; forse un’utopia ma lavoriamo per realizzarla ogni giorno”.






della Dott.ssa Marisa Cammarano, biologa nutrizionista
Pizza,
pilastro della dieta Mediterranea
Quando si sente la parola pizza, in automatico, scatta nella nostra mente l’immagine dell’Italia in quanto considerata un simbolo della cultura italiana. Al contrario, invece, non accade quando si dice pizza italiana.
Questo prodotto “divide”, infatti, tra i diversi modi di preparare e gustare le pizze, il settentrione ed il meridione d’Italia più di quanto si possa immaginare. A cambiare sono dettagli tecnici di cottura e di ingredienti, e di conseguenza l’esito. Non è una questione geografica assoluta, in quanto, con buona pace della statistica un’eccellente pizza si può mangiare, magari, a Bressanone mentre a Napoli si può incappare in una pizza mediocre. Esistono, però, alcune tendenze generali che, vigendo, sempre e comunque, il principio del "De gustibus non disputandum est" determinano, di fatto, differenze tra le pizze del nord e del sud. In molte aree del Sud, per esempio, per l’impasto viene utilizzata una percentuale maggiore di farina e la pallina dalla quale si ricava il disco è di 250-280 grammi.
Il meridione è, anche, un grande consumatore di impasti di grano duro, utilizzato sia per la realizzazione di pasta fresca o secca che per la panificazione. La cottura avviene rigorosamente in forno a legna a 450°C per due minuti al massimo e si ottiene una pizza di 28-30 centimetri di diametro le cui caratteristiche sono quelle di un bordo alto e morbido. Man mano che si sale, invece, l’aspetto della pizza diventa più sottile e croccante, specie nel bordo. Il requisito principale della pizza napoletana, emblematica espressione del sud, è generalmente la morbidezza, da non confondere con la gommosità. Il cornicione, caratteristico del sud, ha consistenza eterea e molto alveolato. Per verificare se una pizza è partenopea, infatti, uno dei sistemi consiste nel premere il disco. Se è resiliente, ossia se torna alla sua altezza originaria, è fatta a regola d’arte.


Il condimento base della pizza prevede pomodoro fresco san Marzano, condito con olio extravergine di oliva, sale e basilico con l’aggiunta di mozzarella. Nel caso della pizza napoletana la cottura avviene rigorosamente in forno a legna a volta bassa a 450°C per un minuto e mezzo al massimo. Al netto delle oscillazioni derivanti da una serie di fattori, la maggiore o minore qualità degli ingredienti, il costo della manodopera e degli approvvigionamenti, la tassazione locale e così via, è indubbio che al Sud in generale la pizza costi qualcosa meno che al nord. Così come avviene per altri beni di largo consumo come frutta e verdura, ad esempio, anche la pizza non è esente da questi meccanismi. Ci sono posti, nel meridione, in cui una pizza margherita può ancora costare 4,00-4,50 euro, così come la stessa tipologia di pizza può arrivare ad 8 euro dove la vita, appunto, costa più cara. La pizza, in ogni modo, può considerarsi una presenza coerente e per certi versi esemplificativa fra i piatti della dieta mediterranea, oltre ad essere forse il piatto più universalmente conosciuto. Le materie prime ce lo raccontano: il grano con cui viene fatta la farina, il lievito di birra, o sempre più spesso il lievito madre, l’acqua, il sale, l’olio extravergine di oliva, la polpa di pomodoro e la mozzarella sono elementi mediterranei per eccellenza. La pizza, insieme al pane, alla pasta, alla verdura, alla frutta e soprattutto all’olio è uno dei principali simboli della dieta mediterranea. La dieta mediterranea è stata “scoperta” dal biologo e fisiologo americano Ancel Keys, il quale, nel 1945 sbarcando a Salerno si accorse che nei Paesi del bacino mediterraneo erano meno diffuse le patologie cardiovascolari. Quindi ipotizzò che un’alimentazione corretta dal punto di vista nutrizionale, che poi chiamò dieta mediterranea, poteva ridurre i rischi delle malattie cardiovascolari e di conseguenza aumentare la longevità. In seguito furono fatti diversi studi, anche da parte di Keys stesso, che confermarono l’incidenza delle malattie vascolari in maniera minore nei Paesi dove ci si alimentava con la dieta mediterranea, studiando paesi, in modo casuale tipo Stati Uniti, Italia, Finlandia, Grecia, Jugoslavia, Paesi Bassi e Giappone. I risultati confermarono l’importanza di alimenti quali frutta, verdura, cereali, legumi e pesce e la limitazione del consumo di carni, latticini e grassi saturi. E la pizza è proprio un alimento che consente di assumere un po’ tutte le sostanze che sono necessarie al nostro organismo, provenienti dalla nostra terra, genuine e che fanno bene alla nostra salute, contrastando l’invecchiamento. Il punto focale della questione, però, non sta nel seguire a tutti i costi la dieta mediterranea oppure un’altra dieta, ricca di proteine o altro, ma sta proprio nell’equilibrio con cui si affrontano le situazioni, avendo un’alimentazione che contenga un po’ di tutto, con equilibrio e moderazione. La pizza, pilastro della dieta Mediterranea, ha raggiunto una eccellenza e una qualità tutte nuove: è fragrante, saporita, gustosa e digeribile come non lo è mai stata prima. Tutto ciò concorre anche a formare un alto profilo nutrizionale della pizza e, dunque, alla prevenzione alimentare. Per gli Italiani mangiare è un atto di condivisione e convivialità che deve soddisfare tutti i palati, anche quelli più sfiziosi. Ed è proprio la convivialità un elemento che si trova, guarda caso, alla base della piramide mediterranea. Per questo i gusti della pizza variano in base alle scelte della popolazione locale che, a poco a poco, riesce ad incastonare un determinato sapore nella storia di un territorio, portandone a tavola il sapore ma anche la cultura.

Pomodori secchi, semi secchi e sott'olio: il sole tutto l’anno
di Caterina Vianello
Simbolo della cucina mediterra-
nea, oro rosso del Meridione, i pomodori secchi sono l’esempio di come un prodotto nato per necessità abbia finito per acquistare un ruolo fondamentale all’interno di un sistema gastronomico, diventando un vero e proprio emblema di gusto.

Esattamente come altre eccellenze italiane – i salumi ma anche gli stessi formaggi – i pomodori secchi nascono con l’obiettivo di poter avere a disposizione un cibo anche fuori dalla sua stagione di produzione, allungandone di fatto la vita e la durata e potendone così disporre nelle stagioni invernali. Se ovviamente tipologia e caratteristiche organolettiche delle varietà restano fondamentali nella preparazione, è pur vero che esse rappresentano l’unica variabile: gli elementi costanti nella realizzazione dei pomodori secchi sono infatti il sole ed il sale, che acquistano il ruolo di veri e propri ingredienti senza i quali la ricetta sarebbe irrealizzabile. Grazie infatti alla capacità di questi due elementi combinati tra loro di eliminare gran parte dell’acqua contenuta nei pomodori appena raccolti, rendendoli così più resistenti a muffe e batteri che ne causano il deterioramento, si consente di estendere la durata dei frutti rossi, concentrandone di fatto il sapore ed esaltandone il gusto.
Nonostante le tradizioni locali riportino piccole differenze nella preparazione, il procedimento comune è quello che prevede l’essicazione al sole dopo la raccolta, effettuata nel periodo estivo. I pomodori, preferibilmente San Marzano, più polposi e carnosi e dalla buccia più spessa, o i ciliegini, vengono tagliati in due nel senso della lunghezza, cosparsi con un po’ di sale, disposti su una gratella e lasciati asciugare per qualche giorno al sole, all’aperto. La durata dell’esposizione varia a seconda del clima: nelle giornate soleggiate del Sud Italia si va dai 4-5 giorni agli 8 giorni. Di notte vengono sistemati in un luogo asciutto, all’interno, e coperti con dei teli, per evitare che l’umidità notturna rallenti il processo o li danneggi. Una volta verificato che abbiano perso gran parte dell’acqua naturalmente contenuta (circa l’80%, 90%) – quando cioè si sono assottigliati e arricciati ai bordi – si procede alla conservazione vera e propria, che può essere fatta in diversi modi. Quello più semplice prevede di riporre i pomodori in barattoli di vetro, meglio se a chiusura ermetica. Una possibilità più ghiotta è quella di conservarli sott’olio. In questo caso, devono essere risciacquati e sbollentati in una soluzione di acqua e aceto per sterilizzarli e lasciati asciugare per altri due giorni al sole e all’aria. Vengono quindi sistemati a strati, in vasetti di vetro coperti con olio extravergine di oliva e con l’aggiunta di erbe aromatiche (menta, origano, timo, basilico), aglio, capperi o spezie principalmente (peperoncino). Dopo una conservazione di almeno due settimane al fresco, sono pronti per il consumo. Oltre alla preparazione dei pomodori secchi – che ovviamente accanto alla preparazione domestica, dove le condizioni lo consentono, sono oggetto anche di una lavorazione industriale, dove l’essiccazione è condotta in modo controllato, in forno o essiccatore – c’è anche quella dei semi-secchi. La differenza riguarda non solo la tecnologia produttiva e di essiccazione, tradizionale per i primi, più moderna nel secondo caso, ma anche il livello di essiccazione. Se infatti nei tradizionali pomodori secchi si assiste alla perdita quasi totale dell’acqua, nel caso dei "semi dried" i pomodori conservano una parte dell’acqua e sono più morbidi. La variabile in questo caso è il tempo, essendo lasciati essiccare per un periodo più ridotto. Se, come detto, la durata nel tempo è garantita, lo stesso può dirsi circa il mantenimento delle proprietà: l’essicazione non comporta la perdite di vitamine e sali minerali. L’usanza di seccare i pomodori attraversa trasversalmente tutte le regioni del Sud: ci sono tuttavia delle differenze locali che vale la pena scoprire. Ecco quindi un breve viaggio gastronomico tra le tradizioni del Meridione.


In Campania
La Regione dei San Marzano, i pomodori più vocati ad essere essiccati, non poteva non celebrarli e rendere loro il giusto riconoscimento e attraverso l’iscrizione dei pomodori secchi nell’elenco dei PAT, Prodotti Agroalimentare Tradizionali riconosciuti dal Ministero delle Politiche Agricole. Condivisa con le altre regioni è la preparazione, che assume i contorni di un vero e proprio rito. Tra agosto e settembre i pomodori più sodi e maturi vengono lavati, asciugati e tagliati a metà o un quattro ricoperti di sale grosso e stesi al sole. Girati di tanto in tanto e coperti da un leggero telo per proteggerli dagli insetti e dall’umidità notturna, una volta essiccati completamente, vengono sistemati in vasi di terracotta e conservati in un luogo fresco della casa, oppure sott’olio nei barattoli.
In Puglia
Qui la tradizione vuole che i pomodori, lavati accuratamente sotto acqua corrente, siano asciugati con un canovaccio e tagliati in due nel senso della loro altezza. Stesi sulla ’zcafich (un telaio in legno), vengono cosparsi di sale, grosso o fino, con un dosaggio rigorosamente a occhio. Vengono lasciati seccare per 5 o 6 giorni, girati dopo il terzo e portati al chiuso durante le ore notturne. Una volta persa l’acqua vanno risciacquati e sbollentati per qualche istante in una soluzione composta da acqua ed aceto, per sterilizzarli. Asciugati, si conservano nei “boccacci” in vetro, versando l’olio extra vergine di oliva fino a metà del recipiente ed inserendo uno alla volta i pomodori, cercando di compattarli il più possibile. A seconda dei gusti, si possono aggiungere aglio, menta, origano selvatico, capperi, basilico, peperoncino piccante. Si procede quindi al riempimento fino all’orlo e alla rapida bollitura del vasetto per ottenere il sottovuoto. Si mangiano accompagnati alla frisa imbevuta in poca acqua per farla ammorbidire, condita con un filo d’olio, qualche cappero, tonno ed origano.
In Sicilia
È il capuliato o capuliata a rubare la scena. Si tratta di un condimento tipico della cucina siciliana a base di pomodori secchi, legato in particolare al territorio del comune di Vittoria, tradizionalmente legato alla maggior produzione di pomodori. La lavorazione prevede che essi vengano lavati, tagliati, salati ed essiccati al sole per 8 giorni, girandoli al quinto. Successivamente vengono macinati, solitamente con un tritacarne e generalmente posti sott’olio, in una marinatura che prevede basilico o origano, cui possono essere aggiunti anche aglio, peperoncino o foglie di alloro. Il capuliato viene utilizzato principalmente per condire pasta – cui si aggiunge aglio, olio e anche molliche di pane fritte, pangrattato, formaggio grattugiato - pane o bruschette, ma anche per insaporire le focacce ripiene tipiche del ragusano, le scacce. La parola “capuliato” significa “triturato” e si riferisce appunto al tipo di lavorazione che prevede una macinatura. Lo stesso termine si usa anche per la “carne capuliata”, cioè il macinato di carne. Già nel latino volgare esisteva la voce “capulare”, con il significato di “fare a pezzettini”: dal latino, poi, si è evoluta nell’aragonese, con il verbo “capolar”, che è rimasto uguale in catalano e in spagnolo castigliano. Il tipo di pomodoro più goloso per questa preparazione è il Ciliegino Pachino IGP e se volete imparare anche un altro termine in dialetto, segnatevi che il pomodoro secco si chiama "ciappa".

MOLINI LARIO SPA Via dei Platani, 609 22040 Alzate Brianza (Co) Italy

Per saperne di più sulla linea GRANPIZZA inquadra il QR code.

Molini Lario al servizio della pizza napoletana
Si caratterizza per la sua forma tondeggiante e irregolare, il suo cornicione soffice e leggero, alto ed alveolato, il suo profumo che sprigiona un gradevole aroma di pasta lievitata, un gusto irresistibile. Naturalmente stiamo parlando della regina della tavola: la pizza napoletana. Una pizza apprezzata in ogni dove se preparata a regola d’arte. Molini Lario, esigente nella selezione dei grani migliori e leader indiscussa nella produzione di farine professionali, con la linea GRANPIZZA vanta una gamma completa di farine per la preparazione della vera pizza napoletana ma anche per altri tipi di pizze, a seconda delle necessità del Maestro Pizzaiolo. La farina 00 Lario (W250), ad esempio, è ideale per impasti diretti ed una lievitazione media con tempi di maturazione tra le 24 e le 48 ore a temperatura controllata a 4-6 gradi. Perfetta per impasti in giornata con tempi di maturazione che vanno dalle 8 alle 10 ore. In alternativa, per un’ottima pizza, si può scegliere la farina Equilibrata (W300), ideale per impasti diretti con tempi di maturazione di 36/60 ore a temperatura controllata 4-6 gradi, ma anche per preimpasti e bighe; queste ultime possono andare dalle 10 alle 12 ore a 16/18 gradi. È disponibile anche la farina 00 Superiore (W330), per tempi di maturazione che raggiungono persino le 72 ore a temperatura controllata a 4-6 gradi; adatta a pre-impasti e bighe: queste ultime possono andare dalle 14 alle 16 ore ad una temperatura controllata a 16/18 gradi. Anche con la Tipo 1 Arancio (W290) si ottengono risultati soddisfacenti. Si tratta di una farina che è stata appositamente pensata per le lunghe lievitazioni e per gli impasti diretti ed i pre-impasti che prevedono tempi di maturazione che arrivano fino a 60 ore a temperatura controllata. Indicata per bighe dalle 10 alle 12 ore a temperatura controllata a 16/18 gradi.
A completamento della linea sono stati prodotti due lieviti: Hylario per Pizzeria, lievito madre disidratato, per dare alle preparazioni una maggior estensibilità, profumo e sapore. Dose d’impiego: a partire dall’1% per la pizza napoletana. Hylario - lievito secco, un prodotto tecnologico da utilizzare in dosi dimezzate rispetto al fresco e con una shelf-life molto lunga. Per terminare, la granulina, farina di estrazione per spolvero: ottima perché non brucia in cottura e fondamentale per il Maestro Pizzaiolo.
In Calabria
Qui i pomodori essiccati vengono immersi in un mix di acqua e aceto di vino, assieme ad aglio e peperoncino. Una volta asciugati, sono riposti all’interno di un contenitore di vetro con l’aggiunta di un po’ di olio. Vengono quindi ricoperti con uno strato di origano e aglio e un altro strato di capperi e basilico, infine viene aggiunto un altro po’ d’olio, fino ad occupare tutti gli spazi liberi. Sono pronti dopo un riposo di 2 o 3 mesi lontano dalla luce.



In Sardegna
I pomodori secchi si chiamano pibadra o pilarda o piarra, a seconda della zona. Una volta secchi, vengono adagiati in barattoli di vetro con foglie di basilico e/o alloro alternate e un po’ di sale grosso fra uno strato e l’altro. Niente olio quindi, a differenza delle ricette del Sud. A Bosa e Alghero, con i pomodori secchi viene preparata una salsa particolare chiamata agliata (azzada in sardo): i pomodori secchi vengono tagliati a pezzetti e soffritti con aglio, olio e prezzemolo tritato. Successivamente vengono aggiunti pomodori pelati, olio e aceto. L’agliata viene utilizzata con il pesce (razza, gattuccio, polpo) precedentemente bollito o fritto, ma anche su carne di agnello o sul fegato di manzo tagliato a striscioline e cotto in tegame. In passato, chi andava per mare la utilizzava per conservare il pesce a bordo delle imbarcazioni.
Oltre alle ricette tradizionali, la versatilità dei pomodori secchi consente loro di attraversare tutto il menu: dall’antipasto al contorno. Su una bruschetta di pane caldo, aggiunti alle insalate di verdure, legumi o cereali, trasformati in sugo, tagliati a pezzetti nell’impasto del pane, in torte salate o sulla pizza, o come accompagnamento a carni bianche, formaggi freschi e pesce azzurro, sono un ingrediente capace di accendere di sapore praticamente qualsiasi ricetta e soprattutto sono capaci di non farci dimenticare il gusto dell’estate.

È UNO DEI MATRIMONI MEGLIO RIUSCITI IN GASTRONOMIA. STIAMO PARLANDO OVVIAMENTE DI PIZZA E DI UNA PARTICOLARE CATEGORIA DI FORMAGGI DEFINITA “A PASTA FILATA”, DOVE SPICCA, PER FAMA E DIFFUSIONE, LA MOZZARELLA.

di Giosuè Rino Silvestro • PROVENIENZA DEL LATTE • AREA DI PRODUZIONE • TECNICA DI LAVORAZIONE • VITA E ALIMENTAZIONE DEI BOVINIGIÀ, LA DEFINIZIONE CORRETTA PER LA MOZZARELLA NON È “LATTICINO”, BENSÌ “FORMAGGIO” IN QUANTO RICAVATA DALL’UTILIZZO DI LATTE NEL SUO INSIEME E NON SOLO DA UNA SUA PARTE COME AVVIENE, AD ESEMPIO, PER LA RICOTTA CHE SI OTTIENE DAL SIERO DEL LATTE. M zz arella sì… ma q u a le? QUALITÀ DEL LA T TE Mozz o arella ma q ua le? 84 pizza e pasta italiana settembre 2022 Ma impariamo a conoscere un po’ meglio questo formaggio straordinario. Esistono vari tipi di mozzarelle che si differenziano per la provenienza del latte (vaccino o di bufala), per l’area di produzione che è principalmente localizzata, per motivi storici, al meridione d’Italia; per la tecnica di lavorazione che può dar vita ad un prodotto con maggiore o minore umidità, sapidità, eventualmente affumicato e, non da ultimo, per le condizioni di vita e qualità di alimentazione che spettano ai bovini da cui otteniamo il latte. È evidente che da un latte di miglior qualità si possa ottenere una mozzarella migliore.

STORIA E P NE R ODUZIO



Partiamo da un breve cenno sulla storia della mozzarella per dire che le prime testimonianze scritte risalgono al 1400; a quei tempi veniva definita “mozza” da cui deriva il nome attuale e che indicava il prodotto dell’azione di mozzatura, la quale può essere meccanica o manuale, che viene compiuta per separare ogni singola mozzarella dalla massa fusa di pasta filata. Si ipotizza però che la mozzarella abbia natali che risalgono all’introduzione della I formaggi a pasta filata, a cui 1400 Segue il raffreddamento in ac bufala. Essa trovò un ambiente di vita ideale nelle zone acquitrinose del Volturno e del Sele ed alcuni fanno risalire la sua introduzione intorno al IV secolo. CAGLIATA FILATURA appartengono anche i caciocavalli qua delle forme così ottenute e, ed i provoloni, si ottengono in maniera simile agli altri, ovvero per alcune tipologie, la salatura tramite salamoia. La mozzarella PEZZATURE con l’estrazione della parte solida è un prodotto da consumare contenuta nel latte fino ad otte- fresco entro 2/3gg dalla produnere una “cagliata” che, dopo una zione per poter godere della sua opportuna maturazione, viene massima espressione in consisottoposta al processo che ne de- stenza e gusto. termina la classificazione: la “filatura”. La cagliata, ridotta in piccoli pezzi, viene messa a contatto con acqua a temperatura di quasi ebollizione e viene lavorata fin quando non diventa una massa plastica e lucida dalla quale si ottengono le diverse “pezzature”.

MOZZA-
RELLAMa veniamo al suo utilizzo sulla pizza; l’uso della pasta filata sulla pizza non coincide con la nascita di quest’ultima che vede, almeno in Campania, l’utilizzo iniziale di farciture a base di strutto, minutaglia di pesci e successivamente pomodori. La mozzarella fa capolino, fra gli ingredienti della pizza, nei primi decenni del ANCORA UNA COSA: IL TERMINE MOZZARELLA, XIX secolo, prima che la fortunata storia della pizza Margherita ne decretasse il successo. Da allora MENTRE PRECEDEN- è praticamente impossibile TEMENTE INDICAVA UN FORMAGGIO CON PROVEtrovare il menù di una pizzeria che non comprenda dei formaggi a pasta filata. In effetti la NIENZA DA SOLO LATTE loro grande versatilità consente DI BUFALA, LASCIANDO di confezionare le più svariate LA DENOMINAZIONE “FIOR DI LATTE” AD INDIpizze in abbinamento agli altri ingredienti. Sceglieremo quindi un fior di latte, magari di Agerola, CARE QUELLO DA LATTE sfruttandone la consistenza, la VACCINO, PER LE LEGGI IN VIGORE AL MOMENTO bassa umidità ed il sapore molto delicato per accostarlo ad ingredienti che abbiano un gusto non SI PUÒ USARE PER EN- molto deciso e che vogliamo far TRAMBE LE TIPOLOGIE, SALVO SPECIFICARE “DI risaltare tipo ad esempio verdure, ortaggi, pomodori, o anche per attutire il gusto troppo invadente LATTE DI BUFALA”. dei salumi.

FIOR DI LATTE

ZARELLA & OZ M PIZZA




MOZZA-
RELLALa mozzarella di bufala ha una maggior percentuale di grasso, una maggiore umidità ed una maggior resistenza alla temperatura prima di iniziare a filare. È importante quindi seguire una serie di accortezze; bisogna tagliarla con adeguato anticipo, affinché abbia il tempo di sgrondare dall’eccesso dei liquidi per non ritrovarsi con un laghetto di latticello sul disco della pizza, a pezzi non troppo spessi, per consentire una adeguata cottura e filatura oppure sfruttare queste sue caratteristiche per caratterizzare la pizza, aggiungendola all’uscita e lasciando intatto i suoi meravigliosi gusto e consistenza.
UNA MOZZARELLA DI BUFALA, INVECE, CON IL SUO GUSTO DECISO E CARATTERISTICO, DIVENTA DOMINANTE NELLA FARCITURA E BISOGNA PRESTARE MOLTA PIÙ ATTENZIONE AGLI ACCOSTAMENTI. REALIZZARE UNA PIZZA CON MOZZARELLA DI BUFALA RICHIEDE ANCHE UN MAGGIOR IMPEGNO DA PARTE DEL PIZZAIUOLO PER VIA DELLE SUE CARATTERISTICHE.
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DI BUFALA



T S RACCIATEL L A
Con lo stesso criterio possiamo scegliere di impreziosire una pizza aggiungendo, sempre all’uscita ed a temperatura ambiente, un altro formaggio a pasta filata di provenienza pugliese, che è fatto con sfilacci di mozzarella vaccina in aggiunta a panna: la “stracciatella”. Non sarà una scelta tradizionale, ma, se di buona qualità, è un potente booster di gusto.
Giovanni Spera, il mondo in un boccone
Giovanni Spera, pizzaiolo classe 1993, è un giovane professionista lucano dalle idee chiare e dalla grande passione. Lo conosciamo più da vicino all’interno del nostro viaggio tra le pizze del Sud.
accanto Diavola Ruoto Alto di David Mandolin

Giovanni ci racconti il tuo percorso professionale?
“Inizio le prime stagioni estive nella pizzeria di famiglia tra il 2010 e il 2013, dove imparo le basi del lavoro e gli impasti di pizza nel ruoto, oltre alla rosticceria. Il mio vero percorso professionale comincia però nel 2015 alla Food genius Academy di Milano dove frequento il corso di alta formazione in arte bianca e pasticceria. Tramite gli insegnanti, entro in tirocinio al forno di Davide Longoni a Monza, dove imparo la panificazione con pasta madre e grani antichi da Davide stesso e Adriano del Mastro, altro maestro panificatore. Mi sposto qualche mese dopo alla catena di Pizzerie Briscola, dove inizio come fornaio, prima di “passare” a pizzaiolo (pizza napoletana) per la seconda apertura a Firenze, dove mi trasferisco a fine 2015. A metà del 2016, faccio una breve esperienza a Brighton presso “Franco Manca”, un’altra catena di pizzerie dove perfeziono tecnica di stesura e utilizzo del forno a legna per pizza napoletana. Ad agosto 2016, una volta rientrato a Potenza,
sopra Pizza al baccalà

in foto Giovanni Spera
acquisisco il 50% dell’attività di famiglia e nasce “Casarsa -Pizzeria Lucana”. Nel 2018 vado però di nuovo all’estero, a Parigi, presso la pizzeria Bijou di Gennaro Nasti, dove mi occupo di impasti per pizza contemporanea e farciture gastronomiche. Nel 2020 ho iniziato ad occuparmi di corsi di pizza nel ruoto, pizza napoletana, teglia romana e pizza fritta per amatori e panificatori casalinghi. Fino ad ora abbiamo attivato 19 corsi con 160 partecipanti totali più una video ricetta in Lingua Italiana dei Segni LIS e delle giornate di avvicinamento alla pizza presso l’A.I.A.S. che si occupa di handicap e disabilità. Attualmente, oltre a gestire Casarsa, sono iscritto al terzo anno della facoltà di Gastronomia, Ospitalità e Territori dell’Universitas Mercatorum. Tra i miei studi personali, trovano spazio il mondo della birra artigianale, comunicazione e marketing per la gastronomia e principi di biotecnologie e biochimica applicata ai prodotti da forno oltre all’inglese ed al Francese che parlo fluentemente (ho un diploma di francese professionale per turismo ed Hotellerie)”.
Ci descrivi la tua pizzeria e per chi è pensata?
“Casarsa - pizzeria Lucana“ è una pizzeria semplice nel concetto, nell’ambiente e nel servizio. Il nome Casarsa è anche il soprannome popolare della famiglia “Spera” di Potenza, che denota già il carattere “familiare” ed informale del locale. Il nostro target di riferimento è il cliente, amico e conoscente, che cerca un posto dove mangiare una pizza in modo popolare, con servizio amichevole e relativamente confidenziale. Banalmente, potrei dire che il cliente deve sentirsi come a casa sua o a casa nostra, dove può identificare per nome chi lo ospita e gli prepara “da mangiare”. Chiaramente tutto ciò senza scendere a compromessi con la qualità del prodotto pizza, la professionalità del servizio e la pulizia ed organizzazione dell’ambiente. Il menù è semplice e sintetico con proposte che spaziano dalla tradizionale pizza italiana a farciture incentrate su concetti e ricette del territorio, senza però eccedere nelle preparazioni gastronomiche. Siamo legati ad un concetto di “pizza per tutti”, di cui convivialità e accessibilità sono le fondamenta. Cliente, territorio, tradizione e ricerca personale della cucina hanno tutti la stessa importanza.”
Che cos'è per te la pizza del sud? Come la interpreti? Qual è la strada che hai trovato e perché questa scelta?
“Per me la pizza del Sud, nelle sue dozzine di stili, rimane sempre un atto di amicizia, divertimento e recupero personale della “tradizione”. Inutile dire che ciascuno di noi ha in famiglia un parente che panificava in un certo modo ma più che interpretarne le tecniche, personalmente ho preferito conservarne l’idea di
semplicità e genuinità degli ingredienti. La tradizione spesso può essere un limite, soprattutto tecnico e in particolare riguardo la manipolazione e gestione di impasti ed ingredienti. Scientificamente, tantissimi metodi tradizionali sono stati confutati e sostituiti da metodi più attenti alla valorizzazione delle materie prime a livello sia nutrizionale che organolettico. Ignorare questo e “fare una cosa perché si è sempre fatto cosi” è controproducente per il lavoro e per l’azienda, ambiente dinamico per definizione e in continuo cambiamento. Io nello specifico ho scelto di lavorare su due prodotti:
La pizza nel Ruoto Potentina, anche detta “Ruccolo”, una focaccia dallo spessore medio, figlia del recupero della pasta avanzata nei panifici, di cui preservo e cerco di valorizzare la nostra versione di famiglia. Una pizza soffice e croccante alla base e alla crosta, dallo spiccato sapore rustico e dal caratteristico odore di pane, unta ma non troppo e cotta dolcemente. L’impasto che nasce da un mix di farine di grano tenero e grano duro viene fermentato da lievito di birra misto a pasta di riporto (“crescente” si chiamerebbe in Basilicata) e segue una lievitazione/ maturazione di 8 ore a temperatura ambiente, di cui 6 ore steso a lievitare direttamente nel suo ruoto. Del procedimento tradizionale ho modificato solo la scelta e la percentuale del blend di farine (privilegiando farine con forza medio-bassa) e ho codificato il mio metodo di gestione delle temperature (fondamentali con paste acide), cercando di stabilizzare e standardizzare il risultato. Ho anche cambiato e modificato i tempi di cottura ed utilizzo degli ingredienti base, cercando di adattarli alla lavorazione e valorizzarne il più possibile colore, sapore e consistenza in relazione alla cottura lenta dei ruoti.
sopra Sala nuova
accanto Giovanni Spera

2)
La mia pizza tonda Italiana: Impasto con mix di farine di grano tenero “Tipo 0” ed integrale, lievitato e maturato dalle 24 alle 36 ore, tra temperatura ambiente e cella frigorifero. È una pizza che strizza l’occhio alla tradizione partenopea nell’idratazione e nella stesura ma è caratterizzata da una cottura “media” a 360°C e dall’utilizzo di olio d’oliva per migliorarne la fragranza e la consistenza generale. Anche in questo caso sono partito da una ricetta base e l’ho modificata fino a raggiungere la mia idea di prodotto finito.”

A tuo avviso chi è il cliente della tua pizzeria, che sceglie la tua pizza? È un cliente che ricerca una tradizione reinterpretata, uno che preferisce allontanarvisi o quale altro profilo?
“I nostri clienti fondamentalmente sono legati alla tradizione almeno nella forma e nelle materie prime. I “veterani” ed i più anziani preferiscono la pizza nel ruoto, sia per la consistenza che per i ricordi legati a quel tipo di focaccia ma apprezzano molto anche la pizza tonda con la sua leggerezza e digeribilità estrema, nonostante preferiscano le farciture più semplici e riconoscibili. I più giovani invece sperimentano le nostre ricette “signature”: sono più curiosi e disponibili anche a provare qualcosa che non conoscono. Nonostante i due “target” siano agli opposti, entrambi sono attirati dal carattere familiare e conviviale della pizzeria che mette tutti (o quasi) d’accordo.”
in foto Giovanni Spera Ponte Romano lungo Basento

Come "ci si fa strada" in questo settore? Che competenze non possono mancare? E che tipo di approccio è necessario per rivolgersi al pubblico? Qual è il tuo?
“Il pizzaiolo è una figura sempre più completa e lo dimostra il livello, già altissimo ed in continua crescita. Personalmente credo che la chiave, adesso, sia nella formazione continua e nell’adottare un approccio più “aziendale” al reparto pizzeria: Covid, crisi delle materie prime e crisi delle maestranze ci hanno messo in una situazione fortemente instabile e dinamica e non basta più sapere fare una pizza ottima per “farsi strada”. Dobbiamo studiare e applicarci quali “manager della ristorazione” e rendere il reparto una micro-azienda: il pizzaiolo contemporaneo deve conoscere, calcolare, prevedere e rispettare il food-cost della propria attività, deve essere in grado di stabilire il corretto prezzo dei suoi prodotti in relazione al posto in cui opera, al target e al brand Il pizzaiolo è tra i mestieri manuali più richiesti nel mondo (ed anche tra i più remunerati) e dà la chance di poter viaggiare e la sicurezza di avere sempre e comunque un lavoro. L’adrenalina del servizio poi, è gratis!
che rappresenta e deve essere in grado di strutturare un menù “smart” che possa valorizzare le proprie eccellenze, limitare gli scarti e migliorare i margini di guadagno effettivi. Snellire le “operazioni” di lavoro può rendere l’ambiente più accessibile e intuitivo a chi si approccia da poco a questo mestiere e migliorare l’organizzazione e la qualità del lavoro di tutta la brigata. Migliorare il “ritorno” sulle pizze invece, consentirebbe di valorizzare l’aspetto economico e contrattuale dei lavoratori e anche di chi fa impresa. Le due cose insieme, potrebbero essere il modo per riavvicinare le maestranze al mondo della ristorazione e provare a rendere meno precario e frammentato il settore HO.RE.CA. Ciascuno chiaramente ha il suo modo di rivolgersi al pubblico ed al mercato; io ho trovato il mio nella comunicazione incessante del mio mestiere con le sue gioie e i suoi sacrifici. La mia mission è comunicare positivamente ed in modo divertente ed ironico (anche sarcastico a volte) il nostro piccolo-grande mondo pizza nel suo “quotidiano” e mostrare al pubblico ed alle nuove generazioni che sognano la pizzeria, che il mestiere che facciamo è affascinante e soddisfacente ed anche tra i più meritocratici che sono rimasti in Italia: se sei bravo è (quasi) oggettivo e le possibilità di migliorare, fare carriera o fare impresa bussano alla porta dei pizzaioli tutti i giorni.

Ecco infine le tre pizze che rappresentano maggiormente Giovanni:
1) La Diabolika: Pomodoro, fior di latte lucano, salsiccia di Picerno, Borzillo di Cinghiale e stracciatella lucana

Diabolika Bucaletto

2) In campagna a Bucaletto: Pomodoro, fior di latte lucano, salsiccia di Picerno, Caciocavallo lucano e peperoni cruschi.
“Una pizza legatissima a Potenza ed al territorio. Bucaletto è un quartiere della periferia, oltre il quale ci sono diverse campagne di amici e conoscenti dove spesso ci si ritrova. Le serate sono a base di salsiccia di Picerno, caciocavalli impiccati e peperoni cruschi come patatine. Un’esplosione di tradizione e convivialità.
3)Torii Potenza Express: Fior di latte, filetti di tonno, peperoni, cipolla rossa, salsa teriyaki, mandorle e buccia di limone

Torii Potenza Express






“Mi definisco un artista dell’arte bianca. Artista, perché i pizzaioli creano. Artista, perché per me ogni pizza deve essere unica, riconoscibile, lo specchio della mia anima. Credo di essere una persona che, nel proprio lavoro, dopo 21 anni di esperienza (visto che ho iniziato all’età di 9 anni) qualcosa ha imparato: è una delle poche certezze della mia vita"
Ciccio Vitiello Cambia-Menti
di Antonio Puzzi
Ciccio Vitiello è casertano e ha trent’anni. Non arrivava al banco delle pizze quando ha iniziato a “rubare il mestiere con gli occhi”, inizialmente nel periodo di vacanze dalla scuola, poi come apprendista e aiuto pizzaiolo, fino ai fasti che dal secondo decennio di questo secolo ha iniziato a collezionare. La sua storia personale meriterebbe di entrare in un libro e, per chi non la conosce, è difficile dare il giusto tono a certe sue parole come quelle che leggerete: non importa. Il segreto sta tutto nell’ultima risposta a questa intervista… ma arrivateci pian piano.

sopra Pizza al baccalà

Dopo il successo di Casa Vitiello a Tuoro, hai deciso di cambiare sede e nome. Sparisce il tuo cognome nell’insegna e diventa Cambia-Menti. Quanto sei cambiato tu e come è cambiato il tuo modo di proporre pizza in questi anni?
Sono cambiato molto da quando ho iniziato a viaggiare molto. Era l’inizio del 2019. Mi muovevo in auto e, quando si poteva, anche durante la pandemia l’ho fatto. Sono cambiato perché sono andato alla scoperta di me stesso: se non conosciamo noi stessi, come facciamo a fare un lavoro che rispecchi ciò che siamo? Noi portiamo in tavola un piatto che vogliamo sia nel modo in cui lo abbiamo immaginato, giusto? E per farlo dobbiamo imparare a conoscerci. Viaggiando, ho capito che non ci sono confini: la territorialità è importante ma non può diventare un limite per fare un piatto di qualità. Ad esempio, ora sto usando il Gran Moravia, prodotto in Moravia da un’azienda ecosostenibile. Sostenibilità non deve diventare una parola di marketing. Io mi affido a chi fa realmente ecosostenibilità, non marchette ecosostenibili, perché l’unica nostra casa è il Pianeta Terra. Quando sono stato

in Norvegia o in Finlandia, ho visto in quelle persone il rispetto della natura, del pianeta: a Bergen, nei fiordi norvegesi, oggi piove incessantemente e nevica poco, vent’anni fa nevicava molto di più. Loro hanno subito sulla propria pelle questo cambiamento e io ho capito che voglio essere quell’animale che lancia una goccia d’acqua sull’incendio della foresta, pur sapendo di non risolvere nulla ma fiero di fare la mia parte. In pizzeria, per esempio, ho deciso che lo scarto dei cornicioni sarà dato ad aziende che allevano maiali, come si faceva in passato e ho scelto di usare il forno elettrico, a emissioni zero.

sopra Bufalina: mozzarella di bufala Marchigiana e pomodoro.
sopra Recensione Negativa, pizza dell'anno per la guida 50 Top Pizza
qui acccanto Ciccio Vitiello
Che stile di pizza fai? Come lo racconteresti?
Lo stile di pizza che faccio è “mio”, contemporaneo e minimal. Semplicità, nulla di esasperato: 3 o 4 ingredienti, lavorati solo per il minimo indispensabile. La mia nuova proposta si basa su tre elementi: consistenze, forme e cottura. Da me mangi 5 portate con 5 forme, 5 consistenze e 5 cotture diverse: il padellino al burro, la pizza in teglia, la pizza classica, la fritta e al forno, il dolce. Cambia-Menti è dunque un cambiamento radicale nel modo di mangiare la pizza. Il mio locale è una sorta di “ristorante della pizza”: ho sempre considerato il disco di pasta un piatto commestibile e, così come non tutti i piatti vanno bene per tutte le pietanze, lo stesso vale per la pizza. Dieci anni fa, con la carta degli impasti, ho provato ad abbinare impasti a ingredienti, ora faccio lo stesso non solo con gli impasti ma con le diverse tecniche.

Che cos’è "Recensione negativa"? Chi è il cliente della tua pizzeria?

È un cliente alto-spendente, spesso un professionista, che vuole mangiare bene e si affida a me. Non si fa il problema se una pizza costa 20 euro e una bottiglia di birra ne costa 55. Se lo può permettere? Forse sa solo scegliere: preferisce mangiare fuori una volta al mese anziché una volta a settimana ma vuole farlo bene. E sceglie me perché cerca qualcosa di nuovo, come è avvenuto nel caso di Recensione Negativa.
È una pizza che è tornata a far parlare di pizza come qualche anno fa. Da noi, il boom della comunicazione sulle pizzerie c’è stato 5 anni fa, ora lo stesso fenomeno si sta verificando in Spagna mentre qui c’è bisogno di materiale nuovo per riaccendere i riflettori. Ed è quel materiale che chiedo anche ai miei colleghi di “sfornare”. Il coraggio non è investire soldi ma è nell’avere idee in grado di “rivoluzionare il mondo”, come quelle che ti vengono alle 4 del mattino quando sei da solo con i tuoi demoni, in casa, magari accarezzando il tuo cane o il tuo gatto. In una notte come queste, forse più creativa delle altre, è nata “recensione negativa”. Ho pensato che ogni giorno, quando si apre un’attività, ci sono delle responsabilità e dei problemi da affrontare e, nel mondo di oggi, cadere purtroppo è molto facile. Perché allora un cliente lascia una recensione negativa? Immaginate questa situazione: vi arriva una pizza in tavola, ne tagliate uno spicchio e, mentre lo state prendendo tra le mani, vi accorgete che la pizza è bruciata. Allora, chiamate il cameriere che, mortificato, prende la pizza, si scusa, ricordando magari che al forno e al banco ci sono artigiani, persone, non robot e ne porta un’altra. Eppure, quel cliente lascia ugualmente una recensione negativa: perché? Lo sa che quella recensione potrebbe per qualche ristorante significare anche un cambio di rotta? Così, ho deciso di portarla direttamente io in tavola una recensione negativa: una pizza che arriva in tavola con uno spicchio già tagliato e una simulazione di bruciatura fatta con polvere di olive nere. Sulla pizza c’è la mozzarella di bufala che, col suo latticello, contribuisce all’attaccamento di questa polvere e, solo sul pezzo che arriva già piegato, viene passata anche una crema con olio evo e polvere di olive nere. Sulla pizza mettiamo inoltre un pomodoro di Corbara in acqua e sale, pepe di Sichuan e olio extravergine aromatizzato al limone: si forma così una cremina che si può andare a intingere col cornicione. Recensione negativa è dunque una pizza divertente; non a caso, è la più fotografata, la più richiesta: è Ciccio Vitiello.