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Prima parte Dinamica trinitaria
I. Santissima Trinità, orizzonte della famiglia umana
Tracce della Santissima Trinità nel Primo Testamento
Per affrontare il tema della comunione e della possibilità di sviluppare relazioni di amore all’interno del contesto umano e in particolare nella Chiesa, diviene essenziale mettere a fuoco il movimento intrinseco alla Santissima Trinità. Il senso profondo della dinamica trinitaria può essere acquisito solo attraverso una via esperienziale, sapienziale, partecipandolo, lasciandoci intimamente prendere dalla corrente di amore che ci ha generati, alla quale intimamente apparteniamo, ma della quale difficilmente abbiamo coscienza. Possiamo imparare a percepire il senso profondo della dinamica trinitaria come movimento intrinseco alla nostra stessa vita solo in quanto consideriamo la realtà naturale come riflesso della realtà soprannaturale che la trascende. È importante innanzitutto acquisire la visione di Dio come movimento d’amore. La Santissima Trinità abbraccia la creazione, quindi la storia, le nostre vite personali, è strettamente connessa alla concezione del Dio creatore. L’uni- verso scaturisce da un unico principio che crea emanando amore, è quindi intrinsecamente attraversato dall’amore. Le creature vivono di questo amore, è loro immanente. Ci sono immerse come pesci nell’acqua, ma in maniera inconsapevole. L’essere umano, chiamato alla consapevolezza, comincia a percepire l’ordine a cui appartiene come trascendente, non riesce a percepirlo come connaturato. Ha bisogno di un lungo cammino che lo conduca verso la pienezza. Compimento che si realizza in Gesù.
Nel Primo Testamento possiamo già individuare in filigrana tracce della Santissima Trinità. L’affermarsi del monoteismo, quindi della visione del Dio creatore, esprime uno stato in cui la coscienza acquisisce l’idea di un cosmo ordinato, governato da un unico principio. Ogni creatura deriva dall’unica sorgente di vita. Il processo d’individuazione che però contraddistingue l’essere umano, lo conduce a percepirsi come parte di un tutto ordinato. L’io non è fine a se stesso, ma strumento necessario al processo di evoluzione spirituale. Nel racconto della creazione che apre la Genesi possiamo già intravedere in controluce una rappresentazione della dinamica trinitaria.
«In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1) afferma la realtà di un principio, di una sorgente, da cui la creazione scaturisce. Non allude a un inizio temporale. Possiamo invece vederci un’allusione al Padre.
«Lo Spirito di Dio volteggiava sulle acque» (Gen 1,2) dà raffigurazione all’irradiazione luminosa che emana dalla sorgente per attualizzarsi nella creazione, al vortice della sostanza creatrice da cui tutto prende forma. È lo Spirito di Dio, lo Spirito Santo.
«Dio disse» (Gen 1,3ss.) attesta che la Parola, il Verbo, è il mezzo attraverso cui l’insondabile mistero si fa conoscere, attraverso cui l’invisibile diviene visibile. La Parola, il Verbo, scaturisce dall’impulso generatore, è il Generato, è il Figlio.
Dall’origine oscura emana lo Spirito come vortice di luce. Dalla Parola, dal Verbo, dal Figlio prende vita la creazione: «Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1,3). Dall’impulso generatore scaturisce ed emana la sostanza, da cui la Parola prende forma e vita. La Parola è il dire/fare che crea.
Nominazione di Dio come Padre
Il mistero della Santissima Trinità richiese una lunga elaborazione teologica che approdò alla formulazione delle tre Persone divine – Padre, Figlio e Spirito Santo – così come le conosciamo e che, naturalmente, trova i suoi presupposti nel Vangelo.
La nominazione di Dio come Padre fatta da Gesù costituisce una grande rivoluzione, in quanto comporta l’acquisizione, per la coscienza, della figliolanza divina, il riconoscimento di un’appartenenza sostanziale della natura umana alla natura divina.
I Giudei cercavano ancor più di ucciderlo: perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio (Gv 5,18).
«Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre: per quale di esse volete lapidarmi? ». Gli risposero i Giudei: «Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia: perché tu che sei uomo ti fai Dio» (Gv 10,31-33).
Se il Dio del Primo Testamento è il Totalmente Altro, innominabile, trascendente, distante, chiamare Dio «Padre» provoca un immenso ribaltamento, richiede di vivere, attraverso la propria umanità, un’esperienza interiore che lo renda sempre più familiare. Richiede di assumere questa straordinaria prospettiva come dimensione ordinaria e allo stesso tempo impone di storicizzarla.
Nelle culture antiche, in particolare nella tradizione ebraica, è centrale il valore della genealogia intesa come corrente ininterrotta attraverso cui, generazione dopo generazione, è trasmessa la vita, è cioè ricevuta e fedelmente consegnata. Per questo la sterilità è vissuta come la più grande sciagura. Le genealogie bibliche sono tutte al maschile, indicano la trasmissione della vita secondo la linea patriarcale, cioè di padre in figlio. Le donne non sono quasi mai ricordate. La nominazione che Gesù fa di Dio come Padre si inserisce all’interno di questo contesto. In se stessa è una vera e propria rivoluzione non solo perché rende familiare il Dio altissimo, ma anche perché mette al centro il fatto che la vita umana è generata da Dio, discende dall’azione generatrice di Dio sempre in atto. In qualche modo va a minare il potere patriarcale. La vita è un immenso mistero che si svela attraverso la nostra vita incarnata più la sperimentiamo e la amiamo, perché è sacra, è naturale e sovrannaturale allo stesso tempo.
Figliolanza divina
Nei Vangeli troviamo spesso l’espressione «Figlio dell’uomo», ben adàm, per indicare l’essere umano1. È importante precisare che il termine «figlio» assume nella lingua ebraica il significato forte di un’appartenenza sostanziale. Per esempio il giusto è figlio della giustizia. «Figlio dell’uomo» sottolinea l’assoluta appartenenza di Gesù alla natura umana, afferma che Gesù è un essere umano a tutti gli effetti. Allo stesso tempo, l’espressione «Figlio di Dio»2 ne sottolinea l’assoluta appartenenza alla natura divina: «Se sei Figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino pane» (Mt 4,3). I Vangeli affermano in maniera categorica che Gesù appartiene contemporaneamente alla natura umana e alla natura divina. La divina umanità di Gesù
1 Cfr. A. Lumini, Spirito Santo. Divina maternità, amore in atto, Paoline, Milano 2019, pp. 104-108 è dunque il compimento di ogni attesa profetica, di ogni pienezza umana. Il Verbo incarnato, una volta rivelatosi, diviene il punto di attrazione di tutta l’umanità. È pertanto necessario mettere bene in evidenza come la nominazione che Gesù fa di se stesso come Figlio di Dio assuma valenza per l’intero genere umano. Tutta la storia, prima e dopo Cristo, tende verso questo compimento, però quella che segue ne accelera i tempi. La liturgia aiuta a mantenere viva la memoria di questo evento, ogni anno ci interpella, ci chiede se il Figlio di Dio è nato nel nostro cuore. Se si risveglia uno sguardo che suscita commozione, compassione, meraviglia, se qualcosa, misteriosamente, si dischiude nel profondo. Come questo avvenga è raramente comprensibile, ma certamente richiede una lunga gestazione che porti a maturazione le giuste condizioni affinché questo miracolo continuamente si realizzi. L’incarnazione ha richiesto millenni per compiersi, ma una volta entrata nel tempo, è divenuta patrimonio depositato nel profondo della natura umana, potenzialità pronta a germinare non appena trovi disponibilità.
2 L’espressione «figlio di Dio», riferita al giusto, la troviamo presente anche nel Primo Testamento. Nel Libro della Sapienza si dice che il giusto «si dichiara figlio del Signore»; «si vanta di avere Dio per padre»; «se il giusto è figlio di Dio, egli l’assisterà» (Sap 2,13.16.18).
Vincoli di sangue
La coscienza della figliolanza divina che Gesù vive e rivela introduce, all’interno delle relazioni umane, una nuova prospettiva che tende a purificare e dilatare i vincoli di sangue. Se ogni essere umano che viene al mondo è figlio di Dio, è degno di essere accolto, di avere un padre e una madre al di là di ogni legame biologico. È noto, per esempio, come sia stata proprio la civiltà cristiana ad aver dato vita ai primi orfanotrofi, ad aver stabilito il principio della salvaguardia della vita e a essersi fatta carico dell’infanzia abbandonata. La vita va amata, rispettata, protetta come mistero sacro che accomuna e rende tutti fratelli e sorelle. Tale prospettiva porta nuova luce sul significato straordinario della Sacra Famiglia, che non può limitarsi a costituire l’icona di un modello troppo elevato e impossibile da imitare, bensì incarna la forza dinamica di un compimento che attrae verso di sé l’intera famiglia umana e agisce nelle relazioni. Forza dinamica di profonda conversione che investe i rapporti più stretti a partire dai vincoli di sangue e crea le condizioni necessarie a far crescere figli e figlie di Dio. Lo Spirito Santo agisce nel piano psichico, permettendo, a coloro che si aprono, di incarnare nella loro vita la volontà divina. Come afferma esplicitamente il Vangelo:
«Chi è mia madre, e chi sono i miei fratelli? ». Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, egli è per me fratello e sorella e madre» (Mt 12,48-50).
Si può intravedere in questo passo, particolarmente noto, la reale tensione escatologica che investe la famiglia umana per aiutarla a purificare i vincoli di sangue, ad aprirsi all’amore che discende da Dio. Co - loro che non pongono ostacoli alla volontà divina e la incarnano, partecipano della vita stessa della Santissima Trinità, di una modalità di relazione in cui la diversità delle persone non minaccia l’unità del corpo. Solo l’amore divino, l’amore puro, genera questa dinamicità. Il cammino verso la salvezza implica pertanto un processo continuo di purificazione e santificazione. Mettere in luce la stretta correlazione fra Santissima Trinità e Sacra Famiglia permette di intravedere nella seconda la realtà incarnata della prima. Essenziale la figura di Giuseppe, padre putativo di Gesù, il cui senso, del tutto inedito, sta proprio nell’incarnare un nuovo modello di paternità. Giuseppe accetta di essere padre di nome e di fatto, al di là dei vincoli di sangue, sollecita a riconoscere che il vero padre di tutti è Dio, unico datore di vita. Mette in evidenza la possibilità di una paternità capace di farsi carico di ogni bambino che viene alla luce in quanto generato da Dio e quindi degno di essere allevato e amato. Prospettiva rivoluzionaria che richiede un’immensa dilatazione della mente e del cuore in quanto spodesta il maschile del diritto patriarcale di proprietà sulle persone, diritto atavico, ancestrale, sulla morte e sulla vita, ma ancora molto attivo nella psiche e difficilissimo da estirpare. Ugualmente l’immagine della vergine madre è un messaggio altrettanto forte e rivoluzionario in quanto richiede un femminile liberato da attaccamenti possessivi, psichici e materiali, che opprimono e soffocano le potenzialità necessarie a far crescere figli e figlie di Dio. L’annun- ciazione è un messaggio per ogni donna, ma può essere accolto solo nella purezza di cuore. I vincoli di sangue, proprio per la loro intensità e forza, costituiscono la scuola per eccellenza all’interno della quale cresce e matura l’amore. Le relazioni familiari ci permettono di vivere le esperienze più intense dell’affettività, maturano il piano psichico, fanno emergere le potenzialità. Allo stesso tempo divengono terreno fertile delle più violente forme di potere e oppressione. Alla luce evangelica, proprio quanto si sperimenta attraverso i legami familiari diviene materia di purificazione e insieme di espansione dell’amore. Il senso della fratellanza scaturisce dal considerare ogni essere umano come figlio o figlia generati da Dio, comporta la partecipazione alla vita del nostro prossimo, implica un amore sempre più libero e dilatato.
Meditazione
Catene dei destini
«Se uno viene a me e non odia il padre e la madre, e la moglie e i figli, e i fratelli e le sorelle, ed anche se stesso, non può essere mio discepolo. Chi non prende la sua croce e mi segue, non può essere mio discepolo» (Lc 14,25-27).
Odiare il padre e la madre e la moglie e i figli e i fratelli e la propria vita vuol dire comprendere che la croce riguarda proprio questi legami, che devono essere purificati. La croce richiede il risveglio che aiuti a vedere come ciò che lega, in realtà, molte volte annienta, separa.
I rapporti servili, che vincolano e opprimono devono essere trasformati in rapporti di amicizia e di amore. Il legame di sangue è spesso radicato in una coscienza ancestrale basata sulla proprietà dell’altro, sul dominio, sul possesso, sul bisogno di trovare nell’altro garanzie e sicurezze, sulla pretesa di soddisfare ogni bisogno affettivo e materiale.
Questi legami creano le catene delle stirpi malate che si tramandano di generazione in generazione attraverso il tempo e costituiscono il portato della storia, la cui tendenza è quella di ripetersi su se stessa in un gioco cieco e irrazionale di oppressione e potere.
Odiare il padre e la madre significa avere in odio questa eredità. Avere in odio che questa eredità continui a tramandarsi nel tempo. Odiare la propria vita significa accettare di misurarsi con questo dolore lacerante, con la verità dell’inganno che domina in profondità le coscienze. Solo l’accettazione dell’odio come componente dell’amore rompe i legami di odio. Per accettare l’odio, prima è necessario aver conosciuto l’amore. Se non si è conosciuto l’amore, l’odio è troppo forte e doloroso e viene rinnegato seppure agito. È così che l’odio schiavizza e diviene ignoto padrone.