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CHE VI DO! N.85

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PERIODICO QUADRIMESTRALE - PUBBLICAZIONE OMAGGIO - ANNO XXV N. 85 DICEMBRE 2016 - SPEDIZIONE IN A.P. 70% - FILIALE DI MILANO

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PERIODICO QUADRIMESTRALE DELLA SOCIETÀ PANE QUOTIDIANO (1898)

Pane Quotidiano

ANNO XXV N. 85 Dicembre 2016

Reg. del Trib. di Milano n. 592 del 01/10/90 Spedizione in abbonamento postale 70% - Filiale di Milano Pubblicazione Omaggio

Direzione, Redazione, Pubblicità e Relazioni Stampa Viale Toscana, 28 • 20136 Milano Telefono 02-58310493 • Fax 02-58302734 www.panequotidiano.eu segreteria@panequotidiano.eu

Direttore Responsabile Pier Maria Ferrario

Segretario di Redazione Umberto Accomanno

Redazione Gerardo Ambrosiano, Marcello Paparazzo

Hanno collaborato: Gerardo Ambrosiano, Claudio Anselmi, Renzo Bracco, Angelo Casati, Vittoria Colpi, Pier Maria Ferrario, Isabella Groppali, Francesco Licchiello, L’Innominato, Marcello Paparazzo, Angelo Rho, Luigi Rossi, Mimma Signifredi, Rodolfo Signifredi, Italo Sordi, Anna Savoini, Luca Zappettini

Grafica e stampa: Giuliana Lazzari Comunicazione Via G. Di Vittorio, 9 - Ovada (AL) Tel. 0143 86319 - www.giulianalazzari.com

Copertina: Volontari Pane Quotidiano - foto di Pier Maria Ferrario

Sir Francis Drake e il gioco delle bocce 2 Isabella Groppali

Eros e Logos - Natura e Cultura 4 Francesco Licchiello

Albert Einstein genio testardo 6 Anna Savoini

Una terra senza pace 8 Renzo Bracco

Carnevale 10 Italo Sordi

Lo yoga a quadretti 12 Mimma Signifredi

L’albero della conoscenza 14 Rodolfo Signifredi

A caccia del DNA di Leonardo 17 Anna Savoini

I restauri del Duomo di Como 18 Luca Zappettini

“Risate di gioia” 20 Marcello Paparazzo

Sintesi degli eventi bellici della Grande Guerra 22 Claudio Anselmi

I Templari grandi banchieri 26 Angelo Casati

“Riflessi sull’acqua” a Lugano 28 Vittoria Colpi

La poetica del realismo di Renato Guttuso 30 Angelo Rho

Aforismi 32 (L’Innominato)

Questo numero della rivista “Che vi do!” (dicembre 2016) è stato stampato in 11.000 copie.

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Sir Francis Drake e il gioco delle bocce

Isabella Groppali

Vi sono personaggi che hanno vissuto da protagonisti le varie epoche in cui hanno condotto le loro esistenze e che con le loro imprese, il loro eroismo, le loro scoperte e il loro talento hanno condizionato tutti i tempi a seguire, contribuendo ad indirizzare la Storia fino alla sua evoluzione moderna. La cronaca a loro contemporanea ne ha spesso celebrato le imprese, per poi consegnarle a fama e gloria perché con tutti i mezzi a loro disposizione, dalla tradizione scritta, alle espressioni dell’arte, ne perpetuassero la memoria. Ma ciò che l’alone di leggenda spesso tende a mettere in ombra o a far dimenticare, è che al di là del contributo dato dalle loro imprese, comunque sempre si è trattato di uomini, come tali sottoposti a tutti i risvolti della quotidianità. Accanto alla Storia ufficiale, quindi scorre una sorta di storia minore, ma infinitamente più umana e sicuramente altrettanto affascinante. Mi è capitato di fare questa riflessione imbattendomi nella lettura della vita di Sir Francis Drake, l’universalmente noto e celebrato navigatore, politico, corsaro, primo inglese ad avere circumnavigato il globo e fiero avversario per conto della Corona delle flotte spagnole, che combattè nel Vecchio e nel Nuovo Mondo. Un aneddoto che lo riguarda, che viene più volte riportato e nel corso del quale viene spesso rappresentato, racconta che quando venne avvisato dell’avvicinarsi della flotta dell’Invincibile Armata spagnola, egli era impegnato in una partita di bocce sulle alture di Plymouth ed era così avvinto dal gioco che quando i suoi lo spronarono ad allestire il contrattacco, egli rispose che prima avrebbe finito la partita,

dopo di che ci sarebbe stato tutto il tempo per andare ad affrontare il nemico e batterlo. Cosa che poi puntualmente avvenne. Questo strano accostamento: il grande, epico personaggio ed un gioco così popolare mi faceva capire che nulla va dato mai per scontato e mi faceva venire il desiderio di saperne di più sulle bocce e la loro diffusione.

A quanto pare l’origine del gioco o per lo meno l’uso di fare rotolare delle pietre sferiche viene documentata addirittura agli albori della civiltà, dal momento che possono essere datate a 7000 anni prima di Cristo - grazie al ritrovamento nella città neolitica turca di Catal Huyuk - alcune pietre con segni evidenti di rotolamento sul terreno, anche se non è escluso che il loro utilizzo fosse confuso con il bisogno di difesa o di caccia. L’evoluzione ludica del gesto divenne evidente già nelle prime civiltà. In Egitto oggetti simili alle moderne bocce, finemente lavorati, vennero rinvenuti nella tomba di un fanciullo, risalente al 3500 a.C. ed anche i greci si intrattenevano in questo gioco tanto che il medico Ippocrate (460-377 a.C.) in quello che può essere considerato il primo documento scritto su questo gioco lo consigliava in quanto attività molto salutare.

Anche i Romani furono grandi appassionati delle bocce ed adottarono per primi delle più maneggevoli sfere di legno. L’imperatore Augusto le usava in radica di ulivo; Ovidio vi giocava spesso durante il suo esilio sul Mar Nero ed il medico Claudio Galeno, come il suo collega Ippocrate, ne consigliava la pratica a giovani e anziani. Il gioco divenne di abilità ed acquisì grande popolarità, tanto è

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vero che a Pompei venne trovato il primo bocciodromo della storia, oltre ad un vero set di gioco, con pallino ed otto bocce. E proprio alle legioni romane si deve l’esportazione della pratica delle bocce nei territori conquistati d’Europa: in Francia, in Spagna, in Inghilterra, dove divenne molto popolare.

Nel Medioevo poi questo gioco si trasformò in una vera e propria mania. Si giocava nelle strade, sulle piazze, nei castelli, vi giocava la plebe quanto la nobiltà, e non veniva disdegnato neppure dagli ecclesiastici e dalle nobildonne, tanto che ad un certo punto il suo uso fanatico iniziò a dar fastidio ai potenti: per le liti furibonde che ne seguivano, per la perdita del tempo, per l’accostamento al gioco d’azzardo che depauperava i bilanci famigliari e perchè disturbava l’ordine pubblico. Anche le truppe indulgevano eccessivamente con il gioco, trascurando di addestrarsi. Per questo motivo, dal 1300 subì una serie di limitazioni e divieti, che lo accompagnarono per vari secoli.

Il sovrano francese Carlo IV il Bello, con un editto del 1319, dichiarò che “stornava il popolo da esercizi più convenienti alla difesa del reame quali il tiro con l’arco e la balestra”. Più o meno per gli stessi motivi il gioco fu bandito da Re Edoardo III di Inghilterra (1339), da Carlo V il Saggio in Francia (1369) e sempre in Inghilterra da Riccardo II (1388) da Enrico IV (1401), da Enrico VIII (1511) che pure era un appassionato giocatore.

Ma si levava comunque qualche voce a favore. Alla fine del ‘400 i medici dell’Università di Montpellier dichiaravano che il gioco era un vero toccasana contro i disturbi dei reumatismi. Era visto di buon occhio dall’umanista olandese Erasmo da Rotterdam (1466-1536) che lo chiamava “ludus globorum missilium”, così pure dal teologo tedesco Martin Lutero (1483-1546) e da Calvino (1509-1564) che vi si dedicava con passione.

Lo scrittore Rabelais nel 1532 raccontava di come Gargantua giocasse alle bocce per digerire e Bruegel il Vecchio immortalò il gioco nel suo famoso dipinto “Giochi di Fanciulli”, datato 1559 ed attualmente esposto alla Pinacoteca di Vienna. Una grande perpetrata fortuna ed una immensa popolarità per il gioco delle bocce, se oltre a venire praticato da tutti i ceti sociali, anche i vari campi espressivi se ne occupavano. In letteratura, fra i grandi non poteva mancare William Shakespeare, contemporaneo di Sir Francis Drake, che citò le bocce in due delle sue opere, in Antonio e Cleopatra e in Riccardo II, nel cui atto terzo si può leggere il seguente dialogo: Regina: “Che gioco possiamo inventare qui, in questo giardino, per mettere in fuga l’angoscia e l’inquietudine?”. Una dama: “Signora, potremmo giocare alle bocce”. Regina: “Mi farà pensare che il mondo è pieno di ostacoli e che la mia fortuna corre come un peso, sbilenca”.

Nel ‘600 di nuovo si assistette ad una nuova censura nei confronti del gioco, che aveva raggiunto una tale diffusione che veniva giocato tanto nelle campagne quanto nelle grandi città, specialmente a Londra e a Parigi, nei cui viali alberati si tenevano tornei di “boules verdes”, da cui poi derivò il nome dei caratteristici boulevards. Luigi XVIII però non vedeva di buon occhio gli assembramenti raccolti attorno alle “bocce verdi”, per cui le proibì.

Con il passare del tempo comunque accadde che il gioco delle bocce non fu più visto come un pericolo e quello francese fu uno degli ultimi anatemi, dato che già alla fine del secolo Carlo II di Inghilterra lo legalizzò e fece predisporre una specie di regolamento. Così in Italia, e per precisione a Bologna, nel 1753 usci il volumetto di Raffaele Bisteghi, “Il gioco delle bocchie” nel quale venivano stabilite delle regole ad ufficializzare la diffusissima pratica. Poco più di un secolo dopo, nel 1873 nacque a Torino la prima società, dal nome curioso di “Cricca bocciofila”, prima “federazione pioniera” di un gioco che ancora oggi, se pur l’ha ridimensionata, non ha perduto la sua diffusione, tanto che nel 1924 approdò anche alle Olimpiadi di Parigi, dove venne presentato come gioco dimostrativo.

Ma per tornare a Sir Francis Drake, la sua appassionata dedizione al gioco delle bocce doveva proprio far parte della sua vita se anche sul monumento celebrativo che la città di Tavistock (dove ebbe i natali nel 1540) gli dedicò, viene ricordata, in uno dei pannelli a bassorilievo che ne ornano la base.

L’iconografia è la solita: il navigatore è raffigurato con in mano una boccia, vestito nella foggia del tempo, con le corte brache a sbuffo ed il giubbetto a giustacuore, attorniato dai suoi, mentre un compagno lo richiama a guardar l’orizzonte, dove probabilmente già si profila l’arrivo della flotta spagnola, ma egli si protende come ad allontanarsene e si volge a continuare il gioco.

La stessa scena, con la stessa disposizione narrativa si ripete ove si intende celebrare il grande personaggio, anche in campi minori, anche in oggetti più quotidiani.

Dove ci vuole essere una dedica, un richiamo, che voglia dare per scontata la fama raccolta dalle sue imprese che così profondamente hanno segnato la storia di Inghilterra e del mondo e prescindere da essa, Sir Drake appare quindi strettamente affiancato al gioco delle bocce, ed è questa storia minore che ne sottolinea l’umanità attraverso un quotidiano che lo avvicina a chi forse la storia non la scrive, ma la vive con il ricordo dei grandi.

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Eros e Logos - Natura e Cultura

Francesco Licchiello

La vita (bios) è costituita da una catena di nascite e di morti attraverso cui il genoma si trasmette di generazione in generazione invariato o trasformato dalle vicende evolutive.

Questa fenomenologia è prodotta dall’Eros mediante l’accoppiamento, le cure parentali e, alla fine del ciclo, la morte. Nel mondo umano questi fenomeni diventano anche l’innamoramento, il corteggiamento, la danza, il canto, la famiglia, la comunità, il linguaggio, l’estetica, l’etica… cioè la cultura, il Logos che si sviluppa come una superfetazione o epifenomeno dello sviluppo intellettivo che partendo dall’istinto produce l’animismo, la magia, la religione, la filosofia e la scienza.

Possiamo anche assumere che dalla sconosciuta radice unica della realtà (l’Uno, Dio…) sia rampollato un dualismo originario costitutivo del cosmo e del mondo: esserenon essere, odio-amore, caldo-freddo… sentimento-ragione … natura-cultura… eros-logos. Nell’interpretazione di Eraclito il Logos è l’organizzazione cosmica del mondo.

L’Evangelista Giovanni antepone il Logos all’Eros: “In principio era il Logos e il Logos era presso Dio e il Logos era Dio”… “senza di Esso nulla fu fatto di quanto esiste.”

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La scienza, cioè il più recente sviluppo del Logos, incomincia a svelarci il come dell’universo, ma non il perché di esso, come hanno tentato di fare la religione e la filosofia per cui la metafisica, cioè il luogo delle cause giace aldilà delle possibilità cognitive dell’uomo. Lo scopo più evidente dell’Eros, quindi, è legato alla conservazione dei geni e alla loro trasformazione, come afferma Richard Dawkins in “Il Gene Egoista, Prefazione, 1976”: “Noi siamo macchine di sopravvivenza – robot semoventi programmati ciecamente per preservare quelle molecole egoiste note sotto il nome di geni”.

L’idea che la vita sia legata alla riproduzione dei geni è corroborata dal fatto che gran parte degli insetti, specialmente i maschi, come i fuchi, e molti pesci, come i salmoni e le anguille muoiono subito dopo essersi riprodotti.

Nel mondo della vita notiamo che essa si sviluppa a partire da organismi piccolissimi e persino invisibili, virus, batteri, acari, plancton, imenotteri… i quali combattono o nutrono i superiori organismi dei pesci, degli uccelli, dei mammiferi e dell’uomo, che è in cima alla catena alimentare. Gli organismi superiori facilmente, come gli animali e l’uomo, si estinguono per infezioni o lotte specifiche e interspecifiche, mentre gli insetti hanno un alto tasso di sopravvivenza a causa della loro immensa prolificità e adattabilità all’ambiente. L’uomo può distruggere gli animali e se stesso in lotte fratricide, ma non riuscirà mai a vincere la sua battaglia contro virus, batteri e insetti nocivi, come le formiche, le mosche, le zanzare…

Esiodo, nella “Teogonia” narra: “All’inizio fu il Caos, in seguito la Terra dal largo petto… quindi venne Eros, il più bello tra gli dei immortali”.

Nel “Simposio” di Platone, Socrate afferma che Eros si innalza dall’amore carnale all’amore per la conoscenza. Esso è figlio di Ingegno e di Povertà, cioè è generato dal creativismo e da una deprivazione che produce il desiderio: “Eros è non già buono e bello, ma desiderio di bontà e bellezza, di cui sente la privazione. Amore è tendenza al possesso perpetuo del Bene. L’amore nasce come sentimento tra uomo e donna o uomo e uomo, ma - come dice Diotima - si passa dall’amore per le bellezze terrene, gradatamente, fino a quell’amore che ci spinge a contemplare e a conoscere il bello in sé. Alla fine l’uomo potrà ... attingere la Verità e divenire immortale”.

Il Bachofen, nella sua opera “Il Matriacato” p. 821, sostiene che Diotima doveva essere una sacerdotessa dei misteri pelasgo-samotracici.

Jung riporta i quattro stadi dell’erotismo a figure-simbolo femminili: Eva, Elena, Miriam e Sofia. queste immagini femminili non sono l’eros bensì gli oggetti del suo desiderio e del suo amore: la madre, l’amante, la sposa, la conoscenza, il desiderio di conoscere la misteriosa realtà in cui viviamo.

Il misticismo è eros deviato o sublimato. Del resto nelle religioni l’amore tra l’uomo e Dio è eros, come ha riconosciuto Benedetto XVI, nel suo messaggio per la Quaresima del 2007: “ma l’amore di Dio è anche eros”.

Gli Ebrei vedono nel rapporto tra l’uomo e Dio una situazione erotica simile all’amore dell’uomo per la donna (vedi Cantico dei Cantici), e indicano con la parola Shekinah la manifestazione femminile di Dio.

Jalal al-Din Rumi (1207–1273), il più grande poeta mistico persiano, teologo musulmano, sunnita, scrive:

Se il Cielo non fosse innamorato il suo seno non sarebbe dolce. Se il Sole non fosse innamorato il suo volto non brillerebbe. Se la Terra e le montagne non fossero innamorate nessuna pianta germoglierebbe dal loro cuore.

Il testosterone nell’uomo e gli estrogeni nella donna, sono i principali ormoni sessuali, i quali, anche se in misura ridotta sono presenti nel sesso opposto, come rappresentato dal simbolo dell’Yin-Yang.

Anche dopamina, endorfine, ossitocina e altri sono connessi con l’Eros.

In particolare, l’ossitocina, legata al sesso e alla maternità, è presente, forse, al 60% negli uomini, ed esercita un ruolo fondamentale nella relazioni sociali; ad es. aumenta di livello nella convivialità.

In alcune società iniziatiche gli adepti sono definiti uomini di desiderio, cioè persone in cui si manifesta un potente impulso a possedere una conoscenza e una coscienza al di là e al disopra della massa, il desiderio di penetrare nel mondo dei misteri e di possedere una verità nascosta, “sollevando il velo di Iside”.

Il filosofo, lo scienziato… il massone sono uomini di desiderio. Il desiderio di possedere una verità velata o nascosta alla massa, perché come vi è una realtà nascosta ai bambini, così vi è una realtà nascosta agli adulti.

Buddha afferma che non si reincarna l’Io (Aham), composto dagli skanda o aggregati che compongono la sua struttura: corporeità (rupa), percezione (vedana), coscienza (samjna), azione (samskara), conoscenza (vijnana), che si annullano con la morte, ma la volontà, il desiderio della vita, per noi l’Eros. (cfr. Shopenhauer)

Il Logos ha permesso all’uomo di creare la storia che con la sua continuità generazionale e la trasmissione delle memorie, delle tradizioni, della conoscenza, attraverso la scrittura e la registrazione gli suggerisce un avanzare verso un epilogo, un fine che ne giustifichi l’esistenza. (cfr. superuomo di Nietzsche).

In effetti l’inganno della storia ha permesso all’uomo di superare l’angoscia esistenziale e la tragedia della morte.

Questa idea della progressività si lega al fenomeno della misteriosa crescita abnorme della neocorteccia cerebrale legata a una sorprendente capacità inventiva e creativa che non è giustificata dall’evoluzionismo darwiniano secondo il quale la capacita cerebrale è legata soltanto all’adattamento all’ambiente.

Adattamento che nell’uomo si è già realizzato centinaia di migliaia di anni fa.

L’amore, quindi è una forza, un’energia che pervade tutto l’universo e si manifesta anche nel mondo inorganico come attrazione e movimento. Dante scrive: L’amor che move il sole e l’altre stelle. W. Reich sostenne che esiste un’energia vitale, preatomica, l’Orgone, che pervaderebbe il cosmo, manifestandosi nell’uomo come energia sessuale e libido e riconobbe un nesso tra repressione sociale e repressione della sessualità. Tesi sostenute anche da H. Marcuse in “Eros e Civiltà” e da Ivan Illich in “La convivialità”.

La libido, intesa come desiderio o pulsione, è il concetto cardine della teoria di S. Freud; essa è di natura sessuale ed è responsabile di molte espressioni della personalità, tra le quali la creatività artistica. Inoltre, Freud legò il concetto di Eros a quello di Thanatos, la morte, che è la consumazione dell’Eros e una sua espressione come violenza, lotta, morte in battaglia. D’Annunzio scrive: “L’amore disperato del ferro freddo, la bellezza istintiva del gesto della morte.”

Il progresso dell’endocrinologia e delle neuroscienze, ha evidenziato come i comportamenti umani siano influenzati dagli ormoni e dai neurotrasmettitori.

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Albert Einstein genio testardo

Anna Savoini

Sono passati oltre cent’anni da quando il 25 novembre 1915 Albert Einstein presentò all’Accademia prussiana delle Scienze il risultato di otto anni di intensissime ricerche: un’equazione sintetica ed elegantissima che costituisce una delle conquiste più elevate del pensiero umano: “la relatività generale”.

Per la prima volta dopo due secoli, l’uomo si spingeva là dove Newton non era riuscito ad arrivare, capiva, contro ogni inganno dei sensi, che la gravità non è una misteriosa forza che agisce a distanza, bensì un’incurvatura dello spazio-tempo provocata dalla materia, che cambia, evolve, possiede la storia.

Poche teorie scientifiche hanno modificato così radicalmente l’immaginario dell’umanità.

Il 2015 è stato meritatamente dedicato a Einstein tanto che l’Unesco lo ha dichiarato anche “Anno internazionale della luce” ed è sempre al fisico di Ulm che dobbiamo la scoperta del “quanto di luce” che oggi chiamiamo “fotone”. Einstein lo aveva descritto nel corso del suo anno mirabilis, quel 1905 in cui aveva scritto tre articoli fondamentali, tre “razzi fiammeggianti” che avevano rivoluzionato la fisica dalle fondamenta. Poi, dieci anni dopo, c’era stato l’exploit della relatività generale. Infine per i successivi quarant’anni non ottiene alcun risultato di rilievo, la sua creatività sembra spenta. Come è possibile? A questo enigma cerca di rispondere Pietro Greco,che ad Einstein ha già dedicato già diversi volumi, in un libro intitolato “Marmo pregiato e legno scadente”. I biografi del fisico tedesco che, da rivoluzionario si è trasformato in conservatore, oppure che si è fatto prendere troppo dalla filosofia e dalla fisica, o ancora che ha semplicemente perso smalto, creatività e coerenza.

Ma con il tempo Einstein rincorre il sogno di unificazione della fisica ed insegue con insistenza la convinzione che la natura possieda un’intima unità che si può e deve esprimere attraverso leggi sempre più generali tendenti a confluire in una armoniosa “Teoria del Tutto”.

E’ quella la convinzione che il primo membro dell’equazione, quello che formalizza il campo gravitazionale, sarebbe “marmo pregiato” ma il secondo è “legno rozzo”, un rozzo sostituto di una descrizione profonda di ciò che ci circonda. Trasformare quel legno scadente in marmo pregiato sarà il programma di lavoro di Einstein per i successivi quarant’anni.

Una battaglia che combatterà su due fronti: da una parte, tenterà di opporsi alla teoria quantistica, di cui pure era stato uno dei fondatori, perché la sua indeterminazione fa a pugni con l’idea einsteiniana di una natura complessa, sì, ma non incoerente né incompleta; dall’altra, lavorerà da zero a che unifichi le grandi forze della natura, elettromagnetismo e gravità. Fino alla morte nel

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1955 Albert Einstein procederà in perfetta solitudine nella sua impresa, incomprensibile ai più. “Sono diventato - scriverà nel 1949 - agli occhi dei miei colleghi una sorte di eretico testardo”. A tutt’oggi quella battaglia nessuno l’ha vinta.

ALBERT EINSTEIN: UOMO E PADRE La sua vita: un puzzle sentimentale. La prima moglie Mileva Mari ed i due figli Hans Albert e

Eduard. La seconda moglie la cugina Elsa Einstein. La coppia, che divorziò nel 1919 ebbe anche una bimba,

Lise nata nel 1902 che il padre non vide mai.

“Non mi sono mai dato con tutto il cuore, neppure ai familiari più prossimi. Verso questi legami ho sempre mantenuto un certo distacco ed un bisogno di solitudine” così scrive Albert Einstein, l’uomo che all’inizio del Novecento rivoluziona il concetto di spazio e di tempo, teorico del concetto di relatività.

Un’ammissione sincera: “Non sono fatto per la famiglia, desidero stare in pace”.

Nulla di strano se al genio della fisica, premio Nobel nel 1921, è dedicato un capitolo nel recente libro di Maurizio Quilici “Grandi uomini, piccoli padri”. Una galleria di giganti della filosofia, della scienza e della letteratura che si sono rivelati mediocri genitori: distratti insensibili alle richieste di affetto dei figli, concentrati solo sul lavoro.

Einstein ha avuto rapporti difficili sia con Hans Albert nato nel 1904 sia con Eduard, arrivato 6 anni dopo e purtroppo malato di schizofrenia. Eduard nuore in una clinica psichiatrica senza ricevere una visita del padre.

Un giudizio severo su Einstein fu quello dello storico Levenson convinto che Albert non “avesse alcuna propensione all’empatia, nessuna capacità di immedesimarsi nella vita emotiva di chiunque altro”.

Sono però alcune lettere scoperte nel 1987 a svelare una vicenda sconcertante: l’esistenza CANCELLATA di una figlia, nata agli inizi del secolo.

Prima di sposarsi Einstein e la prima moglie Mileva Mari hanno una bimba. E’ il 1902.

Nelle lettere ritrovate, i due si riferiscono alla piccola con il nome di Lieserl, vezzeggiativo di Lise.

Il suo destino è tuttora un mistero: si può però ipotizzare che sia stata data in adozione, appena nata, da un’amica della Mari. Albert e Mileva, che divorziano in modo conflittuale, restano alleati nel mantenere il silenzio sulla sua esistenza.

Albert Einstein nato a Ulm in una famiglia ebraica benestante, a 20 anni è un bel giovanotto bruno. Frequenta il Politecnico di Zurigo dove incontra una ragazza che ha tre anni più di lui, molto brillante, unica donna ammessa al corso di matematica e fisica. Mileva Mari è serba, cattolica e di origini modeste. Zoppica leggermente per una lus-

sazione congenita all’anca, non è bella, ma ha un fascino innegabile ed un vero talento per la fisica. I due studenti condividono la passione per la scienza ed hanno una forte attrazione erotica. Nonostante l’opposizione delle rispettive famiglia i due fanno coppia fissa.

Nel 1901 Mileva scopre di essere incinta e scrive ad Albert che le risponde subito, ma la prima parte della lettera è occupata dall’entusiasmo per la lettura di un articolo scientifico sui raggi catodici e luce ultravioletta: “sotto l’influenza di questo bellissimo contributo sono colmo di una tale felicità e gioia che devo dividerne un po’ con te”. Solo nelle righe seguenti le chiede come sta lei ed il “bambino” affrettandosi ad aggiungere: “Riesci ad immaginare quanto sarà bello quando potremo tornate a lavorare del tutto indisturbati?”.

La paternità insomma non lo spaventa ma non lo esalta neppure. Di certo vede in Mileva una compagna di ricerche più che una madre per i suoi figli. Per la ragazza è un sollievo: Albert non la abbandonerà. Nelle lettere successive entrambi danno per scontato che il nascituro sarà una femmina ed iniziano a chiamarla Lieserl. Quando si avvicina il parto Mileva raggiunge i genitori a Novo Sad in Serbia. Einstein non l’accompagna. Di lì a poco le scrive che probabilmente avrà un impiego all’Ufficio Brevetti a Berna. “Sono stordito dalla gioia quando ci penso. Il solo problema da risolvere è come tenere nostra figlia con noi” scrive suggerendo a Mileva di parlarne con suo padre. La bambina nasce a fine gennaio. Einstein si è già trasferito a Berna in vista del nuovo incarico e non ritiene necessario prender un treno per andare da Mileva e dalla primogenita. Scrive però alla fidanzata “Le voglio tanto bene e ancora non la conosco”. Sembra un padre felice: ma per quale motivo non annuncia la nascita ai genitori, alla sorella ed agli amici? Mistero. Quello che accade in seguito è ancora più sorprendente. Pochi mesi dopo il parto Mileva torna a Zurigo, in attesa che Albert mantenga la promessa di sposarla. La bambina non è con lei. Non ha mai visto né vedrà mai suo padre. L’ipotesi più probabile è che sia stata adottata da un’amica di Mileva, Helen Kaufler Savi. Le nozze di Einstein e Mileva si celebrano il 6 gennaio 1903 a Berna.

Nessuno dei familiari è presente: la coppia potrebbe legittimare la figlia e portarla in Svizzera, ma questo non accade. Le ultime notizie di Lieserl risalgono all’estate successiva. La bambina si ammala di scarlattina a 19 mesi e Mileva si precipita a Novi Sad. Sola. Poi ogni riferimento a Lise scompare. Ricercatori serbi ed americani hanno perlustrato senza successo chiese, anagrafi, sinagoghe e cimiteri. Non esiste alcuna traccia della sua esistenza. Dopo aver cancellato la figlia, Albert e Mileva riprendono la loro vita matrimoniale. Nascono due maschi, Hans Albert ed Eduard, detto Tete. Questa volta Albert sembra un padre affettuoso: porta i bambini a spasso con la carrozzina, gioca con loro e addirittura costruisce una funivia con spago e cartone per Hans Albert.

Ma la separazione da Mileva nel 1914, seguita 5 anni dopo dal divorzio, lo allontanano dai figli. Il più grande, che ha già una decina d’anni, si schiera con la madre, ferita dalla freddezza del marito e dalle sue infedeltà. Einstein rimane a Berlino, Mileva torna a Zurigo con i bambini e Albert tenta di riconquistare l’affetto di Hans Albert con lettere di affetto: “Non avere paura quando tu e Tete

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siete soli. Anche se non ti sono accanto tu hai sempre un padre che ti ama più di ogni altra cosa, che ti pensa sempre e che si prende cura di te”. Il ragazzo non gli risponde. Poco alla volta Einstein si rassegna e si dedica sempre a modo suo alla famiglia.

Nel 1919 Albert sposa una sua cugina, Elsa che ha già due figlie, Ilse e Margot. Hans Albert è geloso del tempo che il padre trascorre con loro. Quando un quotidiano tedesco pubblica una foto di Einstein con le due ragazze e le definisce sue figlie, si infuria. Nel 1933 lo scienziato lascia la Germania, ormai nelle mani di Hitler e si trasferisce con Elsa a Princeton negli Stati Uniti.

Una decina di anni dopo Hans Albert segue il consiglio del padre e trova lavoro, come docente di ingegneria a Berkeley. I loro rapporti migliorano, anche se il figlio lo definisce “capace di chiudere le sue emozioni come un rubinetto” e gli rimprovera sempre di aver dimenticato i compleanni suoi e quelli del fratello. Eduard invece che venera suo padre, soffre più di tutti. Ha una intelligenza viva, una sensibilità profonda. Da bambino scrive poesie, poi aforismi malinconici, accusa il padre di averlo messo al mondo e poi abbandonato.

Einstein vorrebbe aiutarlo, ma è consapevole che la schizofrenia, diagnosticata quando Eduard ha 20 anni, non è curabile. “C’è qualcosa che mi blocca” scrive ad un amico che lo incoraggia a vedere il figlio più spesso.

Mileva gli scrive supplicandolo di andare a trovarlo, nella clinica psichiatrica dove è ricoverato: “Qui c’è un ragazzo seriamente malato. Spesso chiede se suo padre verrà ed ad ogni rinvio diviene più cupo.”

Quando finalmente si incontrano, padre e figlio suonano insieme come avevano fatto un tempo: Alberto il violino ed Eduard il pianoforte. Ma nemmeno la musica riesce a sciogliere il gelo imbarazzante che li divide. Quella fu l’ultima volta che Einstein vide Tete. Suo figlio avrebbe atteso invano per i successivi 22 anni. Per lui l’affetto era relativo.

Una terra senza pace

Renzo Bracco

E’ un piccolo lembo di terra, poco più grande della Liguria. Si estende lungo la costa del Mediterraneo, all’incrocio di tre continenti: Europa, Asia e Africa; è persino difficile trovare un nome che metta d’accordo tutti: Palestina, Israele, Cisgiordania, Terra Santa, Terra promessa; ma anche Fenicia, Giudea, Samaria e altro ancora. Nell’antichità, in quanto crocevia di transiti, fu contesa dall’Egitto, dalla Persia e dalla Mesopotamia, e rari sono stati i periodi di pace. In epoca moderna, la regione è stata rivendicata dalle tre grandi religioni monoteistiche: Ebraismo, Cristianesimo, e Islamismo. Per gli ebrei, è la terra della Bibbia, il simbolo delle glorie passate, e l’espressione della speranza nel futuro arrivo del Messia. Per i cristiani è la terra dove nacque e visse Gesù, annunciando il Regno dei Cieli. Per i mussulmani è il luogo sacro in cui in Profeta Maometto fu elevato al cielo, e resta tuttora la Terra della Speranza. Attraverso i secoli, i pellegrini di fedi diverse vi accorsero, non esitando ad affrontare disagi e pericoli di ogni genere, nel desiderio di conoscere la terra della Rivelazione, la terra di Dio, i luoghi sacri per il loro credo.

La storia di questa terra, martoriata da mille conflitti, inizia molti secoli prima, poiché i primi insediamenti di comunità urbane vengono fatti risalire al neolitico, attorno al 9.000 a.C., quando furono erette le prime abitazioni – in genere capanne circolari – a Gerico, a Ninive e nell’Alto Egitto. Nei secoli successivi si verificò in quell’area una vera rivoluzione, che cambiò la storia dell’uomo: si passò gradatamente dalla caccia e dalla raccolta del cibo, all’allevamento di pecore e capre, per ricavarne latte, carne e lana, e all’agricoltura, con la coltivazione di orzo, farro e legumi. Sorsero i primi edifici sacri, si sviluppò il culto dei defunti, e apparvero le prime rudimentali forme d’arte. Non a caso questa terra viene definita la “Culla della civiltà”. La protostoria si fa terminare convenzionalmente attorno all’anno 2.000 a.C.; le abitazioni erano ormai in pietra o mattoni, a base quadrangolare, e si formavano i primi villaggi con centinaia di abitanti.

La coltivazione dei cereali nel neolitico8

Gli edifici dedicati al culto erano orientati verso la fertilità, ma sussistevano le più svariate credenze e forme religiose. A Gerico si costruivano le famose mura, mentre si sviluppavano i commerci, basati sul baratto. Nascevano la lavorazione della ceramica, la tessitura del cotone; si sviluppava la pesca, arrivavano le prime barche a vela provenienti dal vicino Egitto. Attorno al 1500 a.C. si diffuse da Babilonia una forma di scrittura essenzialmente grafica: i pittogrammi, introdotti dai Cananei. Rappresentava l’evoluzione delle incisioni rupestri, e l’anticipazione dei geroglifici. Ma le guerre in quei territori non si fermarono mai. In quel tempo iniziò l’afflusso dei primi popoli di religione ebraica: nacquero il Regno di Israele, annientato dagli Assiri nel 1722 a.C., e il Regno di Giuda, distrutto dai Babilonesi nel 596 a.C. Le invasioni si succedettero, con la sottomissione ai Persiani di Ciro il Grande, e quindi all’Impero di Alessandro Magno, fino all’arrivo dell’Impero romano. In parallelo allo sviluppo della civiltà si intensificavano anche le guerre. In Mesopotamia, la fertile terra compresa tra il Tigri e l’Eufrate, erano nate delle “città-stato”, continuamente in guerra tra di loro per le ragioni più svariate: contrasti religiosi, fughe di popoli dalle carestie, brame di potere dei potentati locali.

A partire dal XVI secolo a.C. nella regione si era affermato il Regno di Babilonia, la “grande potenza” dell’epoca, fondato da popoli di origine sumerica. La sua capitale divenne presto la pima metropoli della storia, contando oltre 200.000 abitanti. Vi si contavano una cinquantina

Il Tempio e il Muro del pianto

templi, dedicati al Re degli Dei, Marduk, protettore della città, adorato dai Sumeri e dagli stessi Babilonesi. Tramandati ai posteri, oltre alla biblica torre di Babele, i famosi Giardini di Babilonia. In breve fu conquistata tutta la Mesopotamia, e oltre, arrivando fino al Mediterraneo, distruggendo o sottomettendo gli staterelli esistenti.

I sovrani più noti furono Hammurabi, che introdusse uno dei primi codici legislativi, e Nabucodonosor, che, dopo aver distrutto il Tempio di Re Salomone, eretto nel 826 a.C. per volere di Re David, deportò la popolazione ebraica, episodio citato anche nella Bibbia. Seguirono lotte contro i Cassiti, gli Eleniti, finchè Babilonia, che era arrivata ad avere 370.000 abitanti, fu conquistata e distrutta dai Persiani di Ciro il Grande nel 539 a.C.

Intanto sul Monte di Gerusalemme si iniziò a costruire un nuovo Tempio ad opera dei Leviti. Dopo la distruzione e la profanazione ad opera di Antioco IV, il tempio fu riconsacrato sotto il dominio di Giuda Maccabeo, ed ampliato da Erode il Grande. I lavori terminarono nel 64 d.C. e dopo soli sei anni, nel 70 d.C., il tempio fu distrutto ancora una volta dal futuro Imperatore Tito.

Gerusalemme fu nuovamente distrutta nel 132 d.C. dall’Imperatore Adriano, che dopo aver spento la rivolta dei Giudei, ne volle fare una città pagana, con il nome di Aelia Capitolina. Nei tre secoli successivi, sotto la dominazione bizantina, si sviluppò l’influenza cristiana, e vi furono costruite molte chiese, tutte distrutte nel 614 quando l’area fu invasa dai Persiani. Nel 636 la Palestina fu conquistata dall’Islam, che fece di Gerusalemme una città santa, dopo La Mecca e Medina. Una ennesima svolta storica si ebbe nel 1009, quando il Califfo Hakim distrusse la Chiesa del Santo Sepolcro: fu l’inizio delle Crociate.

Dal 1009 al 1270 furono ben otto, con alterne vicende. La terra fu quindi occupata dai Mamelucchi, fino al 1400

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quando furono sconfitti dai Mongoli di Tamerlano.

Nel 1517 arrivarono i Turchi, e per quattro secoli la Palestina fu annessa all’Impero Ottomano. Il resto è storia recente: nel 1917, durante la prima Guerra mondiale, il generale Allenby occupa la Palestina per conto degli Alleati. Dopo la seconda Guerra Mondiale, con risoluzione ONU del 19 novembre 1947, viene approvata la formazione dello Stato di Israele, che viene proclamato il 14 maggio 1948 da Ben Gurion. Si era avverato il sogno biblico degli ebrei: “L’shana Haba’ah be Yerushaleim” – “L’anno prossimo a Gerusalemme”.

Era arrivato il tempo della pace? Nemmeno a parlarne: iniziarono le guerre contro l’Egitto, la Siria, i Palestinesi della Striscia di Gaza.

Cosa rimane oggi di molti secoli di storia? Rovine, specialmente dell’epoca romana, sparse in tutto il territorio di Israele, dalle rive del Giordano a Nazareth, Betlemme, Cafarnao, fino al deserto del Negev; sul Monte di Gerusalemme si possono ammirare le storiche mura, distrutte e ricostruite varie volte nei secoli – l’ultimo fu Solimano il Magnifico, attorno al 542. Nella Città vecchia, la Basilica del Santo Sepolcro, a disposizione di cattolici, greco-ortodossi, armeni, siriani, copti e abissini. Infine, rimane la Spianata delle moschee, uno dei siti religiosi più contesi al mondo, dove si trovano la Cupola della Roccia, la Moschea di al-Aqsa, ed il Muro del pianto, luoghi sacri per ebrei, cristiani e mussulmani. Secondo la genesi, Abramo vi fu condotto per il sacrificio del figlio Isacco; era il sito che Re David acquistò per 40 sicli d’argento per costruirvi un tempio, e Salomone vi costruì una sontuosa dimora per il Signore. È lo stesso sito dove le guerre continuano in altre forme: sono diventate intifada, termine arabo che significa rivolta, sollevazione popolare.

La storia, ed i conflitti, continuano.

Carnevale

Italo Sordi

Anche se non mi sentirei di azzardare profezie sul suo futuro, certamente il Carnevale non è morto, anzi si dimostra pronto a risorgere sotto forme nuove e inattese - pensiamo a Venezia, ma anche ai mascheramenti di Halloween - e a continuare a vivere negli spazi di una grande città come di un minuscolo paese di montagna. Non per niente era sopravvissuto alla condanna assoluta della Chiesa (non soltanto della Chiesa Cattolica) che lo vedeva come manifestazione di sfrenatezza e di immoralità, e ai tentativi di repressione o di addomesticamento da parte di ogni tipo di autorità costituita, che vi scorgeva pericolose minacce nei confronti del potere (ricordiamoci che i mascheramenti erano vietati in epoca fascista); ed è sopravvissuto anche alla morte o allo svuotamento di significato della Quaresima che, secondo molti antropologi, avrebbe dovuto portare con sé anche la morte del suo necessario contraltare, il Carnevale appunto.

Rendersi conto delle ragioni di questa indomabile vitalità non è certo facile, a meno di non voler far ricorso a una non meglio definita esigenza psicologica di travestimento, in qualche modo insita nella nostra cultura; e anche soltanto pensare di arrivare a fornire una interpretazione “totale” del variegatissimo fenomeno Carnevale appare quanto meno presuntuoso.

Non c'è dubbio: il Carnevale così facile da vivere, è molto difficile da decifrare. Sarà anche per questo che molti e autorevoli studiosi hanno preferito cercare il senso del carnevale per così dire fuori o al di là del carnevale stesso: e così esso è stato di volta in volta interpretato come un antico rito di magia propiziatrice della fecondità, o come una rappresentazione del ritorno dei morti sulla terra.

Teorie molto suggestive ma a mio avviso prive di una vera base nella realtà, al di là della constatazione che rimane valida, e che è opportuno tenere sempre presente, che il carnevale è comunque un evento di carattere rituale e quindi profondamente serio.

Quello che si può forse tentare è tracciare una definizione generale del carnevale – da cui, non c'è dubbio, moltissime componenti restano escluse – che potrebbe essere questa: un periodo limitato nel tempo (oggi per lo più gli ultimi giorni prima della Quaresima) in cui alcune persone scelgono, secondo modalità previste dalla tradizione, di diventare altri attraverso il travestimento e soprattutto attraverso la maschera, assumendo aspetti e comportamenti propri, nel quotidiano, di altre categorie di persone, o impersonando altri esseri reali o immaginari.

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Così alcuni si travestiranno da donne e importuneranno i maschi non mascherati, mentre altri assumeranno l'aspetto minaccioso di fantasmi, di streghe e di diavoli; altri ancora prenderanno i tratti e i comportamenti aggressivi di animali, o imiteranno comicamente persone normalmente oggetto di rispetto quali il medico o il poliziotto o il prete. E verranno messi in scena (il termine ci deve ricordare che il Carnevale è anche teatro) dei comportamenti che nella realtà quotidiana sarebbero assurdi: si finge di arare le strade del paese invece che i campi, si porta in giro una imbarcazione sulla terraferma anziché sull'acqua.

Insomma il carnevale rappresenta una inversione rituale delle realtà quotidiane e quindi una messa in discussione del senso stesso della realtà, e ciò viene ottenuto attingendo massicciamente ai registri della comicità o forse più precisamente del grottesco più esplicito e quindi della caricatura e della satira: pensiamo ai carri del carnevale di Viareggio e a tanti altri.

Si tende a immaginare o a presentare il carnevale come il regno della fantasia, dell'improvvisazione, della libertà: e fantasia e improvvisazione ne sono certo una componente essenziale, ma si manifestano quasi paradossalmente all'interno di strutture sostanzialmente rigide, insomma di un copione da cui non è lecito scostarsi.

A carnevale, si suol dire, ogni scherzo vale: ma la cosa è vera fino a un certo punto, e anzi si può dire che ogni carnevale ha un suo proprio codice che se da un lato permette o incoraggia tutta una serie di comportamenti che nel quotidiano sarebbero invece considerati offensivi e intollerabili, per esempio sul piano sessuale o su quello della violenza fisica (che è senza dubbio una delle componenti più ricorrenti e più sconcertanti delle feste mascherate anche nei moderni contesti urbani) dall'altro esclude recisamente, per esempio, le intrusioni nella sfera del privato.

Indubbiamente il carnevale riguarda tutta la comunità, ma non tutti i suoi componenti vi sono coinvolti nella stessa misura. Nelle società tradizionali la partecipazione “attiva” al carnevale spesso non è aperta a tutti: per esempio ne sono esclusi quelli che oggi sono invece in pratica i protagonisti del carnevale, cioè i bambini che vengono allontanati dalla sfilata addirittura con modi brutali (per esempio buttandoli nelle fontane!).

Cosa che ai nostri occhi può apparire quanto meno sorprendente ma che non fa che confermare il fatto che il carnevale è un fatto profondamente serio e come tale riservato agli adulti.

Ancora di più colpisce il divieto di mascherarsi che quasi dovunque è imposto alle donne.

Da un punto di vista antropologico forse la spiegazione più semplice della cosa sta nel considerare la parte femminile della comunità come la vera destinataria del rituale carnevalesco: sono gli uomini che celebrano il carnevale per le donne.

D'altra parte queste ultime hanno una parte decisiva nella realizzazione dei mascheramenti: è loro compito infatti la preparazione dei costumi, che in molti carnevali risultano estremamente elaborati, così da richiedere ore e ore se non giorni di lavoro da parte di madri, mogli e fidanzate. Ma la presenza del divieto di mascherarsi - un divieto ben reale che nelle società tradizionali, comportava, se trasgredito, una pesante disapprovazione - non credo abbia mai dissuaso qualche ragazza o qualche serissima madre di famiglia dal travestirsi segretamente

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e dall’indossare una maschera e partecipare così alla sfilata. D'altra parte anche se qualcuno poteva avere dei dubbi a nessuno era lecito provare ad accertarsene: nei carnevali tradizionali infatti la maschera costituisce una protezione totale della vera identità di chi la indossa, in quanto esiste sempre il divieto assoluto di costringere un mascherato a togliersela.

Cosa che, fra parentesi, può servire ad aumentare l'effetto di sorpresa quando è il mascherato stesso a decidere di sollevare la maschera, rivelando, dietro un minaccioso travestimento da diavolo o da orso, il volto familiare di un amico o quello, ancor più inatteso, di una ragazza. Si può però anche dare la situazione opposta: quella cioè in cui sono soltanto le donne a potersi mascherare. In questi casi esse indossano un travestimento totale, una specie di burka che rende impossibile ogni riconoscimento, e nei giorni di carnevale, animate da quel senso di libertà assoluta che da la maschera, fanno il giro di case private e locali pubblici, provocando gli uomini – completamente spiazzati da questo ribaltamento delle convenzioni sociali – facendosi offrire da loro, in assoluto silenzio, cibi e bevande.

Il rito del carnevale, si diceva, riguarda tutta la comunità, ma spesso questa delega, per così dire, il compito della realizzazione dei mascheramenti a un ristrettissimo gruppo di persone. Per esempio a Palù del Fersina, un piccolo paese della montagna trentina, sono solo tre le maschere che animano la manifestazione, il Vecchio (il carnevale che sta per morire), la Vecchia (la quaresima che sta per iniziare) e il “Portatore delle Uova”.

I tre percorrono di corsa tutto il vastissimo territorio del paese, che è formato da cascinali sparsi, e si fermano davanti a tutte le case – anche quelle disabitate - pronunciando formule augurali, e ricevendo in cambio offerte di uova. Arrivati in un osteria del paese, i mascherati ballano con i presenti: ma improvvisamente il Vecchio crolla a terra morto.

La sua compagna, la Vecchia, gli trova addosso un testamento e ne da lettura: è in realtà una rassegna, in chiave comica ma insieme spietatamente seria, di tutte le malefatte pubbliche e private compiute in paese nel corso dell'anno appena trascorso... Poi, altrettanto improvvisamente, il Vecchio risuscita, e i tre riprendono il loro frenetico giro. Risulta qui particolarmente evidente la funzione sociale del rituale carnevalesco, che in questo caso si manifesta attraverso il linguaggio della satira.

Molti carnevali tradizionali del resto appaiono strutturati come rappresentazioni della società reale e dei suoi (insanabili?) contrasti.

Nello straordinario carnevale di Schignano in provincia di Como - caratterizzato dalle splendide maschere in legno scolpito - compaiono due categorie di mascheramenti: i Belli, dal costume adorno di ricami, di nastri, di gioielli e i Brutti, che indossano invece stracci, pelli di animali e corna di bovini.

Le due categorie di maschere rappresentano rispettivamente i ricchi e i poveri: una raffigurazione semplificata e stravolta, ma estremamente efficace, di un certo tipo di realtà sociale.

E' in ogni caso uno straordinario spettacolo: una volta di più il carnevale è un esperienza da cui lasciarsi coinvolgere, o travolgere, più che da decifrare, un fatto totalizzante che come tale va anzitutto vissuto prima di smontarlo nei suoi elementi costitutivi.

Lo yoga a quadretti

Antica arte di vivere

Mimma Signifredi

Dedico queste pagine ai miei allievi e a Gianna Del Bianco che è stata l'anima bella del nostro Circolo Yoga. Una vera famiglia.

CENTRO DI RICERCHE PER UN YOGA OCCIDENTALE Perché un “Centro di Ricerche per un Yoga Occidentale”? Perché “l'europeo è costituzionalmente portato a fare un cattivo uso dello Yoga”. Questa affermazione, riportata dal Padre Déchanet nella prefazione del suo libro Yoga chrétien en dix lessons, è stata fatta da Jung nel suo fondamentale studio sullo Yoga e l'Occidente.

Tuttavia, questo famoso scienziato proseguiva riconoscendo che lo Yoga è necessario all'Occidente, e concludeva: “La cosiddetta civiltà occidentale deve liberarsi prima di tutto della sua perdurante barbarie. Ma per riuscire in ciò è necessario penetrare a fondo nella parte più umana dell'uomo. E questa conoscenza non può essere acquisita scimmiottando alla lettera (e per di più superficialmente) i metodi nati in condizioni psicologiche e culturali molto differenti. E' necessario che l'Occidente produca il 'suo' Yoga. Uno Yoga che crescerà, nel corso dei secoli e con l'esperienza dell'India, su basi cristiane”.

Facciamo nostra questa dichiarazione “profetica” di Jung e la completiamo con il commento di un altro grande ammiratore cristiano dell'Oriente, il Padre Regamey: “La realizzazione di questo autentico Yoga occidentale non sarà rapida e richiederà la collaborazione di tutti, dai laici ai religiosi illuminati da una fede viva e aperta.

Gli artigiani di questa opera vitale per l'umanità dovranno essere molto equilibrati e sereni. Ancora giovani essi si metteranno alla scuola dell'India, alcuni direttamente laggiù, in Oriente, altri invece nei loro Paesi. Ma gli occidentali che si accontenteranno di pochi e vaghi riflessi dell'India, o quelli che l'assimileranno prendendo i propri caratteri originali, rallenteranno la riuscita di questo trapianto e ne faciliteranno il rigetto”.

Ecco perché è nato il “Centro di Ricerche per uno Yoga Occidentale”, al quale dedichiamo tutte le nostre energie e capacità, facendo appello non solo a quanti condividono il pensiero cristiano in generale e quello di Pére Jean Déchanet in particolare, ma anche a tutti gli “yogi di buona volontà”.

Quelli, cioè, che avendo provato a proprie spese i limiti e i pericoli di uno Yoga male interpretato e avendone potuto poi sperimentare direttamente gli autentici benefici, sentono di aver superato la fase esotica e quella settaria di questa disciplina, donata all'uomo di tutti i tempi e di tutte le latitudini.

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Cos'è lo Yoga Benvenuti sul nostro tappetino, dove lo Yoga ci dà appuntamento, dove diamo appuntamento a noi stessi. Qui abbiamo la possibilità di incontrarci con la nostra parte migliore, quella che abitualmente trascuriamo fintanto che continuiamo a preferire altri appuntamenti, a intrattenere altre relazioni stressanti con mille cose che ci attirano altrove.

Come spunto introduttivo, proviamo a osservare la semplicità degli attrezzi richiesti dallo Yoga: basta un tappetino e il nostro corpo. Tutto qui. Chiunque possieda un corpo può fare Yoga, qualunque sia la taglia, la forma, la condizione fisica del corpo che ha. Da questo punto punto di vista, quindi, lo Yoga è lo “sport” meno costoso e complicato del mondo. Con la differenza che lo Yoga non è uno sport, perché esclude la competizione perfino con se stessi, e non è una ginnastica, perché non richiede movimenti ripetuti ma immobilità.

Lo Yoga, tuttavia, è complementare sia allo sport che alla ginnastica, come dimostrano molti campioni sportivi che praticano questa disciplina orientale prima o dopo le loro prestazioni agonistiche. Perché lo Yoga è una via diretta per conoscere se stessi e per liberarsi dai vari condizionamenti e ostacoli fisici, psichici, ambientali che impediscono la nostra piena realizzazione. Attraverso lo Yoga troviamo anche una risposta alle più inquietanti domande esistenziali, che l'uomo si è sempre posto. Risposta che si concilia molto bene con la religiosità. Attraverso lo Yoga è più facile penetrare la verità religiosa, cogliere il significato profondo del mistero. Benvenuti sul nostro tappeto, un posto magico dove avvengono trasformazioni alchemiche: il corpo ringiovanisce, il tempo non esiste e il riposo diventa “risveglio”.

La ricerca del centro

Lo Yoga è un cammino. Un processo di semplificazione. Nasce da un'antica dottrina orientale che porta l'uomo di tutti i tempi a realizzare se stesso in un completo equilibrio; cioè a vivere in armonia, oltre che con sé, anche con gli altri, con la natura, con il cosmo.

Tutto questo parte dalla constatazione, comune a quella biblica, che l'uomo non è più in armonia con se stesso (oggi meno ancora che nel passato) e trova sempre più difficilmente il proprio centro di gravità interiore; quindi si trova fuori da quella realtà che dovrebbe essere la sua vera natura.

L'uomo, infatti, soprattutto in occidente, è attirato fuori di sé dal mondo esterno, dalle sollecitazioni esteriori, e non sente più le voci di dentro. Il suo mondo interiore gli è sconosciuto, anche se poi è costretto a fare i conti con esso attraverso repressioni e complessi; gli squilibri che provochiamo nell'inconscio ce li ritroviamo sulla

pelle, come insegna la psicosomatica. E ancor più l'uomo moderno è vittima dell'estroversione, cioè dell'attaccamento alle cose fuori di lui; tanto che persino il suo corpo gli è estraneo. Così, lo spirito che dovrebbe essere il signore e il maestro del corpo, vi giace ignorato o rinchiuso come uno straniero di cui non comprendiamo il linguaggio.

Lo Yoga si propone di riportare l'uomo alla sua unità originaria, facendogli sperimentare che egli vive, respira e sente a partire dal suo centro di gravità. Non basta, infatti, avere un corpo e uno spirito sano: bisogna anche sapere esattamente cosa è e cosa non è il proprio centro di gravità; e non si tratta di conoscerlo come informazione culturale, ma di viverlo e sentirlo.

Attorno al centro di gravità si realizza l'unione, cioè lo Yoga, della mente e del corpo; perché questo centro è psicofisico, la radice comune di entrambe queste due sostanze del nostro essere.

Dallo Yoga fisico allo Yoga integrale La pratica dello Yoga diventa un modo di vivere, di accettarsi, di occuparsi del proprio corpo e del proprio spirito; un apprendimento continuo che porta a un'espansione di coscienza e a una completa conoscenza della realtà esistenziale.

Praticando con perseveranza gli esercizi si attiva una stimolazione fisiologica che si trasmette a ogni organo e a tutto il sistema nervoso; il corpo si risana e l'equilibrio raggiunto reca sostegno allo spirito, o, viceversa, lo spirito ritrovato porta a un migliore funzionamento del corpo. Vengono soddisfatti nello stesso tempo bisogni fisici e bisogni spirituali.

Esistono vari tipi di Yoga, da quello mentale a quello mistico, ognuno adatto ai diversi temperamenti, ed esistono anche lo Yoga fisico e lo Yoga energetico, i quali sono maggiormente diffusi in Occidente. Nella nostra scuola si lavora su questi due tipi di Yoga, senza però trascurare gli altri. Diamo vita, così, a uno Yoga integrale che comprende tutta la gamma, ma su una base fisica ed energetica, con il controllo diretto dei nostri progressi. Lo Yoga fisico ci porta a congiungere, attraverso il corpo, anche il cuore, la mente e la coscienza.

Lo Yoga fisico si rivolge ai cinque sensi, a ogni organo, a ogni ghiandola, alla circolazione sanguigna, alla respirazione, ai muscoli, ai nervi, alle ossa, e, attraverso il corpo intero, giunge alla mente e allo spirito. Questo Yoga fisico, o Hatha Yoga, porta a padroneggiare le varie facoltà per sviluppare e calmare al tempo stesso, ma soprattutto per farne esperienza e prenderne coscienza, giungendo così allo Yoga integrale.

Il relax dell'elastico Una delle basi di ogni disciplina evoluta è la capacità di eliminare le tensioni muscolari, nervose, psichiche e mentali. Fondamentale è quindi la capacità di distensione rapida, il relax lampo. Come quello dell'elastico teso che, di colpo, ritorna alla sua dimensione.

E diciamo a noi stessi, interiormente: “Io mi abbandono pesantemente al sostegno che mi sorregge. Sento che tutto il mio corpo si appoggia con fiducia, e lascio alla terra il compito di portarmi. Non è più necessario che io faccia sforzi per tenermi aggrappato a me stesso, con la paura inconscia di cadere. Sento che questa terra mi è amica, perché io mi appoggio ed essa mi sostiene sempre di più”.

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Ora pensiamo all'elastico, che può tendersi in qualsiasi direzione, ma è in grado di riprendere la sua forma rotonda non appena viene lasciato libero. “Io sono quell'elastico. Ogni mia fibra muscolare è elastica e può tornare alla sua lunghezza normale solo se io la lascio libera coscientemente. Mediante l'auto-osservazione, posso liberare ogni fascio muscolare dalle contrazioni inconsce che lo tengono in uno stato di tensione permanente. Io sono un elastico che non si deforma e che sa sempre ritrovare spontaneamente la sua vera natura. E la mia vera natura la ritrovo nella distensione profonda”.

Il relax della tartaruga

Per “fare” lo Yoga bisogna imparare a non fare niente. E' uno dei paradossi di questa disciplina. Non si tratta di “fare” qualcosa ma di “disfare” ciò che abbiamo sovrapposto alle nostre qualità primordiali. E' rintracciare prima di tutto i nostri veri talenti e dissotterrarli. Ecco perché il relax è la base per imparare a ritrarsi all'interno di sé. Come una tartaruga, dalla quale possiamo imparare l'arte del ricentrarsi.

Il relax della tartaruga è un rilassamento che riguarda particolarmente le membra inferiori e superiori, ma che si estende a poco a poco a tutto il corpo. E si chiama della tartaruga perché la sensazione che deve prevalere è quella di un allungamento e di una ritrazione di braccia e gambe in sincronia con il respiro, come fa per l'appunto la tartaruga.

Dopo un breve rilassamento preliminare, ci si deve raccogliere all'interno del torace per ascoltare il respiro del riposo profondo, con il rallentamento al livello della gola. Mandiamo ora il nostro espiro verso la spalla destra e lungo il braccio, come se il soffio percorresse un tubo, fino alla mano e alla punta delle dita. Poi, con l'ispiro, ritorniamo in senso inverso, fino al centro del torace (ma quando discendiamo con l'espiro lungo il braccio dobbiamo immaginare di stare allungando l'arto superiore destro, visualizzandoci come una tartaruga nell'atto di distendere la sua zampa destra. Stessa sensazione, in senso inverso, all'inspiro: immaginare di ritrarre il braccio destro).

Stesso esercizio con il braccio sinistro. Poi la gamba destra. E gamba sinistra. Il relax prosegue inviando l'espiro dal torace a entrambe le braccia, e poi, ritraendole mentalmente nel corso dell'inspiro (deve essere, però, solo una sensazione e non un movimento vero e proprio degli arti), ripetere più volte. Stesso esercizio con le due gambe simultaneamente, visualizzando l'allungamento e l'accorciamento degli arti sincronizzato con il respiro. Ripetere alcune volte. Infine completare il relax con tutte e quattro le membra insieme.

L’albero della conoscenza

Rodolfo Signifredi

“Bisogna essere come l'albero che è sempre in preghiera”

Garcia Lorca

E' incredibile quante cose si possano apprendere su noi stessi quando si prende un platano come compagno di meditazione. Ma qualunque altro albero va ugualmente bene. E possiamo sceglierne uno che incontriamo tutti i giorni lungo la nostra strada. Oggi la Meditazione non è più una pratica riservata ai mistici o agli yogi dell'Himalaya. Oggi viene considerata, anche in ambienti scientifici, la ginnastica mentale per eccellenza che contribuisce a mantenere integro ed efficiente il nostro cervello. E il filo conduttore di questa Meditazione può essere, appunto, l'albero. L'interiorità dell'albero. Come ci insegnano anche i monaci esicasti dell'Oriente ortodosso, che suggeriscono di “entrare” nei soggetti stessi della meditazione per imparare da loro come si fa a meditare.

Così entreremo nella vita segreta di una pianta per riscoprire l'albero della vita che è in noi. E impareremo a conoscere meglio anche l'albero vero, simbolo della natura in continua crescita nella ciclicità delle stagioni.

Mediteremo all'interno di un albero, seguendo un percorso che ci porterà, passo dopo passo, dalle radici all'apice. Ma non come in un libro di botanica, bensì attraverso l'intimità dell'albero stesso. E scopriremo quanti riferimenti possiamo trovare per la nostra vita. Il platano diventerà il nostro “albero maestro”. Maestro di meditazione.

CHIAMATI ALLA VERTICALITA' Meditare come un albero è entrare nel suo segreto. Cogliere quei rapporti che l'albero assoluto, l'archetipo dell'albero, ha con noi stessi.

Eccoci in piedi, uno di fronte all'altro, noi e l'albero. Fermi in silenziosa contemplazione. Due verticali parallele tra loro. Ciascuna, a suo modo, aderente alla terra e, allo stesso tempo, protesa verso il cielo. Ma quella dell'albero è più forte e sicura. E con lo slancio del suo tronco esprime un invito a realizzare la nostra verticalizzazione, a manifestare la nostra aspirazione al ricongiungimento. Perché tutti veniamo dall'Uno, come narrano i Miti delle origini. Però il platano conserva più di noi la memoria dell'atto creatore. Con il suo fusto forte e ben radicato, i lunghi rami come braccia levate al cielo, richiama il gesto degli Oranti del cristianesimo primitivo. Pare sollecitare un atto di preghiera, di implorazione, di volontà di riunificazione.

Altri rami, più in basso si tendono paralleli al suolo. Una contraddizione? No, anche nella vita umana lo slancio verso il divino si accompagna all'apertura verso i fratelli. E' la preghiera che diventa servizio.

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ALLA RADICE DELLE COSE

Quando disegniamo un albero, solitamente non raffiguriamo le sue radici. Così come, in generale, trascuriamo tutto ciò che sta sotto di noi, nella parte nascosta della vita. Ma appena ci inoltriamo in profondità, anche solo con il pensiero, nascono riflessioni inconsuete. Che partono proprio dalle radici. Bisogna diventare alberi per vederle in azione.

Immaginiamo di sederci con la schiena appoggiata al tronco, tra le radici che affiorano. Diventiamo l'albero e posiamo le mani su queste sporgenze, pensando di scendere con loro nelle viscere della terra. Le radici sono muscolose come braccia potenti che vanno in profondità e si avvinghiano al suolo per affrontare i venti e le tempeste.

E' un mondo buio quello delle radici, dove la vista non serve, ma solo la nostra sensibilità. E allora inoltriamoci con movimento lento, ramificandoci, osservando come la terra lascia spazio a questa energia vegetale. Una radice deve farsi forte per penetrare nel terreno, aggirare o sfondare gli ostacoli fino a raggiungere l'acqua che scioglie i nutrienti minerali.

Ma non è una lotta tra elementi ostili. E' una resistenza che mette alla prova la radice e la rafforza nel suo continuo avanzare tra sassi, altre radici, cespugli, muretti di cemento. E non si arrende mai. Sempre avanti sfoderando le punte. Quando le cellule scavatrici si deteriorano la radice le rimpiazza; quando incontrano una fonte di nutrimento la radice le sostituisce con altre più adatte ad assorbire. E quando anche queste diventano dure ne produce di nuove.

Anche noi, nel crescere, ci facciamo duri per difenderci e sfondare. Ma non siamo così capaci di rinnovamento. E la Meditazione ci suggerisce di fare come le radici: bloccare i modelli di comportamento che non sanno più adattarsi al nuovo. Trasformarli in memoria e sostituti con altre modalità di vita, più capaci di succhiare dall'ambiente gli umori vitali adatti alla nuova crescita. Ringiovanire costantemente la nostra ricettività. Rinnovarci di dentro ma senza rinnegare le nostre radici affettive, culturali, spirituali. E riconoscere fin dove si estendono queste radici nel sottosuolo dell'inconscio, in stretto contatto con tante altre radici con cui formano reti di relazioni. Perché è questa l'altra grande lezione dell'albero. L'unità della vita.

Tutto viene dall'Uno. E' ciò che da millenni le religioni ci ripetono e che la scienza sta scoprendo solo ora. Quando spunta dal terreno ogni pianta è un individuo isolato, ma nel sottosuolo le radici del platano stanno in stretto contatto con quelle dei salici, degli ontani, delle metasequoie o delle lievi erbe del prato. Si incontrano e si intrecciano.

Anche noi, in superficie, siamo degli esseri separati. Ma a livello profondo c'è unità. E quando all'esterno i rapporti sono difficili, basta pensare agli equilibri che si realizzano in profondità. Dove l'ira e i risentimenti non hanno più cittadinanza, perché siamo tutti figli della stessa Madre.

IL TRONCO E L'ESSENZA

E' d'inverno che l'albero si mostra in tutta la sua essenzialità. Sembra morto ma all'interno c'è una intensa vita segreta. Non teme il freddo perché la sua energia è concentrata dentro e tutto diventa protezione per lui. La sua corteccia è anche la nostra. Rughe e crepe segnano i suoi e i nostri affanni. Ma l'albero sa rinnovarsi di anno in anno. E' la dura e sana legge del crescere. Di anno in anno il diametro del tronco cresce e la corteccia si distende elasticamente finché può, poi comincia a lacerarsi. O a squamarsi, come quella del platano che lascia cadere le sue placche. E' la protezione esteriore che deve adeguarsi alla pressione crescente dall'interno. Stando di fronte all'albero, in silenzio, ad occhi chiusi, si avverte la forte tensione ascensionale che lo anima. E' la sua spinta a crescere, a sfidare la legge di gravità, ad allontanarsi dalla Terra per tendere al Cielo. Una crescita che continua per tutta la vita dell'albero, anche per secoli. Anche noi siamo chiamati a crescere, se non sul piano fisico, su quello culturale e spirituale.

La crescita che per l'albero è un fatto naturale per noi è scelta, conquista, superamento. Oltre la maternità, ma senza negarla. Aspirare a crescere ogni giorno, fino all'ultimo giorno.

Nel fusto tutto è organizzato intorno al centro, dove scorre il midollo. La vivente struttura colonnare ad anelli concentrici ci insegna a ricentrare le nostre energie, ma al tempo stesso ad espanderle come fa la linfa che si ramifica nei suoi sottili canali. Fino alla cima, dove incontriamo

l'apice vegetativo, la punta avanzata dell'albero. L'apice, in botanica, si chiama “dono” si attiva solo quando lavoriamo su noi stessi, dall'interno.

Il centro dell'albero, dal quale partono tutti i suoi sviluppi, è connesso alla vita Cosmica, così come il nostro centro spirituale ci collega al Divino. Da questo centro è essenziale partire e a questo tornare ogni giorno.

La sezione di un tronco, con gli anelli concentrici e i raggi midollari è un mandala naturale che ci richiama all'interiorità.

E' quello che i saggi chiamano il ritorno al Centro. Concentrarci su questa immagine ci ricarica di energia. Così come il ripensare alla verticalità dell'albero ci sostiene interiormente, aiuta a tenerci eretti, a non darci per vinti. Ma ci sono altri aspetti della vita di un albero che offrono insegnamenti. Preziosi come le gemme.

ANDAR PER GEMME Se l'albero ci fornisse solo le gemme come motivo su cui riflettere avrebbe già assolto il suo compito di maestro di Meditazione. Perché la gemma, come il seme, contiene tesori segreti e costituisce un momento particolarissimo della vita vegetale.

Ogni albero ha le sue gemme e ognuna ha i suoi tempi. Ci sono gemme che si aprono subito al finire dell'inverno, altre che aspettano la primavera, altre ancora l'estate. Ma anche gemme che non si aprono per anni e anni.

Sono le gemme “in sonno” che intervengono solo quando la vita della pianta è compromessa dal gelo, dalla siccità, dal fulmine. Allora si destano, sostituiscono l'apice vegetativo e prendono le redini del nuovo albero.

E il nuovo ramo-fusto punta subito verso l'alto. Perché questo è l'imprinting che ha avuto dalla Creazione.

Quando nella nostra vita qualcosa si spezza possiamo contare sulle “gemme dormienti” che sono le capacità di cui ignoravamo l'esistenza. Dopo un trac inizia sempre un

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periodo nuovo. Dopo l'incidente che cambia il corso della vita si esce sempre trasformati. E' il ricominciamento.

Sta a noi farne tesoro. Perché gli ostacoli impediscono di proseguire sulla via fatta di abitudini e dipendenze. Sono crisi di crescita. Anche nell'ideogramma cinese la parola crisi è raffigurata dal simbolo del rischio e da quello dell'opportunità. Sta in noi decidere cosa scegliere. Però non dobbiamo aspettare una crisi per risvegliare le nostre forze “in sonno”.

Come la bella addormentata nel bosco, le gemme e le nostre potenzialità nascoste, sono in attesa di un risveglio. Favole che la natura racconta a chi le sa ascoltare. E quando, nei giorni di gelo, le gemme sono “avvolte in una camiciola trasparente di ghiaccio”, sembrano davvero pietre preziose che richiudono un altro segreto. Diventeranno rami, o foglie, oppure fiori? Da come ci appaiono hanno tutte la stessa possibilità. Ma chi lo decide?

DI FIORE IN FIORE

Anche i fiori, come le gemme e l'apice vegetale hanno tanto da insegnarci. Prima di tutto rispondono a una domanda che viene leggendo la storia del pianeta. Un tempo, milioni di anni fa, le piante non facevano né fiori né frutti. Non ne avevano bisogno perché le piantine nuove nascevano per scissione, gemmazione o attraverso spore e stoloni. In quel tempo le piante non avevano sesso. Non c'era quindi il rimescolamento dei caratteri ed erano sempre clonazioni di se stesse. Finché apparve il fiore, la sessualità. E l'incontro dei caratteri maschili e femminili ha dato vita alle varietà della specie e alla maggiore sopravvivenza.

Basta un refolo di vento e le infiorescenze rilasciano polvere d'oro. Tutte le piante anemofile, che cioè affidano al vento la loro impollinazione come il platano, ne producono grandi quantità per garantire che almeno uno dei milioni di pollini arrivi a posarsi sul fiore femminile di un altro platano. E questo vale per ogni pianta.

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Ma spesso sono gli insetti a sostituirsi al vento. Oppure è l'acqua. In tutti i casi è la pianta che lo “affida” a questi agenti esterni.

E' un sentimento di fiducia nella saggezza della Natura e delle forze superiori che portano la quantità adeguata di polline a destinazione. E' un affidarsi, un abbandono fiducioso al vento, all'anemos, che in greco significa anche anima, respiro, spirito. Ecco la lezione per noi, l'invito ad affidarci al vento dello Spirito che da sempre soffia sulla terra.

DAL FRUTTO AL SEME

Nel platano, come in altre piante, le foglie non si aprono prima della fioritura e lo fanno per non ostacolare il passaggio del polline verso i fiori da fecondare. Le foglie sono il più complicato ed efficiente laboratorio chimico esistente in natura: respirano, traspirano, operano la fotosintesi, elaborano la linfa grezza che le radici spingono in su e che le foglie aspirano. La linfa dell'autoconoscenza che elaboriamo nel nostro laboratorio interiore spinta in su dalle radici dell'essere, aspirata dai mille petali della Coscienza.

E' passato un anno da quando abbiamo cominciato questo dialogo e ne abbiamo avuto un sostegno inaspettato: ha risvegliato in noi la forza con il suo tronco robusto, il sentimento di fraternità con le radici e di religioso abbandono col suo affidarsi all'anemos. Le sue “gemme dormienti” ci hanno dato speranza, le foglie sono diventate un'efficace immagine di un laboratorio interiore.

Siamo nel tardo autunno e, per molte piante, questo è il tempo dei frutti e dei semi apparsi con la fioritura. In primavera, queste infruttescenze impregnate d'acqua e di neve cadranno disfacendosi per il rilasciare la semente. Ma bisogna che il seme, caduto a terra, muoia perché possa dare un nuovo frutto. E' la Meditazione finale, che chiude un ciclo. E un nuovo cerchio concentrico si disegna nel Mandala del nostro cuore.

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Dal 1898 diamo loro il pane quotidiano

Fratello ... qui nessuno ti domanderà chi sei, nè perché hai bisogno, nè quali sono le tue opinioni

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Nuove iniziative e collaborazioni…

Il Presidente del Pane Quotidiano Pier Maria Ferrario e i membri del consiglio di amministrazione porgono al neo eletto sindaco Dr. Giuseppe Sala e al nuovo Consiglio Comunale i più sinceri auguri di buon lavoro, augurandosi che prosegua la fattiva collaborazione già in essere con le precedenti amministrazioni.

* * *

Accordi Le collaborazioni sono di vitale importanza per Pane Quotidiano, e vanno intese in duplice maniera: uno scambio reciproco di competenze e aiuti per lo svolgimento delle reciproche attività. I nostri collaboratori: City Angels - Croce Rossa - Cena dell’Amicizia - Eccoci Insieme - Genitori Scuola Tabacchi - Scuola Marcus Cardinal Ferrari - Asilo Mariuccia - Kayros - CAF - A.R.C.E. Onlus - Fondazione Progetto Arca Onlus.

Aiutaci a mettere il secondo mattone

Nel mese di agosto è iniziata la ristrutturazione della nostra sede di Viale Toscana. Ringraziamo chi ha già contribuito e chi continuerà a sostenerci.

Vi ricordiamo che abbiamo aperto un conto corrente per i fondi destinati alla ristrutturazione.

c/c n. 000000216122 Banca Popolare Etica Codice IBAN: IT71O0501801600000000216122 - Codice BIC: CCRTIT2T84A

Si ringraziano tutte le persone e le aziende che durante l’anno inviano bonifici bancari. Spesso siamo impossibilitati, viste le leggi sulla privacy, a reperire gli indirizzi. Chi volesse chiedere la ricevuta fiscale può telefonare in segreteria. GRAZIE!

PANE QUOTIDIANO NEWS

Un nuovo modo per aiutare Pane Quotidiano

Il Lions Club Bramante Cinque Giornate ha organizzato un torneo di Burraco per sostenere la nostra organizzazione.

La prima delle tre serate si è svolta il 21 ottobre e ha riscontrato un grande successo.

Un ringraziamento speciale al governatore del distretto 108 I b 4 per il suo sostegno.

Una mela per chi ha fame

Come è ormai tradizione da quattro anni, tutti i club del distretto 108 I b 4 hanno organizzato il primo ottobre a Milano e in provincia la distribuzione di mele Marlene offerte dal consorzio Alto Adige.

I milanesi, sempre generosi, hanno risposto all’iniziativa in modo molto positivo. L’importo totale della raccolta verrà diviso tra Pane Quotidiano, l’Opera Cardinal Ferrari, City Angels e Caritas, quattro associazioni di grande aiuto per le persone in stato di bisogno.

Grazie e arrivederci al prossimo anno!

Il “Centro d’ascolto” di Pane Quotidiano

Da un po’ di tempo ormai, i Lions hanno promosso un’iniziativa di grande rilevanza presso la nostra sede: il “Centro d’ascolto” di Pane Quotidiano fornisce assistenza giuridica e morale a chiunque si presenta o abbia la necessità di essere ascoltato. A partire dalla scorsa estate, l’Università Bocconi ha iniziato a contribuire all’iniziativa prestando assistenza ogni sabato. Il numero di persone che usufruiscono di questo servizio gratuito è in costante aumento. Insieme alla distribuzione di generi alimentari e l’ambulatorio medico liberamente accessibile il sabato, questo servizio integra l’offerta di Pane Quotidiano che si impegna a fornire un’assistenza sempre più completa ai bisognosi.

A Milano la povertà è ancora oggi molto diffusa. Pane Quotidiano, nelle sue sedi di Viale Toscana e Viale Monza, distribuisce ogni anno pane e generi alimentari a circa 800.000 persone che non hanno di che mangiare. Devolvi il 5x1000 a Pane Quotidiano, con la tua firma e il nostro codice fiscale:

80144330158.

Pane Quotidiano

A fianco di chi ha bisogno

Associazione senza scopo di lucro

A caccia del DNA di Leonardo

Il DNA di Leonardo da Vinci si può ricostruire?

Anna Savoini

Un progetto internazionale vuole cimentarsi in un compito ambizioso: risalire al genoma del genio rimascimentale a partire da appunti, schizzi e dipinti per confrontarlo con quello dei suoi discendenti e delle sue “presunte” spoglie sepolte al castello di Amboise in Francia.

IL “LEONARDO PROJECT”

Una road map del progetto che coinvolge genetisti, archeologi e storici dell’arte italiani, francesi, spagnoli e statunitensi, è stata pubblicata sulla rivista scientifica “Human Evolution”. I codici ed i dipinti di Leonardo potrebbero celare indirizzi utili allo scopo: l’unico problema è riuscire a rintracciarli ed a estrarli senza danneggiare le opere.

Altri ricercatori si stanno concentrando sull’identificazione dei moderni eredi dello scienziato. Così con i confronti potremmo risalire al colore dei suoi occhi a quello dei capelli, capire qualcosa in più sulla sua capacità visiva e sulla sua salute. Si è ricostruito l’albero genealogico di Leonardo: molte cose hanno condizionato la sua formazione come il fatto che il nonno non fosse un semplice contadino ma un personaggio tutto da scoprire che aveva contatti con Avignone, Barcellona, Valenza ed era arrivato perfino a Maiorca come procuratore di un cugino mercante. (Non dimentichiamo che Leonardo fu figlio illegittimo di Piero, rispettato notaio fiorentino che annoverava tra i suoi clienti anche i Medici, mentre la madre Caterina era una popolana di origine orientale).

A tutt’oggi sono stati trovati 35 discendenti viventi di Leonardo. E’ il risultato di una ricerca iniziata nel 1973 da Alessandro Vezzosi ed Agnese Sabato.

Lo studio ha permesso di rintracciare i discendenti del padre dalla tomba della famiglia di Leonardo ma anche sorprendentemente nell’albero genealogico della famiglia Corsi. Oggi un famoso esponente è Gianfranco Corsi in arte Franco Zeffirelli.

La seconda ricerca si potrà effettuare esaminando le “presunte” ossa di Leonardo conservate nella sua cappella nel castello di Amboise in Francia dove Leonardo morì dopo essere stato ospite per anni del re francese Francesco IV. Leonardo lasciò per testamento di essere sepolto nella cappella di Saint Florentin nello stesso castello.

Ma nel 1802, complice la rivoluzione francese, la cappella fu demolita, alcune tombe distrutte e le ossa ritrovate sparse. I biografi di Leonardo nel 19°secolo denunciarono la sparizione dei suoi resti ma nel 1863 un nuovo scavo rinvenne delle ossa vicino ad una lastra di pietra con la scritta: Leo Duo Vinci.

Si constatò che le ossa craniche fossero così grandi da contenere sicuramente un cervello di notevoli dimensioni. Le ossa riesumate incredibilmente sparirono per un altro decennio senza lasciare traccia.

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Ma furono riscoperte e riseppellite nella cappella di Saint Hubert nel 1874, sepolcro che ancor oggi possiamo visitare ad Amboise. Ecco pertanto le due possibilità che gli scienziati hanno per risalire al DNA di Leonardo: la discendenza e le ossa.

Ma aldilà delle sfide tecniche un ostacolo che la “Leonard Project” dovrà affrontare sarà convincere musei, privati, istituzioni, miliardari (come Bill Gates proprietario del “Codice Leicester”) a collaborare per aprire le porte alla scienza. Sarà possibile? Il progetto si spera di portarlo a compimento nel 2019 anno in cui ricorrerà il 500 anniversario della sua morte. Saranno utilizzate nuove tecniche di biologia molecolare e genetica e saranno combinate con le conoscenze di antropologia e storia. I lavori inizieranno non appena saranno autorizzate le operazioni sulla tomba della famiglia Vinci a Firenze e sui “presunti” resti sepolti ad Amboise. I primi test si dovrebbero anche effettuare sul capolavoro della “Adorazione dei Magi” attualmente in restauro a Firenze: non dimentichiamo che Leonardo spesso utilizzava le dita per dipingere e ciò potrebbe essere un fondamentale aiuto perché le cellule potrebbero essersi mescolate ai colori. Leonardo lasciò impresse le sue impronte digitali nel suo dipinto “San Gerolamo”, un'altra possibilità di ritrovare il DNA.

Un enorme lavoro di ricerca che gli scienziati di tutto il mondo si apprestano ad iniziare: il risultato sarebbe di una enorme importanza per la cultura, la scienza e la storia del più grande genio italiano.

Leonardo da Vinci. 15 aprile 1452 - Amboise 2 maggio 1519

Duomo di Como Transetto Nord Abside, prima del restauro

Duomo di Como, Transetto Nord, Abside, dettaglio gruppo scultoreo, dopo il restauro19

“Risate di gioia”

Regia di Mario Monicelli (1960)

Marcello Paparazzo

“Risate di gioia” – regia di Mario Monicelli (1960) – soggetto: tratto dai racconti “Risate di gioia” e “Ladri in chiesa” di Alberto Moravia; sceneggiatura: Suso Cecchi D’Amico, Age, Scarpelli, Mario Monicelli - Anna Magnani (Gioia, detta Tortorella), Totò (Umberto Pennazzuto, detto Infortunio), Ben Gazzara (Lello), Fred Clark (l’americano).

Tortorella (Anna Magnani) lavora a Cinecittà e per vivere fa delle piccole parti, ma aspira a diventare una grande diva. Per il cenone di Capodanno rifiuta la compagnia di Umberto Pennazzuto, un ex attore, detto “Infortunio”, per la sua capacità di inscenare falsi incidenti e truffare le assicurazioni. Umberto (Totò) nel frattempo ha promesso a Lello, un borseggiatore, di fargli da spalla durante la notte di San Silvestro per tentare qualche colpo.

I tre si incontrano casualmente e Tortorella costringe i due uomini ad accompagnarla a un ballo in maschera.

Totò (Antonio De Curtis Gagliardi Griffo Focas Comneno, Napoli 1898 – Roma, 1967) nel film “Risate di gioia”

Anna Magnani (Roma 1908 – 1973) in “Teresa Venerdì” (1941) un film diretto da Vittorio De Sica

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Accade così che la donna si trova immischiata nelle operazioni di Umberto e Lello. Quest’ultimo, per paura che Tortorella possa rovinare i suoi progetti, finge di essere innamorata di lei e la corteggia. La donna si illude e ricambia il sentimento. Umberto vorrebbe aprirle gli occhi, ma Tortorella crede che sia semplicemente geloso. All’alba, i tre, dopo numerose disavventure, si trovano nella casa di alcuni aristocratici tedeschi, dove Lello viene scoperto con le mani nel sacco. I due attori e il borseggiatore vengono cacciati e si rifugiano in una chiesa. Tortorella crede che l’amato sia in preda al rimorso, invece lo sorprende nell’atto di rubare una preziosa collana dalla statua della Madonna.

La donna interviene per evitare che compia il sacrilegio, ma in quel momento arriva la polizia, che accusa Tortorella del furto e la arresta. Uscirà di prigione il giorno di ferragosto e Umberto, il suo vecchio amico e corteggiatore, sarà lì ad aspettarla.- cfr. Ivana Delvino, I film di Mario Monicelli, Roma 2005; “24 Cinema” – “Comicamente” - Antologia della risata – edizioni de “Il Sole 24 Ore” – 2015 – Totò – “Risate di gioia” - Mario Monicelli, La commedia umana – Conversazioni con Sebastiano Mondadori – Milano, 2016.

Sintesi degli eventi bellici della Grande Guerra

Claudio Anselmi

Conflitto di dimensioni intercontinentali (denominata “La Grande Guerra”) innescata dalle pressioni nazionalistiche e dalle tendenze imperialistiche coltivate dalle potenze europee a partire dalla seconda metà del 19° sec. Coinvolse 28 paesi e vide contrapposte le forze dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russia, Italia e loro alleati) e gli Imperi Centrali (Austria-Ungheria, Germania e loro alleati). Le battaglie decisive si svolsero in Europa, su 5 fronti: quello occidentale, tra Francia e Germania, lungo la Marna e la Somme; l’orientale, o russo, esteso e privo di barriere naturali; il meridionale, o serbo; l’austro-italiano, sulle Alpi orientali e in Carnia; ed il greco.

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LO SCOPPIO DELLA GUERRA

Nei primi anni del ‘900 andarono delineandosi due blocchi contrapposti: Francia e Gran Bretagna, da una parte, saldarono la loro alleanza nell’Intesa cordiale (1904) e portarono nel loro campo, progressivamente, Russia,Giappone e Italia; dall’altra, gli ‘imperi centrali’, Austria-Ungheria e Germania, legarono a loro l’Impero ottomano.

Negli stessi anni le crisi internazionali si fecero ricorrenti, in particolare a seguito dell’annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Austria-Ungheria (1908), che alimentò gli scontri nei Balcani, principale focolaio di tensioni. La questione di Alsazia e Lorena, la rivalità navale anglo-tedesca, l’indebolimento dell’Impero ottomano dopo le guerre balcaniche, la crisi dell’Impero austro-ungarico e le aspirazioni italiane erano tutti fattori che minacciavano la pace europea. La causa scatenante della guerra fu l’assassinio, a Sarajevo, per mano di un’organizzazione patriottica e nazionalista serba, dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono austro-ungarico (28 giugno 1914).

Dopo l’attentato, l’Austria-Ungheria, ottenuta mano libera dalla Germania, lanciò un ultimatum (23 luglio 1914) alla Serbia, ritenendola corresponsabile. Mentre le cancellerie europee si impegnavano per trovare una soluzione pacifica, il 28 luglio l’Austria dichiarò guerra alla Serbia. La catena delle alleanze fece precipitare la situazione: la Russia rispose con una mobilitazione generale. La Germania dichiarò guerra alla Russia (1° agosto), poi alla Francia (3 agosto), quindi violò la neutralità di Lussemburgo e Belgio (1-4 agosto); questo atto di forza decise l’ingresso in guerra della Gran Bretagna contro la Germania. Poche settimane dopo (23 agosto) anche il Giappone entrò nel conflitto, in quanto alleato della Gran Bretagna; Francia, Gran Bretagna e Russia sanzionarono con il Patto di Londra (4 settembre 1914) una vera e propria alleanza. La Turchia, timorosa della Russia e legata alla Germania, decretò la chiusura degli stretti (29 settembre) alla navigazione commerciale e si unì (12 novembre)

agli Imperi centrali. Il Portogallo si schierò a fianco dell’Intesa. Alleata degli Imperi centrali, l’Italia rimase neutrale; la mancata consultazione da parte degli alleati e il carattere offensivo della guerra ne giustificavano giuridicamente la posizione.

GLI EVENTI BELLICI NEL 1914 - 1915 Fronte occidentale Il conflitto ebbe inizio con l’offensiva tedesca contro la Francia attraverso il Lussemburgo e il Belgio. La Germania, impegnata su due fronti, mirava a conseguire una rapida vittoria sul fronte occidentale, puntando su Parigi. Le offensive in Lorena e verso le Ardenne (18 agosto) e quella in direzione di Sarrebourg e di Morhange (14-19 agosto) lanciate dai francesi fallirono. Nella battaglia lungo il confine franco-belga (22-25 agosto) la V armata francese e il corpo di spedizione britannico furono battuti e costretti a ritirarsi. Parigi fu salvata dal contrattacco francese (battaglia della Marna 5-10 settembre), che costrinse i Tedeschi a ripiegare a nord del fiume Aisne. Dopo la battaglia dell’Aisne (13-17 settembre), che arrestò la spinta franco-inglese, le forze contrapposte diedero inizio a una serie di manovre in direzione dello Stretto di Calais, per guadagnare il controllo dei porti sulla Manica. La cosiddetta ‘corsa al mare’ si arrestò nelle Fiandre: respinti fino allora dai Tedeschi i tentativi di aggiramento franco-inglesi, nelle battaglie dell’Yser (18 ottobre-10 novembre) e di Ypres (23 ottobre-15 novembre), gli Alleati riuscirono a evitare lo sfondamento nemico e a stabilizzare il fronte. Il fronte occidentale si fissò su una linea trincerata che tagliò il continente dalla costa belga fino alla neutrale Svizzera; alla guerra di movimento dei primi mesi sarebbero seguiti circa 3 anni di guerra di logoramento condotta dalle trincee e punteggiata da sortite offensive che si concludevano in carneficine di inusuali proporzioni, senza significativi avanzamenti militari.

Fronte orientale

Ad est le forze russe avanzate nella Prussia orientale dopo la vittoria di Gumbinnen (19-20 agosto) subirono la catastrofe di Tannenberg (26-30 agosto) e la battaglia dei Laghi Masuri (9-14 settembre) determinò la loro ritirata dalla Prussia. Dopo la prima offensiva russa in Galizia (18 agosto-11 settembre), la gravità della disfatta austriaca indusse i Tedeschi a intervenire accanto agli Austriaci, ma furono costretti al ripiegamento (20 ottobre), mentre i Russi sferravano la seconda offensiva in Galizia (18 ottobre-2 novembre). Con la seconda offensiva di Polonia, culminata nella battaglia di Lódź (17-26 novembre), i Tedeschi impedirono l’invasione del proprio territorio, bloccando nel contempo l’offensiva dell’avversario contro gli Austriaci. Il 23 gennaio 1915 gli Austriaci, appog-

giati dalle forze tedesche, accerchiarono e distrussero la X armata russa. Con la terza grande offensiva russa contro gli Austriaci (22 marzo-10 aprile 1915), si determinò il ripiegamento degli stessi dietro il crinale dei Carpazi, dove si stabilizzò temporaneamente il fronte.

Terzo Fronte

Il 9 dicembre 1914 il governo italiano chiese all’Austria compensi territoriali per la sua avanzata nei Balcani, che furono rifiutati. Dal settembre aveva intanto avviato trattative con le potenze dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russia), precisando le sue richieste territoriali, fino alla conclusione del Patto segreto di Londra del 26 aprile 1915, con cui l’Italia si impegnò ad aprire le ostilità contro l’Austria entro 30 giorni dalla firma del protocollo.

Il 24 maggio 1915 fu dichiarata la guerra all’Austria da parte dell’Italia.

L’Austria aveva predisposto un solido schieramento difensivo sulle posizioni di confine lungo l’Isonzo e le alture del Carso e i mezzi offensivi dell’esercito italiano erano scarsi, per cui la guerra assunse dall’inizio carattere di logoramento: 4 offensive sull’Isonzo (23 giugno-7 luglio; 18 luglio-3 agosto; 21 ottobre-4 novembre; 10 novembre-5 dicembre), guidate dal generale Luigi Cadorna, non spezzarono la difesa nemica, ma l’Austria fu obbligata a inviare sul nuovo fronte forze sempre più numerose.

GLI EVENTI BELLICI NEL 1916 Fronte occidentale Mentre gli Anglo-Francesi erano costretti ad attendere l’inizio dell’estate per lanciare un’offensiva sulla Somme (per difetto di materiali bellici e non essendo in grado gli alleati russi e italiani di prestare loro aiuto prima), i tedeschi presero l’iniziativa di una grande battaglia di logoramento sul fronte di Verdun, tenuto dai Francesi, nella persuasione che la Francia, demoralizzata, avrebbe chiesto la pace. La battaglia di Verdun, svoltasi fra il 21 febbraio e il 24 giugno 1916, risultò una grande vittoria difensiva francese e simbolo dell’invincibilità dell’Intesa, anche se la Germania inflisse all’esercito nemico molte più perdite di quante ne subì. Il 1° luglio gli Anglo – francesi scatenano un’offensiva che culmina nella battaglia della Somme dove i mezzi messi in opera si rivelarono i maggiori fino ad allora impegnati e apparve un’arma nuova, il carro armato. La battaglia della Somme (1° luglio-23 novembre 1916) comportò perdite imponenti di uomini e mezzi, mentre in nessun punto si avanzò più di 5 km, su un fronte di 8-9 km.

riconquista del territorio perduto intorno a Verdun, e di azioni italiane con l’ottava e la nona battaglia dell’Isonzo, lo Stato Maggiore tedesco diede inizio a una vasta operazione che si concluse con l’occupazione di Bucarest (6 dicembre).

Fronte italiano

Gli Austriaci avviarono in aprile una grande offensiva sul Trentino contro gli Italiani, con la finalità di sfondare il fronte dell’Isonzo. L’offensiva fu bloccata dalla difficoltà dell’artiglieria pesante a seguire, in terreno difficile, il progresso della fanteria; il 14 giugno iniziò la controffensiva italiana, conclusasi il 25 con il ripiegamento generale degli Austriaci. Superata la minaccia sul Trentino, Cadorna spostò uomini e mezzi (27 luglio-4 agosto) dal Trentino sull’Isonzo e attaccò di sorpresa gli Austriaci, le cui forze erano relativamente scarse anche per i prelevamenti fatti a favore del fronte orientale. L’attacco del 6- 17 agosto (sesta battaglia dell’Isonzo) portò alla conquista di Gorizia, senza perdere però il suo carattere di battaglia di logoramento.

La guerra sui mari

In conseguenza dell’accordo franco-britannico del novembre 1913, la flotta britannica ebbe la difesa di tutti gli oceani, in particolare del Mare del Nord, del Passo di Calais e del bacino orientale del Mediterraneo; alla flotta francese fu affidata la difesa della Manica occidentale e del bacino occidentale del Mediterraneo.

Nella guerra sul mare i Tedeschi si avvalsero di una nuova arma, quella del sottomarino (Unterseeboote, da cui U-Boot), che fece la prima comparsa il 22 settembre 1914, quando tre incrociatori corazzati britannici furono affondati in pochi minuti. La guerra sottomarina si rivelò più fruttuosa di quella in superficie, ma dopo l’affondamento del piroscafo statunitense Lusitania (7 maggio 1915), per evitare complicazioni con gli USA la Germania la sospese sulle coste occidentali delle isole britanniche e nella Manica, mantenendola solo nel Mediterraneo.

La guerra contro il traffico sul mare sarà ripresa in grande dalla Germania il 31 gennaio 1917, ma per opera dei soli sommergibili, impiegati per la prima volta senza restrizioni.

GLI EVENTI BELLICI NEL 1917 Fronte occidentale L’offensiva generale prevista dalle potenze dell’Intesa per la primavera del 1917 non poté contare sul concorso della Russia, sconvolta dalla rivoluzione di febbraio.

Fronte orientale

Ad est, tra il 4 giugno e il 27 agosto su un fronte di 350 km fu sferrata la quarta e ultima grande offensiva russa, concepita in origine in funzione di alleggerimento del fronte italiano. I risultati, quasi nulli contro il settore tedesco, furono grandiosi contro gli Austriaci, a danno dei quali i Russi conseguirono notevoli vantaggi territoriali e soprattutto militari.

Entrata la Romania in guerra contro gli Imperi centrali (Austria-Ungheria e Germania) il 27 agosto 1916, il comando russo si preparò a un attacco d’impeto con il concorso delle truppe romene contro l’Ungheria e la Galizia con la speranza di infliggere alle potenze centrali una sconfitta decisiva. Nonostante la ripresa dell’offensiva russa (1-15 ottobre), delle operazioni francesi per la

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L’offensiva francese (9 aprile-5 maggio), finalizzata alla rapida rottura del fronte tedesco, permise di impossessarsi dello Chemin-des-Dames a prezzo di sacrifici tali che l’offensiva, lungi dal raggiungere lo scopo, demoralizzò profondamente l’esercito; non si riuscì nemmeno a concentrarlo con l’azione sul fronte italiano, dove la decima battaglia dell’Isonzo (12 maggio-7 giugno) fu sferrata dopo la fine dell’offensiva franco-britannica. Gli Inglesi, molto più forti dei Francesi, insistettero per la continuazione della lotta con finalità di sfondamento, mentre i francesi si opposero. Fra le operazioni parziali intraprese dai Francesi, furono importanti la ripresa del Mort-Homme, presso Verdun (20-25 agosto), e la battaglia della Malmaison (21-26 ottobre).

Gli Inglesi, pressati dalla guerra sottomarina a oltranza, avevano interesse ad allontanare i Tedeschi dalle coste del Belgio e, forti dell’aiuto fornito loro dall’Impero coloniale, furono in grado di assumere da soli l’iniziativa: le truppe britanniche non realizzarono che progressi locali, ma il comando e l’esercito tedesco ne risultarono duramente provati. L’attacco di Cambrai (la prima battaglia, 20-23 novembre, in cui i carri d’assalto furono utilizzati in massa) consentì di realizzare un’avanzata di 10 km di profondità in 10 ore; ma la controffensiva tedesca del 23 annullò di colpo i vantaggi conseguiti dagli avversari.

Fronte orientale L’attacco russo sferrato il 1° luglio nonostante il graduale dissolvimento dell’esercito il 19 luglio, si arrestò del tutto sotto l’azione della controffensiva degli Imperi centrali e l’occupazione tedesca di Riga (3 settembre) segnò lo sfacelo definitivo dell’esercito russo. Il 26 novembre i russi chiesero di trattare l’armistizio, stipulato il 15 dicembre. I negoziati di pace si conclusero il 3 marzo 1918: con la pace di Brest-Litovsk la Russia rinunciava alle province baltiche, alla Polonia e all’Ucraina. L’8 febbraio anche l’Ucraina concluse la pace, e il 7 maggio la Romania.

La ripresa della guerra marina illimitata (febbraio) da parte dei Tedeschi affrettò l’intervento in guerra degli USA, che una stretta comunanza di interessi economici legava alle potenze dell’Intesa; il 6 aprile 1917 il governo di Washington dichiarò guerra alla Germania.

L’intesa con gli Stati Uniti orientava gli Alleati verso la dissoluzione dell’Impero austroungarico bloccando l’estremo sforzo austro-tedesco concentrato sui fronti francese e italiano e determinando finalmente il prevalere degli ambienti politici tedeschi favorevoli alla pace.

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Fronte italiano

Il generale Cadorna intraprese nella primavera l’offensiva stabilita con gli Alleati, ma la decima battaglia dell’Isonzo, pur superando di gran lunga, sotto ogni riguardo, le precedenti, non conseguì lo sfondamento. Nell’undicesima battaglia (17 agosto-15 settembre), l’attacco fece realizzare una penetrazione di 10 km nella difesa austriaca. Le perdite degli Italiani risultarono maggiori di quelle del nemico, che, tuttavia, ne risentì più duramente per il progressivo affievolirsi delle risorse generali dopo tre anni di guerra. Una massiccia offensiva austrotedesca finalizzata ad allontanare il pericolo su Trieste e respingere gli Italiani di là dalla frontiera dell’Isonzo ebbe inizio il 24 ottobre: l’attacco austro-germanico penetrò in profondità, travolgendo le difese e raggiungendo

lo stesso giorno Caporetto (disfatta di Caporetto). Cadorna diede l’ordine di ritirata e la linea d’arresto fu stabilita sul Piave.

Gli Italiani riuscirono ad arrestare l’offensiva austrotedesca scatenata il 10 novembre sull’altopiano d’Asiago e sviluppatasi sul Piave e sul Monte Grappa.

La guerra sui mari

La guerra sottomarina illimitata ripresa il 1° febbraio 1917 raggiunse il massimo dell’intensità in aprile, quando fu affondato circa un milione di tonnellate di naviglio mercantile. Se i sommergibili avessero potuto continuare con un tale ritmo di distruzione, la Gran Bretagna non avrebbe potuto sopravvivere e gli USA non avrebbero potuto trasportare in Europa gli eserciti, i viveri e i materiali, che furono poi fattore essenziale di vittoria nel 1918. Ma i mezzi di difesa si mostrarono sempre più efficaci; il trasporto dell’esercito statunitense in Europa costituì il trionfo del sistema dei convogli scortati.

Dall’estate 1917 i mezzi offensivi aumentarono i rischi dei sottomarini: nel Mare del Nord fu stabilito uno sbarramento di mine su un’estensione di 400 km; speciali navi pattuglia munite di ecogoniometri scaricavano contro i sottomarini tedeschi granate esplodenti.

GLI EVENTI BELLICI NEL 1918 Fronte occidentale L’offensiva generale prevista dalle potenze dell’Intesa per la primavera del 1917 non dopo l’eliminazione della Russia e della Romania dal conflitto, il comando tedesco passò alla messa a punto di un piano strategico per conseguire l’annientamento del nemico attraverso una serie di battaglie preparatorie. Tra marzo e giugno furono lanciate tre offensive, con grande dispiegamento di uomini e mezzi che tuttavia non portarono a nessuno degli obiettivi strategici intravisti: né la separazione degli Inglesi dai Francesi, né la sconfitta degli Inglesi sui porti della Manica. Nel frattempo gli Statunitensi, per la pressione alleata, decuplicavano gli effettivi in Europa: tra maggio e giugno sbarcarono in Francia 520.000 soldati. Da marzo si era realizzato il comando unico al quale furono affidate anche ‘facoltà di coordinamento’ sul fronte italiano.

La prima offensiva tedesca iniziò il 21 marzo con un attacco in Piccardia che in 15 giorni di battaglia guadagnò ai Tedeschi un’avanzata di 60 km., mentre Il 9 aprile scatenarono un attacco nelle Fiandre, con obiettivo la conquista dei porti del passo di Calais. Il 25 marzo dopo la nuova offensiva di Ypres , con l’affluire delle riserve, in gran parte francesi, i Tedeschi sospesero l’offensiva.

Sebbene la situazione strategica non fosse sostanzialmente migliorata per la Germania, i tedeschi compivano i preparativi per il quarto attacco e gli Austriaci scatenarono l’offensiva sul fronte italiano.

In febbraio-marzo 1918 le unità dell’esercito italiano potevano considerarsi ricostituite: 300.000 uomini e 3000 cannoni avevano rafforzato il fronte. Il giorno dell’attacco (15 giugno), gli Austriaci avanzarono contemporaneamente sul fronte montano e su quello del Piave; sul primo, la difesa italiana impose al nemico di desistere dall’offensiva in grande già la sera stessa del 15; sul secondo fronte, la sera del 16 giugno l’intervento delle riserve italiane bloccò anche l’attacco austriaco sul Montello, dove il 19 ebbe inizio la controffensiva che in pochi giorni indusse il nemico alla ritirata. Gli Italiani avevano perduto 90.000 uomini, gli Austriaci 150.000, con enorme consumo di materiali bellici.

La quarta offensiva tedesca contro i Francesi sferrata il 15 luglio e arrestata con forti perdite, seguì la controffensiva dell’esercito francese il 18 luglio che determinò la perdita di quasi tutti i guadagni realizzati con l’attacco dell’esercito tedesco. Prima che l’offensiva generale sul fronte occidentale avesse inizio, sul fronte dei Balcani il 15 settembre fu sferrata l’offensiva che costrinse i Bulgari (alleati dei tedeschi) a chiedere l’armistizio, firmato il 29. In conseguenza di questo evento tutto il fianco meridionale dell’Impero austro-ungarico era aperto all’invasione dell’armata russa. In una situazione generale così favorevole gli alleati iniziò l’ultima offensiva che permise, tra ottobre e novembre, di respingere progressivamente le forze tedesche da tutto il fronte occidentale.

L’attacco scatenato sul fronte italo-austriaco dalle forze italiane il 24 ottobre incontrò resistenza sui monti a causa del terreno e, fino al 28, anche in pianura, per la piena del Piave, che paralizzò l’azione. Attraversato il fiume il 29 stesso fu liberata Vittorio Veneto. Il comando austriaco iniziò immediatamente trattative per la resa incondizionata, mentre le forze italiane raggiungevano Trento e, via mare, Trieste.

GLI ARMISTIZI E LA PACE La Bulgaria concluse l’armistizio il 29 settembre 1918, seguita dalla Turchia (30 ottobre).

Il governo tedesco iniziò il 3 ottobre le trattative di pace e firmò l’armistizio l’11 novembre (Compiègne). Il 3 settembre a Villa Giusti, presso Padova, era stato firmato l’armistizio italo-austriaco. L’11 l’imperatore Carlo I d’Austria, dopo un estremo tentativo di trasformare l’Impero in uno Stato federale sulla base di 4 regni nazionali (Austria, Ungheria, Polonia e territori iugoslavi), abdicò e il 12 fu proclamata la repubblica in Austria, il 16 in Ungheria. Le varie nazionalità si davano governi autonomi, sicché il vecchio Impero asburgico cessava di esistere. Per stabilire le condizioni di pace fu riunita la Conferenza di Parigi, che ebbe inizio a metà gennaio 1919.

Vi erano rappresentati tutti gli Stati vincitori, ma solo alle grandi potenze – Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone – era riservato di deliberare su tutte le questioni, mentre i minori intervenivano solo se direttamente interessati.

Il programma di pace britannico mirava a rendere innocua la Germania e a prenderle le colonie; quello francese tendeva a inferire un colpo decisivo al tradizionale nemico tedesco, che vendicasse il 1870 e desse alla Francia durevoli garanzie; quello italiano tendeva ad assicurare all’Italia il confine alpino, la supremazia in Adriatico, una sfera d’influenza balcanica, compensi coloniali.

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Si giunse così ai vari trattati: di Versailles con la Germania (28 giugno 1919), di Saint-Germain con l’Austria (10 settembre 1919), di Neuilly con la Bulgaria (27 novembre 1919), del Trianon con l’Ungheria (4 giugno 1920), di Sèvres con la Turchia (10 agosto 1920). La Germania perse le colonie, la flotta militare e mercantile e alcuni distretti minerari; le fu imposto l’obbligo delle riparazioni e il divieto di tenere un esercito superiore a 100.000 uomini. Sorsero nuovi Stati: la Polonia, la Cecoslovacchia, la Iugoslavia, la Finlandia, la Lituania, la Lettonia, l’Estonia, l’Albania; e altri subirono profondi mutamenti di frontiere. L’Italia ottenne il confine alpino, ma rimasero insolute la questione adriatica con il nuovo Stato iugoslavo e quella dei compensi coloniali.

Molte questioni furono rinviate e molte decisioni vennero modificate negli anni successivi, con conseguenti motivi di persistente agitazione e irrequietezza.

LE CONSEGUENZE DELLA GUERRA

Sul terreno della strategia militare la Prima guerra segnò una svolta epocale a motivo, in primo luogo, della diffusione delle armi automatiche che resero estremamente dispendioso in termini di vite umane il tradizionale attacco di fanteria o di cavalleria alle postazioni nemiche; ciò determinò l’evoluzione dalla guerra di movimento alla guerra di posizione o di logoramento: luogo privilegiato dell’aspetto militare del conflitto fu dunque la trincea. Sul piano delle innovazioni tecnologiche nacque in questo periodo uno dei protagonisti dei futuri conflitti, il carro armato, adottato dai Britannici nel 1916.

Tra le altre novità relative agli armamenti vi furono i gas asfissianti (che imposero l’obbligo della maschera antigas), l’aeroplano (sebbene armato di mitragliatrice, fu usato prevalentemente a scopo ricognitivo), il sottomarino. L’esigenza di coordinare e muovere enormi contingenti su un fronte molto ampio diede luogo allo sviluppo delle telecomunicazioni e al massiccio impiego dei mezzi motorizzati.

Dal punto di vista degli eserciti furono mobilitati complessivamente 65 milioni di uomini.

La prima guerra mondiale è stato uno dei conflitti più sanguinosi dell’umanità. Nei quattro anni e tre mesi di ostilità persero la vita circa 2 milioni di soldati tedeschi insieme a 1.110.000 austro-ungarici, 770.000 turchi e 87.500 bulgari; gli Alleati ebbero all’incirca 2 milioni di morti tra i soldati russi, 1.400.000 francesi, 1.115.000 dell’Impero britannico, 650.000 italiani, 370.000 serbi, 250.000 rumeni e 116.000 statunitensi.

Considerando tutte le nazioni del mondo, si stima che durante il conflitto persero la vita poco meno di 9.722.000 di soldati con oltre 21 milioni di feriti.

Le stime riguardanti la popolazione civile parlano di circa 950.000 morti a causa delle operazioni militari e circa 5.893.000 persone che perirono per cause collaterali, in particolare carestie e carenze di generi alimentari, malattie ed epidemie.

La stima del costo monetario diretto della guerra oscillò tra i 180 e 230 miliardi di dollari.

In tempo di pace i figli seppelliscono i padri ma in tempo di guerra sono i padri a seppellire i figli. (Creso 596 a.C. – 546 a.C., sovrano lidico, citato in Erodoto, Storie, libro I, 87)

Fonti: Wikipedia, Enciclopedia Treccani.

I Templari grandi banchieri

Angelo Casati

Già a metà del XII secolo L’Ordine, nato in modo oscuro, si è velocemente radicato ovunque, in Palestina come nell’Europa occidentale, e si è coperto di gloria combattendo i mussulmani.

Diventa sempre più chiaro che il Tempio è il miglior garante della cristianità in Terra Santa. In Europa le donazioni sono moltissime, case, castelli, terreni e foreste vengono donate e diventano proprietà che l’ordine inizia ha sfruttare con oculatezza, ricordiamo che i Templari sono esentati da qualsiasi tassa e dal controllo di qualsiasi potere feudale, reale e religioso dipendono solo dal papa. Inoltre iniziano ad organizzare e proteggere le vie di pellegrinaggio, le risorse ricavate vengono reinvestite in nuovi terreni, in armamenti per le navi o in materiale bellico per le crociate e non solo ad uso del Tempio ma per cederle con guadagno. Fanno costruire numerosi edifici e santuari a cui vendono reliquie cha abbondano in Palestina, a quel tempo era il modo più sicuro per creare una rendita cospicua ad un monastero o ad una cattedrale. Organizzano un’importante rete commerciale internazionale, promuovendo di conseguenza i rapporti diplomatici tra diversi stati dell’occidente, in molte occasioni fungono da mediatori, regolano conflitti e negoziano trattati. E soprattutto una delle loro prime missioni è quella di trasferire soldi dall’Europa in Terrasanta, ad uso di pellegrini e crociati, ciò li trasforma in veri e propri banchieri.

Prendono in consegna il denaro a Londra o a Rouen e lo fanno arrivare senza intoppi ad Acri o a Giaffa. Con la sua espansione inizia a suscitare grandi gelosie, talvolta anche odio, come attesta Guglielmo di Tiro, ma l’Ordine è in una posizione di forza: nessuno può farne a meno. Sorgono degli interrogativi, storicamente il Tempio trae origine dalla volontà di 9 cavalieri. In breve però, grazie ad un intreccio di circostanze e all’appoggio di Bernardo di Chiaravalle, il religioso più influente del periodo, nonché alle donazioni di tutti i re dell’Europa Occidentale ed

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al sostegno dei pontefici, l’Ordine si trasforma in una delle potenze economiche, militari e religiose del mondo. E’ una situazione eccezionale, se non unica, nel corso della storia.

Chi erano i loro nemici: tutti gli ecclesiastici in genere, anche nei territori della Chiesa non venivano pagate le decime, inoltre l’Ordine non sottostava alla giurisdizione dei vescovi per questioni religiose, avevano confessori templari che svolgevano le funzioni religiose in loro chiese; per i feudatari si proponeva il medesimo problema delle tasse, inoltre la commenda templare era più potente sul territorio dei signori locali; gli stessi re perennemente indebitati, dovevano ricorrere alle casse Templari per finanziare le campagne militari e spesso per i trasporti marittimi dovevano pagare le navi del Tempio.

Vi furono anche grandi rivalità con gli altri Ordini Cavallereschi perché erano in competizione; e da ultimo bisognava regolare i conti con le Repubbliche Marinare che fra loro, ma anche con i Templari, furono sempre in concorrenza, con accordi solo per raggiungere obiettivi specifici locali. Ciò spiega anche il fatto che nella loro caduta molti nemici abbiano cercato di trarre dei vantaggi e non abbiano trovato dovunque amici disposti ad aiutarli, ma piuttosto nemici avidi di spogliarli.

Raggiunta una certa potenza economica i cavalieri divennero anche banchieri, esercitando il credito con i

pellegrini, fondarono anche delle “Banche agricole” per i contadini, per far loro superare difficoltà momentanee in attesa dei raccolti. Concessero numerosi prestiti a tutte le autorità politiche e religiose anche ai pontefici.

Anzi viene loro attribuita l’invenzione della Carta di Credito, con la quale si poteva pagare in Terrasanta e dovunque senza bisogno di trasporto di denaro, presentando la carta oggi si direbbe l’assegno, ad una rappresentanza stabilita nel luogo di sbarco o di arrivo.

Le lettere di credito erano già state in verità usate, dai Cambiatori di Palermo già nel X secolo, però i Templari ne perfezionarono l’uso. Così fu pure per il cosiddetto cambio marittimo una vera e propria assicurazione per i rischi della navigazione, anche qui un documento veneziano del 1225 prova che i primi ad utilizzarlo furono gli armatori veneziani, ma il vero sviluppo si ebbe con il Tempio.

I cavalieri, comunque, esercitarono l’attività di banchieri e di finanza in genere; anche se non furono i soli in quel periodo. La esercitarono i mercanti d’Europa, come frutto dei traffici e del viaggiare che caratterizzò il periodo storico, e le Crociate furono un veicolo importante per essi. Certamente i Templari – con la loro ricchezza – esercitarono l’attività bancaria su larga scala, a tal punto che finirono per amministrare il “Tesoro” di vari stati e crearono depositi bancari per i Re e i Grandi Feudatari, con i quali armarono eserciti per le loro guerre, e per intraprendere Crociate.

Anche i Papi usufruirono dei depositi bancari e dei prestiti Templari nella loro veste di sovrani, e vi ricorsero anche grandi Ecclesiastici. Molte Chiese furono finanziate con prestiti dai Templari.

Vi ricorsero, ad esempio, Re Luigi VII di Francia, per finanziare la sua Crociata. Il re d’Inghilterra affidò parte del tesoro reale ai Templari che lo custodirono presso la “Casa del Tempio” di Londra. Il tesoro reale di Francia venne affidato fino alla metà del 12°sec. Alla “Casa del Tempio” di Parigi e solamente nel 1295 Re Filippo IV il Bello ne ordinò il trasferimento nel castello Reale del Louvre, gestito da funzionari regi. Carlo D’Angiò in Sicilia affidò ai Templari il compito di dirigere le finanze del Regno ed analogamente fece Giacomo I d’Aragona. I Templari furono degli apprezzati esperti di cose finanziarie e sovente fornirono “Consulenze” od esercitarono “Uffici”

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per Re, Comuni, per i Papi (Cubiculari), come frate Bonvicino da Perugia.

Per la loro attività si fecero però la nomea di avidi e di usurai, ma storicamente risulta che i loro interessi non furono mai più elevati rispetto a quelli applicati dagli Ospedalieri e dei mercanti di Siena, Genova, Venezia, Firenze, Milano e delle città Anseatiche. Certamente i prestiti erano garantiti da pegni in caso di insolvenza.

La nomea negativa come finanziatori ebbe un gran peso durante il “Processo”, perché lo scopo maggiore di esso fu indubbiamente quello di impossessarsi delle loro ricchezze, ma anche di azzerare i debiti contratti con i Templari come il Diritto vigente prevedeva contro gli eretici. Per questo negli atti del processo di - avidi usurai – scomparvero e restò volutamente imprecisata la sorte dei prestiti e delle modalità d’incameramento dei – beni – dell’Ordine del Tempio. Soltanto con la Bolla Ad Providam del 2 maggio 1312 il Papa Clemente V – stabilì il trasferimento dei beni dell’Ordine del Tempio all’Ordine dell’Ospedale, ma essa trovò scarsa attuazione, perché i Re, in maggioranza si erano già impossessati delle ricchezze del Tempio, in primo luogo il Re di Francia.

“Riflessi sull’acqua” a Lugano

Paul Signac in mostra al Lac

Vittoria Colpi

A un anno dalla inaugurazione, il LAC Lugano Arte Cultura, sede espositiva della Fondazione Museo d’Arte della Svizzera Italiana (MASI) per l’arte del Novecento e contemporanea, ospita la mostra “Riflessi sull’acqua”, vasta collezione privata di opere di Paul Signac (1863-1935) e fino all’8 gennaio 2017.

Un’occasione per conoscere ed apprezzare da vicino un artista che i testi d’arte accostano velocemente a Georges Seurat (1859-1891), menzionando il loro incontro a Parigi poco più che ventenni e il successivo avvio della corrente del neo-impressionismo.

Il titolo della rassegna esprime al meglio sia la ricerca di Signac per il colore-luce sia la sua passione per la navigazione ed in generale per l’acqua. Sulle acque della Senna, a bordo di una piccola barca a vela, egli infatti inizia, giovanissimo ed autodidatta, a dipingere secondo il modello impressionista per portarsi, dopo l’amicizia con Seurat e la creazione della Société des artistes indépendants, verso una pittura fatta di piccoli tocchi di colore puro e in accordo con la teoria scientifica della percezione ottica elaborata dal fisico Chevreul. Proprio l’opera di Seurat Una domenica pomeriggio all’isola della Grande-Jatte, ultimata nel 1986, con una composizione di figure stilizzate in omaggio al sintetismo e i colori puri

raccolti in piccoli punti (pointillisme), decreta la svolta di Signac, come di altri artisti quali Henri Cross, Maximilien Luce, Théo van Rysselberghe e il non più giovane Camille Pissarro verso questo nuovo modo di far pittura.

Nella rassegna, dopo una serie di ritratti a matita fatti reciprocamente dagli artisti del gruppo, prende avvio una carrellata di opere del nostro.

Significativa la differente stesura del colore nel passaggio, ad esempio, dall’opera Saint-Briac. Le Béchet, 1885 a quella realizzata nella medesima cittadina bretone nel ‘90, Saint-Briac. Le boe. Opus 210, dove domina il punteggiato.

La morte improvvisa e prematura di Seurat nel 1891 getta nello sconforto Signac che dapprima si fa mentore dell’opera dell’amico, quindi prosegue in una personale ricerca di armonicità dei colori anche grazie alla dirompente luce che trova in Saint-Tropez, dove affitta una piccola villa. Il dipinto Saint-Tropez. Fontaine des Lices, del 1895, non solo richiama la poetica del coevo Al tempo dell’armonia, di cui in mostra una litografia, ma rappresenta il punto di svolta della sua pittura: i colori sono più accesi ed antinaturalistici; la composizione, scandita dal ritmo verticale degli alberi, mostra figure di donne in movimento

LAC, L'Atelier creativo28

P. Signac, Rotterdam, Le moulin du canal, 1906, acquerello P. Signac, Saint-Briac. Les Balises. Opus 210, 1890, olio su tela

P. Signac, Saint-Briac. Le Béchet, 1885, olio su tela P. Signac, Saint-Malo. Les voiles jaunes,1929, Acquerello

e la fontana che pur dà il titolo al dipinto appare del tutto decentrata, e questo secondo la moda diffusa allora dalle stampe giapponesi.

L’amore per i viaggi e gli spostamenti continui portano Signac verso la difficile tecnica dell’acquerello, già sperimentata da Pissarro, sempre con l’uso di colori puri. Tecnica che gli permette di cogliere immagini e sensazioni in tempo reale e che alterna agli studi in atelier.

Dai paesaggi della Normandia ai ponti della Senna, da Antibes ad Avignone e poi ancora Saint-Tropez dove dal 1904 prende casa anche Henri Matisse, quindi la visita ai grandi porti europei, Venezia, Rotterdam, Istanbul, Marsiglia, … Di tutta questa frenesia dà conto la rassegna dandoci innumerevoli immagini inebrianti di luci che si riflettono dall’acqua al cielo coinvolgendo architetture di edifici, di porti, vele e navi, come il luminoso acquerello Saint Malo, Les voiles Jaunes,1929.

Autore del saggio D’Eugène Delacroix au néo-impressionisme, pubblicato nel 1899 e divenuto presidente della Société des artistes indépendants, Signac organizza a Parigi mostre di giovani artisti e retrospettive, trovandosi “.... al crocevia di tutte le tendenze dell’arte moderna”, come sostiene Marina Ferretti Bocquillon, curatrice della mostra, nel saggio introduttivo al catalogo, edito da Skira. In effetti la stesura del colore in minute tessere verrà adottata dal fauve Matisse, da Braque ed inizialmente da Picasso cubista, e, liberata da ogni contesto, può essere considerata origine dell’astrazione. Spentosi nel 1935, egli riposa nel cimitero parigino di Père-Lachaise.

P. Signac, Saint-Tropez. Fontaine des Lices, 1895, olio su tela

Il LAC si presenta come un’imponente architettura nel cuore di Lugano, in Piazza Luini ed è destinata sia a spettacoli teatrali e concerti, sia a mostre, col fine di instaurare un dialogo fra le arti e il pubblico. Pubblico anche molto piccolo, in quanto all’interno del percorso espositivo è stata dedicata ad Atelier educativo per scolaresche una sala con larga veduta sul Lago.

Mentre è prossima l’inaugurazione di un’antologica su Antonio Calderara, astrattista italiano di pieno Novecento, il LAC espone anche una parte della sua collezione permanente in un’altra affascinante rassegna dal titolo Nuove Consonanze in cui la scelta delle opere origina da affinità tematiche tra autori di differenti periodi storici.

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La poetica del realismo di Renato Guttuso

Angelo Rho

Renato Guttuso ha attraversato tutto il panorama artistico e culturale italiano del secolo scorso lasciando un’eredità indelebile di coerenza di pensiero e di grande espressione pittorica.

A lui è dedicato l’evento Guttuso La forza delle cose a cura di Fabio Carapezza e di Susanna Zatti, Direttore dei Musei Civici pavesi, in programma fino a metà dicembre alle Scuderie del Castello Visconteo di Pavia.

Guttuso nasce a Bagheria nel 1911 ma la sua nascita viene registrata a Palermo, segue studi classici e inizia la facoltà di Giurisprudenza che poi abbandona per la pittura. Nel 1935 è a Milano per il servizio militare e qui si ferma fino al ‘37. Nonostante gli stenti di questo soggiorno e un fatiscente studio condiviso con Fontana, egli ha frequentazioni con artisti e intellettuali come Manzù, Birolli, De Grada e Quasimodo. Già si esprime per un’arte impegnata, in polemica con il movimento di Novecento sostenuto dalla Sarfatti e area di consenso da parte del regime fascista. Poi il trasferimento a Roma, dove conosce Mimise Dotti che sposerà nel ‘50.

Qui l’amicizia con Moravia e con altri intellettuali antifascisti fanno maturare in lui l’adesione al Partito comunista clandestino, nel 1940.

La rassegna tuttavia vola alta sulle scelte politiche del pittore e punta piuttosto il suo obiettivo sulle cose e sulla poetica del realismo che ha affascinato il nostro.

I numerosi dipinti esposti narrano di cose che hanno circondato il pittore nei suoi studi e da lui dipinte, afferrate e stravolte da stesure di colore in senso espressionista. Un insieme di fiaschi di vino, di cesti dalla paglia sfilacciata e di libri nell’opera Un angolo dello studio di Via Pompeo Magno,1941-’42 ci dà l’immagine di una faticosa realtà vissuta.

Nella sua pittura gli oggetti diventano metafore: così il teschio di ariete, che fa il suo esordio su una tela già nel 1938, esprime la tragedia della guerra civile spagnola;

Renato Guttuso Un angolo dello studio di via Pompeo Magno, 1941-42 Olio su tela, cm 79x64,5 - Udine, Civici Musei di Storia e Arte © Renato Guttuso by SIAE 2016

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Renato Guttuso Gabbia e cappello verde, 1940-41 Olio su tavola, cm 62,5x44,5 - Palermo, Collezione privata © Renato Guttuso by SIAE 2016

Renato Guttuso Grande natura morta, 1962 Olio su tela, cm 162x195 - Firenze, courtesy Galleria Mentana © Renato Guttuso by SIAE 2016

Renato Guttuso Natura morta con drappo rosso, 1942 Olio su tela, cm 110x81 - Varese, Fondazione Francesco Pellin © Renato Guttuso by SIAE 2016

la gabbia è sinonimo di privazione della libertà; il drappo rosso un chiaro omaggio alla sua ideologia; il cesto di vimini allusione ad una quotidianità povera.

Negli anni Quaranta egli commenta gli eventi bellici svolgendo la serie di drammatici disegni Gott mit uns e inizia il tema della Crocifissione con un forte richiamo all’arte di Picasso e al suo impegno ideologico del dipinto Guernica.

Nel dopoguerra ottiene un premio per la pace, realizza scenografie, stringe amicizia con Picasso e con Luchino Visconti e prosegue la sua attività di critico e di pittore. Numerose gallerie italiane ed estere si interessano alla sua arte conferendogli una incredibile celebrità.

In mostra, partendo dagli anni Quaranta le nature morte si susseguono numerose, talora lasciate volutamente non compiute dall’artista quasi per invogliare lo spettatore a scoprire sempre più l’essenza delle cose, mentre le pennellate diventano veloci e pastose. Con questa tecnica svolge Grande natura morta, 1962 ed il Nudo trasversale dello stesso anno che, tralasciato dalla rassegna, è visibile nelle sale attigue della collezione permanente dei Musei Civici pavesi.

Sempre sensibile a temi civili e sociali, con Il Cimitero di macchine,1978, intuisce la decadenza della civiltà contemporanea nella corsa al consumismo, e ancora in Angurie, 1986, manifesta il suo profondo e intimo rapporto con le cose.

Guttuso muore nel 1987. A lui Bagheria ha dedicato un Museo mentre il figlio adottivo Fabio Carapezza ha trasformato lo studio in Palazzo del Grillo a Roma in sede degli Archivi Guttuso.

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Renato Guttuso Cimitero di macchine, 1978 Olio su tela, cm 70x90 Macerata, Fondazione Carima - Museo Palazzo Ricci © Renato Guttuso by SIAE 2016

Renato Guttuso Angurie, 1986 Olio su tela, cm 90x100 - Busto Arsizio, collezione privata © Renato Guttuso by SIAE 2016

Aforismi

(L’Innominato)

Aforisma: dal tardo latino “Aphorismus”: in genere è una frase molto concisa, che racchiude in modo paradossale concetti profondi, una regola di vita, un fatto di costume. Possono a volte apparire cinici o scettici, ma sempre, dopo un sorriso, inducono alla riflessione. Sono considerati “un concentrato di saggezza e di ironia”; una delle definizioni più calzanti è dello scrittore fiorentino G. Papini: “Una verità mascherata, detta in poche parole, che colpisce più di una menzogna”. Ve ne sono anche di più aggiornate. “Un aforisma è una frecciatina al veleno”. Nei temi trattati, da Ippocrate ai tempi nostri, primeggiano i vizi e le virtù, il denaro e la felicità, l’amore, e inevitabilmente, il matrimonio, visto dalla parte di lei – o più spesso, di lui.

L’amore – e il matrimonio – visto dalla parte di Lei L’amore: parolone prima, parolacce poi

(M.me E. De Sevigny) Non mi sono mai sposata perché in casa ho già tre animali che assolvono allo stesso scopo: un cane che ringhia, un pappagallo che dice parolacce, un gatto che rientra tardi la sera

(Comtesse L. Van Horme) Il miglior marito per una donna è un archeologo: più lei diventa vecchia, più lui la trova interessante

(Agata Christie) Nei primi anni di matrimonio ero infelice. Poi mi sono abituata

(M.me Blaise Pascal) Il marito perfetto è quello che ti resta fedele, ma ha le stesse attenzioni che avrebbe se ti tradisse

(M.me C. De Stael) Molte donne preferiscono essere più belle che intelligenti; hanno ragione: molti uomini hanno la vista più sviluppata del cervello

(Annette Elmer) Il matrimonio è la voglia di esserci in due, con il timore di ritrovarsi in tre

(A. Leverson) I mariti sono come le scarpe: quando cominciano ad andare bene, sono da buttare via

(proverbio popolare) La giovane sposa: “cercavo un nido, ho trovato una gabbia!”

(Jane Rogers) La bigamia è avere un marito di troppo; la monogamia è la stesa cosa

(Erica Jong)

Molti uomini hanno quello che si meritano… Gli altri sono scapoli

(Sacha Guitry) “Mario, come hai scoperto che tua moglie ti tradisce?” “Dopo che mi ha chiamato per tre volte Paolo”

(Gary Brack) Petrarca non avrebbe passato la vita a scrivere sonetti per Laura se fosse stata sua moglie

(George Byron) Non sono affatto contrario al baciamano: bisogna pur cominciare da qualche parte!

(Sacha Guitry) Un fidanzato è un uomo felice che si prepara a non esserlo più

(Jim Porcela) Vita di coppia: non basta che a tutti e due piaccia Mozart; deve piacerle anche la cipolla

(Roberto Gervaso) Le donne hanno tanto bisogno di amore che alcune amano persino il proprio marito

(Pitigrilli) Certe donne amano tanto il loro marito che per non sciuparlo usano quello delle loro amiche

(A. Dumas)

L’amore – e il matrimonio – visto dalla parte di Lui In amore, il colpo di fulmine ti fa risparmiare un sacco di tempo

(Francois Arneuil) “Enrico è stato molto fortunato con le donne”.” Ma se è scapolo!” “Appunto”

(A. Campanile)32

Tesoro, quando facciamo l’amore, vorrei sentirti lamentare...

Ok... i bambini vanno male a scuola, dobbiamo pagare l’IMU, è arrivata la bolletta della luce, dobbiamo pagare la spazzatura... Basta cara... Dormiamo che è meglio!

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